ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il futuro dell’Europa dopo l’invasione dell’Ucraina
di Pier Virgilio Dastoli
L’avvenire dell’Europa e cioè il futuro delle relazioni fra gli Stati che fanno parte del Continente europeo e che sono – con qualche eccezione – membri del Consiglio d’Europa avrebbe dovuto essere discusso nella “Convenzione” convocata a Laeken nel dicembre 2001 con l’obiettivo di dotare l’Unione europea nata a Maastricht nel 1992 di una costituzione sulla via dell’unità politica e non solo economica e nella prospettiva imminente dell’adesione dei paesi dell’Europa centrale che si erano liberati dall’imperialismo sovietico e che avrebbero aderito progressivamente alla NATO iniziando nel 1999 con la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria.
Le conclusioni di Laeken furono adottate tre mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, che furono considerate la sfida di Al Qaeda non solo contro gli Stati Uniti ma contro tutta la comunità internazionale, ed il Consiglio di sicurezza condannò all’unanimità con il voto favorevole della Russia e della Cina quello che fu considerato il più grave attentato terroristico dell’età contemporanea.
La solidarietà della comunità internazionale cominciò lentamente a sgretolarsi prima con l’invasione avviata dagli Stati Uniti nell’Afghanistan, sostenuta dalla NATO e da una coalizione di quaranta paesi un mese dopo l’attacco alle Torri Gemelle, ma soprattutto con l’invasione dell’Iraq ordinata da George Bush nella primavera del 2003 che divise in due blocchi contrapposti i paesi membri dell’Unione europea.
La “Convenzione sull’avvenire dell’Europa” iniziò a discutere pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle e si concluse pochi mesi dopo l’invasione dell’Iraq ma il tema del futuro del continente europeo non fu mai seriamente affrontato dai “convenzionali” e il capitolo della politica estera e della sicurezza europea, che avrebbe dovuto comprendere anche la dimensione della difesa accantonata dopo la caduta della CED nel 1954, subì le conseguenze delle divisioni fra le apparenti sovranità assolute degli Stati membri e dei paesi candidati all’adesione così come l’organizzazione della governance economica indispensabile per il completamento dell’UEM e della dimensione sociale per andare al di là del liberismo che era al centro della politica del mercato.
Il tentativo, avviato dalla Commissione presieduta da Romano Prodi con l’idea della “politica di prossimità”, di far discutere della questione dei “confini politici dell’Unione europea” verso l’Europa dell’Est - che non avrebbero fatto parte del primo blocco dei paesi già sulla porta dell’Unione e dei paesi sull’altra sponda del Mediterraneo - fu triturato dai governi in una confusa “politica di vicinato” iscritta prima nel trattato-costituzionale (art. I-57) su proposta di Valéry Giscard d’Estaing e poi nell’art. 8 del Trattato di Lisbona mettendo sullo stesso piano le relazioni con l’Armenia, l’Azerbaijan, la Bielorussia, la Georgia, la Moldavia e l’Ucraina da una parte e l’Algeria, l’Autorità Palestinese, l’Egitto, Israele, la Giordania, la Libia, il Marocco, la Siria e la Tunisia dall’altra escludendo sia la Turchia candidata all’adesione, che i paesi dei Balcani occidentali della ex-Iugoslavia ad eccezione della Slovenia che avrebbe aderito nel 2004, della Croazia che avrebbe aderito nel 2013 che la Russia di Putin con cui fu sottoscritto nel 2005 un “partenariato strategico” fondato su uno spazio economico, di libertà, sicurezza e giustizia, di sicurezza esterna, di ricerca e di educazione.
In effetti né i governi, né la Commissione né tantomeno il Parlamento europeo hanno deciso nei quattordici anni dalla firma del Trattato di Lisbona nel 2007 di affrontare seriamente la questione dell’organizzazione della sicurezza e della pace sul continente europeo nonostante la guerra russa in Cecenia (2000), l’invasione della Crimea (2014) insieme al sostegno di Vladimir Putin ai secessionisti del Donbass.
Le tre dimensioni della politica estera, della governance economica e del pilastro sociale – su cui la Convenzione raggiunse un faticoso e inadeguato compromesso – evaporarono ulteriormente quando i governi misero mano al trattato-costituzionale con il Trattato di Lisbona che entrò in vigore nel 2009.
La guerra scatenata dalla Russia il 24 febbraio 2022 ha drammaticamente riaperto il tema dell’organizzazione del continente europeo per garantire la pace, la sicurezza e la cooperazione insieme al rispetto dei diritti che furono al centro degli accordi di Helsinki del 1975 in una dimensione politica che rende urgente l’autonomia strategica dell’Unione europea ben al di là degli strumenti finanziari di emergenza adottati nel 2021 per far fronte alle conseguenze della pandemia ed in particolare il Next Generation EU con un provvisorio debito europeo che dovrà essere rimborsato dagli Stati a partire dal 2026 se l’Unione europea non sarà dotata di una capacità fiscale autonoma.
La cosiddetta “autonomia strategica” nel quadro della sovranità europea riguarda certo la dimensione della sicurezza esterna e della difesa su cui si dovrà pronunciare un Consiglio europeo straordinario a fine maggio ma anche gli attacchi cibernetici, le manipolazioni dell’informazione, la lotta al cambiamento climatico e last but not least l’indipendenza energetica e l’avvio di una vera politica industriale europea.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è piombata sulla Conferenza, che avrebbe dovuto affrontare “il futuro dell’Europa” e non solo quello dell’Unione europea, così come piombò sulla Convenzione del 2003 l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti dividendo i paesi membri dell’Unione ma l’attacco russo al cuore dell’Europa ha questa volta rafforzato la solidarietà fra i membri dell’Unione all’esterno a sostegno dell’Ucraina e all’interno della stessa Unione.
Non sappiamo oggi come si concluderà il conflitto militare ma appare chiaro che l’organizzazione ibrida dell’Unione europea fra la dimensione confederale del Consiglio europeo e la dimensione comunitaria della Commissione dovrà essere radicalmente cambiata così come la ripartizione delle competenze e il peso del bilancio europeo con nuove e più sostanziali priorità nei settori della difesa, dell’energia e delle infrastrutture europee.
Per quanto riguarda la difesa i passi in avanti annunciati dalla Germania prima ed ora dall’Italia per aumentare le spese nazionali rafforzando “il fianco Est della NATO” non bastano ed anzi rischiano di creare degli ostacoli sul cammino di una difesa comune (ma certamente non unica come la moneta) se non verranno finalizzate ad un reale coordinamento fra i paesi europei creando delle economie di scala, unificando i sistemi informatici e di intelligence, partecipando a progetti comuni che privilegino le industrie militari europee, adottando delle regole unificate per il controllo della vendita di armamenti a paesi terzi, ponendo le basi di efficaci missioni europee di peace enforcement, peace keeping e peace building nel quadro delle Nazioni Unite e dell’OSCE.
Per quanto riguarda la politica estera e della sicurezza, il dibattito europeo si sta illusoriamente concentrando sull’idea di ampliare le aree in cui il Consiglio europeo ed il Consiglio possano decidere a maggioranza qualificata eliminando il diritto di veto o ancor peggio di applicare la cosiddetta “clausola della passerella” che consentirebbe al Consiglio europeo – all’unanimità – di autorizzare il Consiglio a votare a maggioranza.
Così come nella lotta alla pandemia e nella gestione delle risorse finanziarie per far fronte alle sue conseguenze economiche a cominciare dal debito pubblico è stata riconosciuta la responsabilità (di governo) della Commissione europea, la stessa strada deve essere intrapresa per giungere ad un’unica politica estera e della sicurezza esercitata dalla Commissione europea e ad una difesa comune coordinata dalla stessa Commissione all’interno del Comitato politico e della sicurezza e di un comando interforze.
Se la prospettiva che emerge dal “cambiamento della storia” imposto dall’invasione dell’Ucraina è quello di gettare le basi di una “comunità federale” dobbiamo mettere in evidenza che non esistono nel mondo sistemi federali in cui la responsabilità delle relazioni esterne sia attribuita agli Stati federati e che l’idea di un sistema di governo ibrido o di un doppio esecutivo esercitato in parte dalla Commissione europea e in parte dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo sarà foriera di inefficacia, di confusione e di permanenti conflitti interistituzionali.
Il primo passo dovrà essere quello di attribuire all’Unione una competenza esclusiva nella cooperazione allo sviluppo e nelle politiche migratorie e di asilo incrementando l’impegno finanziario globale europeo e di unificare le cariche di presidente della Commissione e di presidente del Consiglio europeo.
Per un periodo limitato nel tempo ma con una scadenza vincolante, nel trattato che dovrà andare al di là di Lisbona, si potrà consentire che all’interno del Consiglio europeo uno Stato rivendichi provvisoriamente un suo “interesse vitale” nella definizione delle priorità politiche generali dell’Unione europea aprendo la via ad una integrazione differenziata in un determinato settore così come era stato proposto nel 1984 dal “progetto Spinelli”.
Per quanto riguarda la “resilienza” finanziaria dell’Unione europea, sono necessarie ed urgenti risorse nelle politiche dell’energia, industriale e della difesa insieme al rafforzamento della dimensione sociale sul modello del programma SURE per garantire i beni comuni della prosperità e della sicurezza attraverso vere risorse proprie.
La Conferenza sul futuro dell’Europa si concluderà fra poche settimane non avendo potuto aprire un dibattito sulle conseguenze europee del conflitto in Ucraina e lasciando in sospeso questioni di metodo e di sostanza legate alla democrazia partecipativa sollevate inutilmente nei documenti del 25 febbraio.
Il Gruppo Spinelli al Parlamento europeo ha recentemente aperto uno spiraglio significativo sulla prospettiva “costituente” e questo è coerente con la sua ispirazione originaria rivolta all’iniziativa dell’assemblea durante la prima legislatura che portò il 14 febbraio 1984 all’approvazione del “progetto Spinelli”.
I gruppi politici si stanno orientando verso l’adozione di una risoluzione agli inizi di maggio che chiede la convocazione di assise interparlamentari per rafforzare la democrazia rappresentativa e apra la strada ad alcune modifiche nei trattati nel quadro e nei limiti dell’art. 48 del Trattato sull’Unione europea che richiede una proposta dell’assemblea (e/o della Commissione e/o di uno o più governi), una convenzione interistituzionale, una conferenza intergovernativa e l’unanimità delle ratifiche nazionali che in molti casi richiedono un referendum confermativo o consultivo.
La strada dell’art. 48 è irta di ostacoli ed è fondata sul principio secondo cui i governi sono “i padroni dei trattati” come è stato affermato più volte dal Consiglio europeo e che l’obiettivo dei governi è quello di mantenere sostanzialmente inalterato l’equilibrio (o, per essere precisi, lo squilibrio) fra le istituzioni e fra l’Unione europea e gli Stati membri.
I gruppi politici e il Parlamento europeo dovrebbero aggiungere alla risoluzione sui seguiti della Conferenza sul futuro dell’Europa un appello ai partiti politici europei (a cui il Trattato attribuisce la missione di contribuire “alla formazione della coscienza politica europea) e alle organizzazioni della società civile affinché riconoscano all’assemblea che sarà eletta nel 2024 un ruolo sostanzialmente costituente per andare – dopo quindici anni – al di là del Trattato di Lisbona creando una unità politica in grado di esercitare una influenza determinante sull’organizzazione del continente e sul governo del mondo.
La giustizia italiana da Mani pulite ai giorni nostri, vista da Chiara Saraceno
Giustizia insieme inizia oggi una riflessione sul tema della giustizia italiana dando la parola a personalità del mondo della cultura italiana, giuridica e non, per scrutarne a fondo i mali e le pubbliche virtù.
La fonte di innesco di questa riflessione origina dal saggio proposto da Giovanni Fiandaca - “Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare” presentato al convegno organizzato dall'ANM milanese in occasione del trentennale di Mani pulite ed ospitato da questa Rivista.
Oggi è la volta di Chiara Saraceno, sociologa, Honorary Fellow, Collegio Carlo Alberto.
Intervista di Roberto Conti
1. Professoressa Saraceno, proverò a farle alcune domande partendo dal saggio proposto da Giovanni Fiandaca in occasione del trentennale di Mani pulite. Sul tema si susseguono riflessioni e convegni che tentano un bilancio di quella stagione. Cosa fu, per Lei, e come visse Mani pulite?
Fu innanzitutto un periodo di grande sconcerto per la pervasività della corruzione e per la disponibilità ad essere corrotti. Anche chi riteneva di non essere una ingenua anima candida, l’immagine del funzionamento della società italiana anche nei processi decisionali più minuti che usciva dalle indagini era devastante ed insieme confermava oltre il pensabile le analisi sociologiche e politologiche che individuano nel clientelismo uno dei tratti distintivi del sistema italiano, in particolare, ma non solo, per quanto riguarda il welfare. Ma, mentre queste analisi parlavano di clientelismo in termini politico-elettorali, che producevano politiche particolaristiche e frammentate, la realtà scoperchiata da mani pulite mostrava come a guidare i processi decisionali non ci fossero solo interessi elettorali, ma anche puramente venali, lungo tutto il processo decisionale e in ogni settore e senza distinzioni.
2. Da accademica, cittadina e sociologa, avvertì quella stagione come un momento di stravolgimento delle regole democratiche, magari giustificate da istante populiste o tutto al contrario colse in quell’azione giudiziaria un momento di possibile riscatto della società civile, stanca del malaffare?
Almeno all’inizio prevalse l’idea, la speranza, che fosse l’occasione di una trasformazione positiva della politica e della società italiane. Non parlerei, invece, di “riscatto della società civile”, termine per altro dai contorni e contenuti non chiari e che troppo spesso viene contrapposto in maniera manichea alla politica, come migliore e automaticamente buono. Anche pezzi e soggetti importanti della società civile erano coinvolti nei processi di corruzione, anche se qualcuno ha tentato di operare distinguo tra chi intascava i soldi per sé e chi lo faceva per la propria organizzazione o partito, come se il fatto di corrompere o farsi corrompere per una “buona causa” o comunque per altri costituisse, se non una virtù, una attenuante abbastanza forte da cancellare non solo il danno morale, ma il danno civile e democratico.
Da donna e femminista c’era forse anche un altro aspetto positivo di questo scoperchiamento delle malversazioni operate dai potenti grandi e piccoli: smascherava la supposta superiorità maschile in nome della quale si legittimava l’esclusione delle donne dai luoghi di presa delle decisioni. Se è vero che la rarità delle donne tra i corrotti e i corruttori non era e non è una prova della loro superiorità morale, stante che sono rare anche tra coloro che avrebbero il potere e l’opportunità di farlo, certo quella massa di uomini avidi, cinici, corrotti, con scarso o nullo interesse sia per il bene comune sia per il merito e la competenza avrebbe dovuto provocare una forte delegittimazione al monopolio maschile del potere e una riflessione critica sui meccanismi di selezione delle classi dirigenti. Non è andata così, purtroppo. E forse il prevalere degli atteggiamenti populisti nel sostegno dato a Mani pulite, inclusi i suoi eccessi, e poi l’emergere di movimenti politici populisti a seguito della crisi dei partiti che dal dopoguerra avevano dominato la scena politica italiana, è stato anche la conseguenza del non avere utilizzato quella occasione per un ripensamento radicale delle modalità di scelta delle classi dirigenti, in politica e in economia.
