ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’aborto, il diritto ed il vento della “bozza Alito” della Supreme Court sul piano interno
Editoriale
Giustizia Insieme ha deciso di aprire una riflessione plurale a margine della pubblicazione non autorizzata della bozza di decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che, qualche mese fa, è stata resa pubblica senza autorizzazione.
La c.d. bozza Alito - dal nome del giudice che ha redatto l’opinione - dalla quale sembrano emergere le linee portanti di quello che si preannunzia come un inaspettato revirement giurisprudenziale rispetto ai precedenti della stessa Corte che avevano riconosciuto il fondamento costituzionale del diritto all’aborto e la carenza di potere legislativo rispetto ad ipotesi di divieto di praticare l’aborto, al netto delle polemiche che ha suscitato e suscita negli Stati Uniti per la fuga di notizie, offre l’occasione, assai importante, di tornare su un tema tradizionalmente divisivo anche sul versante interno, pur caratterizzato da un diritto scritto e vivente ben consolidato.
I piani di riflessione da affrontare sembrano essere molteplici e plurali se si guarda al mondo degli operatori del diritto interno.
Per un verso sembra evidente l’interesse per il preannunciato grand arrêt che, riguardando un tema coinvolgente posizioni giuridiche di particolare valore quali i diritti del concepito e della donna ed il loro bilanciamento impone, già sul piano della comparazione, particolare attenzione.
Ed invero, l’attività di emersione dei diritti fondamentali ed il controllo di legalità in tal modo realizzato sono ormai alimentati dalla comparazione (intesa come strumento di ridefinizione semantica di istituti per effetto dell’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale) che, in apparenza non codificata, è desumibile dall’apertura della Costituzione – artt. 2, 3, 10, 11, 117, comma 1, Cost. – alle fonti sovranazionali. Tale cornice, in definitiva impone al giudice costituzionale il canone dell’interpretazione secondo tali fonti ma, a cascata, si ripercuote sull’interpretazione delle leggi che sono attuazione dei principi costituzionali da parte del giudice comune. D’altra parte, l’apertura al piano della comparazione data dallo stesso riferimento all’interpretazione sistematica contemplata dall’art. 12 disp. preleggi c.c. costituisce dato ineludibile tanto sul piano interno, per quanto detto, che su quello sovranazionale.
In definitiva, pochi dubitano ormai dell'efficacia e della rilevanza di siffatto metodo, soprattutto laddove si discuta di diritti fondamentali, capace di produrre un moto circolare fecondo quando la stessa traccia quasi inconsapevolmente una strada di comunanza di tutela dei diritti fondamentali.
Proprio sul piano interno e rispetto a temi eticamente sensibili la sentenza Englaro della Cassazione ha confermato come il ricorso al metodo comparatisitico costituisca in modo ormai stabile elemento indefettibile per applicare, interpretare, adattare o completare il diritto nazionale, specialmente quando quel diritto è obsoleto, poco chiaro, contraddittorio o addirittura carente.
Ora, la pronunzia della Corte Suprema anticipata dalla bozza Alito non potrà che inserirsi in questo circuito, pur provenendo da un’esperienza nella quale spesso la comparazione è stata fortemente osteggiata e senza che possa o debba comunque essere tralasciata la necessità di un uso accorto della comparazione, su tali questioni apparendo utile il rinvio alle riflessioni di Guido Calabresi sulle pagine di questa Rivista- cfr. Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, di R. Conti -
In questo contesto il prannunziato overruling giurisprudenziale della Corte Suprema rispetto ai precedenti che avevano codificato il diritto all’aborto come inserito nella Costituzione americana - cfr., in particolare, il caso Roe c. Wade e Planned Parenthood c. Casey - ma ancora più a monte come il tema del ruolo della giustizia costituzionale rispetto all’attività interpretativa della Costituzione ed al ruolo del decisore giudice rispetto ai compiti riservati al legislatore, costituzionale e non, costituiscono nodi gordiani ben presenti sul piano interno ed oggi messi al centro di analisi che segnano una contrapposizione, tanto latente quanto insanata, fra diversi sentire a proposito del ruolo e dela funzione della Costituzione, della giurisdizione, dell’interpretazione dei diritti fondamentali e della legittimità e legittimazione verso operazioni di bilanciamento.
A ragionare insieme su questi ed altri temi saranno la Professoressa Giovanna Razzano, ordinario di diritto costituzionale dell’Università La Sapienza di Roma - A proposito della bozza Alito, l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale, l’Avvocata del foro di Bologna Maria (Milli) Virgilio, pres. Assoc. GIUdiT-Giuriste d’Italia e la Professoressa Maria Rosaria Marella, ordinaria di diritto privato presso l’Università di Perugia.
Pubblichiamo di seguito il contributo della Professoressa Razzano.
Processo alla vittima: l’omicidio Pasolini
di Giovanni Landi
Sommario: 1. Confessione di un massacro - 2. Fra le baracche di Ostia - 3. La parola alla giustizia - 4. L’Appello e i complotti.
1. Confessione di un massacro
Un’auto contromano a folle velocità. Inizia con una doppia infrazione stradale la storia giudiziaria dell’omicidio Pasolini, un enigma che dura da quasi mezzo secolo. Una vicenda talmente simbolica da sembrare essa stessa un’opera: per la vittima, prima di tutto, intellettuale gigantesco e tormentato; per il presunto colpevole, archetipo umano ed estetico dei «ragazzi di vita», e quindi di un mondo che il poeta aveva disvelato e narrato come nessuno prima; per la collocazione temporale: il giorno dei Morti del 1975, centro esatto degli anni di piombo e del secondo Novecento; infine, per i risvolti processuali, i comprimari, le clamorose rivelazioni e le domande irrisolte.
La corsa illecita di quella macchina è breve. Vedendola sfrecciare sul lungomare Duilio di Ostia, all’1.30 di notte, una volante dei carabinieri la affianca e la blocca. Ma a scendere dal posto di guida non è il proprietario, bensì un diciassettenne di Guidonia di nome Pino Pelosi, tanti riccioli scuri e un viso da furbetto. Sulla fronte ha una piccola ferita, da lui attribuita alla brusca frenata. «L’ho rubata sulla Tiburtina», mente in commissariato. Una bugia che dura poche ore: i militari accertarono che l’Alfa Romeo GT è di Pier Paolo Pasolini, e alle 6.30 di quel 2 novembre 1975 il cadavere dello scrittore viene rinvenuto su una strada sterrata dell’Idroscalo di Ostia, con i segni chiari e visibili di un feroce massacro. È Ninetto Davoli a effettuare il riconoscimento. A tre metri di distanza giace un anello con una pietra rossa: sarà la pistola fumante per inchiodare Pelosi. Dopo l’arresto, infatti, il ragazzo aveva confidato agli agenti di aver perso un anello, pregandoli di cercarlo nella macchina. Quasi una firma dell’assassinio, o una clamorosa ingenuità. A quel punto, il giovane viene svegliato nella sua cella di Casal del Marmo e interrogato dal magistrato Luigi Tranfo. La sua confessione è immediata. Racconta di essere stato «abbordato» dal poeta in piazza dei Cinquecento, di fronte alla stazione Termini di Roma, intorno alle 22.30. Dopo una pausa in trattoria, dove Pelosi aveva consumato una cena tardiva, si erano fermati a un distributore di benzina e avevano proseguito per l’Idroscalo di Ostia, parcheggiando sotto la porta di un campetto di calcio rudimentale, a pochi metri da un nugolo di baracche abusive. Ventimila lire la ricompensa promessa. Al termine di un veloce rapporto orale, però, Pino era sceso dall’auto e la situazione era degenerata. Pasolini aveva preteso altre prestazioni, avvicinandosi al diciassettenne con un bastone: «“Ma che te sei impazzito”, gli dissi. Nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto, tanto che ne ho avuto proprio paura». Il ragazzo aveva tentato di scappare, ma era stato aggredito con il randello di legno, da cui la ferita alla fronte. Aveva provato a correre di nuovo, rimediando altri colpi «alla tempia e in varie parti del corpo». Quindi aveva raccolto da terra una tavola e l’aveva spaccata in testa all’aggressore, senza tuttavia riuscire a fermare la sua smania violenta. «Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ho trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei pezzi della tavola l’ho colpito di taglio più volte finché non l’ho sentito cadere a terra e rantolare». L’interrogato spiega poi di essere salito sull’Alfa Romeo per tornare a casa. Il magistrato gli riferisce che il poeta, al termine del massacro, era stato addirittura sormontato dall’auto in fuga. Il giovane nega di averlo fatto volontariamente, e conclude: «Ho agito per difendermi e ho avuto l’impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare, per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo. Anzi, siamo stati sempre soli io e il Paolo, dal momento in cui abbiamo lasciato l’osteria fino a quando è successo quello che è successo».
2. Fra le baracche di Ostia
Lo sconcerto per la fine di un personaggio tanto conosciuto e discusso si somma fin da subito alle analisi sul significato e sulle cause di un episodio così tragico. Nel corso del funerale, Alberto Moravia urla tutta la propria disperazione per la perdita di un poeta vero, quando «di poeti ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo». L’apparente coerenza fra opera e biografia inquieta. Pier Paolo Pasolini aveva costantemente avvertito la società sul pericolo di una violenza dilagante e appiattente, da ultimo all’indomani dei fatti del Circeo, avvenuti appena due mesi prima, ma si era anche fatto interprete di un’esistenza votata al rischio, alla provocazione, all’esperimento. «Amo la vita ferocemente» aveva scritto, «così disperatamente, che non me ne può venire bene». Inizia ad originarsi, in questo lutto inatteso, il mito pasoliniano giunto fino a noi, con il suo carico di bellezza, dolore, struggimento. E mistero.
La confessione di Pelosi non convince gli amici di Pasolini e i legali della famiglia. Il sospetto che il borgataro intenda coprire qualcuno aleggia nell’aria immediatamente. A risultare auto-evidente, in primo luogo, è la sproporzione fra le condizioni fisiche dei due protagonisti dell’evento. Il verbale parla di una crudele lotta reciproca sfociata nel sangue per legittima difesa, ma mentre la vittima, cioè il presunto assalitore, ha subìto lesioni gravissime e mortali, l’omicida, ovvero «l’aggredito», la notte fatidica aveva appena una ferita alla testa, piccole ecchimosi ed escoriazioni alle mani e alle gambe e una frattura incompleta al setto nasale. I vestiti erano asciutti e riportavano tre macchie ematiche quasi invisibili. E infatti i carabinieri che lo avevano arrestato non avevano sospettato nulla. Gli oggetti di legno trovati vicino al corpo, leggeri e friabili, appaiono inidonei a causare un tale scempio. Ma a lasciare perplessi è anche il motivo di una reazione così violenta, culminata con un investimento, e l’incapacità dello scrittore, forte e in salute, di difendersi di fronte all’improvvisa furia di un ragazzino. Nell’Alfa Romeo, poi, vengono rinvenuti un maglione verde e un plantare non appartenenti né a Pasolini né a Pelosi.
In un’inchiesta a puntate pubblicata sul settimanale «L’Europeo», Oriana Fallaci elenca i dubbi sulla vicenda e riferisce il racconto di una fonte anonima, secondo la quale il poeta sarebbe stato ucciso da due teppisti giunti sul posto in motocicletta. Furio Colombo, peraltro autore dell’ultima intervista a Pasolini, riporta sulla «Stampa» la testimonianza di un baraccante: «Lo scriva che è tutto uno schifo, che erano in tanti. Lo hanno massacrato quel poveraccio. Erano quattro o cinque». Alcuni discepoli di Pasolini, come i fratelli Franco e Sergio Citti e lo sceneggiatore Enzo Ocone, avviano una serie di indagini parallele, e lo stesso fa il legale della famiglia, Nino Marazzita. Il lavoro della magistratura, nel frattempo, viene accusato di approssimazione: la scena del delitto non è stata circostanziata, l’automobile è stata lasciata alla pioggia, gli interrogatori dei residenti sarebbero stati incompleti e tardivi.
La stampa si divide. Se a sinistra inizia a emergere l’ipotesi del complotto contro un intellettuale scomodo, o comunque di un martirio sociale e culturale, le principali testate conservatrici si ribellano a qualsiasi mitologia e confermano – o approfondiscono – la loro storica ostilità verso un nemico del buon costume e della moralità. Franco Grattarola, nel ricchissimo saggio Pasolini. Una vita violentata (Coniglio, 2005), restituisce con lucidità il clima di quei giorni. Il delitto viene circoscritto e spiegato nella dinamica corrotto-corruttore. Quando lo stile comportamentale è quello della devianza e della libidine, si nota, la morte violenta diventa un accidente prevedibile, persino necessario. Il ribaltamento di prospettiva è totale. Di fronte alle tesi cospirative, il «Borghese» parla di una «sporca, sordida speculazione politica». «Fosse stato ucciso, poniamo, da un “fascista”, egli, oggi, sarebbe il martire della resistenza. Purtroppo per i suoi apostoli, egli era sempre primo nelle ore di un solo pericolo: quando scoccava un raptus indomabile che si esercitava su “ragazzi di vita”, nei quali il bisogno spinge, spesso, a non difendere a oltranza la inviolabilità del pudore. Il diciassettenne che recalcitra e per sottrarsi a turpitudini uccide, non muove il mondo della sinistra neppure a pietà; è considerato indegno di interesse e difesa. Il martire dell’idea è soltanto lui, Pasolini, che si è immolato sul fronte dell’amore socratico». Senza alcuna continenza verbale, «La Gazzetta del Sud» considera il defunto «un omosessuale perverso»: «La sua morte non ci turba, né ci commuove, né ci emoziona». «I ragazzi di vita gli hanno dato la morte», ironizza «Lo Specchio». Sulle pagine del «Candido», Paolo Pisanò esprime la sua delusione per un uomo che pure aveva seguito con speranza e interesse, considerandolo come l’oppositore del mondo disumanizzato e consumista e della violenza bestiale che da esso si sprigiona. Invece «la sua morte, purtroppo, ha cancellato di colpo quello che si è rivelato un abbaglio, un’illusione: lungi dall’essere concretamente un campione di quella lotta, Pasolini si è rivelato, in punto di morte, un portatore di quei valori negativi e di quella violenza che egli diceva di combattere e condannare». E conclude: «Quella tragica notte, fra le baracche del lido di Ostia, il rapporto era estremamente rovesciato: volendo usare termini correnti, Pasolini era “il mostro”, Pelosi “la vittima”».
Ma i distinguo e i biasimi si ritrovano anche a sinistra. Sul «Manifesto», Rossana Rossanda e Luigi Pintor invitano a non cadere in ipocrisie e a sanzionare la mercificazione del corpo. Su «Paese Sera», giornale paracomunista, Edoardo Sanguineti è severo: «Sembra impossibile negare a questa morte i tratti di un suicidio preparato minuziosamente, quasi a completare il disegno di una persecuzione perpetuata lentamente, e, al tempo stesso, un lungo progetto di confusione tra arte e vita, tra letteratura e esistenza». Lo stesso quotidiano ospita un intervento dello psicologo Ignazio Maiore, che di PPP ricorda il dolersi per il diffondersi della delinquenza negli strati popolari e giovanili, dai quali, presago, si sentiva minacciato. «Erano quegli stessi giovani che lo attraevano in maniera coatta, per lui inarrestabile». E ancora: «Il problema più profondo dell’omosessualità è la difficoltà di sopportare la convivenza e la rivalità con il proprio sesso, che viene sentito come persecutorio e pericoloso, come appunto accadeva a Pasolini. In definitiva, un rapporto omosessuale è basato più sull’odio che sull’amore. Pasolini ha cercato in tutti i modi di spadroneggiare ed esorcizzare il suo dramma. Ha perduto. La sua poesia non l’ha salvato». Il Pasolini offeso, boicottato e incompreso, il Pasolini che in vita aveva subìto oltre trenta procedimenti giudiziari, vendendo accusato dei reati più diversi – fra questi, corruzione di minori, vilipendio alla religione, persino rapina a mano armata – riemerge in molti commenti successivi al delitto, e continuerà a farlo nel corso del processo a Pino Pelosi, quando la principale strategia difensiva dell’imputato, o meglio dei suoi legali, sarà quella di far precipitare definitivamente nel fango la vita e l’opera della vittima.
3. La parola alla giustizia
Il dibattito giornalistico si rispecchia nella tensione scatenatasi intorno al collegio difensivo di Pino Pelosi. L’avvocato d’ufficio dura una notte, mentre il primo legale di fiducia, scelto su consiglio di un compagno di cella, viene revocato dopo due giorni. Il 5 novembre il giovane indagato firma una tripla nomina: i fratelli Tommaso e Vincenzo Spaltro e Rocco Mangia, difensore di uno dei massacratori del Circeo. Il nome di Mangia, noto giurista di destra, è stato suggerito ai genitori di Pelosi da un cronista del «Tempo», il massone Franco Salomone. Ma il terzetto si fraziona subito. Mentre gli Spaltro propendono per la tesi del complotto, temendo che l’assistito taccia l’identità dei veri colpevoli, Mangia sceglie un’altra linea. Pelosi dice la verità: ha agito da solo perché provocato da un adulto corruttore. Prevedibilmente, a metà novembre Mangia diventa l’unico difensore del ragazzo. Il detenuto viene interrogato altre tre volte, nel corso delle quali aggiunge alcuni particolari e ribadisce l’assenza di complici. Nel frattempo, il procuratore generale Walter del Giudice, lamentando la lentezza delle indagini, avoca a sé l’inchiesta e la affida a un altro magistrato, Guido Guasco. Il 10 dicembre 1975, il reo confesso Pelosi è rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario.
Il processo per il delitto Pasolini inizia il 2 febbraio 1976 di fronte al tribunale minorile di Roma. Presidente del collegio giudicante è Carlo Alfredo Moro, fratello del politico DC, giudice a latere è Giuseppe Salmè. L’accusa è rappresentata dal sostituto procuratore Giuseppe Santarsiero, mentre la parte civile si è affidata a Nino Marazzita e Guido Calvi, con delega firmata dall’anziana madre dello scrittore, Susanna Colussi.
Rocco Mangia punta sull’immaturità di Pelosi e sulla legittima difesa, sperando nella non imputabilità o in un esito di omicidio preterintenzionale o colposo. Fin dalle sue primissime istanze, appare chiaro come l’avvocato intenda tramutare il procedimento nell’ultimo, definitivo processo a Pasolini. Malgrado l’imputato sia minorenne, chiede le «porte aperte» e le telecamere; contesta la costituzione di parte civile, sostenendo l’incapacità d’intendere e di volere della signora Colussi; cerca di far acquisire agli atti il corposo fascicolo sui procedimenti giudiziari contro l’intellettuale; propone come testimoni numerosi oppositori di Pasolini. In quel periodo, tra l’altro, è arrivato al cinema – ed è stato subito sequestrato – il film postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma, definito da un settimanale un «mostruoso testamento». Mangia ha buon gioco nell’additare la pellicola come la conferma dell’indole sadica del regista. L’attore Uberto Paolo Quintavalle, membro del cast, porta alle stampe il libello Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film, ricco di pettegolezzi e indiscrezioni sul periodo delle riprese. La difesa di Pelosi tenta senza successo di far acquisire anche quel testo.
In udienza non mancano colpi di scena e aspre polemiche. Mario Appignani, il futuro disturbatore “Cavallo Pazzo”, irrompe in aula accusando dell’omicidio due conoscenti dell’imputato, salvo rimangiarsi tutto. Oriana Fallaci rifiuta con forza di rivelare la fonte della sua inchiesta giornalistica, che per alcuni era lo stesso Appignani. E ancora: si viene a sapere che due giovanissimi amici di Pelosi, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, hanno confidato a un carabiniere infiltrato di aver partecipato al delitto. Interrogato a più riprese, però, il più grande giura di essersi inventato tutto per semplice vanteria.
L’audizione del medico legale Faustino Durante, perito di parte civile, rappresenta un momento essenziale. Planimetrie e autopzia alla mano, lo specialista dimostra come lo scrittore fosse stato volontariamente «sormontato» dalle ruote dell’auto, e non «schiacciato» dalla parte inferiore della vettura, come dichiarato dai consulenti d’ufficio. Inoltre, le lesioni sul cadavere vengono giudicate incompatibili con il bastone e la tavoletta rinvenuti sul posto. Il perito analizza nel dettaglio le varie fasi della lotta per ritenere contraddittoria «la constatazione che il Pelosi sia rimasto indenne da ampi imbrattamenti di sangue», visto che nella prima fase Pasolini era senz’altro in grado di reagire, essendosi addirittura tolto la camicia e avendo percorso a piedi molti metri. Il perito si concentra poi su una macchia ematica trovata sullo sportello anteriore del passeggero; la traccia lascia aperta la possibilità che, al momento della fuga, ci fosse qualcun altro.
Durante il suo esame, Pino Pelosi ribadisce di aver agito da solo. Tutti i periti del processo, in maniera inaspettata, concordano sulla sua immaturità, sottolineando la debole strutturazione dell’Io, la superficialità affettiva e la povertà culturale.
La parte civile chiede la condanna del diciassettenne e enumera gli indizi su un concorso di persone, dopo di che si ritira dal processo ed evita di pretendere un risarcimento. Nella relazione fornita alla Corte, Marazzita e Calvi tratteggiano un accorato ritratto artistico e umano della vittima: «Pelosi è di questo processo, è di questo tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché è di un’altra realtà». Anche la pubblica accusa reclama la condanna per omicidio volontario in concorso con ignoti. Nella sua lunga arringa, l’avvocato Mangia chiede l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere e lancia duri improperi contro la stampa, la parte civile e PPP.
La sentenza arriva il 26 aprile 1976, quando il giudice Moro e i suoi colleghi condannano Pino Pelosi per omicidio volontario in concorso con ignoti, furto d’auto e atti osceni. Vista la minore età e le attenuanti, la pena comminata è di nove anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione. La tesi dell’immaturità è rigettata, poiché il giovane era in grado di «percepire il significato antisociale dell’atto omicida». Quanto ai complici, «il collegio ritiene che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».
4. L’Appello e i complotti
Al termine del primo grado, la Procura generale sostituisce il pm Santarsiero con Guido Guasco, il quale prende una decisione eclatante: impugna la sentenza Moro per contestare il concorso con ignoti, ovvero la tesi sostenuta dal suo stesso predecessore. A fare ricorso, naturalmente, è anche la difesa, che continua a puntare sull’immaturità e sul gesto colposo. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello conferma la condanna per omicidio volontario e furto d’auto, assolve per atti osceni e stralcia il concorso con ignoti. I giudici cercano di smontare tutti gli indizi sulla presenza di terze persone. La sproporzione fra le ferite, ad esempio, può essere spiegata ipotizzando che sia stato Pelosi ad aggredire per primo l’altro, «cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi». La pronuncia esclude che Pasolini abbia cercato di violentare il giovane, e quindi l’interrogativo sul movente «è destinato a rimanere senza risposta». Forse Pelosi voleva rapinare l’uomo e rubargli l’auto, oppure aveva esagerato con la violenza dopo un banale litigio, uccidendo per guadagnarsi l’impunità.
Il 26 aprile 1979 la Cassazione conferma totalmente la sentenza d’Appello, ma non mette la parola fine agli enigmi. Nel corso di questi cinque decenni, il relativo fascicolo giudiziario è stato riaperto – e chiuso – quattro volte, mentre sono fioccati i libri, i film e le teorie alternative sulla notte dell’Idroscalo. Il 1987 è la data della prima riapertura dell’inchiesta, attuata su istanza dell’avvocato Marazzita. Lo scopo era verificare un eventuale coinvolgimento nel delitto di Giuseppe Mastini, detto «Johnny lo Zingaro», un criminale romano amico di Pelosi e il cui nome compariva in alcune lettere e indiscrezioni. Nel 1995 i magistrati romani tornano a indagare sul caso a seguito del film di Marco Tullio Giordana Pasolini – Un delitto italiano, da cui è tratto l’omonimo libro: una ricostruzione puntigliosa di tutti gli elementi a favore della pluralità di assassini. Dieci anni dopo, il 7 maggio 2005, va in scena la svolta più clamorosa e controversa: Pino Pelosi cambia platealmente versione e si dichiara innocente. Lo fa durante un’intervista televisiva concessa a Franca Leosini per la trasmissione di Raitre Ombre sul Giallo. L’ex ragazzo di vita, ormai quarantaseienne, racconta tutta un’altra storia: lui e il poeta erano stati aggrediti da un gruppo di persone, le quali avevano massacrato Pasolini a suon di insulti («Arruso, fetuso, sporco comunista»), e avevano indotto lui al silenzio sotto minaccia («Fatti i cazzi tuoi, sennò uccidiamo pure te e tutta la tua famiglia»). Ora che era rimasto solo, essendo morti i genitori, Pelosi si era deciso a rivelare la verità.
Il caso si riaccende con prepotenza. Il giorno dopo, il «Corriere della Sera» ospita un’intervista a Sergio Citti, storico collaboratore di Pasolini, secondo il quale il regista sarebbe stato tirato in trappola da alcuni malviventi con la scusa delle pellicole rubate di Salò. Ed ecco la terza inchiesta, archiviata in ottobre senza nuovi riscontri. Nel frattempo le teorie del complotto si sono affinate. Una delle più rilevanti riguarda il romanzo incompiuto Petrolio, pubblicato postumo nel 1992. In esso Pasolini sembra accusare Eugenio Cefis di aver ordito l’attentato contro il presidente dell’ENI Enrico Mattei. Altre tesi hanno parlato di una spedizione punitiva di stampo omofobico e politico, di un suicidio rituale, della P2, della volontà di silenziare una voce libera e capace di scottanti rivelazioni.
La quarta e ultima istruttoria, sollecitata da un cugino di Pasolini e dallo stesso ministero della Giustizia, dura cinque anni, dal 2010 al 2015. Fra i diversi testimoni ascoltati ci sono anche alcuni baraccanti dell’epoca. La signora Anna ricorda di aver sentito, quella notte, «voci di diverse persone, sicuramente più di due». Ora che è possibile, gli inquirenti dispongono le analisi del DNA sui reperti dell’omicidio, ovvero i vestiti e i bastoni conservati nel museo criminologico di Roma. In effetti, emergono materiali biologici appartenenti a terze persone, ma le tracce, come sempre, non sono databili, né risultano riferibili ad alcun sospettato, come Mastini o i Borsellino. Nel frattempo, Pelosi cambia ancora una volta versione in un libro dal titolo Io so… come hanno ucciso Pasolini (2011): con l’intellettuale si frequentava da tempo, dice, ma malgrado ciò aveva accettato di fare da intermediario nella restituzione delle bobine di Salò. Arrivati all’Idroscalo, erano stati raggiunti dai fratelli Borsellino e da altri ignoti assalitori. Di fronte ai pm, il condannato ribadisce questa nuova ricostruzione, apparendo sempre meno credibile. Le sue giravolte e contraddizioni lo rendono ormai un personaggio tragico. Neanche stavolta, insomma. si raggiungono risultati concreti. Il 25 maggio 2015 il Gip di Roma dispone l’ultima archiviazione. Nel provvedimento, la presenza di altri soggetti viene ritenuta «molto probabile», ma si rivela la difficoltà di stabilirne l’identità. Nessun altro magistrato interverrà in futuro sulla vicenda.
Pino Pelosi è morto di cancro il 20 luglio 2017, portando con sé, se c’è, la verità definitiva su quel 2 novembre 1975. L’omicidio Pasolini, eterno mistero italiano, continua a chiamare a rapporto le nostre coscienze, così come l’intera, straordinaria opera della sua vittima.