3. Fiandaca non ha mancato di stigmatizzare quello che a Lui pare essere un vero e proprio snaturamento del sistema giudiziario allorché esso diventa espressione di una lotta contro i fenomeni criminali, spesso favorita dalla mediatizzazione del lavoro di qualche magistrato, da ciò cogliendo il germe di quel populismo giudiziario capace di produrre distorsioni marcate nei rapporti fra il mondo giudiziario e quello politico.
Questa rappresentazione della giustizia in termini di lotta, che accomuna Tangentopoli e Mafiopoli, la inquieta, la rassicura, o trova che debba giustificarsi in relazione agli obiettivi democratici che la animarono?
Premetto che questa immagine della giustizia come “vendicatrice” delle ingiustizie si contrappone a quella di una giustizia che chiude gli occhi rispetto ai potenti (inclusi i criminali potenti) cui qualche volta è collusa. Sono due immagini semplicistiche e che si legittimano reciprocamente nella loro semplificazione un po’ manichea, ma che hanno sicuramento fondamento empirico. Per questo l’immagine “militante” del giudice che, anche tramite rivendicazioni pubbliche, si contrappone al malaffare dei potenti non solo tramite la precisa applicazione della legge e l’utilizzo di tutti e meccanismi inquisitori consentiti dalla stessa, ma anche uscendo dai binari e utilizzando i propri potere di ricatto e di squalifica, può provocare simpatia e adesione, almeno finché non si viene toccati direttamente.
Non so quanto davvero Tangentopoli e Mafiopoli siano state occasione di uscita dalle regole e di prevaricazione da parte della magistratura. Sospetto che, almeno in parte questo tipo di accuse (non mi riferisco a Fiandaca) sia oggi la conseguenza di una sconfitta delle speranze di cambiamento in meglio che esse a suo tempo avevano sollevato: la fine dei vecchi partiti ha aperto la strada ad altri non certo migliori, i fenomeni di corruzione e concussione non sembrano essersi ridotti. E la mafia è ormai diffusa su tutto il territorio nazionale, anche se in forme meno esplicitamente violente e meno visibili. Accanto alle critiche agli abusi, alle uscite dal seminato, ci sono quelle di “aver fatto tanto rumore per nulla”, delegittimando ogni seria e sistematica azione di intervento.
Ciò detto non credo che gli obiettivi democratici si possano salvaguardare davvero tramite un uso non solo fuori dalle regole, ma autoritario ed autorefernziale del potere giudiziario.
4. L’analisi di Fiandaca rispecchia l’attuale comune sentire della società rispetto al ruolo della magistratura, al punto da riguardare l‘intero apparato giudiziario o rimane, secondo lei, confinata nell’ambito della giustizia penale?
A me sembra che oggi il comune sentire nei confronti del ruolo della magistratura non sia influenzato tanto da Tangentopoli o Mafiopoli, ma dalla lunghezza estenuante dei processi da un lato, che non consentono di ottenere giustizia in tempi accettabili, dalla conoscenza delle faide e corruzioni che attraversano la magistratura dall’altro. Si aggiunga la disinvoltura con cui certi magistrati passano dalla professione alla politica e ritorno. Senza distinzione tra penale e civile. Se Tangentopoli aveva provocato una fiducia eccessiva nella magistratura e un’idea parzialmente sbagliata del suo ruolo, oggi anche la magistratura viene spesso percepita come una casta autoreferenziale e fuori controllo, che pretende privilegi e impunità per se stessa senza molto curarsi degli interessi dei cittadini (e del paese). Anche questa è una immagine semplicistica, in bianco e nero, naturalmente.
5. In occasione di un Suo intervento su questa Rivista - Diritti negati: supplenza dei giudici nell’inerzia del Parlamento?- Lei si è soffermata sul ruolo della giurisdizione in tema di diritti fondamentali. La necessità di inventare il diritto, per dirla con Paolo Grossi, e di operare “in supplenza” come Lei stessa ha detto, in ragione di una legislazione carente o non adeguata al quadro costituzionale, si pone in contrapposizione o in continuità rispetto alla prospettiva che sembra prediligere Fiandaca?
Questo mi sembra un problema diverso da quello di cui abbiamo parlato prima. Qui si tratta vuoi di norme che non corrispondono più al sentire comune, vuoi di un vuoto normativo che lascia privo di riconoscimento giuridico e alla mercè dell’interpretazione di chi ha un qualche potere alcuni bisogni, relazioni fenomeni. Ciò è stato e in parte è ancora vero per il fine vita, affidato alla discrezionalità dei medici o di un comitato di bioetica. Per il cognome materno per cui la mancanza di una norma continua a generare asimmetrie tra padri e madri, per la possibilità delle coppie omogenitoriale di vedersi riconosciuta una genitorialità di coppia e di evitare che i loro figli siano giuridicamente privi di un genitore. Il ruolo della giurisdizione è importante, ma anche a doppio taglio, nella misura in cui può dare esiti difformi creando discrezionalità invece che diritti. Per altro, non è solo una questione di norme obsolete o mancanti. Come tutti noi, i magistrati hanno i propri valori e modelli culturali che influenzano il modo in cui valutano le questioni che vengono loro sottoposte e che richiederebbero da parte loro una sorveglianza critica e autocritica. Ciò tuttavia non sempre avviene. Lo testimoniano, ad esempio, diverse sentenze (e le loro motivazioni) su casi di violenza contro le donne, che rispecchiano modelli di genere e di rapporti di genere fortemente asimmetrici e dove è la vittima ad essere ritenuta colpevole della violenza subita. La giurisprudenza spesso ha avuto un ruolo innovativo nel campo dei rapporti familiari, tra i sessi e le generazioni, precorrendo i cambiamenti giuridici. Ma è stata è anche un campo di decisioni contraddittorie. Lo stesso vale anche in altri settori, ad esempio sull’immigrazione.
6. Fiandaca dice che “sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo… aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico”. Questa sembra essere un’occasione ghiotta per sentire la sua opinione sul “modello” di giudice che la società del nostro tempo reclama.
Non so quale sia il “modello di giudice che la società reclama”. Per quanto mi riguarda, penso che, proprio perché ha un ruolo così importante e delicato, accanto alla preparazione giuridica un magistrato dovrebbe avere anche una formazione di tipo sociologico e psicologico, non per farlo entrare in professioni che non sono la sua (come invece taluni giudici sembrano voler fare in cere motivazioni di sentenze), ma per metterlo in grado di meglio leggere i contesti in cui opera e i mutamenti e conflitti anche culturali da cui sono eventualmente attraversati. Quest tipo di formazione dovrebbe essere ricorrente, se non continuo, ovvero non limitarsi agli inizi della carriera, come mi sembra oggi avvenga (mi è capitato di partecipare a corsi dedicati a neo-vincitori di concorso in magistratura). Uno scambio e confronto tra saperi diversi sarebbe utile a tutti, non solo ai magistrati, ovviamente.
7. L’attuale contesto può portare ad un governo dei giudici, per dirla con le parole usate dal Prof. Sabino Cassese per intitolare la sua personale analisi sul mondo giudiziario italiano?
Non mi sembra. C’è il rischio che alcuni giudici utilizzino la propria funzione in modo “strategico” per influenzare le dinamiche politiche, ma non sono l’unico potere in campo. E la loro azione, più che a portare al governo dei giudici può facilitare varie forme di populismo più o meno ribellista. Per altro, è ciò che successe dopo la stagione di Mani Pulite. C’è il rischio che agiscano, anche non intenzionalmente, da apprendisti stregoni, D’altra parte, mi preoccuperebbe anche se, per evitare di interferire nelle dinamiche politiche, si astenessero dal portare avanti azioni giudiziarie dovute.
8. Trova demagogiche le periodiche commemorazioni dei magistrati caduti nell’adempimento del loro servizio organizzate dai magistrati e da organizzazioni della c.d. società civile, ovvero vi intravede una formidabile rappresentazione di come la giustizia è stata avvertita dalla collettività, proponendosi essa come “modello ideale ed etico anche per le generazioni chiamate a svolgere il servizio in magistratura?
Perché demagogiche? Mi sembra giusto ricordare chi è stato colpito solo per aver fatto il proprio dovere perché segnala a noi tutti che rispetto a certi settori e reati, tipicamente di mafia, la funzione del magistrato può essere di frontiera e rischiosa. Ma non può diventare una sorta di auto-assoluzione per tutto ciò che non va nella magistratura ed anche per l’incapacità dello stato a contrastare la mafia, non solo tramite il potere giudiziario. Poi, ovviamente, non sono solo i magistrati a cadere nell’adempimento del proprio dovere – ci sono poliziotti, carabinieri, cittadini comuni che si ribellano alla prepotenza criminale - che non sono ricordati con altrettanta solennità.
9. La durata dei processi costituisce la spina nel fianco della magistratura italiana. Crede che sia appagante e reale l’immagine dei magistrati lenti che guidano una corriera sgangherata, senza offrire elementi capaci di rappresentare le cause delle lentezze, scaricandone unicamente il peso su chi opera nel settore giudiziario?
Credo che quell’immagine rappresenti una parte del problema, che va sicuramente affrontata anche se non esaurisce le questioni in gioco. Non sono tuttavia sufficientemente competente in materia per dire la mia circa ciò che si dovrebbe fare.
Grazie infinte, Professoressa Saraceno.
La Corte Costituzionale ridisegna l’architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, sanando le fratture tra il volto iniquo della stessa e la società civile. (Nota a Corte Cost. Sent. n. 28/2022) Parte II
di Elena Quarta
Sommario (segue): 5. Ulteriori riflessioni sul monito della Corte Costituzionale - 5.1. Corte Costituzionale sentenza 20 dicembre 2019 n. 279 - 5.2. Le criticità come veicoli di riqualificazione: spunti propositivi - 6. Gli interventi della Magistratura come input propulsivo allo sviluppo dello Stato-ordinamento verso una direzione di equilibrio tra preservamento statale e recupero del rapporto con l'Uomo.
5. Ulteriori riflessioni sul monito della Corte Costituzionale
La Corte infine specifica che “resta ovviamente ferma la possibilità che nell’esercizio della menzionata delega di cui alla legge n. 134 del 2021 vengano individuate soluzioni diverse, e in ipotesi ancor più adeguate, a garantire la piena conformità della disciplina della sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria ai principi costituzionali così come poc’anzi declinati.
E resta ferma, più in generale, la stringente opportunità – più volte segnalata da questa Corte – che il legislatore intervenga, nell’attuazione della delega stessa ovvero mediante interventi normativi ad hoc, a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale (sentenza n. 279 del 2019)[44] ..”; La Corte ribadendo quanto già affermato nella sentenza del 2020 ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi[45].
Nonostante l'importante traguardo raggiunto per il tramite dell'art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134, questo monito, nello specifico, lascia emergere la necessità di individuare delle criticità, di individuare un linguaggio ed un contenuto normativo che non stridano sul piano sociale e che al tempo stesso diano le risposte che la società chiede.
Lo studioso E. Dolcini non ha mancato di evidenziare la struttura della pena pecuniaria comminata ex lege tra i molteplici elementi di diversità tra il d.d.l. Governativo (d.d.l. AS 2353, intitolato “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” )e le Proposte della Commissione Lattanzi All’art. 9 dell’articolato si prevedeva che nel codice penale, per le comminatorie della multa e dell’ammenda, venisse adottato “il sistema delle quote giornaliere, in numero non inferiore a 5 e, di norma, non superiore a 360”. Tale previsione poteva preludere ad una significativa valorizzazione della pena pecuniaria comminata ex lege, tale da avvicinare, tra l’altro, il rapporto tra condanne a pena detentiva e condanne a pena pecuniaria a quello riscontrato in altri Paesi europei prossimi al nostro. La previsione è però scomparsa nel d.d.l. AS 2353: anche una volta realizzata la riforma, il modello delle quote giornaliere è dunque destinato a rimanere per la sola pena pecuniaria sostitutiva. La pena pecuniaria comminata ex lege rimarrà fedele al tradizionale modello della somma complessiva, solo apparentemente “orientato alla capacità economica del condannato”: come in altri ordinamenti, in primis nell’ordinamento tedesco, disposizioni quali quella dell’art. 133 bis c.p. sono da sempre lettera morta, e producono l’unico effetto di tacitare la cattiva coscienza del legislatore[26]. Ciò, tra l’altro, rende altamente problematico dar vita ad una razionale disciplina della conversione, che presuppone la visibilità del ruolo esercitato dalle condizioni economiche del condannato nella commisurazione della pena pecuniaria, così da scongiurare qualsiasi incidenza delle condizioni economiche sull’ammontare della pena da conversione [46]” Un modello, quello della pena pecuniaria a tassi giornalieri, di cui la scrivente è forte sostenitrice [47] e che lo stesso studioso Dolcini aveva posto in evidenza fin dal lontano 1972 forse primo nella letteratura penalistica italiana [48].
L’esperienza più significativa, sotto il profilo dell’effettività, è quella statunitense: essa dimostra che l’introduzione del sistema di commisurazione per tassi giornalieri comporta tassi di riscossione della pena pecuniaria più elevati, una conseguente contrazione dei casi di conversione, un potenziamento del ruolo della pena pecuniaria. Negli Stati Uniti, la pena pecuniaria, cui viene assegnata sia funzione retributiva che general e special-preventiva nella forma dell’intimidazione, viene applicata per lo più a reati non felony, reati stradali (sia nelle upper courts che nelle lower courts) – essenzialmente guida in stato di intossicazione da alcool o da stupefacenti e guida imprudente –, reati contro l’ordine pubblico (es. breach of the peace offences), ‘drug offences’, ossia reati connessi alla vendita e al possesso di sostanze stupefacenti, alcune forme di furto e l’aggressione (assault), mentre non è comminata per i reati contro la persona (HILLSMAN et Alii 1984). Tale sanzione è stata, per così dire, osteggiata per lungo tempo dalla dottrina penalistica americana per via della sua non rispondenza all’ideale rieducativo, dominante in quell’ordinamento sino al 1975. A partire dagli anni novanta, tuttavia, tale situazione è mutata profondamente. Con la crisi dell’assistenzialismo penale e l’affermarsi, a partire dagli anni settanta, di un diverso orientamento politico-criminale centrato sulla finalità retributiva, deterrente e neutralizzatrice della pena, nonché del sentencing determinato (MANNOZZI 1996), una conseguente nuova centralità del carcere (GARLAND 2004) ha condotto ad un problema di sovraffollamento carcerario. In risposta a tale emergenza, il legislatore americano ha iniziato a volgere la propria attenzione verso quelle che vengono chiamate «intermediate sanctions», ossia sanzioni, secondo la felice espressione di Norval Morris e Michael Tonry (MORRIS-TONRY 1990), «between prison and probation». In questo contesto, accanto ad una preferenza per nuovi tipi di ‘sanzioni intermedie’, come il community service, l’intensive probation, l’electronic monitoring, l’house arrest, i days-reporting centers, si iscrive il rinnovato interesse anche per la pena pecuniaria, la più tradizionale fra le alternative sanzionatorie. Fiorisce infatti a partire dagli anni ‘90 una cospicua letteratura dedicata all’istituto della «fine» e in particolare si introduce in via sperimentale in alcuni tribunali locali, sull’esempio delle esperienze europee, il sistema, di origine scandinava, dei tassi giornalieri, noto nell’ordinamento statunitense come «day-fines». Soprattutto si segnalano rispetto a questa sanzione, in quegli anni, significativi esperimenti condotti sul modello dei day-fines. In particolare si è introdotto in alcune Corti statunitensi, innestandolo su un precedente sistema di commisurazione della pena pecuniaria a tariffa, un modello di commisurazione bifasica, cercando di verificare sperimentalmente se questo conduca a pene pecuniarie più significative e a un aumento del tasso di riscossione delle pene pecuniarie (HILLSMAN 1990). La risposta è stata positiva per entrambe le ipotesi. Il vaglio della verifica empirica, condotta negli Stati Uniti d’America, ha consentito di trarre una significativa lezione: l’irrinunciabilità del modello per tassi giornalieri al fine di ottenere l’effettività della sanzione pecuniaria (oltre che la necessità di una riforma in senso semplificatore della disciplina dell’esecuzione, magari istituendo un fine office deputato esclusivamente al recupero della pena pecuniaria). Estremamente efficace in quell’ordinamento, secondo le rilevazioni criminologiche, è l’uso della fine rispetto alle persone giuridiche [49]”.Come notato dalla dottrina d’oltralpe, il legislatore Rocco, non utilizzando le potenzialità politico-criminali della pena pecuniaria, «ha fatto invecchiare di mezzo secolo il codice penale in uno dei suoi punti decisivi» (BOSCH 1978, 468)[50].