La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Luigi Salvato
1. Il luogo nel quale ci troviamo ed il tema oggetto dell’incontro odierno evocano una prima suggestione derivante dalla ‘sententia’ (in realtà, un aforisma) di Publilio Siro, scolpita nella cornice di questa aula Magna, della quale dà conto il Primo Presidente, Pietro Curzio, nell’interessante libro “Il Palazzo della Cassazione”, che ripercorre i tratti salienti della storia dell’edificio in cui è ubicata la Corte di Cassazione. Volgendo lo sguardo verso l’alto possiamo leggerla e constatare che recita: “Nimiun altercando veritas amittitur” (“Il troppo discutere nasconde la verità”); quindi, è pertinente ed illuminante con riguardo alle questioni di cui discutiamo oggi.
La seconda considerazione, pure suggerita dall’aula nella quale ci troviamo, deriva dalla circostanza che proprio qui le Sezioni Unite civili, nel 1947, con la sentenza n. 1093, resa sull’impugnazione di una pronuncia dell’Alta Corte, quale giudice speciale istituito con la competenza di pronunciare, con sentenza in unica istanza, la decadenza e le sanzioni accessorie a carico dei senatori di nomina regia che coi loro voti e la loro azione politica avevano favorito o sostenuto l’avvento ed il consolidarsi della dittatura e l’entrata in guerra dell’Italia, scrissero parole di esemplare efficacia in ordine alla finalità ed ai requisiti della motivazione.
Le Sezioni Unite affermarono: l’obbligo per il giudice «di specificare le ragioni del suo convincimento […] è un elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale»; «se la maggioranza delle costituzioni moderne non precisa quest’obbligo, è perché si è oramai affermato in tutti gli ordinamenti giuridici dei paesi civili il principio di carattere generale, e cioè è inconcepibile una decisione di carattere giurisdizionale senza motivazione».
La sentenza delineò con rara efficacia le ragioni dell’obbligo e della finalità della motivazione, sottolineando che: è coessenziale al principio di divisione dei poteri e tecnica di garanzia dello stesso; è portato ineludibile di una magistratura professionale, elemento di legittimazione della stessa e garanzia del principio di legalità e della soggezione del giudice alla legge; è strumentale al diritto di difesa, specie con riguardo ai rimedi impugnatori.
Forse, non doveva essere aggiunto molto. I Costituenti trassero infatti ispirazione da questa sentenza per inserire l’obbligo della motivazione nella Carta fondamentale. La circostanza che si trattava di un principio “acquisito” spiega che l’unico contrasto fu tra la formulazione dell’art. 7 del progetto Calamandrei («Le sentenze e gli altri provvedimenti dei giudici devono essere motivati») e quella poi accolta («Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»), dovuta all’on. Leone, preferita sul rilievo che «La dottrina e la legislazione sono d’accordo nel richiedere la motivazione soltanto per i provvedimenti che abbiano carattere essenzialmente giurisdizionale, cioè per quei provvedimenti che risolvono un conflitto fra due parti». Il risultato è stato una formula generica, evidentemente imposta dalla natura della norma, ma anche dal fatto che si trattava di un principio oramai coessenziale al grado di civiltà giuridica raggiunto, già puntualmente declinato dai codici di rito e dalla giurisprudenza quanto al suo contenuto.
Eppure, cosa occorre perché l’obbligo possa ritenersi correttamente adempiuto resta questione sostanzialmente irrisolta. Lo attestano le intere biblioteche alla stessa dedicate ed il fatto che già 70 anni fa, nel lontano 1952, Piero Calamandrei titolava una delle sei conferenze tenute in Messico “La crisi della motivazione”. La difficoltà, a ben vedere, è quella consustanziale alla funzione giudiziaria: applicare regole generali ed astratte a fattispecie che, per le particolarità che le caratterizzano, finiscono esse stesse con il definirle, influendo sull’identificazione (e sull’esigenza di esplicitazione) delle stesse.
2. In questa sessione l’attenzione deve vertere esclusivamente sul filo rosso che avvince la struttura argomentativa dei provvedimenti (quindi, la motivazione) e l’organizzazione del lavoro della Corte, peraltro diffusamente (e con sapienza) scandagliato dal programma di gestione dello scorso anno, proprio con riguardo alla motivazione (in particolare, nel paragrafo 11), oggetto delle esaustive riflessioni contenute negli interventi pubblicati in giustiziainsieme.
Per questa ragione e per il tempo a disposizione devo limitarmi a qualche sintetica considerazione, concernente il giudizio civile. In particolare, accenno soltanto ad un’idea sulla quale potrebbe essere opportuno riflettere, che non posso neanche approfondire e che propongo quale tema di possibile discussione. L’idea è che la ‘questione motivazione’ va risolta essenzialmente ‘a monte’, non ‘a valle’, cioè in occasione ed attraverso la scelta del rito.
L’attenzione in questa sede esclusivamente ai provvedimenti della Corte fa venire in rilievo la sola funzione extraprocessuale della motivazione: permettere il controllo della pubblica opinione sull’esercizio della giurisdizione; alimentare il dialogo con le comunità epistemiche; garantire che i principi di diritto siano connotati della persuasività necessaria per assicurare la nomofilachia in un sistema che non conosce il vincolo del precedente.
Tale finalità, nel tempo, ha assunto una differente conformazione in correlazione allo ius constitutionis ed allo ius litigatoris.
A Costituzione invariata, in presenza di una norma quale l’art. 111, 7 comma, che stabilisce il diritto al processo di cassazione, l’impossibilità di negare, con legge ordinaria, l’accesso al giudizio di legittimità, ma anche la necessità di assicurare al meglio ed appieno la finalità nomofilattica, in quanto essenziale strumento di garanzia del principio di eguaglianza, ha indotto il legislatore ad agire sulle modalità di intervento della Corte:
- in primo luogo, prevendo un filtro costituito dalla delibazione in camera di consiglio da parte della VI sezione, preordinato a verificare le condizioni del diritto ad una decisione “di merito”;
- in secondo luogo, graduando i modi di intervento della Corte, diversificando i riti con riguardo alle questioni poste dal ricorso.
3. Ai diversi riti corrisponde una profonda differenza di struttura e contenuto della motivazione del provvedimento che conclude il giudizio. E’ per questo che il cuore della questione sta forse proprio nella scelta, a monte, del rito e ciò richiede di ricordare che:
- la decisione della VI sezione realizza, sostanzialmente, una preclusione del diritto al processo di cassazione e, appunto per questo, deve essere fondata su una giurisprudenza che necessariamente deve preesistere alla decisione;
- la decisione con il rito camerale è ammessa se e quando non involge lo ius constitutionis e la funzione nomofilattica.
Entrambi gli obiettivi, per la tenuta costituzionale dell’assetto così definito, impongono di realizzare la transizione, auspicata da uno studioso statunitense, Lee Lovinger, acutamente approfondita in uno studio di Ferruccio Auletta, dalla giurisprudenza alla giurimetria, intesa quest’ultima come la disciplina che consente l’applicazione di parametri precisi di misurazione ai fini del giudizio di prevedibilità e (può aggiungersi) delle condizioni che legittimano i differenti riti.
Con riguardo alla c.d. decisione filtro, il documento programmatico della VI sezione civile esplicita che questa non dovrebbe concorrere a formare la giurisprudenza. Non poche sono le questioni sollevate da alcune delle direttive contenute in detto documento e sulle quali pure sarebbe opportuno riflettere (tra l’altro, in punto di sufficienza dell’esistenza di una sola sentenza a far ritenere esistente una giurisprudenza che ne giustifica l’intervento; in ordine alla stessa possibilità di rimessione della questione dalla VI alle Sezioni unite, senza transitare per la sezione ‘ordinaria’), ma su di esse non occorre oggi attardarsi, poiché il ‘rito della VI’ a breve rappresenterà il passato; quindi, conviene volgere lo sguardo all’immediato futuro.
È, infatti, imminente (almeno, dovrebbe esserlo con i decreti attuativi dell’art. 1, comma 9, della legge 26 novembre 2021, n. 206), l’introduzione del nuovo rito monocratico (dovrebbe essere tale, poiché il comma 9, lettera e, n. 1, fa riferimento al «giudice della Corte», evidentemente il singolo consigliere) e accelerato, incentrato sulla «proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell'inammissibilità, dell'improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata» che, in buona sostanza, configura una vera e propria decisione, benché, per così dire, attenuata dalla previsione della facoltà delle parti di chiedere la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni, il cui mancato esercizio comporta che il ricorso dovrà intendersi rinunciato (con le conseguenze previste dalla legge-delega).
Sembra davvero palese il carattere di vero e proprio filtro di una siffatta proposta, che tuttavia occorre sia rispettoso del diritto al processo di cassazione. Affinché ciò sia, forse, è necessario che siffatte “proposte”, ancora più delle decisioni della VI sezione, in nessun modo e punto potranno (e dovranno) risolvere questioni. In buona sostanza, dovrebbero consistere ed esaurirsi in una sorta di mera certificazione delle ragioni ‘di rigetto’, ammissibile se e quando dette ragioni sono pianamente desumibili dalla giurisprudenza della Corte che in nessun modo concorrono a formare. La ‘certificazione’, perché sia davvero tale, dovrebbe dunque esaurirsi nel mero richiamo dei pertinenti precedenti e nella ‘attestazione’ dell’applicabilità degli stessi al ricorso, senza null’altro aggiungere. La motivazione in tal modo consiste e si esaurisce in una sorta di mera certificazione.
Si tratta di un compito assai importante, in cui i consiglieri assurgono a certificatori e custodi della giurisprudenza della Corte. In relazione a questa funzione potrebbe assumere rilievo il nuovo ufficio per il processo. Nell’impossibilità di richiamare figure quali quelle degli assistenti della Corte costituzionale (tra l’altro, manca un rapporto fiduciario e diverse sono le professionalità), ma anche quelle dello judicial clerk o del legal clerk dell’esperienza nordamericana, quest’ufficio potrebbe avere (anche, ed ovviamente non solo) una funzione essenziale nella fase di spoglio, operando uno screening con riguardo alla giurisprudenza richiamata dal ricorrente in relazione a quella pertinente, redigendo apposite, specifiche, schede proprio al fine di verificare se esista (indicandola) una giurisprudenza pertinentemente applicabile al ricorso che consente la formulazione della ‘proposta’ e la certificazione nella quale deve consistere.
Peraltro, affinché il processo telematico non si esaurisca nella mera sostituzione di un supporto cartaceo con un supporto digitale (obiettivo importante, ma che anch’esso già guarda solo al passato), occorre operare per adeguatamente conformare la digitalizzazione, tenendo conto della possibilità di programmi in grado di controllare, in automatico, la vigenza della normativa nazionale e sovranazionale citata dal ricorrente, la giurisprudenza richiamata negli atti e quella pertinente, occorrendo approfondire se sia possibile (e come) gravare le parti di un dato modo di richiamare i precedenti. Si tratterebbe di modalità senz’altro pregnante per la transizione verso la giurimetria, ferma l’esigenza di riflessione sulle considerazioni svolte nello studio che ho richiamato (al quale rinvio) e sui metodi e sui modi della misurazione da parte dell’Ufficio del Massimario.
4. L’esigenza di misurabilità potrebbe risultare attenuata per le decisioni rese con l’ordinario rito camerale, anche perché la decisione, siccome ‘di merito’, non incide sul diritto al processo di cassazione. Nondimeno, la sinteticità del provvedimento decisorio (ulteriormente enfatizzata dalla previsione dell’art. 1, comma 9, lettera d, della legge-delega, il quale dispone che «l'ordinanza, succintamente motivata, possa essere immediatamente depositata in cancelleria»), per l’attenuato dialogo insito nel rito e per la tenuta costituzionale del nuovo assetto, richiede attenzione alla scelta del rito, all’esigenza di misurazione della giurisprudenza ed alla rilevanza nomofilattica della decisione.
Delle molte questioni che emergono, mi limito ad accennare a due sole.
La prima è che la scelta del rito è condizionata alla rilevanza della questione, peraltro pregnante anche per stabilire se vada riservata alle Sezioni unite (in disparte, diciamo così, i casi di competenza funzionale). Non mi attardo sui sottili distinguo semantici delle formulazioni degli artt. 363, 374 e 375 c.p.c. Senza il timore di eccessive semplificazioni, riterrei che il legislatore, con chiara e condivisibile scelta (oggi e nell’immediato futuro) ha mantenuto ferma l'udienza pubblica quale "luogo opportuno" della decisione nomofilattica rilevante (tale dovrebbe ritenersi, secondo la definizione dell’art. 1, comma 9, lettera f, della legge-delega, «la questione di diritto […] di particolare rilevanza»), allorché si spiega nella sua tensione massima lo ius constitutionis.
La decisione, se caratterizzata dall’inclinazione a dare vita al precedente pro-futuro, trascende l’esigenza della parte, postula una sede processuale ed una veste formale della decisione coerenti con tali finalità. Ed esige altresì l’indefettibile partecipazione del P.M. poiché “della Corte”, complessivamente intesa, fa parte l’organo requirente: basta ricordare (come acutamente sottolineato nel richiamato studio di Ferruccio Auletta) che l’art. 104 Cost, dice “membri di diritto il primo presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione”, con allineamento di entrambi gli organi prima del complemento specificativo riferito ad entrambi, a riprova che il P.G. è, per singolare statuto, pienamente inerente alla Corte di cui è parte e non mero agente “presso” quest’ultima, diversamente da quanto previsto dalle norme di ordinamento per il P.M. presso gli uffici di merito. Tale intervento costituisce una delle modalità con cui l’ordinamento soddisfa l’immanente necessità di attribuire ad una parte pubblica il compito di fornire, al di là degli interessi dei litiganti, ogni elemento utile per la corretta applicazione della legge, garantendo una formazione dialettica del giudizio che, in considerazione della funzione della Corte di cassazione, deve prescindere dagli interessi specifici di questi ultimi nella risoluzione delle questioni decise con valenza nomofilattica. E’ questo il senso della nomofilachia. Ciò richiede una maturazione culturale anche nel dialogo interno alla Corte ed un chiarimento che, non implausibilmente, dovrebbe passare anche attraverso una diversa modalità di concludere: sulla questione non sul ricorso, in considerazione della finalità dell’intervento e per ulteriormente segnare il distacco del P.M. dalla posizione di parte, invero già indiscutibile a normazione vigente.