Altresì appare interessante anche l'analisi del modello in Gran Bretagna. L’esperienza inglese ha visto dapprima l’introduzione del modello dei tassi (determinato secondo il reddito settimanale e non giornaliero) nel 1991 con il Criminal Justice Act e un subitaneo abbandono del medesimo per via di alcuni esiti applicativi oggetto di critiche (pene troppo elevate per fatti di modesta entità) (MOXON 1995). Ciò che colpisce dell’esperienza inglese è soprattutto l’alto tasso di riscossione della pena pecuniaria (CHAPMAN, MACKIE, RAINE 2002): ciò sembra dovuto ad un preciso impegno politico assunto in tal senso dal governo britannico. Ecco dunque la lezione: l’effettiva esecuzione della pena pecuniaria dipende anche, in larga misura, da un preciso impegno politico in tale direzione. In definitiva, proprio l’angolo visuale della comparazione ha consentito di trarre una indicazione preziosa per il legislatore italiano: a fronte della ineffettività della pena pecuniaria a somma complessiva si staglia l’elevata efficacia di un modello di pena pecuniaria, il modello per tassi giornalieri, che, accolto dapprima nei Paesi scandinavi, quindi in Austria e in Germania con le riforme degli anni settanta, e oggi in molti altri Paesi europei, mostra di essere la garanzia della esatta individualizzazione della pena pecuniaria – con conseguenti effetti perequativi della sanzione in denaro, sanzione per sua natura diseguale – e quindi della sua futura esecuzione [51].
In Italia notevoli sarebbero gli impatti positivi sul sistema giudiziario, sul condannato e sul sistema economico complessivamente intesoe[52] da un potenziamento del sistema di riscossione delle pene pecuniarie. Attraverso la riscossione o tramite risparmio di uscite che derivano proprio da un sistema così strutturato [53], si otterrebbero delle risorse che potrebbero essere reinvestite nello stesso sistema carcerario o nei tribunali specificamente in risorse che siano di ausilio per i Magistrati.
D’altronde, come sottolinea la stessa Corte Costituzionale, lo stesso legislatore ha da tempo preso atto degli effetti negativi del sistema carcero-centro. Ne è prova lo stesso istituto della sostituzione della pena detentiva che come si evidenzia nella sentenza n. 28 del 2022 “fu introdotto nel nostro ordinamento nel 1981 con l’obiettivo fondamentale di evitare, per quanto possibile, gli effetti negativi determinati dall’esecuzione delle pene detentive di breve durata [54], (peraltro contenute, nella versione originaria della legge, entro il limite massimo di sei mesi): pene troppo brevi, appunto, perché potesse essere impostato e attuato un programma rieducativo realmente efficace in favore del condannato; ma abbastanza lunghe per determinare gravi conseguenze a suo carico, per reati di bassa gravità, dal momento che l’ingresso in carcere provoca non soltanto una brusca lacerazione dei rapporti familiari, sociali e lavorativi sino a quel momento intrattenuti (con conseguente difficoltà di un loro ripristino una volta terminata l’esecuzione della pena), ma anche il contatto con persone condannate per reati assai più gravi e, in generale, con subculture criminali che possono condurlo a maturare scelte di vita stabilmente orientate verso la commissione di nuovi reati. Di talché, più che a contribuire, in positivo, alla risocializzazione del reo, le pene sostitutive risultano orientate a evitare, per quanto possibile, gli effetti desocializzanti della carcerazione di breve durata, assicurando al contempo – in conseguenza del loro contenuto comunque afflittivo – un risultato di intimidazione e ammonimento del reo, che dovrebbe distoglierlo dalla commissione di nuovi reati in futuro” [55].
5.1. Corte Costituzionale sentenza 20 dicembre 2019 n. 279
Con ordinanza del 7 novembre 2018, il Magistrato di sorveglianza di Avellino ha sollevato d'ufficio, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 238-bis comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», introdotto dall'art. 1, comma 473, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella parte in cui, ai fini della attivazione della procedura di conversione delle pene pecuniarie dinanzi al magistrato di sorveglianza, parifica all'ipotesi della comunicazione di esperimento infruttuoso della procedura esecutiva l'ipotesi di mancato esperimento della procedura esecutiva decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte dell'agente della riscossione. In risposta Corte cost., sentenza 20 dicembre 2019 n. 279, la quale (nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 238-bis, comma 3, ha giustamente richiamato l’art. 212 tu spese giustizia.Si riporta il passaggio . “L’art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che, passato in giudicato o divenuto comunque definitivo il provvedimento da cui sorge l’obbligo, la cancelleria del giudice dell’esecuzione notifica al condannato, nelle forme del rito civile – e dunque, ai sensi degli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile – un invito al pagamento con allegato il modello di pagamento, avvertendolo che, in caso di mancato adempimento nel termine di un mese dalla notifica dell’avviso, si procederà all’iscrizione a ruolo. Il condannato è, altresì, invitato a depositare la ricevuta di versamento entro dieci giorni dall’avvenuto pagamento”. Ed è proprio su questo richiamo normativo che si fonda il principio di diritto della sentenza che si sostanzia in quanto segue:: “Al riguardo, va tuttavia considerato che la notifica della cartella di pagamento da parte dell’agente della riscossione è necessariamente preceduta dalla notifica dell’avviso di pagamento, ad opera dell’ufficio del giudice dell’esecuzione; e che già tale avviso ha la funzione di intimare al condannato il pagamento della pena pecuniaria stabilita nella sentenza di condanna, ponendolo così a conoscenza anche delle possibili conseguenze del mancato pagamento”; (Corte Cost. sentenza 20 dicembre 2019 n. 279)[56]. Appare giustissimo il richiamo all’art. 212 tu spese giustizia, perché è una norma che, a seguito della sua abrogazione ad opera della l'art. 1, comma 372, L. 24 dicembre 2007, n. 244 come appena visto, è stata reintrodotta nel Tu spese giustizia dall'art. 68, comma 1, lett. c), L. 18 giugno 2009, n. 69 che ha abrogato la norma abrogatrice. Tuttavia si coglie un problema a livello applicativo, Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 3, ordinanza 13 settembre 2017, n. 21178 Presidente Amendola – Relatore Barreca rileva che : “l’art. 212 citato (che prevede l’invito al pagamento), si deve ritenere che la norma risulti attualmente incompatibile con quella dell’art. 227 ter dello stesso d.P.R., come modificata a far data dal 4 luglio 2009 ” [57]. A tal proposito nell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21778/17 depositata il 13 settembre si pone in rilievo che « In materia di riscossione mediante ruolo delle spese processuali relative a sentenza penale di condanna, l'iscrizione a ruolo del credito effettuata dopo il 4 luglio 2009 - data di entrata in vigore della l. n. 69 del 2009, che ha modificato l'art. 227 ter del d.P.R. n. 115 del 2002 - non deve essere preceduta dalla notificazione dell'invito al pagamento, già previsto dall'art. 212 del d.P.R. n. 115 del 2002, dovendo ritenersi abrogata quest'ultima previsione a seguito della modifica del citato art. 227 ter.»” [58]. Il fenomeno dell’abrogazione può riguardare, distintamente, la validità formale di una disposizione o l’applicabilità di una norma. Si suole distinguere infatti tra abrogazione espressa e abrogazione tacita : la prima consiste nell’emanazione di una disposizione che abbia come contenuto l’espressa abrogazione di altre disposizioni; la seconda si ha quando il contenuto di una norma è incompatibile con altre norme derivate da disposizioni preesistenti. Pertanto, l’abrogazione espressa agisce su disposizioni, privandole di validità formale, mentre l’abrogazione tacita agisce su norme, rendendole inapplicabili. L’abrogazione tacita non incide invece sulla validità materiale della norma precedente Una norma, esplicita o implicita, può essere efficace e materialmente valida ma non applicabile, in tutto o in parte, in generale o solo in alcuni casi: fenomeno questo inspiegabile se la nozione di validità viene invece concepita includendo ciò che qui è stato chiamato applicabilità, o concetti analoghi come l’obbligatorietà. Al contrario, nulla impedisce che ciò che può essere valido o invalido sia soggetto anche a distinte considerazioni in termini di peso o importanza: e sono esattamente le considerazioni di quest’ultimo tipo che possono rendere inapplicabili norme valide. Il caso più evidente di dissociazione tra validità materiale e applicabilità di norme è quello di antinomia normativa, e in particolare di antinomia per la quale non sia previsto un meccanismo autoritativo di rimozione di una delle due norme (situazione questa che, come abbiamo visto, darebbe invece luogo ad invalidità materiale di una delle norme antinomiche). Si tratta dunque principalmente del caso di un’antinomia tra norme di pari grado quanto alla gerarchia materiale, ma differenziate o in senso cronologico (norma precedente vs. norma successiva) o quanto all’ampiezza del campo di applicazione (norma generale vs. norma speciale). In questo caso, la norma precedente non perde validità (non è previsto un meccanismo istituzionale di annullamento), ma diventa inapplicabile; e la norma generale non diventa invalida né in assoluto, né nelle ipotesi disciplinate dalla norma speciale [59]. Dunque in base alle riflessioni dei costituzionalisti, l’art. 212 tu spese Giustizia è una norma dotata di validità materiale. Per tale intendendosi una norma N1 che non presenta contraddizioni rispetto ad altre norme N2, N3..., in tutti i casi in cui tale contraddizione può determinare una pronuncia autoritativa di annullamento di N1 (non ogni conflitto tra norme determina la conseguenza che una delle due norme sia invalida in senso materiale) [60]. Infatti il secondo comma della versione originaria dell'art. 227-ter - introdotto nel T.U. Spese di Giustizia dall'art. 52 comma 1 del Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112- disponeva la notificazione dell'invito al pagamento. Più precisamente il secondo comma del suddetto articolo art. 227-ter rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) disponeva che l’agente della riscossione avrebbe dovuto notificare al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata [61]. A seguito della modifica posta in essere dall’art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69, l’art. 227-ter (Riscossione mediante ruolo) al primo comma dispone: 1. Entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l'espiazione in istituto, l'ufficio ovvero, a decorrere dalla data di stipula della convenzione prevista dall'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni [62], e per i crediti ivi indicati, la società Equitalia Giustizia Spa procede all'iscrizione a ruolo”.
Mutamento di disciplina operato sul testo del d.P.R. 115/2002 dalla legge n. 69 del 2009 dell’art. 227-TER Notificazione dell'invito al pagamento
Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112 Articolo 227-ter (L) (Riscossione a mezzo ruolo). 1. Entro un mese dal passaggio in giudicato o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, l'ufficio procede all'iscrizione a ruolo. | Art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 , l'art. 227-ter(Riscossione mediante ruolo) al primo comma prevede l'iscrizione da parte dell'ufficio ovvero da parte della società Equitalia Giustizia S.p.a. (attuale Agenzia delle Entrate Riscossione), entro un mese dal passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo, o entro un mese dalla cessata espiazione della pena nel caso delle spese di mantenimento in carcere. |
Infatti il secondo comma della versione originaria dell'art. 227-ter - introdotto nel T.U. Spese di Giustizia dall'art. 52 comma 1 del Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112- disponeva la notificazione dell'invito al pagamento. Più precisamente il secondo comma del suddetto articolo art. 227-ter1 rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) disponeva che l'agente della riscossione avrebbe dovuto notificare al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata. | Il secondo comma pesantemente interessato dalla modifica da parte della l. 18 giugno 2009 n. 69, prevede che “l'agente della riscossione procede alla riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46”, contemplativa dell'ipotesi di iscrizione a ruolo non derivante da inadempimento.
In sostanza la vecchia formulazione del secondo comma che prevedeva da parte dell'agente della riscossione una notifica al debitore di una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata”. |
In tal senso, il Magistrato di Sorveglienza G. Vignera sottolinea che “ in mancanza della notifica al debitore della cartella di pagamento e, quindi, della condizione della conversione costituita dalla "accertata impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa", il magistrato di sorveglianza deve disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero affinchè richieda alla cancelleria del giudice dell'esecuzione di riprendere la procedura di riscossione. (Cfr Cass. pen., Sez. I, sentenza 19 maggio 1997 n. 3460, P.M. in proc. Gelsomino, Rv. 207974: "Nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero - cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell'esecuzione - abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria medesima. Pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo a un'effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi, nella prima ipotesi al magistrato di sorveglianza - cui è demandato l'accertamento del passaggio dalla situazione di mera e contingente impossibilità di esazione a una condizione di insolvenza effettiva e concreta - perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, e, nella seconda ipotesi, restituendo gli atti alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, perché riprenda la procedura di riscossione") [63].
Altresì nel parere espresso parere sulla riforma Cartabia Illustrata al Cdc nella seduta del1' l 1-12 settembre 2021 dalla 5 Commissione dell’Associazione Nazionale Magistrati si afferma: “punctum dolens della normativa afferente all’esecuzione della pena pecuniaria è costituito dall’assenza di concrete conseguenze sanzionatorie nei confronti degli agenti della riscossione incaricati di eseguire, anche coattivamente la pena pecuniaria qualora non ottemperino agli obblighi previsti dalla legge. In particolare, nel caso l’esecuzione si riveli infruttuosa l’agente della riscossione deve immediatamente informare il pubblico ministero affinchè il procedimento per la conversione possa essere messo in moto. La formazione di dipendenti specificamente istruiti e responsabili, in numero adeguato, si rende quanto mai doverosa, pena la dispersione di preziose risorse e l’ineffettività della pena pecuniaria” [64].
A modesto avviso della scrivente forse una soluzione potrebbe porre una questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 227–ter del Testo unico in materia di spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002) per come modificato dall’art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nella parte in cui non prevede più “da parte dell'agente della riscossione una notifica al debitore di una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione”.
Il comma così come modificato prevede che “l'agente della riscossione procede alla riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46”, e si sostanzia nell’ipotesi di iscrizione a ruolo non derivante da inadempimento, non assicurando così l’effettiva conoscenza al debitore. L’attuale formulazione si pone in contrasto con la formulazione dell’art. 6 Legge 27 luglio 2000 n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), laddove si afferma che “l’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza degli atti a lui destinati”. In tal senso all’art. 1 della stessa legge si afferma: “le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario.”
Ed anche se nel caso di specie il condannato è a conoscenza della condanna alla pena pecuniaria , si verifica una sottovalutazione della stessa. Più precisamente come posto in evidenza nell’intervista rilasciata alla scrivente dall’Avv. Crippa rispetto alla condanna alla pena detentiva, “la pena pecuniaria richiama un livello di “ allerta ” nel condannato inferiore, lo potremmo verificare con un sondaggio tra i detenuti, chiedendo loro se hanno contezza nella loro condanna dell’ammontare della multa a loro comminata in sentenza. Molto probabilmente la maggior parte non saprebbe indicarne la misura. E quando si pensa al fine pena , sicuramente non è contemplato l’aver sanato il debito di giustizia tradotto in termini pecuniari. E altresì quando si discute dell’esecuzione penale, si discute in termini di giorni/mesi e anni di detenzione. Nel momento in cui si aprono le porte del Carcere chiaramente la percezione è quella di aver concluso l’esecuzione penale in senso stretto”. Inoltre al secondo comma dell’art. dell’art. 6 dello Statuto del Contribuente (D.L. 27 luglio 2000), si afferma che “l’amministrazione deve informare il contribuente di ogni fatto, o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione...”. E nel caso di specie si tratta del venir meno dell’informazione al debitore di un fatto o una circostanza da cui possa derivare l’irrogazione di una sanzione.
Chiaramente si potrebbero estendere le censure alla disposizione che ha espunto dal testo della disposizione censurata il riferimento alla notificazione dell'invito al pagamento, ossia all’art. 67, comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile)[65], nella parte in cui non prevede più“ da parte dell'agente della riscossione una notifica al debitore di una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione”[66].
5.2. Le criticità come veicoli di riqualificazione: spunti propositivi
Nella Bozza del 19 ottobre 2017 della Legge di Bilancio 2018, nella relazione illustrativa dell'attuale art. 238- bis [67], tu spese giustiziasi legge che il quadro normativo attualmente vigente ha risentito: delle modifiche operate dalla legge n. 69/2009 alla disciplina di cui al d.P.R. n. 115/2002 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nonché della dichiarazione di incostituzionalità (per eccesso di delega) degli articoli 237 e 238 del medesimo testo unico e della abrogazione degli articoli 181 e 182 delle disp. att. c.p.p. ad opera dell’articolo 299 del d.P.R. 115/2002 (non oggetto di sindacato di costituzionalità). Si ritiene, infatti, che la previsione di cui all’articolo 227 del d.P.R. 115/2002 [68], che rinvia, per quanto riguarda la disciplina dell’attività dei concessionari per la riscossione, anche all’articolo 19 del decreto legislativo n. 112/1999, non sia applicabile nel caso di riscossione delle pene pecuniarie, tenuto conto che:
a) l’articolo 227 trova collocazione nel titolo II del d.P.R. 115/2002, rubricato disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario;
b) l’articolo 227-quater, che disciplina sulle norme applicabili di cui al titolo II- bis, contenente disposizioni generali per spese di mantenimento in carcere, spese processuali, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali nel processo civile e penale, non richiama espressamente, tra le disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario, anche l’articolo 227;
c) gli articoli 235-239, dedicati specificamente alle pene pecuniarie non richiama, parimenti, il suddetto articolo [69].
Per completezza espositiva è bene precisare in merito che l'art. 19 del decreto legislativo n, 112/1999, rubricato “Discarico per inesigibilità” trova collocazione nella sezione I del capo II di tale ultimo decreto, dedicata ai diritti del concessionario. Nel testo attuale, detto articolo, al comma 1, prevede quanto segue: "Ai fini del discarico delle quote iscritte a ruolo, il concessionario trasmette, anche in via telematica, all'ente creditore, una comunicazione di inesigibilità. Tale comunicazione viene redatta e trasmessa con le modalità stabilite con decreto del Ministero delle finanze, entro il terzo anno successivo alla consegna del ruolo, fatto salvo quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge. La comunicazione è trasmessa anche se, alla scadenza di tale termine, le quote sono interessate da procedure esecutive o cautelari avviate, da contenzioso pendente, da accordi di ristrutturazione o transazioni fiscali e previdenziali in corso, da insinuazioni in procedure concorsuali ancora aperte, ovvero da dilazioni in corso concesse ai sensi dell'articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni. In tale caso, la comunicazione assume valore informativo e deve essere integrata entro il 31 dicembre dell'anno di chiusura delle attività in corso ove la quota non sia integralmente riscossa."
La disposizione, quindi, prevede che l’agente della riscossione debba procedere alla comunicazione di inesigibilità entro il terzo anno successivo alla consegna del ruolo e che la stessa debba essere effettuata anche se le quote del credito siano interessate da procedure di riscossione già avviate ed ancora pendenti. In tale ultimo caso la comunicazione iniziale assume valore solamente informativo e deve essere integrata dalla comunicazione “finale” da effettuare entro il 31 dicembre dell’anno di chiusura dell’attività di riscossione. Invece, per le quote di crediti contenute in comunicazioni di inesigibilità che non sono soggette a successiva integrazione, perché non interessate da procedure di riscossione pendenti, il discarico dell’agente della riscossione è automatico al 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di presentazione della comunicazione (articolo 19, comma 3, del d.lgs. n. 112 del 1999). L’esame delle norme appena richiamate evidenzia alcuni punti fondamentali:
a) la disposizione è dettata per regolare il discarico delle quote dei crediti fra ente impositore ed agente della riscossione, quindi per regolare il rapporto corrente fra gli stessi e l’eventuale responsabilità del secondo per i crediti non discaricati;
b) con la c.d. “comunicazione d’inesigibilità” l’agente della riscossione chiede all’ente impositore il discarico delle partite non riscosse, dimostrando di aver svolto l’attività di recupero nel rispetto della legge;
c) la necessità della comunicazione “finale” insorge solo se, al momento di quella “iniziale”, siano in corso procedure di riscossione di cui, quindi, deve essere fatta espressa menzione.
L’articolo 19, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1999 elenca in dettaglio le cause che determinano la perdita, da parte dell’agente della riscossione, del diritto al discarico. Fra queste, alla lettera b), vi era la previsione della «mancata comunicazione all’ente creditore, anche in via telematica, con cadenza annuale, dello stato delle procedure relative alle singole quote comprese nei ruoli consegnati in uno stesso mese …». Tale ultima disposizione è stata abrogata dall’articolo 1, comma 682, lett. b), della legge n. 190 del 2014. [70].
In tale contesto normativo, quindi, conseguente al mutamento di disciplina operato sul testo del d.P.R. 115/2002 dalla legge n. 69 del 2009, la previsione di cui all’articolo 227 ha assunto una valenza limitata all’ambito delle spese nel processo amministrativo, contabile e tributario, difformemente da prima del suddetto intervento, in cui l’attuale articolo 227 era collocato in un titolo che aveva ad oggetto disposizioni per le spese generali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali e che, successivamente, è stato modificato in disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario. L’attuale assenza di una disciplina normativa in esame, pertanto, produce conseguenze sul piano del principio dell’effettività dell’esecuzione delle condanne a pena pecuniaria [71].
L’originaria disciplina del Testo unico precedente alla dichiarazione d’incostituzionalità, con la previsione degli articoli 237 e 238, aveva voluto riservare un trattamento particolare alla riscossione delle pene pecuniarie, che teneva conto della specialità della normativa, che ha al centro il procedimento di conversione. Testimonia tale attenzione la relazione illustrativa del Testo unico, ove al punto 5 si afferma che il riordino aveva dovuto fare i conti con la riforma che aveva uniformato la disciplina della riscossione delle entrate dello Stato, ivi incluse le spese di giustizia e le pene pecuniarie, e che la complessità del riordino si spiegava con il tentativo di creare dei raccordi necessari a salvaguardare la specialità delle normative per consentirne il funzionamento. Nella relazione illustrativa al TU. 2002 si affermava, anche, che la disciplina delle comunicazioni contenuta nella legislazione della riscossione a mezzo ruolo potesse trovare altresì attuazione nell’attività di riscossione delle pene pecuniarie, essendo perfettamente compatibile con le previsioni dell’articolo 237 del testo unico. L’affermazione, avanzata a commento di tale ultima disposizione, teneva conto proprio della disciplina delle comunicazioni all’epoca vigente, che prevedeva che:
- il concessionario dovesse trasmettere la prima informazione entro il diciottesimo mese successivo alla consegna del ruolo e, successivamente, con cadenza annuale (art. 19 d.lgs. n. 112 del 1999);
- il concessionario fosse obbligato a trasmettere mensilmente all’ufficio che ha formato il ruolo le informazioni relative allo svolgimento del servizio ed all’andamento delle riscossioni (art. 36 d.lgs. n. 112 del 1999).
E sempre nell'articolo 227 è richiamata quest'ultima norma (art. 36), tuttora vigente, il cui comma 1 prevede che "Entro la fine di ogni mese il concessionario trasmette al soggetto creditore che ha formato il ruolo, anche in via telematica, e con le modalità stabilite con decreto ministeriale, le informazioni relative allo svolgimento del servizio e all'andamento delle riscossioni effettuati nel mese precedente." Ciò che è, invece, indispensabile evidenziare è che la cd. “comunicazione d’inesigibilità” attiene all’esercizio dei diritti ed al discarico delle responsabilità nel rapporto fra agente della riscossione ed ente impositore, ma non risulta da alcuna norma di legge che la stessa sia un presupposto indispensabile per l’attivazione del procedimento di conversione della pena pecuniaria.
L’intervenuta dichiarazione d’incostituzionalità degli articoli 237, 238 e 299 del Testo unico e la reviviscenza dell’articolo 660 c.p.p. pongono, allo stato, un problema di coordinamento di tale ultima disposizione di legge con la normativa sulla riscossione a mezzo ruolo. Infatti, l’articolo 660 c.p.p. non disciplina le modalità secondo cui si attiva il procedimento di conversione della pena pecuniaria, facendo riferimento – unicamente – all’accertamento della impossibilità di esazione della pena stessa ed alla successiva trasmissione degli atti dal P.M. al magistrato di sorveglianza. Il difetto di coordinamento è confermato dall’attuale mancato richiamo dell’articolo 19 del d.lgs. n. 112 del 1999 nelle disposizioni specificamente dettate per la riscossione delle pene pecuniarie: omesso richiamo cui non può essere attribuito altro significato se non quello che la comunicazione d’inesigibilità non costituisce una condizione indispensabile per l’attivazione del procedimento di conversione della pena. Tale comunicazione, prevista dalla legislazione sulla riscossione a mezzo ruolo, trova applicazione per regolare i rapporti fra ente impositore ed Agente della riscossione, ma non interferisce sul potere dell’Autorità giudiziaria di attivare il procedimento di conversione della pena. Infine, ulteriore conferma di quanto sopra detto si trae dalle proroghe intervenute in materia di comunicazione d’inesigibilità [72].
In riferimento a questo aspetto, nella relazione presentata dal cons. Massimo Romano, che illustra gli esiti dell'indagine condotta in merito a “Il recupero delle spese di giustizia e i rapporti convenzionali tra il Ministero della giustizia ed Equitalia Giustizia” richiamata nella importantissima deliberazione n. 3 del 2017 [73] della Corte dei Conti si pone in rilievo che: " Particolarmente gravi appaiono le conseguenze che derivano dalle reiterate proroghe legislative dei termini per effettuare le comunicazioni di inesigibilità, considerato che esse determinano la caducazione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (art. 660 c.p.p.) una volta decorso il termine di prescrizione decennale, trattandosi di termine ritenuto non suscettibile di interruzione" [74].
L’articolo 227, il cui contenuto non ha subito modifiche dalla data dell’emanazione del d.P.R. n. 115 del 2002, è inserito nel titolo II che, originariamente, recava la seguente rubrica: “Disposizioni per spese generali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali”, mentre l’attuale rubrica [“Disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario”] è stata così sostituita dall’articolo 67, comma 3, lett. g), della legge n. 69 del 2009. Tale articolo – al comma 3, lett. i) – ha, invece, sostituito il capo VI bis del titolo II [rubricato “Riscossione mediante ruolo”], inserito dal d.l. n. 112 del 2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133 del 2008 [il capo VI bis, come originariamente inserito, conteneva solo gli articoli 227-bis e 227-ter), con il titolo II bis rubricato “Disposizioni generali per spese di mantenimento in carcere, spese processuali, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali nel processo civile e penale”. Lo stesso articolo come già diffusamente analizzato, ha inoltre, modificato l' articolo 227-ter [75].
Occorre porsi una domanda: Le presenti criticità potrebbero trasformarsi in veicoli di riqualificazione? La risposta è sì, le criticità possono trasformarsi in spunti propositivi che potenzialmente potrebbero migliorare il sistema di riscossione delle pene pecuniarie.
Nonostante l'importante traguardo a cui si è giunti attraverso la l. 134/2021, in cui al fine di restituire effettività alla pena pecuniaria – oggi eseguita, riscossa e convertita in percentuali medie bassissime – il Governo è delegato a: razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione; rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato; prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione della pena pecuniaria e la sua conversione i caso di mancato pagamento. Restituire effettività alla pena pecuniaria è funzionale non solo a valorizzare la più tradizionale alternativa alla pena detentiva, ma anche: a) il procedimento per decreto (si è detto, infatti, che il legislatore ha previsto di subordinare l’effetto estintivo correlato al decreto penale all’effettivo pagamento della pena pecuniaria); b) la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva fino a un anno (applicabile anche con il decreto penale di condanna).[76]. Altro aspetto che incarna l'inizio di una nuova epoca è sicuramente il già precedentemente menzionato criterio ,- richiamato dalla Corte Costituzionale-, stabilito dall’art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134 [77].
La legge-delega “Cartabia” apre ad un’ampia riforma delle sinora neglette sanzioni sostitutive, delegando il Governo a ridefinirle e a potenziarle secondo un chiaro obiettivo di erosione del primato della pena carceraria e di implementazione della finalità risocializzativa. Come evidenziato da autorevole dottrina (F. Palazzo), la L. n. 134/2021 (c.d. riforma Cartabia) rappresenta una “svolta modernizzatrice nel nostro sistema penale, che non sarà rivoluzionaria né forse risolutiva ma che certo ha l’indubbio merito di aver invertito una tendenza involutiva e di aver posto le basi per ulteriori passi in avanti” [78].
Tuttavia, partendo dalla constatazione che la Corte Costituzionale in più occasioni attraverso il monito ha segnalato l'esigenza di riforma, decodificando i bisogni del condannato, ma al tempo stesso anche del sistema giudiziario, la scrivente ha provato a delineare delle modifiche che potenzialmente potrebbero avere un impatto positivo.
Ad avviso della scrivente uno degli aspetti apparentemente banali su cui si potrebbe incidere è l'innalzamento del numero di rate [79], attualmente previste nel numero massimo di 30 dall'art. 133 ter c.p.[80], pensando ad un recupero di lungo periodo che porterebbe a recuperare notevoli e preziose risorse da reinvestire.
Altro aspetto potrebbe essere un ripristino del secondo comma della versione originaria dell'art. 227-ter - introdotto nel T.U. Spese di Giustizia dall'art. 52 comma 1 del Decreto Legge 25 giugno 2008 n. 112 - disponeva la notificazione dell'invito al pagamento. Più precisamente il secondo comma del suddetto articolo art. 227-ter1 rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) disponeva che l'agente della riscossione avrebbe dovuto notificare al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si sarebbe proceduto ad esecuzione forzata.
Altro aspetto potrebbe essere un richiamo espresso da parte dell’art. 660 cpp nelle disposizioni specificamente dettate per la riscossione delle pene pecuniarie dell' art. 19 “Discarico per inesigibilità” Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112:
Art. 660 Cpp. Esecuzione delle pene pecuniarie.
1. Le condanne a pena pecuniaria sono eseguite nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti.
2. Quando è accertata la impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione, il quale provvede previo accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato e, se ne è il caso, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. La procedura di discarico per inesigibilità delle quote iscritte a ruolo è regolamentata dall'art. 19 del Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112. Se la pena è stata rateizzata, è convertita la parte non ancora pagata.