La seconda questione è che, se nella misurazione (e graduazione) della giurisprudenza ha influenza il rito, e se ‘al vertice’ della rilevanza vi è quella formata all’esito dell’udienza pubblica, l’effettivo nodo della questione resta ‘a monte’. Ed è, in particolare, quello implicato dalla necessità di una scrupolosa attenzione alla corretta scelta del rito. L’affermazione che la scelta «rimane ampiamente discrezionale e rimessa al Collegio giudicante» (S.U. n. 14437 del 2018) non esclude che debba essere esercitata nell’osservanza di precisi parametri, il cui contenuto va identificato avendo riguardo alla finalità ed alle ragioni della previsione del nuovo rito camerale di legittimità ed al mantenimento del procedimento in pubblica udienza, ciò che richiede altresì precisa attenzione all’eventuale sollecitazione del P.M. al mutamento del rito (beninteso, quando adeguatamente esplicitata). Per altro verso, occorre anche precisa attenzione all’intervento delle Sezioni Unite. Intendo riferirmi alla discrezionalità che ex art. 142 disp att. c.p.c. spetta alle stesse in ordine all’eventualità di decidere l’intero ricorso. La pregnante efficacia assunta dalle pronunce delle Sezioni Unite, a seguito della novellazione del 2006, dovrebbe suggerire di evitare decisioni su questioni che non involgono contrasti, non appaiono di ‘massima importanza’ (come tali appunto ad esse rimesse), né riguardano il tema della giurisdizione. Il principio costituzionale della ragionevole durata del giudizio non può essere enfatizzato a scapito di un’alterazione delle competenze interne della Corte che finiscono per pregiudicare la stessa misurabilità della giurisprudenza.
5. È dunque il rito (e la scelta dello stesso) che orienta, giustifica e determina il contenuto della motivazione e l’organizzazione del lavoro con modalità che, se correttamente applicate, appaiono rispettose della Costituzione e delle norme sovranazionali.
Non è possibile approfondire la giurisprudenza costituzionale sul contenuto dell’obbligo di motivazione, ma è forse sufficiente ricordare che la Corte costituzionale talora si è limitata a ribadire l’obbligo della motivazione, senza identificarne il contenuto (sent. n. 77 del 2018), a volte specificandolo con la generica puntualizzazione che occorre sia “adeguata” (sent. n. 64 del 1970), chiarendo che non occorre dare rilievo e menzione ad eventuali opinioni dissenzienti (sent. n. 18 del 1989). Per quanto qui d’interesse, rileva l’affermazione che la motivazione va rapportata all’ampiezza della discrezionalità del giudice (sent. n. 70 del 1994), che evidentemente influisce sull’ammissibilità di una motivazione assai sintetica (oserei dire, lapidaria) soprattutto nel caso della ‘certificazione’ in cui dovrebbe consistere e risolversi la “proposta di decisione” resa con il rito monocratico accelerato.
Volgendo l’attenzione al diritto eurounitario, è sufficiente ricordare che il TFUE, all’art. 253, u.c., dispone, ma a «fini interni»: «La Corte di giustizia stabilisce il proprio regolamento di procedura». E’ l’art. 36 dello statuto della Corte di giustizia a stabilire che «Le sentenze sono motivate»; il regolamento di procedura dinanzi al tribunale, all’art. 116, prevede che la sentenza deve contenere: «… l) l’esposizione sommaria dei fatti; m) la motivazione». La Carta dei diritti fondamentali, all’art. 47 non lo prevede espressamente, ma detto obbligo è desumibile dalla previsione del «diritto a un ricorso effettivo» ed a che la causa «sia esaminata equamente, pubblicamente». Si tratta di disposizioni sostanzialmente omologhe al nostro parametro costituzionale, che nulla aggiungono ad esso
Delle non molte pronunce della Corte sul contenuto della motivazione rilevano quelle che ne hanno evidenziato la variabilità a seconda della natura della decisione giudiziaria (sentenza Trade Center del 2012), ritenendo ammissibile la motivazione ‘implicita’, escludendo la necessità di una spiegazione in relazione a tutti i ragionamenti delle parti (sentenza Nexans del 2014).
La Corte di Strasburgo, dal suo canto, non ha prefigurato un modello generale ed astratto di motivazione e, ha osservato Vladimiro Zagrebelsky, neppure è immaginabile che ciò avvenga (ciò che porterebbe, ad esempio, a ritenere illegittimo il sistema anglosassone della giuria). Tuttavia, rileva che la Corte di Strasburgo conosce un peculiare procedimento per la dichiarazione di ricevibilità o di irricevibilità (caratterizzato da cambianti nel periodo 2014-2017, anno in cui la Corte mutò la procedura ed il ricorrente, insieme alla decisione di irricevibilità, firmata dal giudice unico, avrebbe ricevuto una lettera nella quale trovare i riferimenti in base ai quali desumere i motivi dell’irricevibilità). Soprattutto, rileva che nella relazione del Presidente della Corte del 25/1/22 si dà conto che ben il 76% dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile e solo il 9% è arrivato a sentenza.
Di interesse, è altresì che la sintesi è senz’altro ammessa quando occorre decidere se sussistono i presupposti per adire un giudice superiore (sentenze Salè del 2006; Gouru del 2009) ed è altresì ammessa la motivazione implicita (sentenza X v. Federal Republic of Germany del 1982).
6. La corretta identificazione del rito è dunque essenziale perché determina il tipo di motivazione, l’organizzazione della Corte e la sua stessa tenuta costituzionale. Tuttavia, non irrilevanti ostacoli alla sintesi possibile (estrema nel futuro rito monocratico accelerato) potrebbero derivare da un certo narcisismo - profilo acutamente approfondito da Renato Rordorf in un articolo edito in giustiziainsieme, nei due aspetti positivo e negativo -, anche perché, come ha scritto Guido Calabresi, «si può essere tentati di pensare che l’esperienza più gratificante per un giudice sia di scrivere la ‘grande’ sentenza».
La questione è che non si tratta soltanto di narcisismo. Nel sistema della valutazione della performance il giudice potrebbe trovarsi di fronte ad una sorta di novello comma 22: se scrive troppo non è efficiente; se scrive poco rischia di non dare adeguato (e dovuto) conto delle ragioni che comunque confortano una valutazione positiva, ad onta dell’esito del giudizio. Il paradosso riguarda, evidentemente in misura minore, anche i giudici della Corte. Se, ai fini delle valutazioni si enfatizzano il numero delle massime estratte dai provvedimenti redatti, la sentenza “dotta” che ripropone il vecchio stilema della ‘sentenza titolo’, forse non è extravagante interrogarsi sull’esigenza di ripensare la metodologia ed il contenuto delle valutazioni, tenendo adeguatamente conto della molteplicità (e pari dignità) dei differenti compiti svolti dai consiglieri.
7. La relazione tra struttura argomentativa dei provvedimenti, organizzazione e gestione del lavoro pone infine un’ultima questione alla quale posso soltanto accennare, molto genericamente, dovendomi avviare alla conclusione.
La questione è quella della modalità di redazione della motivazione mediante riproduzione degli scritti di parte.
Pacifico che, come affermato da S.U. n. 642 del 2015 il provvedimento giudiziario non è un’opera dell’ingegno, la questione della riproduzione degli atti di parte è ‘sensibile’ anche perché intercetta profili disciplinari ed è stata risolta con alcuni profili di differenza dalla sentenza che ho richiamato e da S.U. n. 10628 del 2014. Forse, sarà necessario riflettere sulla circostanza che, se la motivazione non è affare soltanto del giudice (soprattutto quella della Corte allorché enuncia principi di diritto); se la Corte, come icasticamente rimarcato dalle Sezioni Unite in una recente sentenza, “non è sola” nell’enunciare i principi nell’attuale fase di ‘diritto liquido’ ed è attenta al dialogo con le comunità epistemiche, potrebbe uscire esaltata la possibilità di richiamare gli atti, anche riportandoli. Ciò ancora più quando si tratta di enunciare principi di diritto: il giudice non è tenuto a utilizzare espressioni originali, diverse da quelle che hanno avuto la forza di convincerlo e che egli condivide. La motivazione non è ricerca della trattazione dotta ed originale, ma della soluzione convincente. Tanto ancora più con riguardo alle conclusioni del P.G., quale organo che non è parte e che concorre a formare la giurisprudenza della Corte. Ma questa è, un’altra storia alla quale, forse, non sarebbe inopportuno dedicare nel prossimo futuro qualche incontro.
Vi ringrazio dell’attenzione.
*Il testo riproduce l’intervento svolto al convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialoghi a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da Areadg Cassazione.
Ancora sulle tutele dell’interesse al (tempestivo) esercizio di poteri a carattere vincolato (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. III, 2 maggio 2022, n. 5419)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie - 2. Semplicità dell’accertamento e potere vincolato: i motivi dell’accoglimento della domanda di adempimento - 3. Potere vincolato e struttura dell’illecito: i motivi del rigetto della domanda risarcitoria - 4. Brevi conclusioni.
1. La fattispecie
La sentenza che si annota ha definito il giudizio instaurato da una cittadina brasiliana, proprietaria di un apparecchio a motore per il volo da diporto o sportivo (VDS), la quale, presentata (circa quattro mesi prima del deposito del ricorso al Tar) un’istanza volta all’iscrizione del mezzo nel registro tenuto dall’Aero Club d’Italia (Ae.C.I.)[1] e al rilascio del certificato di identificazione e della targa[2], aveva visto decorrere infruttuosamente i trenta giorni entro i quali il procedimento avrebbe dovuto essere concluso.
Un mese dopo la scadenza di questo termine, l’interessata aveva domandato all’Ae.C.I. l’attivazione dei poteri sostitutivi per l’adozione del provvedimento e la liquidazione di un indennizzo ai sensi dell’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990.
Trascorsi altri quindici giorni (termine per provvedere differito ex art. 2, c. 9 ter, l. proc.), tuttavia, il Direttore generale dell’ente, non definendo il procedimento, si era limitato a richiedere un parere al Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili in merito alla possibilità di procedere alla iscrizione nel registro di un apparecchio VDS appartenente a un cittadino di un Paese extra-Ue.
Con ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a., l’interessata ha così agito innanzi al Tar, chiedendo la condanna dell’amministrazione sia alla conclusione del procedimento con l’adozione di un provvedimento assentivo (art. 31, c. 3, c.p.a.), sia al risarcimento del danno da ritardo (art. 2 bis l. n. 241/1990).
La pronuncia in commento accoglie integralmente la prima domanda e respinge, invece, quella risarcitoria.
Nonostante la semplicità dei fatti oggetto di giudizio (intorno ai quali la motivazione non dà peraltro notizia di alcuna contestazione inter partes), gli stessi sembrano valutati in modo radicalmente differente da ciascuno dei capi della sentenza: su questo duplice criterio di lettura si concentrano le brevi notazioni che seguono.
2. Semplicità dell’accertamento e potere vincolato: i motivi dell’accoglimento della domanda di adempimento
I presupposti necessari per l’iscrizione nel registro degli apparecchi VDS sono (indirettamente) elencati dall’art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010, mediante l’enumerazione degli allegati che gli interessati devono porre a corredo della propria istanza: una documentazione fotografica idonea a identificare il modello del velivolo, un’autocertificazione del proprietario che attesti la conformità del mezzo a uno dei tipi di cui alla l. n. 106/1985[3], alcuni ulteriori documenti tecnici nel caso in cui sia richiesta l’iscrizione dell’apparecchio come “avanzato” (art. 8 d.p.R. cit.).
Ai sensi del comma 4 dell’art. 7 cit., l’Ae.C.I. deve provvedere all’iscrizione (e rilasciare all’istante il certificato di identificazione e la targa) a seguito di un semplice accertamento di “regolarità” della documentazione presentata, potendo poi lo stesso verificare, “in qualsiasi momento, la conformità tra la dichiarazione del proprietario dell’apparecchio e le caratteristiche oggettive dello stesso”.
Si è in presenza, insomma, di una fattispecie normativa che ingloba all’interno di una struttura procedimentale ordinaria alcuni elementi tipici di modelli non-provvedimentali, quali le dichiarazioni, denunce o segnalazioni certificate di inizio attività.
In primo luogo, infatti, la legge dispensa l’amministrazione (in deroga al principio di completezza dell’istruttoria e all’art. 6, c. 1, lett. b) l. n. 241/1990) da un esaustivo accertamento dei fatti che costituiscono i presupposti per l’iscrizione: a tenere luogo (almeno interinalmente) di tale accertamento sono le dichiarazioni e la documentazione fornite dal privato in sede di presentazione dell’istanza. In secondo luogo, anche a seguito della conclusione del procedimento (e dunque dell’avvenuta produzione di effetti nella sfera giuridica del destinatario), l’amministrazione può svolgere ulteriore attività istruttoria e rivedere la propria decisione senza necessità di fare ricorso ad atti di secondo grado.
Può, certo, escludersi che il descritto procedimento e il relativo provvedimento siano in astratto surrogabili tramite una dichiarazione o una segnalazione certificata di inizio attività.
Ma tale infungibilità non deriva tanto da una sostanziale differenza tra il tipo di presupposti richiesti dalla legge per l’iscrizione nel registro VDS e quelli propri dei topoi provvedimentali contemplati, innanzitutto, dal comma 1 dell’art. 19 l. proc.: anche quella dell’art. 7 d.p.R. n. 133/2010 è una fattispecie in cui il potere attribuito dalla legge all’amministrazione ha carattere interamente vincolato, poiché l’iscrizione è esclusivamente subordinata all’accertamento “di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale” e per essa non è previsto “alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale”[4].
Più semplicemente, la infungibilità tra il procedimento di cui all’art. 7 cit. e uno dei richiamati schemi non-provvedimentali risiede nella circostanza che, perché possa circolare, un apparecchio VDS iscritto in registro deve altresì essere munito di una targa (art. 7, c. 5) e a bordo deve essere custodito il certificato di identificazione rilasciato dall’amministrazione (art. 7, c. 7).