3. In presenza di situazioni di insolvenza, il magistrato di sorveglianza può disporre la rateizzazione della pena a norma dell'articolo 133-ter del codice penale, se essa non è stata disposta con la sentenza di condanna ovvero può differire la conversione per un tempo non superiore a sei mesi. Alla scadenza del termine fissato, se lo stato di insolvenza perdura, è disposto un nuovo differimento, altrimenti è ordinata la conversione. Ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l'esecuzione è stata differita.
4. Con l'ordinanza che dispone la conversione, il magistrato di sorveglianza determina le modalità delle sanzioni conseguenti in osservanza delle norme vigenti.
5. Il ricorso contro l'ordinanza di conversione ne sospende l'esecuzione.
Altresì si potrebbe pensare ad un ripristino della collocazione dell’articolo 227 che richiama l’efficiente disciplina delle comunicazioni contenuta nel Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 112 (contenuta in particolare negli articoli 19 e 36) nel "TITOLO II-bis DISPOSIZIONI GENERALI PER SPESE DI MANTENIMENTO IN CARCERE, SPESE PROCESSUALI, PENE PECUNIARIE, SANZIONI AMMINISTRATIVE PECU NIARIE E SANZIONI PECUNIARI PROCESSUALI NEL PROCESSO CIVILE E PENALE. Si ricorda che lo stesso era collocato nella versione antecedente alla l. 69/2009 nel titolo avente ad oggetto disposizioni per le spese generali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali (Titolo II Disposizioni generali per spese processuali, spese di mantenimento, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali Artt. 211- 227) e che, successivamente, è stato modificato in disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario (Titolo II ((Disposizioni generali per le spese nel processo amministrativo, contabile e tributario)).
Sicuramente potrebbe essere di utilità un richiamo espresso dell’art. 227 ad opera:
a) dell’articolo 227-quater, che disciplina sulle norme applicabili di cui al titolo II- bis, contenente disposizioni generali per spese di mantenimento in carcere, spese processuali, pene pecuniarie, sanzioni amministrative pecuniarie e sanzioni pecuniarie processuali nel processo civile e penale, non richiama
b) degli articoli 235-239, dedicati specificamente alle pene pecuniarie non richiama, parimenti, l’articolo 227.
Altra modifica suggerita, prendendo in considerazione l'importanza di restituire certezza alla disciplina, è quella delineata dalla Direttiva della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria, a firma del Procuratore Generale dott. Bernardo Petralia, recante linee guida in tema di prescrizione delle pene pecuniarie[81]. Nel documento si prende posizione sul contrasto interpretativo relativo alla corretta individuazione del dies a quo da prendere a riferimento per il calcolo del suddetto termine prescrizionale rilevando che sarebbe stato più soddisfacente se il legislatore avesse disciplinato per la pena pecuniaria modalità più espresse di decorrenza del termine di prescrizione o integrato il testo dell’art. 212 TUSG con la precisazione che l’avvenuta infruttuosa notifica dell’avviso di pagamento funge da condizione efficace ai sensi del comma 5 dell’art. 172 c.p..[82].
ART. 212 (R)
(Invito al pagamento)
1. Passato in giudicato o divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo ((. . . )), l'ufficio notifica al debitore l'invito al pagamento dell'importo dovuto, con espressa avvertenza
che si procederà ad iscrizione a ruolo, in caso di mancato pagamento entro i termini stabiliti.
2. Entro un mese dal passaggio in giudicato, o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, ((. . .)), l'ufficio chiede la notifica, ai sensi dell'articolo 137 e seguenti del codice di
procedura civile, dell'invito al pagamento cui è allegato il modello di pagamento.
3. Nell'invito è fissato il termine di un mese per il pagamento ed è richiesto al debitore di depositare la ricevuta di versamento entro dieci giorni dall'avvenuto pagamento.
4. L'avvenuta infruttuosa notifica dell'avviso di pagamento funge da condizione efficace ai sensi del comma 5 dell'art. 172 c.p.
6. Gli interventi della Magistratura come imput propulsivo allo sviluppo dello Stato-ordinamento verso una direzione di equilibrio tra preservamento statale e recupero del rapporto con l'Uomo
La Direttiva e l'intervento della Corte Cosituzionale qui in commento sono solo due esempi delle modalità attraverso cui la Magistratura cerca di colmare i vuoti normativi, sanare le fratture e dare spessore alle assenze. Ed in tal senso pur incarnando lo spirito del proprio tempo si può ascrivere alla contemporaneità il Libro III del De Legibus in cui Cicerone attribuisce uno specifico valore all'imperium dei magistrati. Particolarmente significativo il passaggio in cui si afferma che “Magistratibus igitur opus est, sine quorum prudentia ac diligentia esse civitas non potest, quorumque descriptione omnis rei publicae moderatio continetur.” (leg. III,4) [83], In altri termini sia la Direttiva che l'intervento della Corte Costituzionale sono due immagini esemplificative di come la Magistratura si adopera affinchè l'ordinamento giuridico, ossia il nostro luogo di identità per eccellenza, ritorni ad essere per l'individuo un luogo “più vivibile ed abitabile”, in sostanza un luogo a misura d'uomo. La scrivente in conclusione ritene che l'impegno già profuso dalla Magistratura possa essere un imput propulsivo allo sviluppo dello Stato-ordinamento e che, come in una ideale corsa a staffetta, ora spetti al legislatore delegato raccogliere il testimone.
[44] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[45] Comunicato del 1 febbraio 2022 dell'Ufficio stampa della Corte Costituzionale, Troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria, consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20220201123330.pdf
[46] DOLCINI, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia Sistema penale, 2 settembre 2021, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/dolcini-sanzioni-sostitutive-la-svolta-impressa-dalla-riforma-cartabia
[47] Si conceda il rinvio a E. Quarta, R. Trezza Il Tagessatzsystem tedesco: tassello della proposta di riforma della commissione Lattanzi che avrebbe potuto “migliorare l'esistente senza sovvertirlo” in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume II, Universitalia 2022 pag. 126 e seguenti
[48] E. DOLCINI, Verso una pena pecuniaria finalmente viva e vitale? Le proposte della Commissione Lattanzi Sistema penale, 4 giugno 2021 settembre 2021, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/dolcini-pena-pecuniaria-viva-e-vitale-commissione-lattanzi
[49] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[50] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[51] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[52] Si conceda il rinvio a E. QUARTA ,Analisi economica del diritto: focus vantaggi miglioramento del sistema di riscossione, in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume III, Universitalia 2022 pag. 11 e ss
[53] Una fra tutte il risarcimento del danno da inumana detenzione che potrebbe derivare in caso di pena detentiva conseguente a conversione delle pene pecuniarie inevase ( es. ipotesi di revoca della liberta controllata)
[54] Aspetto che evidenzio diffusamente in E. QUARTA ,Analisi economica del diritto: focus vantaggi miglioramento del sistema di riscossione, in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume III, Universitalia 2022 pag. 11 e ss.
[55] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[56] Corte Cost. sentenza 20 dicembre 2019 n. 279
[57] Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 13/09/2017, n. 21178 Presidente Amendola – Relatore Barreca in Giustizia Civile Massimario 2017, banca dati DeJure
[58] Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 13/09/2017, n. 21178 Presidente Amendola – Relatore Barreca in Giustizia Civile Massimario 2017, banca dati DeJure
[59] G. Pino (Professore di Filosofia del diritto Università di Palermo), Norme e gerarchie normative, Analisi e diritto, 2008 consultabile al seguente indirizzo url http://www1.unipa.it/gpino/Pino,%20Norme%20e%20gerarchie%20normative.pdf
[60] G. Pino (Professore di Filosofia del diritto Università di Palermo), Norme e gerarchie normative, Analisi e diritto, 2008 consultabile al seguente indirizzo url http://www1.unipa.it/gpino/Pino,%20Norme%20e%20gerarchie%20normative.pdf
[61] L'articolo art. 227-ter rubricato Riscossione a mezzo ruolo, (versione antecedente alla l. 69/2009) in versione integrale disponeva: «1. Entro un mese dal passaggio in giudicato o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, l'ufficio procede all'iscrizione a ruolo. 2. L'agente della riscossione notifica al debitore una comunicazione con l'intimazione a pagare l'importo dovuto nel termine di un mese e contestuale cartella di pagamento contenente l'intimazione ad adempiere entro il termine di giorni venti successivi alla scadenza del termine di cui alla comunicazione con l'avvertenza che in mancanza si procederà ad esecuzione forzata. 3. Se il ruolo e' ripartito in più rate, l'intimazione ad adempiere contenuta nella cartella di pagamento produce effetti relativamente a tutte le rate."».
[62] Art. 1 comma 367 LEGGE 24 dicembre 2007, n. 244 «Entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della giustizia stipula con una società interamente posseduta dalla società di cui all'articolo 3, comma 2, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, una o più convenzioni in base alle quali la società stipulante con riferimento alle spese e alle pene pecuniarie previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, nonché alle sanzioni pecuniarie civili di cui al decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, provvede alla gestione del credito, mediante le seguenti attività: a) acquisizione dei dati anagrafici del debitore e quantificazione del credito, nella misura stabilita dal decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell'articolo 205 (L) del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni; b) iscrizione a ruolo del credito; a tale fine, il titolare dell'ufficio competente delega uno o più dipendenti della società stipulante alla sottoscrizione dei relativi ruoli; c) LETTERA ABROGATA DALLA L. 18 GIUGNO 2009, N. 69. ».
[63] G. VIGNERA, La notificazione della cartella di pagamento quale pre-condizione della conversione delle pene pecuniarie non pagate, Il Caso.it 3 febbraio 2020
[64] Giudice Mauro Lavra ( a cura di), Art. 9 Disposizioni in materia pecuniaria, in 5 Commissione ANM ( a cura di) Parere della Commissione sulla riforma Cartabia Illustrata al Cdc nella seduta del 11-12 settembre 2021, pag. 60 consultabile al seguente indirizzo url https://www.associazionemagistrati.it/allegati/parere-commissione-penale-su-riforma-cartabia.pdf
[65] Art. 67. comma 3 lettera i)) della l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico , la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile): “ Al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: ( ….....) i) il capo VI-bis del titolo II della parte VII e' sostituito dal seguente titolo: "TITOLO II-bis DISPOSIZIONI GENERALI PER SPESE DI MANTENIMENTO IN CARCERE, SPESE PROCESSUALI, PENE PECUNIARIE, SANZIONI AMMINISTRATIVE PECU NIARIE E SANZIONI PECUNIARI PROCESSUALI NEL PROCESSO CIVILE E PENALE. CAPO I RISCOSSIONE MEDIANTE RUOLO Art. 227-bis (L). - (Quantificazione dell'importo dovuto). - 1. La quantificazione dell'importo dovuto e' effettuata secondo quanto disposto dall'articolo 211. Ad essa provvede l'ufficio ovvero, a decorrere dalla data di stipula della convenzione prevista dall'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e per i crediti ivi indicati, la società Equitalia Giustizia Spa.
Art. 227-ter (L). - (Riscossione mediante ruolo). - 1. Entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui e' divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l'obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l'espiazione in istituto, l'ufficio ovvero, a decorrere dalla data di stipula della convenzione prevista dall'articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e per i crediti ivi indicati, la società Equitalia Giustizia Spa procede all'iscrizione a ruolo.
2. L'agente della riscossione procede alla riscossione spontanea a mezzo ruolo ai sensi dell'articolo 32, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46. Si applica l'articolo 25, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602”.
[66] Per prendere visione di un'analisi completa delle criticità dell'intero quadro normativo del sistema di riscossione delle pene pecuniarie inevase si conceda il rinvio a E. QUARTA , Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, vol II, pag. 324 e ss.
[67] Nella Bozza è riportato come art. 239 bis (L) (Attivazione delle procedure di conversione delle pene pecuniarie) Relazione illustrativa dell' art. rubricato Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, in Legge di Bilancio 2018, Bozza 19 ottobre 2017, pag. 91 Documento consultabile all'indirizzo url: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato1734279.pdf
[68] ART. 227 (L) Rubricato (Concessionari): 1. Per l'affidamento in concessione del servizio, la vigilanza sui concessionari, il recesso, la decadenza e la revoca, il commissario governativo delegato, la remunerazione del servizio, l'accesso agli uffici pubblici, il discarico per inesigibilità, la procedura di discarico e reiscrizione nei ruoli, il recupero crediti, gli obblighi contabili e di garanzia, gli obblighi di versamento, la cauzione, il segreto d'ufficio, la trasmissione dei flussi informativi, la conservazione degli atti, la delega, la chiamata in causa dell'ente creditore, i giorni festivi, il personale addetto al servizio di riscossione, le sanzioni, il regime fiscale degli atti di affidamento delle concessioni, le potestà legislative delle Regioni a statuto speciale e province autonome, si applicano gli articoli 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, eccetto il comma 5 bis, 18, 19, 20 eccetto il comma 5, 21, 22, 23, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 52 bis, 53, 54, 55, 56, e 70, del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112; nonché l'articolo 4 bis, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 237; l'articolo 16 quinquies, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 452, convertito in legge 27 febbraio 2002, n. 16; l'articolo 46, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e l'articolo 9, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito in legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modificazioni.
[69] Relazione illustrativa , loc. ult. cit.
[70] Circolare 4 agosto 2017 Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi , - Analisi della normativa sul recupero dei crediti per pene pecuniarie nonché di indicazioni operative agli Uffici giudiziari consultabile all'indirizzo url: https://giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.page;jsessionid=J0e-wZ5ETBuXeSbx2UnqjvNV?contentId=SDC41981&previsiousPage=mg_1_8
[71] Relazione Illustrativa cit., pag. 91-92
[72] Circolare 4 agosto 2017 loc. ult. Cit.
[73] La problematica del recupero dei crediti generati dall’attività giudiziaria è stata, infatti oggetto della deliberazione del 7 Marzo 2017, n. 3/2017/G, della Corte di Conti, Sezione Centrale di Controllo sulla Gestione delle Amministrazioni dello Stato, riguardante: “Il recupero delle spese di giustizia e i rapporti convenzionali tra il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia”. La deliberazione ha riguardato l’attività posta in essere per il recupero dei crediti derivanti da sentenze passate in giudicato o da spese di giustizia, come previsto dall’art. 1, commi da 367 a 372, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. In esecuzione della disposizione da ultimo richiamata, il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia s.p.a, con la convenzione intervenuta il 23 settembre 2010 e successive integrazioni, hanno provveduto a definire le modalità di gestione dei crediti originati da provvedimenti passati in giudicato o divenuti esecutivi demandando ad Equitalia Giustizia s.p.a. l’attività di quantificazione delle poste attive e l’iscrizione a ruolo dei crediti sui sistemi di una delle società del Gruppo Equitalia. L’analisi compiuta in dettaglio dalla Corte dei Conti conclude evidenziando i seguenti nodi problematici:
1. l’irrazionalità del controllo operato su Equitalia Giustizia, dapprima da Equitalia s.p.a, a sua volta controllata dall’Agenzia delle Entrate, e oggi demandato al Ministero dell’economia e delle finanze, a seguito del d.l. n. 193/2016. La Corte ritiene più coerente la configurazione di un controllo diretto della società da parte del Ministero della Giustizia;
2. la protrazione del regime transitorio che non ha consentito una valutazione degli effettivi benefici generati dalla convenzione: il modello adottato “si è risolto essenzialmente nella sostituzione di parte dell’attività precedentemente svolta dagli operatori degli uffici giudiziari con quella demandata agli operatori di Equitalia giustizia. É mancato un decisivo intervento nella direzione dell’effettiva reingegnerizzazione dell’intero processo gestionale, che a giudizio della Corte dovrebbe costituire lo strumento principale da utilizzare nell’innovazione dei processi operativi della pubblica amministrazione”;
3. non senza osservare (...) “le evidenti criticità che emergono dal confronto tra l’ingente ammontare dei crediti posti in riscossione e l’importo effettivamente riscosso”, già evidenziate dalla Corte nella relazione “Il sistema della riscossione dei tributi erariali al 2015” (deliberazione n. 11/2016/G );
4. la reiterazione delle proroghe legislative della comunicazione d’inesigibilità che ha determinato la caducazione della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (art. 660 c.p.p) una volta decorso il termine di estinzione, sul presupposto che lo stesso non sia suscettibile di interruzione, evidenziando altresì l’urgenza “di un intervento normativo per rendere compatibili i tempi previsti per l’esame delle comunicazioni di inesigibilità con la citata disposizione penale”. ( Circolare 4 agosto 2017 loc. ult. Cit. )
[74] Corte dei Conti Deliberazione 7 marzo 2017, n. 3/2017/G, in Sezione Centrale di Controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, Il Recupero delle Spese di Giustizia e i rapporti convenzionali tra il Ministero della Giustizia ed Equitalia Giustizia ( Rel: Cons. Massimo Romano), pag. 14 consultabile al link http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sez_centrale_controllo_amm_stato/2017/delibera_3_2017_g.pdf
[75] Circolare 4 agosto 2017 loc. ult. Cit.
[76] G. L. GATTA Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, Sistema Penale, 15 ottobre 2021 consultabile al seguente indirizzo url https://sistemapenale.it/it/scheda/gatta-legge-2021-134-delega-riforma-giustizia-penale-cartabia
[77] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[78]. D. Bianchi, Il rilancio delle pene sostitutive nella legge delega "Cartabia": una grande occasione non priva di rischi, Sistema Penale, 21 febbraio 2022, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/articolo/bianchi-pene-sostitutive-legge-delega-cartabia ; F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, 8 settembre 2021 Sistema Penale, consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/palazzo-profili-diritto-sostanziale-riforma-penale.
[79] Si conceda il rinvio a E. Quarta, A. Crippa La visione teorica del sistema di riscossione delle pene pecuniarie al vaglio della critica della ragion pura. Intervista ad una penalista per coniugare teoria e prassi, in E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, volume III, Universitalia 2022 pag. 135
[80] Art. 133-ter. C.p. (( (Pagamento rateale della multa o dell'ammenda).))
Il giudice, con la sentenza di condanna o con il decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l'ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta. Ciascuna rata tuttavia non può essere inferiore a 15 euro.
In ogni momento il condannato può estinguere la pena mediante un unico pagamento.
[81] Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Reggio Calabria, Presrizione delle pene pecuniarie. Problematiche applicative e indicazioni operative consultabile al seguente indirizzo url sistemapenale.it/pdf_contenuti/1575971129_direttiva- procura-generale-reggio-calabria-prescrizione-pene-pecuniarie-e-decorrenza-2019.pdf
[82] E. Andolfatto, Linee guida della Procura Generale di Reggio Calabria in tema di prescrizione delle pene pecuniarie, Sistema penale, 11 dicembre 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.sistemapenale.it/it/documenti/linee-guida-procura-generale-reggio-calabria-prescrizione-pena-pecuniaria
[83] F. Fontanella, Le leges de magistratibus, in F. Fontanella, Politica e diritto naturale nel De Legibus di Cicerone, Roma 2012 Edizioni di storia e letteratura. 2012, pag. 79 e ss F. Andrew Roy Dick, A Commentary on Cicero: De Legibus (University of Michigan Press 2004) 457.
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Maria Alessandra Sandulli
Nella proposta di revisione costituzionale l’Alta Corte sostituirebbe le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione quanto al sindacato sulle sentenze disciplinari emesse dalla Sezione del Consiglio superiore della magistratura.
Con riferimento a questa previsione incuriosisce la circostanza che si ritenga di rimediare alla caduta di immagine del Consiglio operando su compiti affidati alle sezioni Unite civili della corte di Cassazione.
1. Quali sono le criticità rilevate in ordine al sindacato delle Sezioni Unite civili sulle sentenze emesse dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che fanno ritenere il sindacato dell’Alta Corte preferibile rispetto a quello delle Sezioni Unite?
2. L’ultimo comma dell’art.105 bis della proposta di revisione costituzionale, nel disegnare la competenza del nuovo organo giurisdizionale, fa riferimento alle “controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi (CSM, Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di presidenza della Corte dei conti, Consiglio della magistratura militare, Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, n.d.r.) riguardanti i magistrati. Questo amplissimo genus della materia non eccede la finalità che la proposta intende perseguire? E ancora, la diversa natura dei detti organismi - uno dei quali paracostituzionale - giustifica una loro assimilazione in punto di tutela giurisdizionale?
Immagino di essere stata inserita tra gli “intervistati” essenzialmente in qualità di studiosa della giustizia amministrativa. Concentrerò quindi le mie risposte sulle domande che interessano più specificamente il rapporto tra l’Alta Corte e i giudici amministrativi.
Come si sottolinea nella seconda domanda, infatti, l’ultimo comma dell’art.105 bis della proposta di revisione costituzionale, prevede l’attribuzione al nuovo organo giurisdizionale di una competenza generale su tutte le controversie riguardanti l’impugnazione dei provvedimenti degli organismi di cd “autogoverno” dei plessi giurisdizionali attualmente esistenti (Consiglio superiore della magistratura, Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di presidenza della Corte dei conti, Consiglio della magistratura militare, Consiglio di presidenza della giustizia tributaria) “riguardanti i magistrati”. Si prevede così il trasferimento (e la concentrazione in capo) a tale nuovo organo, non soltanto della competenza a giudicare i provvedimenti disciplinari adottati dai rispettivi organismi di autogoverno, ma anche della competenza -attualmente spettante al giudice amministrativo- su tutti gli altri provvedimenti assunti da questi ultimi “riguardanti i magistrati”. Competenze che, come ho anche io avuto occasione di segnalare, presentano entrambe evidenti profili di criticità con riferimento al possibile deficit di terzietà dell’organo giudicante sui ricorsi di impugnazione degli atti adottati dal proprio organo di autogoverno. Si tratta di una questione indubbiamente molto delicata, soprattutto quando, come è accaduto, il giudizio abbia ad oggetto provvedimenti a carattere disciplinare (stante il presumibile rapporto di forte colleganza in una comunità sostanzialmente ristretta) o, addirittura, atti di nomina degli organi di vertice. E, come avete ben evidenziato, il problema si acuisce quando il giudice amministrativo, che raramente annulla i provvedimenti del proprio organo di autogoverno, annulla invece quelli del CSM. Soprattutto se si considera che, sia pure nei contorti confini dei “motivi inerenti alla giurisdizione”, le sentenze del Consiglio di Stato sono a loro volta soggette al sindacato della Corte di cassazione. Per cui, come evidenziato anche da Fabio Francario in uno scritto pubblicato nel 2018 su questa Rivista, può crearsi un inopportuno intreccio di giudizi tra i vertici dei due plessi giurisdizionali, che, quantomeno sul piano dell’apparenza, non aiuta a migliorare l’immagine del sistema dualista della giustizia amministrativa.
Come recentemente ricordato da Marco Lipari l’originaria idea di un’Alta Corte di Giustizia -nata già diversi anni fa con l’ambizioso obiettivo di “normalizzare” i rapporti tra le diverse giurisdizioni e tra queste e gli organi di autogoverno delle magistrature- era scaturita dalla tensione fortissima tra la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato quando le Sezioni Unite avevano cassato importanti pronunce del Consiglio di Stato concernenti la materia del risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e il secondo aveva ripetutamente annullato i provvedimenti di nomina dei titolari delle funzioni apicali della giurisdizione ordinaria. La preoccupazione di un grave conflitto istituzionale vide allora farsi strada l’ipotesi, propugnata dalla Fondazione Italiadecide, di affidare a un unico organo autorevole e imparziale, composto da persone di altissimo profilo, equidistante dai due complessi, i giudizi sui confini delle giurisdizioni, oltre a quelli sui provvedimenti adottati dagli organi di autogoverno delle magistrature. La proposta, come noto, non ebbe seguito, ma la presa di coscienza del problema determinò la riapertura di un “dialogo” tra le Corti e un clima generale di maggiore conciliazione, del quale furono espressione, la composizione, nel codice del processo amministrativo, della vexata questio della cd pregiudiziale di annullamento dell’azione di risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi, la delimitazione, nel 2014, dei poteri del giudice amministrativo di intervenire in sede di ottemperanza sugli atti del CSM e, nel 2017, la sottoscrizione, da parte dei vertici delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e contabile, dello storico Memorandum, che prevedeva, tra l’altro, anche con l’idea di poter operare a Costituzione invariata, “forme di integrazione degli organi collegiali di vertice con funzioni specificamente nomofilattiche”, ivi comprese “quelle attinenti alla giurisdizione”. L’idea è stata ripresa e sviluppata, come altre del Memorandum, nel ddl AC-649, presentato dall’On. Bartolozzi e da altri deputati, recante “Delega al Governo per l’istituzione del Tribunale superiore dei conflitti presso la Corte di cassazione”, che prevedeva, appunto, che tale Tribunale fosse costituito mediante l’integrazione delle Sezioni Unite con giudici amministrativi e contabili. Attualmente il progetto è fermo, anche perché difficilmente attuabile senza una riforma costituzionale, ma non è affatto escluso che l’avvio della riforma costituzionale sull’Alta Corte non lo veda legarvisi. E ne è conferma il titolo della Tavola rotonda che ha originato il richiamato studio di Marco Lipari, svoltasi il 29 novembre scorso nella sede del Consiglio di Stato, sotto la presidenza di Giancarlo Coraggio, in occasione della presentazione del Corso A.C. Jemolo per aspiranti magistrati e avvocati: Un nuovo statuto comune per i giudici. Maturi i tempi per l’Alta Corte disciplinare e dei conflitti?
Mi è sembrato per tale ragione opportuno fare questa breve premessa ricostruttiva delle precedenti ipotesi di modifica del sistema e del tema, di fondo, che in esse aleggia, del delicato equilibrio del dualismo giurisdizionale.
Per tornare, comunque, alle domande specificamente rivoltemi, non mi sentirei di dire che la proposta di affidamento all’Alta Corte di una competenza generale su tutti i provvedimenti degli organi di autogoverno delle magistrature riguardanti i magistrati sia totalmente avulsa dalla finalità di superare la crisi della magistratura indicata nel preambolo del progetto riformatore. Sappiamo, infatti, che, per quanto il suddetto preambolo faccia riferimento ai recenti fatti di cronaca connessi al cd scandalo Palamara, le criticità non riguardano soltanto la magistratura ordinaria e il problema dell’indipendenza della magistratura amministrativa è, a sua volta, frequentemente oggetto di dibattito, con riferimento ai rischi di condizionamento che le sue decisioni potrebbero subire per effetto del suo istituzionale rapporto con il Governo e, in senso opposto, delle pressioni derivanti dalla ciclica, deprecabile, tendenza della politica e della stampa a rappresentare alcune sue decisioni caducatorie o soprassessorie come un potenziale ostacolo alla ripresa dell’economia. Vengono inoltre sollevati rilievi su alcune tematiche più particolari, come quella delle autorizzazioni all’esercizio di attività extraistituzionali, che sembrano seguire criteri meno rigidi di quelli applicati ai magistrati ordinari. Nello stesso preambolo della proposta, del resto, si chiarisce che “La necessità di interventi di riforma sul funzionamento delle istituzioni di autogoverno ha la sua ragion d’essere indipendentemente dalla crisi che sta attraversando attualmente la magistratura”. Ed è evidente che, in un momento in cui viene posta in discussione, sotto diversi profili, l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, e si ridiscute della composizione del CSM, una riforma più generale del sistema di impugnazione delle decisioni riguardanti i magistrati rese dai rispettivi organi di autogoverno possa offrire, qualora si riuscisse davvero a trovare un valido punto di equilibrio, un contributo utile al percorso che dovrebbe rafforzare il prestigio della magistratura e accrescere la fiducia dei cittadini e delle imprese nel corretto e imparziale esercizio del potere giurisdizionale.
Il Forum European House - Ambrosetti, in un articolato studio presentato lo scorso all Convegno annuale di Cernobbio, ha approfondito l’ipotesi di un’Alta Corte disciplinare con competenza esclusiva e generale sulla responsabilità dei magistrati, segnalando che una delle cause principali della scarsa funzionalità degli attuali sistemi repressivi dei comportamenti illeciti dei magistrati deriva dalla circostanza che i giudizi di responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari sono affidati ai loro organi di autogoverno (composti da membri elettivi e di nomina politica) e, in sede di impugnazione, agli stessi plessi giurisdizionali cui appartiene il magistrato incolpato, il che può indurre l’opinione pubblica a pensare a una loro difficoltà a sanzionare i propri colleghi. Tale mancanza di terzietà è considerata come un fattore che mina gravemente la credibilità complessiva del sistema giurisdizionale e la fiducia dei cittadini. Il problema vale sicuramente, e a maggior ragione, per il sistema di responsabilità disciplinare dei giudici amministrativi, che, come noto, sono una comunità più ristretta e hanno assai maggiori occasioni di collaborazione, anche extra-giurisdizionale, di quanta ne abbiano i magistrati ordinari. Diversamente dagli altri giudici, poi, per il giudice amministrativo il problema della terzietà si pone anche per il giudizio sugli altri provvedimenti del suo organo di autogoverno e, per quanto sopra detto, potrebbe essere -per quanto strumentalmente- prospettato, in alcuni momenti di particolare tensione con le Sezioni Unite, anche per quello sugli atti del CSM.
La riforma avrebbe, inoltre, l’effetto di riconoscere rango costituzionale a tutti gli organismi di autogoverno dei magistrati, così confermando e rafforzando, indirettamente, il ruolo delle magistrature diverse da quella ordinaria. In quest’ottica, non vedo particolari problemi all’assimilazione, con norma costituzionale, dei diversi organismi.
3. La creazione di un organo giurisdizionale che erode tanto la giurisdizione del giudice ordinario che quella del giudice amministrativo non rischia di delegittimarne la funzione di garanzia e di complicare il sistema di tutela giurisdizionale fondato non solo sulla distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi, ma anche sulle modalità di tutela offerte dai diversi plessi giurisdizionali, lasciando prefigurare difficoltà non marginali all’atto della definizione delle regole che dovrà avere il processo innanzi all’Alta Corte?