L’attività che l’interessato è abilitato a svolgere al termine del procedimento (l’adibizione del suo apparecchio alla circolazione aerea: art. 7, c. 1) deriva, insomma, da un adempimento dell’Ae.C.I. che consiste sì, in parte, in una prestazione di facere (l’iscrizione al registro), ma per altra parte ha a oggetto un dare (la consegna del certificato e della targa metallica), prestazione a cui l’interessato non potrebbe supplire con dichiarazione, segnalazione o certificazione alcuna.
Per il resto, il tipo di presupposti elencati dall’art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010 e il fatto che il loro accertamento d’ufficio sia previsto solo in via eventuale e differita (essendo sufficiente, in prima battuta, la verifica di “regolarità” della domanda presentata del privato) attestano una sostanziale corrispondenza tra l’iscrizione nel registro VDS e il tipo di provvedimenti dei quali l’art. 19, in ragione del carattere integralmente vincolato, consente una sostituzione tramite s.c.i.a..
Se ciò è vero, non pare che la soluzione adottata dal TAR potesse essere differente.
Per quanto, infatti, il potere di pronunciare sulla fondatezza dell’istanza, ai sensi dell’art. 31, c. 3, c.p.a. sia talora esercitato dal giudice amministrativo con estrema cautela (quasi che, anche a fronte di attività vincolata, la condanna all’adempimento prevista dalla norma costituisse una mera facoltà[5]), non può ignorarsi come questa ritrosia a predeterminare in sede giudiziale il contenuto del provvedimento amministrativo sia fondata su una sistematica, su opzioni interpretative e su concrete preoccupazioni che poco o nulla hanno a che vedere con la fattispecie in esame.
Ci si riferisce, in particolare, all’indirizzo, diffuso in giurisprudenza, secondo cui, se “l’adozione della determinazione conclusiva richiede il previo svolgimento di adempimenti istruttori da parte dell'Amministrazione”[6], alla sentenza che definisce il giudizio avverso il silenzio sarebbe precluso disporre intorno alla fondatezza dell’istanza: principio talora applicato dal giudice amministrativo in difetto di una previa indagine (e di una congrua motivazione) sulla natura dell’adempimento istruttorio che la specifica azione ex art. 31, c. 3, richiederebbe (prescindendo, cioè, dal fatto che l’attività procedimentale ancora ineseguita da parte della P.A. consista in una valutazione discrezionale – pura o tecnica – o in un mero accertamento di presupposti fattuali) [7].
In questi casi, il (pur criticabile) indirizzo richiamato muove, sul piano sistematico, dal presupposto di una sostanziale eterogeneità tra accertamento amministrativo e accertamento giudiziale[8]; sul piano interpretativo, esso antepone il divieto di cui all’art. 34, c. 2, c.p.a. alla lettera dell’art. 31, c. 3 (e dell’art. 34, c. 1, lett. b))[9]; sul piano pragmatico, avverte il rischio di fare del processo (anziché del procedimento) la sede per lo svolgimento di adempimenti istruttori che, ancorché non discrezionali, possono rivelarsi complessi[10].
Nella fattispecie risolta dal Tar Lazio, all’evidenza, nessuno di questi ostacoli concettuali avrebbe potuto condurre alla dichiarazione di inammissibilità della domanda di condanna ex art. 31, c. 3, c.p.a..
Non quello di carattere sistematico, perché la fungibilità tra accertamento amministrativo e auto-dichiarazione del privato, presupposta dall’art. 7 d.p.R. n. 133/2010, fuga (almeno per transitività) ogni possibile dubbio sulla surrogabilità al primo di un accertamento disposto dal giudice.
Non quello di carattere interpretativo, poiché la condanna all’iscrizione dell’apparecchio al registro VDS non intacca la titolarità in capo alla P.A. di “poteri amministrativi non ancora esercitati” (art. 34, c. 2, c.p.a.), giusto il disposto dell’art. 7, c. 4 cit. che consente all’Ae.C.I., anche successivamente all’scrizione (e senza previsione di termini analoga a quella dell’art. 19, c. 3, l. n. 241/1990), di accertare la conformità tra le dichiarazioni del proprietario e le effettive caratteristiche dell’aeromobile e, quindi, di esercitare i “poteri amministrativi” consequenziali.
Non, infine, quello di carattere pragmatico, poiché l’ordine di procedere all’iscrizione potrebbe essere disposto dal giudice senza necessità di alcun approfondimento istruttorio degno di nota, ma sulla base della semplice verifica di “regolarità” di documenti e dichiarazioni allegati all’istanza (unico accertamento a cui l’art. 7 subordina l’esercizio del potere amministrativo): e ciò pare abbia fatto nella specie il Tar, la cui sentenza non dà conto dell’espletamento di verificazioni, consulenze tecniche, o altri mezzi istruttori.
Il provvedimento di cui la sentenza in commento ordina l’emanazione si inscrive, in altri termini, in quel nucleo minimo di atti vincolati per i quali negare l’applicabilità dell’art. 31, c. 3, c.p.a. equivarrebbe a una interpretatio abrogans della norma[11]. All’interno degli (angusti) limiti tracciati dalla specialità di fattispecie quali quella in esame[12], infatti, anche gli orientamenti più limitativi del potere del giudice amministrativo di pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza non potrebbero condurre a una dichiarazione di inammissibilità dell’azione se non privando di significato quell’espresso riferimento alla “attività vincolata” che, nella norma, rappresenta un presupposto distinto dalla non necessarietà di “adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”[13].
E di ciò mostra implicitamente consapevolezza la motivazione, che si dilunga in (più e meno puntuali) precisazioni sugli specifici caratteri della fattispecie, quasi a giustificare, oltre ogni dubbio, la pronuncia di condanna all’adempimento disposta.
Afferma, infatti, la sentenza che l’iscrizione nel registro VDS (come il rilascio del certificato di identificazione e della targa) non sarebbe sussumibile nel genus delle autorizzazioni, rappresentando piuttosto un “mero accertamento costitutivo”[14]; all’interno di questa categoria, il provvedimento si caratterizzerebbe per avere a oggetto “un accertamento “in rem”[…] scevro da discrezionalità”[15], il quale integra un “atto dovuto, subordinato al mero accertamento della regolarità della documentazione a corredo dell’istanza”[16]. Per tali caratteristiche, afferma il Tar, il provvedimento che dispone l’iscrizione al registro e il rilascio di certificato e targa dell’apparecchio si distinguerebbe dall’attestato di idoneità al pilotaggio contemplato dall’art. 11 dello stesso d.p.R. n. 133/2010, il quale invece “postula una valutazione “in personam”, demandata all’Aeroclub d’Italia in ordine ai requisiti dell’aspirante pilota, e costituisce oggetto di un provvedimento discrezionale”[17].
Argomenti, questi, senz’altro sovrabbondanti e, a ben guardare, non condivisibili, se è vero che un “mero accertamento” può costituire il presupposto per l’adozione di provvedimenti pacificamente qualificabili come “autorizzazioni” (macro-categoria di atti a carattere ampliativo di cui quella individuata in sentenza costituisce piuttosto una species) e che lo specifico oggetto di un accertamento (si tratti di res o personae) non trae con sé un differente statuto giuridico del potere che per suo tramite è esercitato[18]: lo stesso art. 11 d.p.R. n. 133/2010 – richiamato, per contrapposizione all’art. 7, in sentenza – non pare del resto attribuire all’amministrazione alcuna discrezionalità (se non per la diversa ipotesi di abilitazione al volo in formazione, per il cui rilascio è previsto il superamento di un esame: art. 11 cit., c. 14).
Il rilievo secondo cui l’art. 7 d.p.R. n. 133/2010 non consente accertamenti “in personam”, nulla aggiunge insomma al carattere vincolato del provvedimento e alla possibilità per il giudice di emanare una pronuncia di condanna ex art. 31, c. 3, c.p.a.: tale puntualizzazione, piuttosto, potrebbe acquisire importanza nella ricostruzione delle modalità attraverso cui, de facto, si è prodotta l’inerzia provvedimentale dell’amministrazione. Quest’ultima, infatti, senza ricercare alcun appiglio nella norma attributiva del potere[19], ha mostrato di ritenere (prima informalmente[20] e poi mediante la richiesta di un parere ministeriale) che la cittadinanza brasiliana posseduta dalla ricorrente potesse ostare all’emissione del provvedimento richiesto e sulla scorta di questa (tanto gratuita, quanto erronea) convinzione si è astenuta dal provvedere.
La considerazione della superfluità dell’attività istruttoria posta in essere dall’Ae.C.I., in sintesi, sarebbe apparsa senz’altro più pertinente all’interno del secondo capo della sentenza, relativo alla pretesa risarcitoria: ma qui, come subito si vedrà, essa è stata in parte trascurata e, per altra parte, ha assunto un valore diametralmente opposto a quello cui or ora si è accennato.
3. Potere vincolato e struttura dell’illecito: i motivi del rigetto della domanda risarcitoria
Il commercio di apparecchi VDS (classe a cui pacificamente appartiene il deltaplano biposto a motore di cui la ricorrente aveva richiesto l’iscrizione in registro) è in Italia un’attività libera.
Chiunque può acquistare un siffatto mezzo aereo ma, da proprietario, non può godere del proprio bene, adibendolo alla circolazione a cui esso è destinato, se non ottenendo la previa iscrizione nel relativo registro, il certificato di identificazione e la targa (art. 7, c. 1, d.p.r. n. 133/2010).
L’iscrizione ha, inoltre, un riflesso sulle facoltà di disposizione del proprietario, in quanto – sebbene la disciplina applicabile in materia sia derogatoria (e senz’altro meno formale e rigorosa) rispetto a quella dettata dal Codice della Navigazione (artt. 749 ss. e 861 ss.) in materia di immatricolazione degli aeromobili e di trascrizione sul registro aeronautico nazionale, tenuto dall’ENAC – sul registro VDS sono annotati i passaggi di proprietà degli apparecchi (art. 7, c. 8, d.p.R n. 133/2010).
Nessun dubbio, dunque, che la mancata conclusione del procedimento amministrativo da parte dell’Ae.C.I. rappresenti, sul piano materiale, una condotta idonea a produrre un danno all’interesse dell’istante: alla stregua dell’omessa consegna di un bene oggetto di compravendita da parte del venditore, infatti, la mancata iscrizione nel registro determina l’impossibilità per il proprietario di trarre dalla sua cosa le utilità (funzionali ed economiche) che essa è in grado di produrre.
Nel caso di specie, la domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente ex art. 2 bis l. n. 241/1990 è stata respinta dal Tar Lazio sulla scorta di due argomenti.
Tra questi, quello senz’altro più solido è rappresentato dalla mancata prova del danno effettivamente subito dall’attrice: se quest’ultima, come si afferma in sentenza, ha in effetti omesso di allegare elementi idonei a dimostrare, anche solo presuntivamente, l’esistenza e l’entità del pregiudizio subìto (quali la diminuzione di valore del deltaplano sul mercato dell’usato, le spese sostenute per la custodia nelle more dell’inutilizzabilità del veicolo o il corrispettivo offerto da eventuali imprese interessate per la locazione di apparecchi VDS da destinare al noleggio), pare in effetti che la pretesa risarcitoria non potesse trovare accoglimento né qualificando il danno come contrattuale[21], né riconducendo la responsabilità dell’amministrazione al modello aquiliano, opzione a cui aderisce la sentenza[22].
Qualche perplessità, sul punto, potrebbe sorgere intorno al rito seguito dal Tar per decidere sulla domanda risarcitoria[23] e alla possibilità di procedere alla liquidazione del risarcimento in via equitativa.
Tali dubbi sono tuttavia secondari e ai medesimi si tornerà ad accennare nel paragrafo conclusivo, occorrendo prima prendere in considerazione la principale (e più discutibile) ragione che impedisce, a detta del Tar, l’accoglimento della domanda risarcitoria: ragione che avrebbe avuto il medesimo effetto ostativo anche qualora la ricorrente avesse adeguatamente assolto all’onere di provare l’esistenza e l’entità del danno subìto.
Secondo la motivazione, tra gli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c., difetterebbe nella fattispecie la “imputazione soggettiva della responsabilità, quanto meno a titolo di colpa semplice”[24].
È tra i (succinti) motivi impiegati in sentenza per sostenere tale conclusione che si annida una lettura dei fatti accertati del tutto differente (e, a ben guardare, incompatibile) con quella posta a fondamento dell’accoglimento dell’azione di adempimento.
Centrale, per comprendere l’impostazione adottata dal Tar, è l’affermazione secondo cui “non si può dire che l’ente abbia agito con malizia”[25]: essa rivela chiaramente l’equivoco di fondo in cui il giudice è incorso nel dare un corretto inquadramento giuridico al problema del danno da ritardo.
E ciò non tanto perché, rispetto alla struttura dell’illecito aquiliano, l’assenza di “malizia” potrebbe al più escludere la sussistenza del dolo dell’Ae.C.I. nella diretta produzione del danno (lasciando del tutto impregiudicata la possibilità di configurare l’elemento psicologico in termini di colpa), ma soprattutto perché, nell’ambito del danno da ritardo, la condotta di cui occorre giudicare l’illiceità ha carattere puramente omissivo e il danno non è dunque riconducibile al fatto che l’amministrazione abbia “agito” in modo illecito, ma alla circostanza che non abbia agito.
In altri termini, affermare che l’amministrazione non abbia “agito con malizia” non consente di ignorare il fatto che la stessa abbia scientemente violato il termine del procedimento (o che, quantomeno, ne abbia con negligenza ignorato la cogenza), facendolo spirare senza adottare la decisione finale: nel disposto dell’art. 2 bis, c. 1, l. n. 241/1990 i requisiti del dolo o della colpa non sono infatti riferiti alla produzione del danno (come la pronuncia sembra presuppore), ma appunto alla “inosservanza […] del termine di conclusione del procedimento”.