Alla luce delle precedenti considerazioni, non credo che la creazione di un nuovo “giudice unico” delle impugnazioni dei provvedimenti riguardanti i magistrati assunti dai rispettivi organi di autogoverno possa essere intesa come una delegittimazione del giudice amministrativo, e tantomeno di quello ordinario, che non ha, allo stato, una competenza generale in materia e “soffre” quella del giudice amministrativo sui trasferimenti e sui conferimenti degli incarichi direttivi. Come già detto in risposta alla domanda precedente, e come avevo peraltro già rimarcato in diverse occasioni, al contrario, è proprio l’attribuzione al giudice amministrativo (anche) della competenza sui ricorsi avverso gli atti del CPGA -che inoltre, a differenza del CSM, è presieduto dal suo organo di vertice- che rischia di indebolirne la posizione, offrendo il fianco a dubbi sull’autonomia e indipendenza, oltre che sulla terzietà, delle relative decisioni: problema tanto più serio quando il ricorso abbia ad oggetto provvedimenti riguardanti i magistrati. È vero che si potrebbe, in alternativa, pensare di affidare, in termini di reciprocità, al giudice ordinario la competenza su tali atti, ma, considerando anche le fisiologiche -e sane- conflittualità tra i due plessi giurisdizionali in punto di confini delle rispettive giurisdizioni, tale soluzione rischierebbe di dare adito a ulteriori polemiche e, di nuovo, le decisioni rispettivamente assunte dalle due magistrature sugli atti dei reciproci organi di autogoverno potrebbero essere “sospettate” di essere frutto di indebiti condizionamenti. Vi sarebbe, inoltre, allora sì, il problema delle differenze sulle modalità di tutela delle posizioni soggettive rispettivamente valutate.
L’importanza della percezione di “terzietà” del giudice anche e proprio in ambito disciplinare esclude a mio avviso ogni rischio che la riforma abbia un effetto delegittimante degli organi giurisdizionali attualmente chiamati a giudicare dei provvedimenti disciplinari, gli unici sui quali vi sarebbe una riduzione delle competenze dei giudici ordinari.
4. Quali punti di contatto e quali differenze, a suo giudizio, si possono cogliere, oltre all’idea di modificare l’impianto costituzionale che è propria della proposta di revisione costituzionale Rossomando, rispetto al disegno di legge del 22 maggio 2018 presentato alla Camera dei deputati (n. 649, prima firmataria on. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l'istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”?
Al di là della comune istituzione di un giudice a composizione mista, la proposta si differenzia sensibilmente da quella che, nel 2018, prevedeva l’istituzione, presso la Corte di Cassazione, di un Tribunale Superiore dei conflitti per la soluzione delle questioni di giurisdizione. Al di là del fatto, già da voi segnalato, che pretendeva di operare a Costituzione invariata, quella proposta puntava a una modifica radicale del sistema costituzionale, devolvendo la risoluzione di tutte le questioni di giurisdizione a un organo giurisdizionale totalmente nuovo, composto da dodici membri - di cui sei magistrati della Corte di Cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti, scelti dai rispettivi organi di autogoverno - chiamati a esercitare le relative funzioni in via esclusiva, con la presidenza attribuita a turno ai magistrati dei tre ordini, con rotazione annuale. Ricordo che la proposta lo definiva come “organo giurisdizionale supremo per la risoluzione delle questioni di giurisdizione insorte nei giudizi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e dei giudici speciali”, con attribuzione in via esclusiva della “cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione”.
La differenza è quindi evidente. In quel caso si smantellava totalmente l’assetto che riserva alla Corte di Cassazione, come vertice del sistema, la funzione di garantire il rispetto della legge nella tutela dei diritti, ivi compreso quello all’osservanza dei limiti -esterni e interni- della giurisdizione.
Quella proposta è giustamente arenata. E non credo soltanto perché non era concepita come riforma costituzionale. Intervenire in modo così radicale sul sistema potrebbe incidere anche sul già delicato equilibrio del nostro modello dualista.
Non mi sembra del resto che vi siano eccessivi e insanabili conflitti sui limiti esterni, ormai essenzialmente riconducibili ai cd diritti incomprimibili (sui quali peraltro il contrasto è piuttosto tra Sezioni Unite e Corte costituzionale). Ricordo che, a tale proposito, già in un incontro conclusivo di un corso di formazione dei magistrati amministrativi tenutosi al TAR Lazio nel marzo 2017, si era parlato della possibilità di prevedere, a Costituzione invariata, che le controversie sugli atti amministrativi incidenti su tali diritti fossero affidate in ultimo grado a collegi speciali della Corte di cassazione integrati da uno o più consiglieri di Stato. Un’ipotesi, tesa ad assicurare un’omogeneità della nomofilachia su tali diritti fondamentali, poi ripresa e allargata nel Memorandum del successivo 15 maggio, ma evidentemente ben diversa da quella del Tribunale misto dei conflitti delineata nella proposta del 2018.
Nonostante quanto si potrebbe pensare all’esito del recente dibattito sulla riconducibilità ai motivi inerenti alla giurisdizione delle censure sulla abnorme violazione del diritto europeo, non credo poi che, vista anche la grande -e come ho già scritto, a mio avviso talvolta eccessiva- prudenza con la quale le Sezioni Unite hanno utilizzato e stanno continuando a utilizzare lo strumento cassatorio delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per violazione dei limiti interni delle rispettive giurisdizioni, vi siano neppure sotto questo profilo ragioni idonee a giustificare la riforma di un sistema che, sia pure, come detto, vedendolo esercitare con massima prudenza, consente un sindacato finale “esterno” sui confini del potere giurisdizionale dei giudici amministrativi e contabili.
In ogni caso, come ho avuto già modo di osservare in varie occasioni, non vedo come i giudizi di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (per violazione dei limiti esterni o interni alle rispettive giurisdizioni) possano essere affidati a un organo che abbia tra i suoi componenti, sia pure per operarvi in via esclusiva, anche magistrati ancora appartenenti agli stessi plessi giurisdizionali.
Si tratta comunque, come è agevole osservare, di temi e questioni affatto diversi da quelli che investono la proposta Rossomando sull’istituzione dell’Alta Corte. Credo quindi che, almeno in questa sede, possiamo lasciare da parte il tema.
Un’altra importante differenza tra le due proposte è data dalla composizione dell’organismo. Il vero problema della nuova proposta -e di qualsiasi proposta che cerchi di risolvere il problema che ci siamo posti in apertura- è indubitabilmente quello della composizione dell’Alta Corte.
5. La proposta di legge Rossomando non rischia di limitare la funzione suprema riservata alla Corte di Cassazione quale organo giurisdizionale indipendente dal potere politico e chiamato a garantire l’uniforme interpretazione del diritto?
È una questione estremamente delicata. Non si può invero negare che l’affidamento del potere di giudicare sugli importanti provvedimenti riguardanti i magistrati assunti dai loro rispettivi organismi di autogoverno a un organo composto per un terzo da membri nominati dal Parlamento rischi -o possa quantomeno dare l’apparenza- di minarne l’indipendenza. Si riprodurrebbero, e -stante la temporaneità dell’incarico- si aggraverebbero (come si aggravano per i consiglieri laici del Consiglio di giustizia amministrativa della regione siciliana) i problemi creati dalla nomina governativa di una parte cospicua dei Consiglieri di Stato e di quelli della Corte dei conti.
6. Secondo quanto si legge nell’articolato è previsto un doppio grado di impugnazione- Non è anomalo che la prima fase di impugnazione sia affidata a un collegio composto da tre componenti quando sono cinque i componenti della sezione disciplinare del Csm?
In effetti, anche nella giustizia amministrativa il collegio del giudice di appello ha un numero di componenti superiore a quello di primo grado. Non mi pare, però che sia un principio generale inderogabile. Verosimilmente, i proponenti avranno pensato a una “prima impugnazione” di un atto di un organo para giurisdizionale e, conseguentemente, alla normale composizione dei collegi dei Tribunali amministrativi regionali giudicanti sugli atti amministrativi. De iure condendo, potrebbe comunque essere l’occasione per chiarire se e quale sia il principio vigente.
7. Una questione interessante, che peraltro rileva in termini di efficienza dell’azione dell’organo che si intende istituire, è quella connessa alla specializzazione, come è noto più un organo è specializzato, più esso è efficiente, rapido e prevedibile. Secondo la proposta l’Alta Corte avrebbe il compito di sindacare i provvedimenti disciplinari emessi dai rispettivi organi di autogoverno nei confronti di magistrati amministrativi, contabili, militari e tributari ovvero di magistrati assoggettati a differenti ordinamenti disciplinari. Qual è l’utilità di istituire un organo unico?
La proposta prevede che ci sia una riconduzione ad unità delle disposizioni disciplinari, estendendo a tutti i magistrati quelle relative alla magistratura ordinaria. Credo che questo possa superare in radice il problema. Uno dei vantaggi della concentrazione delle controversie disciplinari in capo a un unico giudice mi sembra anzi proprio quello di uniformare -o quantomeno omogeneizzare- lo statuto disciplinare dei magistrati appartenenti ai diversi plessi giurisdizionali e le relative modalità di tutela. Potrebbe essere anzi un’importante occasione per una necessaria revisione legislativa del sistema, che riduca gli spazi di discrezionalità degli organi di autogoverno, ridefinendo in modo chiaro, uniforme e obiettivo il codice deontologico del magistrato.
8. Il recente annullamento delle delibera di nomina del Primo presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Presidente aggiunto, ha posto in luce la contraddittorietà di un sistema che consente di porre sub iudice provvedimenti che sono estrinsecazione di poteri rimessi in via esclusiva, secondo previsione costituzionale - art. 105 Cost.-, al Consiglio superiore della magistratura. La questione, come è noto, fu molto discussa nei primi anni ’50 e, alla fine risolta, dall’art. 17 legge n. 195/58, ma è innegabile che la tutela giurisdizionale per le violazioni della normativa in materia di ordinamento giudiziario rimane un problema particolarmente delicato e complesso, in quanto tocca principi costituzionali fondamentali (la tutela dei diritti ed interessi legittimi riconosciuta come diritto inviolabile di ogni cittadino – magistrati compresi – dall'art. 24 Cost.) e le fondamenta stesse dell'ordinamento repubblicano (il principio di separazione dei pubblici poteri e della soggezione del giudice soltanto alla legge – artt. 101 e 104 Cost.).
9. L’istituzione dell’Alta Corte potrebbe risolvere, o spostare, il punto della questione o permarrebbero immutate le criticità evidenziate in ragione dell’esclusività – per Costituzione- dei poteri Consiliari in materia di nomine, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati?
Non è pensabile, nel 2022, escludere la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, anche -e mi permetto di dire, soprattutto- nei confronti dei propri organi di autogoverno. Esprimendo il proprio apprezzamento per le sentenze con le quali, nel 1962, il Consiglio di Stato aveva affermato l’impugnabilità degli atti del CSM riguardanti lo status dei magistrati, Aldo Mazzini Sandulli, concludeva affermando con nettezza: “Che un giudice degli atti del Consiglio superiore debba esservi, e che non contrasti con la Costituzione che vi sia, è dunque fuori discussione. L'averlo fermamente e solennemente proclamato è indubbio merito di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha nella decisione rassegna [28 novembre 1962, n. 752, la quarta di una serie] la sua più recente espressione”.
È utile a tale proposito ricordare che, come ben rimarcato in uno scritto di Raffaele Greco pubblicato nel 2010 su questa Rivista, “anche nelle controversie concernenti i provvedimenti del CSM, gli interessi in gioco sono molteplici: ovviamente, non solo l’interesse individuale dei singoli magistrati interessati, ma anche interessi pubblici non riassumibili esclusivamente nell’esigenza di salvaguardare l’autonomia e l’imparzialità dell’ordine giudiziario, come il generale interesse della collettività al corretto ed efficiente funzionamento della giustizia, che è espressione del più generale valore costituzionale di buon andamento della p.a. e che passa anche attraverso la garanzia della trasparenza e dell’imparzialità delle decisioni riguardanti i magistrati anche sul piano organizzativo e ordinamentale”.
Il problema delle criticità della riserva al CSM della competenza in materia di nomine, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati ordinari si sposta quindi sull’indipendenza dell’organo chiamato a sindacarli e -necessariamente- sull’effettività di tale sindacato. Deve trattarsi però di organi giurisdizionali, che diano garanzie di imparzialità e di indipendenza anche nella loro composizione. E il discorso vale evidentemente per tutte le magistrature. Da ciò l’evidente difficoltà di trovare un punto di equilibrio tra garanzia della necessaria “distanza” tra giudice e giudicato (terzietà) e garanzia dell’autonomia del giudice dagli altri poteri (indipendenza). Se, invero, la prima -che poi è il dichiarato obiettivo della riforma- può apparire più difficile da raggiungere quando le comunità sono ristrette e i loro esponenti sono parte -più o meno rilevante- dell’organismo e del collegio, la seconda non è facilmente conciliabile con la nomina politica.
Non mi convince quindi, né la previsione della nomina “a tempo” dei magistrati, né quella della nomina di un terzo dei componenti da parte del Parlamento in seduta comune. Meglio sarebbe forse pensare a una quota di 2/3 per la componente togata, scelta tra i più alti magistrati già collocati a riposo (ciò che avrebbe peraltro il vantaggio di non ridurre una risorsa già scarsa), con la partecipazione al collegio giudicante di primo grado di almeno due giudici, uno dei quali proveniente dalla magistratura ordinaria e l’altro da quella del magistrato interessato (o, per le controversie riguardanti magistrati ordinari, dalla magistratura amministrativa). E, per il residuo terzo, lasciare la previsione della nomina da parte del Presidente della Repubblica, ma all’interno di una rosa di nomi di esponenti del mondo forense da individuare con criteri da meglio specificare.
10. Si prevede che l’Alta Corte sia composta da quindici giudici, nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative. Con riferimento alle peculiarità della magistratura ordinaria e di quella amministrativa la previsione di un terzo, composto promiscuamente da magistrati ordinari e amministrativi, è idoneo a garantire i principi di autonomia?
Credo di poter rinviare a quanto già osservato in risposta alla domanda precedente, aggiungendo che nelle regole di composizione della quota “togata” si dovrebbe trovare un giusto equilibrio tra l’indubbia esigenza di tenere conto della forte differenza numerica tra gli appartenenti alle varie magistrature e quella di evitare facili maggioranze precostituite per i giudizi sui magistrati ordinari.
Noto piuttosto con sorpresa che la proposta non fa alcun riferimento al tipo di sindacato e, conseguentemente, ai poteri istruttori e decisori del giudice.
11. Non ci sono criticità, secondo lei, con riferimento alla previsione che magistrati possano essere eletti dal Parlamento, come componenti dell’Alta Corte? Ciò, ad esempio, non potrebbe sollecitare, determinare o far apparire che esistano contatti, non trasparenti, tra magistrati e politica ovvero non potrebbe fa pensare a possibili opacità analoghe a quelle emerse dall’Hotel Champagne, ossia le stesse opacità che incrinano la fiducia dei cittadini e che la legge stessa intende combattere?
Credo di poter rinviare a quanto risposto con riferimento alle domande precedenti: in particolare alla domanda 5.
12. Quale la ragione e il senso del sorteggio tra i due magistrati eletti dal Parlamento?
Immagino che, ipotizzandosi una “lottizzazione” delle nomine, il sorteggio possa avere il fine di cercare di ridurre il possibile condizionamento politico.
13. Attraverso quali percorsi l’Alta corte dovrebbe riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini-magistrati e restituire prestigio alla magistratura?
L’ultima domanda è la più complessa e tira giustamente le fila del discorso. Cosa dovrebbe fare l’Alta Corte per accrescere il prestigio della magistratura. A me sembra utopistico e comunque estremamente difficile che, al di là dell’apparenza, che comunque è un primo passo, possa davvero fare qualcosa. Non dimentichiamo che sarebbe solo un organo di controllo giurisdizionale, le cui decisioni, peraltro, potrebbero confermare alcune criticità dei sistemi di autogoverno. Il percorso per riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini-magistrati e restituire prestigio alla magistratura dovrebbe quindi piuttosto passare per l’adozione e la corretta applicazione di regole di comportamento che “tranquillizzino” i primi sulla serietà d’impegno e sull’effettiva indipendenza dei loro giudici.