È singolare, allora, che il Tar non abbia dato rilievo alla circostanza che, nella fattispecie, l’Ae.C.I. avesse violato l’obbligo di provvedere non una, ma due volte, essendo rimasto inerte anche a seguito dell’istanza ex art. 2, c. 9 ter, l. proc. presentata dalla ricorrente: circostanza che avrebbe dovuto condurre il giudice a qualificare quella di restare in silenzio come una vera e propria scelta, una “inosservanza dolosa [id est: intenzionale] del termine di conclusione del procedimento”. A confermare tale lettura avrebbe concorso anche il fatto che, alla scadenza del (secondo) termine procedimentale, il titolare dei poteri sostitutivi non ignorasse affatto la pendenza del procedimento, avendo posto in essere, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto adottare il provvedimento di iscrizione (o quello di diniego), un’ulteriore attività istruttoria, fuori da ogni previsione di legge.
Quest’ultima circostanza è invece impiegata in motivazione quale argomento per escludere tanto la colpa, quanto la “malizia” dell’amministrazione: il Tar valorizza l’episodio rilevando che “l’Aero Club d’Italia ha ritenuto di dover richiedere un parere al Ministero vigilante, vicenda, questa, per cui, sia pur tardivamente, tale Ente ha voluto esser confortato e ha inteso condividere la risoluzione d’una fattispecie per esso con ogni evidenza inusuale o malintesa”[26].
In questo modo, il Tar ha manifestamente ignorato quanto dallo stesso affermato poche righe prima e cioè che la natura vincolata del provvedimento di iscrizione non consentisse all’amministrazione di valutare e di attribuire rilievo – né “con malizia” né in modo innocente – ad altri elementi se non a quelli individuati come presupposti dalla norma attributiva del potere (art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010).
Che la fattispecie (iscrizione nel registro VDS) fosse per l’Ae.C.I. (ente preposto per legge a esercitare in via esclusiva il relativo potere) “con ogni evidenza inusuale o malintesa”, al punto di volere essere “confortato” da un parere dell’organo tutorio, non è dunque indice, per il collegio, di alcuna negligenza o imperizia, ma dell’assenza di una “malizia” idonea a fondare una condanna al risarcimento del danno.
I paradossi a cui un siffatto argomentare può condurre sembrano di tutta evidenza. Se la non ‘usualità’ della fattispecie consisteva (così per l’Ae.C.I., come per il Tar) nella cittadinanza extra-Ue dell’istante, allora ogni elemento fattuale, per quanto giuridicamente irrilevante, potrebbe giustificare l’inerzia provvedimentale dell’amministrazione e una sua iperattività endo-procedimentale, volta a fugare gratuite incertezze: il fatto che un istante non sia di razza caucasica, il suo essere affetto da qualche forma di disabilità, il colore inconsuetamente appariscente dell’apparecchio, il prezzo abnorme pagato dal proprietario per l’acquisto di quest’ultimo.
A ben vedere, il perimetro entro il quale potrebbe ravvisarsi la colpa dell’amministrazione finirebbe, così, col coincidere con le sole ipotesi di “malizia” del funzionario competente: ed è singolare che la sentenza, accennando al fatto che anche una simile doglianza fosse stata in effetti mossa dalla ricorrente, ne abbia rilevato “l’irrilevanza e l’estraneità alla res in iudicium deducta”[27], pronunciandone l’assorbimento ai motivi posti a base della condanna ex art. 31, c. 3, c.p.a..
4. Brevi conclusioni
Chi volesse sondare, sulla base della decisione in commento, quale sia la effettiva consistenza della tutela oggi offerta dall’ordinamento all’interesse a una tempestiva conclusione del procedimento amministrativo, valutando la reale portata innovativa degli strumenti a tal fine contemplati dal codice del processo amministrativo (art. 31, c. 3) e dalla legge sul procedimento (art. 2 bis), potrebbe limitarsi a pochi elementari rilievi.
A fronte di un termine di trenta giorni previsto dalla legge per l’adozione del provvedimento richiesto, la ricorrente ha ottenuto l’iscrizione (o meglio la sola condanna dell’amministrazione a eseguirla e a rilasciare il certificato di identificazione e la targa) a distanza di circa un anno dalla presentazione dell’istanza.
Basterebbe questa considerazione per comprendere come il booster di tutela che l’art. 31, c. 3, c.p.a. intende fornire al cittadino non sia ex se idoneo a garantire il suo interesse a una decisione tempestiva.
Non v’è dubbio, infatti, che tale strumento sia in grado di incidere sui tempi dell’amministrazione, scongiurando il rischio di (ulteriori) comportamenti dilatori a seguito della decisione giudiziale. Esso consente all’amministrato di ottenere in via coattiva l’adozione non di un provvedimento – art. 117, c. 3, c.p.a. – ma dello specifico provvedimento di accoglimento dell’istanza, che egli potrà pretendere deducendo innanzi al giudice dell’ottemperanza – art. 114, c. 4, lett. b) c.p.a. – la nullità di una eventuale difforme determinazione della P.A.[28].
Altrettanto indubbio è, però, che la condanna all’adempimento (come la sua eventuale esecuzione forzosa) è un rimedio che interviene in un momento in cui l’interesse del privato a una decisione tempestiva è già definitivamente compromesso, essendo l’azione esperibile soltanto a seguito dell’infruttuoso decorso dei termini fissati ex art. 2 l. n. 241/1990.
È appena il caso di rilevare, peraltro, che anche questa (limitata) capacità dell’art. 31, c. 3, c.p.a. di incidere sui tempi dell’amministrazione non pare discostarsi tanto da quella propria degli strumenti di tutela tradizionali. Nel caso risolto dal Tar Lazio, in particolare, il carattere integralmente vincolato dell’accertamento rimesso all’amministrazione avrebbe consentito alla ricorrente di ottenere il medesimo risultato anche se la tutela apprestata dall’ordinamento fosse stata quella dell’impugnazione del silenzio-rigetto: nell’ambito di un siffatto giudizio, infatti, l’interessata avrebbe comunque potuto dimostrare la regolarità dell’istanza presentata all’amministrazione e la conseguente illegittimità del (tacito) diniego; ottenuto l’annullamento (e in forza del suo effetto conformativo) avrebbe poi avuto accesso al giudizio di ottemperanza in modo pressoché identico a quello garantito dalla condanna all’adempimento disposta dalla sentenza in commento[29].
Non pare, insomma, che la garanzia di decisioni più celeri (e soprattutto di decisioni tempestive, cioè rispettose dei termini previsti dall’art. 2 l. n. 241/1990) possa essere affidata ad altri rimedi se non quelli a carattere compensativo previsti dall’art. 2 bis della legge sul procedimento: soltanto il rischio effettivo di sopportare un costo per il ritardo, non quello di una condanna a provvedere (generica o specifica che sia), potrebbe infatti condurre le amministrazioni a prendere sul serio i limiti temporali fissati dalla legge per l’esercizio dei poteri pubblici, mutando il generico dovere di provvedere in un obbligo che fronteggia una specifica situazione giuridica di vantaggio del cittadino.
Come illustrato al precedente paragrafo, la sentenza in commento ha negato la tutela risarcitoria mediante argomenti, relativi alla colpa dell’amministrazione, che ne descrivono la fruibilità come eccezionale, dipendente da elementi il cui ricorso non è di certo consueto e la cui dimostrazione imporrebbe comunque, nella gran parte dei casi, una probatio diabolica.
Un siffatto approccio non è affatto originale o isolato[30].
Esso si inscrive, al contrario, in un diffuso filone interpretativo che sembra fondato sul fraintendimento di un’impostazione in sé e per sé senz’altro condivisibile: quella secondo cui la tutela risarcitoria ha una funzione supplementare rispetto a quella costitutiva o, nel caso del silenzio, rispetto alla condanna a provvedere[31].
Se correttamente intesa, questa impostazione implica esclusivamente che la previsione normativa di una tutela risarcitoria non possa intaccare né il primato di quella di annullamento, né, più in generale, la regola secondo cui è la decisione amministrativa a dovere soddisfare in prima battuta l’interesse dell’amministrato: la funzione della tutela risarcitoria è quella di compensare l’interesse del privato per i (soli) pregiudizi che l’effetto ripristinatorio dell’annullamento (o la condanna a emanare il provvedimento) non è in grado di rimuovere[32].
Dal richiamato insegnamento non dovrebbe, invece, trarsi l’ulteriore corollario secondo cui un’azione amministrativa palesemente illegittima non è mai ex se sufficiente a integrare il requisito dell’illiceità della condotta e l’elemento soggettivo la cui sussistenza è richiesta dall’art. 2043 c.c..
Potrebbe, infatti, dubitarsi di questo automatismo a fronte di fattispecie in cui la complessità dei dati dell’istruttoria è esposta a fisiologici travisamenti o in cui l’equivocità del dato normativo comporta un’estrema difficoltà interpretativa ai fini della sua applicazione, non invece quando un’elementare disciplina legale del potere configuri quest’ultimo come vincolato a un accertamento di altrettanto elementari fatti, né, soprattutto, quando non si controverta della legittimità di un provvedimento, ma della sua mancata adozione.
D’altro canto, dire che, in questi ultimi casi, l’illegittimità del provvedimento o il silenzio attestano direttamente l’illiceità della condotta dell’amministrazione e la sua colpa non equivale affatto a riconoscere al risarcimento del danno un carattere altrettanto automatico. Anche in questi casi, infatti, il principale ostacolo alla fruibilità della tutela risarcitoria è rappresentato dalla necessità per il danneggiato di dimostrare l’esistenza del pregiudizio patito e la sua entità: è la prova del danno che consente di accertare la sussistenza (e la misura) di una componente dell’interesse leso dall’amministrazione che rimane sacrificata anche a seguito dell’annullamento del (o della condanna ad adottare il) provvedimento[33].
Ciò è tanto più vero nell’ambito del silenzio-inadempimento, ove il tempo è sì qualificato dalla disciplina del procedimento come un valore in sé, come un’utilità la cui sottrazione alla sfera giuridica del privato è attestata ipso facto dalla mancata adozione della decisione amministrativa entro i termini di legge; ma la misura del sacrificio imposto a tale utilità è, nella gran parte dei casi, difficilmente dimostrabile.
È questa, del resto, la principale funzione della tutela indennitaria prevista dall’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990, per accedere alla quale il cittadino è dispensato dall’onere di provare non solo la colpa o il dolo della P.A., ma anche gli elementi che ne consentono la quantificazione.
Questa forma di tutela, come in altra occasione si è avuto modo di rilevare, ha tuttavia, a oggi, un ambito di applicazione soggettivo e oggettivo estremamente limitato[34]: a essa, nel caso che ci occupa, non avrebbe potuto avere accesso la ricorrente, che, infatti, pur avendo richiesto la liquidazione dell’indennizzo all’amministrazione in sede di istanza ex art. 2, c. 9 ter, l. n. 241/1990, non ha poi proposto in giudizio una corrispondente azione di condanna.
Chi abbia a cuore l’interesse del cittadino alla tempestiva conclusione dei procedimenti che lo riguardano deve allora domandarsi se, in difetto di una tutela indennitaria fruibile in via generale, non sia possibile individuare, in via interpretativa, soluzioni che consentano aliunde una compensazione del tempo perduto senza la necessità di offrite una rigorosa prova in giudizio dell’entità dei pregiudizi patiti.
Una prima soluzione potrebbe essere quella di procedere alla liquidazione del risarcimento del danno ex art, 2 bis, c. 1, in via equitativa, commisurandone l’entità all’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69/2013: ciò alla sola condizione della dimostrazione, da parte dell’amministrato, degli ulteriori presupposti che la legge richiede per la tutela risarcitoria (e non, invece per quella indennitaria) e fatta salva, in ogni caso, la possibilità per il ricorrente di dar prova del maggior danno subìto[35].
In fattispecie quali quella in esame, inoltre, non sarebbe peregrino ipotizzare che, per la liquidazione equitativa del danno, il giudice possa prendere a diretto riferimento il valore della situazione giuridica sostanziale alla quale l’esercizio del potere amministrativo è strumentale.
Non v’è dubbio che, con riferimento agli interessi pretensivi, non sia tendenzialmente identificabile “un bene della vita che possa essere leso, dato che la sua acquisizione passa necessariamente per (è condizionata dal) l’adozione di un provvedimento amministrativo che accolga la domanda del privato”: tanto che, con specifico riferimento al danno da ritardo, il diritto al risarcimento può astrattamente sussistere anche nel caso in cui il provvedimento (tardivamente) emanato sia un provvedimento di rigetto dell’istanza[36].
D’altro canto, malgrado la natura pretensiva dell’interesse, non può escludersi che “al danno (da ritardo) propriamente riferibile alla lesione dell’interesse legittimo [possa aggiungersi] anche un danno riferibile al(la aspettativa al) bene della vita” in sé e per sé considerata: ciò accade quando, come nel caso qui in esame, la disciplina positiva, precludendo all’amministrazione qualsiasi valutazione discrezionale, fornisca un parametro legale (e certo) “sul grado di “spettanza” del bene richiesto”[37].
In queste ipotesi, qualora la “aspettativa” del privato sia passibile di valutazione economica (nel nostro caso, il valore di un bene di cui il proprietario non può godere e disporre liberamente in difetto del provvedimento), non sarebbe irragionevole riconoscere al giudice il potere (e il dovere) di procedere a una valutazione equitativa del danno e di liquidarne il risarcimento in una misura percentuale di quel valore[38].
[1] Art. 5 dello Statuto dell’Ae.C.I., approvato con d.p.R. 18 marzo 2013, n. 53 (in G.U. n. 116 del 20 maggio 2013) e art. 7, c. 3, d.p.R. 9 luglio 2010, n. 133 (Nuovo regolamento di attuazione della legge 25 marzo 1985, n. 106, concernente la disciplina del volo da diporto o sportivo).
[2] Art. 7, cc. 4 e 5 d.p.R. n. 133/2010 cit.