Desmond Tutu e l’esperienza della Commissione Sudafricana per la verità e la riconciliazione
di Andrea Lollini*
La morte dell’Arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu il 26 dicembre 2021, costituisce occasione imprescindibile per riparlare di una delle esperienze di “giustizia” più significative, innovative e controverse della contemporaneità: la Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission - TRC).
La TRC, istituita nel 1995 durante la transizione democratica post-apartheid in Sudafrica, aveva molteplici obbiettivi: far luce sui crimini dell’era segregazionista, ricostruire le responsabilità delle atrocità dando dignità alle vittime, facilitare la riconciliazione nazionale, produrre i presupposti per una nuova memoria collettiva. La Commissione - pertanto – era progettata per operare su tre delicati registi nelle scienze giuridico-processuali: giustizia, verità e memoria.
La scomparsa di Desmond Tutu chiude simbolicamente un’era che, dalla caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, conduce all’oggi pandemico e nuovamente bellico foriero di rinnovate profonde frammentazioni sociali spinte da sovranismo, populismo e anti-scientismo. L’era in questione si estende lungo più di tre decenni caratterizzati da conflitti polarizzati attorno a metafore religiose, collassi finanziari prodotti da contraddizioni economiche irrisolte, compagne belliche di democratizzazione forzata fallimentari, riconfigurazione degli attori di potere globali. In questo quadro, Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace nel 1984, e con lui Nelson Mandela, primo storico Presidente democratico del Sudafrica post-apartheid, hanno costituito voci d’impatto incommensurabile, in controtendenza, quasi anacronistiche rispetto allo svilupparsi dei dibattiti e degli eventi. Tutu e Mandela, ingegneri della TRC e artefici della transizione post-segregazionista sudafricana[1], erano portatori di messaggi rivoluzionari, oggi come all’ora: costruire pervicacemente il dialogo con il “nemico”, preservare l’unità collettiva in luogo della mera vittoria di fazione, scommettere su forza e capacità redentive individuali e collettive. In un’epoca, la nostra attuale, pervasa da violenza oppositiva molecolare e digitalizzata, così come da nuova contrapposizione di potenza, le voci e le azioni di Tutu e Mandela sono un Dharma politico tanto prezioso quanto malauguratamente disatteso.
Ecco dunque l’occasione per riparlare di uno dei lasciti concreti di Tutu e Mandela: la Commissione per la verità e la riconciliazione. Osteggiata, violentemente criticata, analiticamente decostruita, ammirata, la TRC ha costituito una sperimentazione giudiziaria unica in cui la declinazione restaurativa dell’idea di giustizia ha prevalso su quella strettamente retributiva.
La creazione della TRC coincide con il perfezionarsi del processo di redazione della nuova Costituzione democratica del Sudafrica post-apartheid nel 1996. La Commissione, infatti, apre i battenti ufficialmente nel 1995 sulla scorta del National Unity and Reconciliation Act approvato dal Parlamento transitorio in quello stesso anno, ed è naturale strumento di complemento dell’opera costituente.[2] La Costituzione democratica è stata codificata pezzo a pezzo, passo a passo, in un arco di tempo dilatato rispetto alla configurazione storica dei processi costituenti contemporanei che si aprono e chiudono nel quadro di un’Assemblea Costituente. Il Sudafrica post-segregazionista, invece, ha avuto una strada assai più impervia che ha legittimato quindi strade innovative e irrituali. Il paese, all’indomani del rilascio di Mandela dopo ventisette anni di detenzione politica e con l’uscita dei movimenti politici dall’illegalità segregazionista che diventano veri e propri partiti come l’African National Congress (ANC) o l’Inkatha Freedom Party (IFP), esplode nella violenza. La polarizzazione segue la traiettoria razziale tra popolazione nera e bianca, ma dilaga anche orizzontalmente nel fenomeno della black on black violence. Mandela guida l’esecutivo, dopo la vittoria schiacciante alle prime elezioni libere e democratiche del 1994. Cyril Ramaphosa, attuale presidente del Sudafrica, guida le negoziazioni costituzionali per conto dell’ANC. Tutu, autorità morale e civile senza eguali, spende energie inusuali per la pacificazione. Sul tavolo storico del Sudafrica si negozia il DNA della nuova Repubblica multirazziale e multiculturale in cui uno dei nodi centrali è la giustizia per i crimini del passato. Se il mondo attende una “Norimberga” africana, Mandela, Tutu e molti leader dell’ANC cresciuti quanto il movimento era animato dai principi Ghandiani di disobbedienza pacifica, disegnano una traiettoria costituente inattesa fatta di dialogo, costruzione di unità del corpo politico multirazziale, rinuncia alle pulsioni di vendetta. Tuttavia, sono fermi sulla necessità di consegnare alla nuova società sudafricana in transizione la verità sui crimini passato.
La natura dei negoziati tra movimenti di liberazione e componenti politiche dei poteri segregazionisti che avevano accettato l’ineluttabilità della transizione sono dominati da due variabili: contenere la violenza perseguendo la riconfigurazione democratica; negoziare pragmaticamente posizioni radicalmente divergenti. La cessione storica del potere bianco non poteva infatti prodursi se non considerando un obbiettivo primario per il National Party, il partito bianco di Frederick W. De Klerk[3]: difendersi dal rischio di processi e responsabilità penale per il passato.
Lo Zeitgeist internazionale della metà degli anni 90’ del secolo scorso offre condizioni uniche per la sperimentazione sudafricana. La fine della Guerra Fredda ha innescato una catena di riconfigurazioni geopolitiche in America Latina, Asia, Africa ed Europa Centro-Orientale. Innumerevoli paesi si liberano dai regimi autocratici dell’era precedente e si avviano faticosamente verso nuove speranze democratiche. Il problema dei conti con il passato è questione scottante ogni dove. La natura largamente negoziata delle transizioni post-89 pone quindi un nodo centrale: punire le violazioni dei diritti fondamentali del passato preservando al contempo il trasferimento del potere da vecchi apparati autoritari ai nuovi attori politici.
Se la comunità internazionale delle Nazioni Unite, a partire dai primi anni 90’, sceglie la dogmatica del processo e della giustizia penale per i crimini internazionali disegnando i due Tribunali internazionali ad hoc per la ex-Jugoslavia e il Ruanda e successivamente nel 1998 la Corte Penale Internazionale, i singoli paesi optano largamente per soluzioni di giustizia restaurativa. La configurazione delle transizioni politiche in atto riduce infatti le opzioni di giustizia sul tavolo. Nascono così i Truth and Reconciliation Models (Transitional Justice). Argentina, Cile, El-Salvador, Guatemala, Brasile e molteplici altri paesi istituiscono Commissioni per la verità. Con procedure e competenze differenti, questi organismi sono volti prevalentemente alla raccolta di informazioni sui crimini dei regimi pregressi, offrendo al contempo assise pubbliche di discussione mnemonica del passato. In questo contesto, la TRC sudafricana si spinge assai più lontano, prevedendo l’innovativo e controverso meccanismo di amnistie condizionate. La natura della TRC disegnata da Mandela, Tutu e dall’establishment dell’ANC non può essere capita al di fuori di questo contesto.[4]
La TRC, presieduta appunto dall’allora Arcivescovo di Cape Town Desmond Tutu, viene suddivisa in tre organismi distinti che operano in maniera coordinata: 1) lo Human Rights Violation Committee; 1) l’Amnesty Committee; 3) il Reparation and Rehabilitation Committee. Il Primo ha il compito di ascoltare pubblicamente le vittime dell’apartheid allo scopo di raccogliere informazioni sui crimini e di innescare un national healing process dando parola e dignità alle stesse. Come risultato, la TRC fu in grado di pubblicare ufficialmente i sei volumi del famoso Final Report sotto la guida di Tutu che ne organizza la regia editoriale. Il Rapporto, sistematizzando le dichiarazioni di migliaia di vittime sentite pubblicamente nel corso di centinaia di udienze, escussioni testimoniali e ricerche da parte delle unità d’inchiesta della TRC, ha la vocazione di ridirigere il corso del processo di creazione di una nuova memoria ufficiale del Sudafrica.[5] L’obbiettivo primario è quello di disinnescare ambiguità storico-mnemoniche. È da considerare, come variabile ulteriore, come negli stessi anni si stia assistendo in Europa, all’inquietante rapido sviluppo del fenomeno del negazionismo dell’Olocausto.[6]
Se il Reparation and Rehabilitation Committee avrebbe successivamente dovuto quantificare ed implementare le riparazioni per le vittime dell’apartheid, il Comitato per l’Amnistia divenne immediatamente il vero centro focale della TRC a causa della controversa competenza di cui era dotato: amministrare il meccanismo di amnistia condizionata che sostanzia il passaggio della TRC da sistema di giustizia strettamente retributiva a quello di giustizia restaurativa.
La procedura era quindi la seguente: con la Costituzione sudafricana transitoria negoziata nel 1993, il nuovo Sudafrica democratico aveva deciso di sospendere per un periodo limitato l’esercizio dell’azione penale ordinaria per una serie di crimini efferati strettamente commessi con finalità politiche nell’arco dei quasi cinque decenni del regime segregazionista. Chiunque si fosse reso responsabile di tali crimini aveva a disposizione una dead-line per auto-dichiararsi responsabile di crimini oggetto della competenza, aprire una procedura a proprio carico innanzi al Comitato di Amnistia e richiedere formalmente l’amnistia. Il meccanismo era quindi caratterizzato da procedura ad istanza di parte che valutava la volontà dei singoli di compartecipare al processo di democratizzazione. I casi vennero trattati de plano con procedure meramente burocratiche, oppure escussi pubblicamente in specifiche udienze (Amnesty Hearings). Nel corso delle stesse, i membri del Comitato rappresentando lo Stato, amministrarono il contradditorio con le vittime contro deducendo gli elementi fattuali disponibili al fine di testare la veridicità delle affermazioni. L’amnistia aveva quindi condizioni imprescindibili temporali e sostanziali. Aver commesso i crimini previsti dalle fattispecie di legge con finalità strettamente politiche e nell’arco temporale disegnato; rivelare pubblicamente ogni dettaglio relativo ai comportamenti criminosi commessi (full disclosure of all relevant facts). I fatti amnistiabili dovevano essere imprescindibilmente connessi al quadro di violenza politica interna relativo all’Apartheid. L’amnistia non aveva quindi carattere di automaticità. Il Comitato era libero di riconoscere o rifiutare il provvedimento al termine delle udienze una volta verificati la sussistenza dei presupposti. Lo Stato avrebbe successivamente riattivato l’esercizio dell’azione penale ordinaria per i crimini del passato verso coloro che avevano deciso di non richiedere amnistia o per coloro a cui era stata rifiutata. Unica condizione per questi ultimi era che le informazioni rivelate o acquisite in sede di TRC non potevano essere automaticamente trasferite ed utilizzate in sede di successivo processo ordinario. In questa prospettiva, la TRC ha attuato una sospensione temporanea dell’esercizio dall’azione penale per azioni di rilevanza politica a cui viene sostituito un meccanismo articolato di cancellazione degli effetti penali a seguito di self-accusation.
La TRC ha sollevato opinioni polarizzate e discussioni senza precedenti protrattesi per anni. Sotto il profilo dell’efficacia, il Comitato di Amnistia raccolse migliaia di richieste di amnistia esercitando rigorosamente la competenza e rifiutando il provvedimento nei casi in cui i requisiti non sussistevano.[7] Tra più di 7000 richieste di amnistia ufficialmente depositate, circa 1.100 sono state formalmente concesse dal Comitato prima della sua formale conclusione nel 2003. I documenti resi pubblici dalla TRC hanno consentito dettagliate disamine e profonde discussioni. La coda di procedure post-2003 e l’articolazione della connessione con l’azione successiva della magistratura ordinaria ha senza dubbio mostrato aspetti altamente problematici e controversi. Tuttavia, va notato l’enorme sforzo operato dalla TRC durante l’amnesty process che doveva addizionalmente armonizzare le porzioni del lungo processo cominciato nella caotica fase transitoria sotto la scure della violenza politica. Nelle fasi iniziali della transizione, infatti, le autorità avevano già approvato almeno due disposizioni che disegnavano immunità penali di varia natura, creando ampie zone di incertezza. Il Comitato di Amnistia, quindi, ha operato su larga scala seguendo una logica precisa: non caricare la magistratura ordinaria con una mole di processi senza precedenti, coordinare l’intera azione di dealing with the past sincronizzando gli Indemnity Acts precedenti, non polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica lungo copiosi e interminabili potenziali processi penali su fatti drammatici che avrebbero inevitabilmente incendiato gli animi se trattati secondo i rituali del processo accusatorio. La soluzione elaborata in Sudafrica fu tecnicamente e concettualmente senza precedenti. Nella sostanza la TRC ribaltava la meccanica fondamentale del processo penale. Incentivando la self-accusation aveva l’obbiettivo di disinnescare la logica accusatoria evitando il conflitto su fatti, verità e la colpevolezza.
Tra detrattori e apologeti la TRC ha indubbiamente segnato un’epoca di discussioni sul significato di giustizia e verità attivando dinamiche processuali del tutto innovative. A lungo gli specialisti internazionali si sono contrapposti circa possibilità e opportunità di esportazione del modello. Ad oggi la TRC continua a costituire un unicum. La soluzione di fasi transitorie post-conflitto e post-regime ha ricorsivamente fatto appello agli strumenti di amnistia, indulto o grazia. Le aule giudiziarie e gli strumenti del processo penale, settati sulla determinazione della responsabilità penale strettamente personale hanno sovente evidenziato limiti strutturali innanzi a processi storici di vaste proporzioni. Al contempo, tuttavia, nessuna sperimentazione successiva si è più spinta tanto lontano. Da un lato le transizioni post-Guerra Fredda hanno progressivamente esaurito la spinta e le esigenze, dall’altro la TRC è stata il frutto visionario di personalità quali Nelson Mandela e Desmond Tutu nel quadro di condizioni culturali di contesto difficili da riprodurre.
* Professore presso University of California Hastings College of Law e presso l’Università di Bologna.
[1] H. Ebrahim. (1998). The Soul of a Nation. Constitution Making in South Africa. London, Cape Town: Oxford University Press; T.R.H. Davenport. (2000). The Birth of a New South Africa. Toronto, Buffalo, London, University of Toronto Press.
[2] Lollini A. (2011). Constitutionalism and Transitional Justice in South Africa, Oxford-New York, Berghahn Books; Lollini (2005) A. Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione. Bologna, Il Mulino.
[3] Scomparso l’11 novembre 2021.
[4] H. Adam and K. Moodley. (1993). The Negotiated Revolution: Society and Politics in Post-apartheid South Africa. Johannesburg: Jonathan Ball; J. Cameron- Dow. (1994). The Miracle of a Freed Nation (South Africa 1990-1994). Cape Town: Don Nelson; S. Friedman and D. Atkinson (eds). (1994). The Small Miracle. South Africa’s Negotiated Settlement. Johannesburg: Ravan Press; A. Sparks. (1994). Tomorrow Is Another Country. The Inside Story of South Africa’s Road to Change. Chicago: University of Chicago Press.
[5] TRC Final Report. 2003. London: MacMillan
[6] E. Fronza, Il negazionismo come reato. Milano: Giuffrè, 2012.
[7] J. Sarkin. 2004. Carrots and Sticks: The TRC and the South African Amnesty Process. Antwerp: Intersentia; A. du Bois-Pedain. 2007. Transitional Amnesty in South Africa. Oxford: Oxford University Press.
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