[3] Legge 25 marzo 1985, n. 106 (Disciplina del volo sportivo o del diporto sportivo): v. in particolare l’Allegato della legge, contenente l’elencazione di tipi di apparecchi VDS e l’indicazione delle rispettive caratteristiche tecniche. Ai sensi dell’art. 7, c. 3, d.p.R. n. 133/2010, la dichiarazione del proprietario deve specificare “1) struttura dell'apparecchio (monoposto o biposto); 2) nome del costruttore; 3) modello e potenza del motore, peso massimo al decollo, dimensioni (lunghezza, larghezza e altezza) espresse in centimetri, ubicazione del posto principale di pilotaggio, tipologia dei comandi (tre assi, due assi, pendolare, elicottero, autogiro, mongolfiera, dirigibile); 4) modello dell'apparecchio, eventuale installazione del gancio per il traino nonché l’eventuale numero seriale ove trattasi di prodotto industriale”.
[4] Né una incompatibilità tra i due schemi (provvedimento di iscrizione/s.c.i.a.) potrebbe giustificarsi – al netto della riferibilità dell’art. 19 l. proc. ai soli provvedimenti autorizzatori necessari all’avvio di un’attività di impresa – sul piano della ‘sensibilità’ degli interessi in gioco: il fatto che l’effetto ampliativo dell’iscrizione consista nell’ammettere un mezzo alla circolazione aerea (attività pericolosa che coinvolge interessi quali salute e pubblica incolumità) potrebbe, infatti, spiegare la non riconducibilità del silenzio dell’Ae.C.I. all’ambito di applicazione dell’art. 20 l. n. 241/1990, non invece l’estraneità del provvedimento al novero di quelli sostituibili con segnalazione certificata. Mentre, infatti, l’art. 20, c. 4, l. n. 241/1990 esclude l’applicazione della disciplina sul silenzio-assenso “agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità […]”, l’art. 19 dispone l’esclusione dall’ambito della s.c.i.a. “dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria”. Il pericolo che possa derivare alla salute (non però alla pubblica incolumità) rileva invece, ai sensi dell’art. 19, c. 3, in sede di esercizio del potere di sospensione dell’attività in pendenza del termine assegnato dalla P.A. al privato per conformare l'attività intrapresa alla normativa vigente. V. N. Paolantonio, Comportamenti non provvedimentali produttivi di effetti giuridici, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2021, 349.
[5] In questi termini l’obiter dictum di Consiglio di Stato, III, 8 settembre 2016, n. 3827, ove si afferma che, anche a fronte di attività vincolata, “il giudice “può” e non ‘deve’ valutare se sia il caso di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa”. Per una ipotesi di ammissione dell’azione ex art. 31, c. 3, c.p.a. (anch’essa all’insegna della facoltatività) ove il giudice ravvisi la manifesta infondatezza dell’istanza, cfr. Consiglio di Stato, IV, 29 maggio 2015, n. 2688.
[6] Per questa formulazione T.A.R. Lazio, Roma, II, 11 dicembre 2017, n. 12204: fattispecie in cui l’accertamento rimesso all’amministrazione (e ritenuto insurrogabile dall’istruttoria processuale) è rappresentato da una misurazione di distanze.
[7] Afferma espressamente che “sono inammissibili, ai sensi artt. 30, comma 1, e 31 comma 3, c.p.a., le azioni di condanna, anche in sede di giurisdizione esclusiva, ad un facere che implichi […], anche in presenza di provvedimenti vincolati, l’esercizio di un’attività istruttoria a cura della pubblica amministrazione” Consiglio di Stato, IV, 30 maggio 2022, n. 4357. V. anche T.A.R. Lazio, Roma, II, 22 febbraio 2021, n. 2173, che ritiene ostativa alla condanna di adempimento la necessità di svolgere ulteriori adempimenti istruttori ai fini della qualificazione di un abuso edilizio (per il quale era richiesta una rettifica della concessione in sanatoria) alla luce delle tipologie elencate dalla tabella allegata alla legge 28 febbraio 1985, n. 47. Nel senso, invece, della piena ammissibilità della prova, da parte del ricorrente, in ordine alla sussistenza di presupposti non ancora accertati dall’amministrazione, ai fini dell’accoglimento della domanda ex art. 34, c. 3, lett. c), alla sola condizione che la legge non ne consenta espressamente una valutazione discrezionale, T.A.R Toscana, 14 marzo 2017, n. 392. Non è inconsueto rinvenire il riconoscimento della piena capienza dell’istruttoria processuale rispetto agli accertamenti non eseguiti dall’amministrazione quando una domanda in tal senso non sia stata proposta in giudizio: così, ad es., C.G.A.R.S. 18 luglio 2016, n. 214, che, nel motivare l’inammissibilità dell’impugnazione dell’aggiudicazione di una gara da parte dell’impresa terza classificata, la quale aveva omesso di richiedere l’accertamento dell’anomalia dell’offerta presentata dalla concorrente in grado poziore (accertamento non compito dalla P.A.), afferma che la regola di cui all’art. 34, c. 2 c.p.a. “non deve essere enfatizzata o assolutizzata ma deve, piuttosto, essere letta nel quadro generale di un giudizio amministrativo i cui contorni fondamentali sono andati mutando nel corso del tempo ed il cui oggetto è andato spostandosi, per così dire, dall’atto al rapporto amministrativo”; in concreto, la conseguenza di tale lettura è che “deve ritenersi che l’odierna ricorrente ben potesse articolare le proprie censure anche nei confronti della seconda classificata, chiedendo al giudice di accertarne l’anomalia dell’offerta economica” (punti 5.1.e 5.4.).
[8] Frequente è l’ancoraggio di questa convinzione al principio di separazione dei poteri e della riserva di amministrazione (v. ad es., da ultimo, T.A.R. Lazio n. 2173/2021 cit.), di cui anche l’art. 34, c. 2, c.p.a. (v. subito infra, nel testo) rappresenterebbe una specificazione: in tal senso anche Consiglio di Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5. Sulla non riconducibilità della ratio della norma a detti principi v. invece M. Mazzamuto, Il principio del divieto di pronuncia con riferimento ai poteri amministrativi non ancora esercitati, in Diritto processuale amministrativo, 1/2018, 67 ss. Sul rapporto tra la tradizionale regola della décision préalable e gli accertamenti prodromici alla decisione ancora non eseguiti dalla P.A. (anche con specifico riferimento all’azione di adempimento) v. ibid., 95 ss.
[9] Cfr. da ultimo Consiglio di Stato, 26 aprile 2022, n. 3173, che ritenendo non “condivisibile l’assunto dell’appellante, secondo cui l’art. 31, comma 3, c.p.a. […] consentirebbe comunque al giudice di sostituirsi alla p.a. in tutte le ipotesi di attività vincolata”, afferma che “[se] il giudice fosse costretto a disporre incombenti istruttori, si sostituirebbe in totoall’Amministrazione nell’esercizio del potere, aggirando il divieto recato dall’art. 34, comma 2, c.p.a”.
[10] Così, ad esempio, Consiglio di Stato, III, 27 aprile 2022, n. 3317, che, individuata la ratio dell’art. 31, c. 3 c.p.a. in “esigenze di economia e celerità processuale e procedimentale, alle quali risulta conforme l’anticipazione della valutazione amministrativa alla sede processuale”, esclude l’accessibilità al rimedio in fattispecie in cui la complessità dell’accertamento dimostri la “irrealizzabilità dell’esigenza di concentrazione presa in considerazione dalla norma citata”.
[11] Sulla possibilità di considerare gli atti privi di margini di discrezionalità come costitutivi “dei propri effetti” v. per tutti M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013, 122 ss.
[12] Alla stessa classe sono, ad esempio, riconducibili i casi di mancata adozione di provvedimenti aventi carattere meramente dichiarativo, come l’acquisizione gratuita di un’opera abusiva al patrimonio comunale ex art. 31 T.U. edilizia (Consiglio di Stato, VI, 8 maggio 2014, n. 2368): per l’ammissibilità, in questi casi, dell’azione ex art. 31, c. 3, c.p.a. proposta dal terzo a fronte dell’inerzia del Comune v. T.A.R. Calabria, Catanzaro, 1 marzo 2019, n. 408.
[13] Ciò è tanto più evidente ove si tenga conto dell’indirizzo secondo cui, ove il provvedimento richiesto dal ricorrente rappresenti il mero adempimento di un’obbligazione ex lege, la domanda di condanna non potrebbe essere dallo stesso proposta nella forma dell’azione avverso il silenzio, ritenuta in questi casi inammissibile già ai sensi dell’art. 31, c. 1: in questo senso, da ultimo, Consiglio di Stato, 15 febbraio 2021, n. 1348, in materia di contributi pubblici, ove si afferma che qualora il beneficio “sia concesso ex lege, l’attività richiesta all’Amministrazione non si traduce nella spendita di potestà provvedimentali - risultando la regula iuris del rapporto concreto già dettata in via normativa -, bensì afferisce alla materiale esecuzione dell’obbligazione pecuniaria, attraverso il compimento di un mero atto solutorio avente natura di atto giuridico in senso stretto. [In questi casi], spettando all’Amministrazione la sola attività solutoria, non [si è] in presenza di un pubblico potere e, per l’effetto, l’asserita inerzia [non può] qualificarsi come silenzio inadempimento ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 L. n. 241 del 1990, nonché 31 e 117 c.p.a.”. È noto, tuttavia, che la materia dei contributi e delle sovvenzioni è ormai da tempo contraddistinta da una particolare nettezza della distinzione tra fattispecie (discrezionali) in cui l’attività provvedimentale è ricondotta alla nozione di potere amministrativo e fattispecie (vincolate) in cui la stessa attività è considerata mero adempimento di un’obbligazione: su tale distinzione si fonda, infatti, il discrimine tra giurisdizione ordinaria e amministrativa posto in materia dalla consolidata giurisprudenza delle Sezioni unite che nella seconda classe di ipotesi reputa l’amministrato titolare di un diritto soggettivo (v. da ultimo Cassazione civile, sez. un., 13 maggio 2022, n. 15370).
[14] Così la motivazione al par. 4.3.
[15] Ibid., loc cit. e par. 5
[16] Ibid., par. 4.2.
[17] Ibid., par. 4.3.
[18] Si pensi a un concorso di progettazione, ove i requisiti di partecipazione degli operatori economici costituiscono oggetto di un accertamento (“in personam”) a carattere vincolato (art. 46, c. 1, d.lgs. n. 50/2016 e d.m. 2 dicembre 2016, n. 263), mentre la valutazione (“in rem”) del progetto ha ovviamente carattere ampiamente discrezionale (art. 156, c. 4).
[19] V. supra, nota 3.
[20] In motivazione (par. 1) si rappresenta che dalla “corrispondenza multimediale intercorsa tra l’istante e l’intimato ente diregolazione del volo da diporto emerge che il 27 luglio 2021 è pervenuta alla prima la fotografia di una G.U., riproducente l’art. 22 L.24 aprile 1998 che aveva sostituito l’originario art.751 Cod.nav. il quale concerneva la tematica della “nazionalità dei proprietari di aeromobili” (doc.11 produz. ricorr.), messaggio che confermava che l’omessa decisione dell’Ente scaturiva dalla circostanza che la ricorrente avesse cittadinanza brasiliana e dunque non dell’UE”. V. anche il par. 5 della decisione.
[21] Cfr. da ultimo Cassazione civ. sez. II, 6 aprile 2022, n. 11126: “Nella vendita di cose mobili, laddove non trovi applicazione l'art. 1518 c.c., in caso di ritardo da parte del venditore nella consegna della merce è onere dell'acquirente provare di aver subito un'effettiva lesione del proprio patrimonio per la perdita di valore del bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni, anche sulla base di elementi indiziari allegati dallo stesso danneggiato”.
[22] È noto che la conferma dell’ascrizione della responsabilità per danno da ritardo al modello aquiliano si deve a Consiglio di Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7, sulla quale v. in questa rivista E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021; sulla stabilità delle opzioni ricostruttive offerte dal sistema della responsabilità civile (o meglio dalle letture, talvolta originali, fornitene dalla giurisprudenza amministrativa), v. M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria, ibid.
[23] Anche la domanda risarcitoria è stata infatti definita dalla sentenza ex 117 c.p.a. È noto, al riguardo, che la giurisprudenza amministrativa interpreta il comma 6 dell’art. 117 c.p.a. (ai sensi del quale, se l’azione risarcitoria “è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria”) nel senso che “la trattazione della domanda risarcitoria connessa all'azione avverso il silenzio nelle forme del giudizio ordinario costituisce una facoltà discrezionale del giudice adito”, poiché nella lettera della norma “il verbo servile "può" […] regge tanto la proposizione relativa alla definizione della domanda avverso il silenzio quanto quella successiva, concernente la conversione del giudizio nel rito ordinario per la trattazione della domanda risarcitoria”. Per tal via, l’art. 117, c. 6 cit. è letto come disposizione derogatoria rispetto alla regola fissata dall’art. 32, c. 1, secondo periodo, del codice, a mente del quale, in ipotesi di cumulo nello stesso giudizio di domande soggette a riti diversi, “si applica quello ordinario”, salve le (sole) eccezioni disposte dal Titolo V del Libro IV. Quando, tuttavia, il giudice ritenga di trattare nelle forme del rito speciale anche la domanda risarcitoria, la stessa giurisprudenza precisa che “deve renderne edotte le parti costituite, in analogia con quanto previsto dal combinato dei sopra citati disposti degli artt. 60 e 74 cod. proc. amm.” (in questi termini Consiglio di Stato sez. V, 5 dicembre 2013, n. 5798). Nel caso di specie, né la sentenza, né l’ordinanza interlocutoria da questa richiamata (4 aprile 2022, n. 3885, ove pur facendosi menzione della “richiesta di passaggio in decisione della causa senza discussione prodotta dalla ricorrente”, nulla si dispone in merito) danno contezza della previa comunicazione alle parti della decisione del Tar di definire il giudizio a seguito della trattazione camerale: tale omissione potrebbe ritenersi limitativa del diritto di difesa della ricorrente, la quale avrebbe potuto confidare, in ipotesi, nel termine ex art. 73 c.p.a. per il deposito di documenti attestanti l’entità del danno patito.
[24] V. par. 8.1.
[25] Ibid.
[26] Ibid.
[27] Così la sentenza al par. 4.
[28] Per un generale e approfondito inquadramento del tema v. A. Carbone, L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, passim e, con riferimento all’azione di adempimento nell’ambito del rito avverso il silenzio, 202 ss.;
[29] M. Mazzamuto, op. cit., 87 ss.
[30] Com’è noto, la tesi dell’insufficienza dell’illegittimità dell’azione amministrativa ai fini del risarcimento del danno risale già a Cass. civ. 22 luglio 1999, n. 500, secondo cui “l'imputazione non potrà quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice ordinario dovrà svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa […] che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo (lesivo dell'interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”. Tale impostazione è rimasta sostanzialmente costante anche a seguito della devoluzione al G.A. della giurisdizione sul risarcimento dei danni derivanti da lesione di interesse legittimo: cfr. da ultimo Consiglio di Stato V, 31 dicembre 2021, n. 8746, dalla cui motivazione la colpa della P.A. necessaria ai fini della configurazione dell’illecito viene espressamente qualificata come colpa grave: “in materia di responsabilità della Pubblica Amministrazione per danno da lesione di interessi legittimi (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 23 aprile 2021, n. 7) la sussistenza della colpa va dimostrata ed accertata in modo rigoroso e l'annullamento giurisdizionale del provvedimento illegittimo non costituisce di per sé prova della sussistenza […] dovendo anche accertarsi se l'adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo siano conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede”. V. anche Consiglio di Stato, III, 15 maggio 2018, n. 2882 e 30 luglio 2013, n. 4020; il condivisibile principio di diritto secondo cui per la “configurabilità della colpa dell'Amministrazione […] occorre avere riguardo, anzitutto, al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità” (Consiglio di Stato sez. III, 5- giugno 2019, n. 3799) risulta richiamato esclusivamente da pronunce che, alla stregua del citato precedente, escludono la risarcibilità del danno individuando margini di discrezionalità amministrativa nella fattispecie controversa: anche a fronte del richiamo del condivisibile principio, esso si risolve de facto nella regula iuris secondo cui “a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile” (in questo senso, richiamando Cons. St. n. 3799/2019 cit., Consiglio di Stato, III, 24 febbraio 2022, n. 1320).
[31] E. Follieri, Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Diritto processuale amministrativo, 2006, 23 ss..
[32] Cfr. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, febbraio 2021: “La tutela risarcitoria è la trappola perfetta per il giudice amministrativo e la strada dell’ibridazione è la pericolosa scorciatoia che vi conduce: espone il giudice amministrativo al perenne e carsico contrasto con le Sezioni Unite nel momento in cui l’ibridazione tende a costruire una tutela risarcitoria che è un surrogato di quella fruibile nel sistema della tutela civile dei diritti, sistema che è fondato sul principio della responsabilità patrimoniale del debitore proprio per garantire la tutela per equivalente monetario come misura generale; lo allontana da quella che è la sua mission istituzionale (e costituzionale), assicurare cioè giustizia nell’amministrazione, che rappresenta la sua stessa ragion d’essere”.
[33] Osserva M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione, cit., nt. 52: “Allo stato del diritto positivo, se si vuol dar consistenza alla pretesa risarcitoria collegata alle mere situazioni procedimentali, si dovrebbe accentuare la funzione punitivo-sanzionatoria della responsabilità, poiché ciò consentirebbe di condannare al risarcimento l’amministrazione che non rispetti le situazioni procedimentali anche indipendentemente dall’eventuale pregiudizio patrimoniale patito dal singolo”.
[34] Cfr. M. Ragusa, Forme di tutela dell’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile 2021, n. 4597), in questa Rivista, giugno 2021, segn. § 4.
[35] Interessante, in questa prospettiva, la proposta di F. Patroni Griffi (A 20 anni dalla sentenza n. 500-1999: attività amministrativa e risarcimento del danno, in giustizia-amministrativa.it, 2019) relativa alla possibile introduzione di “una forfettizzazione tabellare dei danni risarcibili nelle ipotesi più frequenti di illegittimo esercizio del potere che abbia conseguenze “illecite” sul piano civilistico, conseguenze che le tecniche costitutive e ordinatorie non siano in grado di riparare e che comunque non soddisfino pienamente il soggetto leso. Si tratterebbe invero non di indennizzo in senso tecnico ma di una predeterminazione della quantificazione del danno, rispetto alla quale il soggetto leso, se non soddisfatto, potrebbe comunque rivolgersi al giudice civile, dando la prova, nei tempi del relativo giudizio, dell’ulteriore danno, rispetto a quello “tabellare”, subìto”.
[36] F.G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 311 ss. Nello stesso senso pare l’obiter dictum di Consiglio di Stato, Ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5, che trattando di “responsabilità da comportamento scorretto” afferma che la responsabilità da ritardo si configura “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo”.
[37] F.G. Scoca, L’interesse legittimo, loc. cit.
[38] Così ad es., da ultimo, Cass. civ., VI, ord. 13 maggio 2019, n. 12630, ove si rileva “che la lesione della proprietà […] è di per sé produttiva di danno, che consiste proprio nel mancato godimento delle facoltà tipiche della proprietà per effetto dell'altrui illegittimo comportamento (tra le molte, Cass. 31/08/2018, n. 21501; Cass. 16/12/2010, n. 25475)” e si conclude “che, pertanto, una volta accertata l’esistenza della lesione è esclusa la necessità di specifica attività probatoria, mentre l’obiettiva difficoltà di determinazione del quantum impone che il giudice proceda alla liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., adottando eventualmente, quale adeguato parametro di quantificazione, quello correlato ad una percentuale del valore reddituale dell’immobile, la cui fruibilità sia stata temporaneamente ridotta (cfr. Cass. 03/04/2012, n. 5334; Cass. 27/03/2008, n. 7972)”.
Licenziamenti individuali. Ancora un intervento correttivo della Consulta
di Luigi Di Paola
Sommario: 1. La disciplina dei licenziamenti nella legge “Fornero” e i vincoli di sistema. - 2. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la “manifesta insussistenza” del fatto. - 3. La sentenza n. 125 del 2022 della Corte costituzionale e la “irragionevolezza intrinseca” della norma censurata - 4. Due brevi considerazioni. - 5. Scenari futuri.
1. La disciplina dei licenziamenti nella legge “Fornero” e i vincoli di sistema.
Come è noto, all’indomani dell’entrata in vigore della legge “Fornero” (di cui ricorre proprio in questi giorni il “decennale”), il dibattito più vivace (e al contempo più interessante) tra gli operatori ebbe ad oggetto la capacità di resistenza di alcune norme – in realtà “atipiche”, per le implicazioni che esse presentavano – a fronte di vincoli di sistema costituiti non solo dai parametri costituzionali, per così dire, di settore, ma anche da quelli “elastici” di portata generale, nonché da categorie basilari del diritto civile e processuale civile poste a presidio della coerenza del tessuto normativo.
Il dibattito in questione aveva finito per polarizzarsi tra chi riteneva che il legislatore possa muoversi liberamente nell’esercizio della sua funzione, sul rilievo che non esiste, al di fuori di tipici principi sovraordinati nella gerarchia delle fonti, un “sistema”, quale espressione di un insieme cristallizzato di regole al cui interno collocare in maniera organica i nuovi “innesti”, e tra chi, invece, assumeva che disconoscere l’ordine di un determinato impianto regolativo, ossia ignorarne la struttura portante che ne garantisce in buona parte la ragionevolezza, comporta il rischio di cortocircuiti normativi che possono manifestarsi anche a distanza di anni.
Ovviamente l’analisi si era focalizzata sul delicato istituto della “reintegrazione” nel posto di lavoro, che il legislatore della riforma ha ritenuto di non sopprimere del tutto (il che avrebbe potuto fare, consentendolo la nostra Costituzione, come più volte ribadito dal Giudice delle leggi), in tal modo intervenendo nel sistema in maniera non radicale, ma in funzione parzialmente conservativa.
L’impatto con il nuovo quadro normativo è risultato, per l’interprete, tutt’altro che morbido, avuto riguardo, soprattutto, all’uso di una terminologia a tratti inconsueta e non sempre in linea con il modello classico del lessico giuridico (si pensi all’impiego di parole come “può” o “manifesta insussistenza”, su cui a breve torneremo).
L’opera più ardua è stata quindi quella, a fronte di una regolamentazione di non agevole intelligibilità, di ricavare dal complesso di norme un qualche principio generale (e qui è d’obbligo richiamare il noto dibattito sul delicato tema concernente la reintegra intesa come regola generale o come eccezione) che consentisse, nei casi dubbi – non pochi, in verità –, di giungere ad una conclusione plausibile.
2. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e la “manifesta insussistenza” del fatto.
Nel modulare le forme di tutela per il licenziamento illegittimo nell’area del giustificato motivo oggettivo il legislatore aveva previsto che il giudice potesse applicare la tutela reintegratoria cd. “attenuata” (ossia associata ad una posta risarcitoria non superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) nell’ipotesi in cui avesse accertato la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento; nelle altre ipotesi in cui avesse accertato la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo, avrebbe dovuto applicare la tutela indennitaria cd. “forte” (integrata da una posta risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).
Tra i primi commentatori vi era stato chi, in ossequio ai vincoli di sistema, aveva ritenuto che i termini “può” e “manifesta” non fossero provvisti di una propria identità precettiva, ma fossero mere improprietà linguistiche rappresentative di concetti che l’interprete avrebbe potuto meglio calibrare, alla luce del contesto normativo di riferimento, in maniera ragionevole (facendosi notare, da un lato, che in altre occasioni il legislatore aveva usato il termine “può” con il significato di “deve” e, dall’altro, che un aggettivo come “manifesto” non è in grado di qualificare sul piano ontologico un dato giuridico, che deve essere calato nella realtà, nella quale un fatto “è” o “non è”).
Ed infatti, in primo luogo, un potere del giudice, svincolato da ogni criterio, di ordinare o meno una misura rilevante come la reintegra, non sembrava in linea con il basilare principio secondo cui la discrezionalità, nel sistema, si trova ad esser sempre temperata dalla esistenza di fattori in grado di orientarne razionalmente il dispiegarsi, così tenendola ben distinta dall’arbitrio.
Su tale profilo non è necessario dilungarsi oltre, poiché l’intervento della Corte costituzionale (v. la nota sentenza n. 59 del 2021), con la quale il termine “può” è stato espunto dalla norma per far spazio alla parola “deve”, fa parte della storia recente, che ha fatto registrare, comunque, il ripudio della tesi dell’autosufficienza e dell’autoregolamentazione del sistema, non avendo la predetta Corte optato per un invito ad una interpretazione adeguatrice della norma stessa.
In tal modo, il Giudice delle leggi ha indirettamente giustificato la correttezza dell’interpretazione letterale del termine sulla quale si era orientato, dopo un tentennamento, il giudice di legittimità; ma, certamente, la secca indicazione dei vari profili di irragionevolezza ha reso chiara la “evidenza” di una illegittimità che si è perpetuata, inarrestabile, per diversi anni.
Analoga è la vicenda qui all’esame, benché per alcuni aspetti più delicata dell’altra, poiché, se per dare uno spazio vitale al termine “può” erano stati rapidamente individuati alcuni criteri che in qualche modo indirizzassero l’esercizio del potere discrezionale del giudice, gli sforzi interpretativi per stabilire quando l’insussistenza del fatto fosse “manifesta” sono stati, per converso, notevoli e con esiti a volte discutibili sul piano della coerenza.
Vediamo succintamente il perché.
Secondo l’ultimo approdo, la manifesta insussistenza del fatto doveva riferirsi ad una “evidente e facilmente verificabile”, sul piano probatorio, assenza dei presupposti di legittimità del licenziamento[1].
Quanto ai criteri di giudizio integranti la “facile verificabilità”, si era fatta strada l’idea che il requisito della “manifesta insussistenza” dovesse risultare, sul versante probatorio, in modo pieno – con una non lieve alterazione degli ordinari principi di ordine processuale –, ossia allorquando il datore non fosse riuscito a fornire alcun principio di prova oppure fosse risultata linearmente in giudizio la pacifica insussistenza dei predetti presupposti (come risulta, indirettamente, dall’insegnamento giurisprudenziale secondo cui l’insufficienza probatoria non è sussumibile nell’alveo della “manifesta insussistenza”[2]).
Tuttavia, per alcuni presupposti, la “facile verificabilità” non pareva apprezzabile sul piano probatorio.
È il caso, da un lato, del nesso di causalità fra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento, il cui difetto è stato fatto rientrare automaticamente nella “particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto”[3], e, dall’altro, dei doveri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee, la cui violazione non è stata ritenuta tale da integrare l’“evidenza” in questione[4], e ciò a prescindere dal grado di inferenza degli elementi probatori di supporto al relativo accertamento, nell’una o nell’altra ipotesi.
Con il che la categoria della “manifesta insussistenza” sembrava addirittura non possedere una propria unitarietà concettuale.
3. La sentenza n. 125 del 2022 della Corte costituzionale e la “irragionevolezza intrinseca” della norma censurata.
Il nucleo centrale dell’apparato argomentativo di sostegno alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, st. lav., limitatamente alla parola “manifesta”, è costituito dalla riconosciuta sussistenza di profili di “irragionevolezza intrinseca” della disposizione censurata.
In altri termini, qui, l’effetto di trascinamento del principio di uguaglianza (rispetto alla disciplina del licenziamento disciplinare) opera in misura marginale (ossia in riferimento, come subito vedremo, alla successiva lett. a”), poiché ciò che emerge è la “irragionevolezza” in sé della previsione, per di più sotto più profili.
In estrema sintesi: a) il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è indeterminato, prestandosi il criterio prescelto ad incertezze applicative, potendo condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento; a’) il predetto requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico, in quanto la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi; a”) l’elemento distintivo dell’insussistenza manifesta neppure si connette razionalmente alla peculiarità delle diverse fattispecie di licenziamento; b) il requisito in questione non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio; b’) il criterio della manifesta insussistenza, prescindendo dalla tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi, risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento; b”) la disposizione censurata si riflette sul processo e ne complica taluni passaggi, con un aggravio irragionevole e sproporzionato; oltre all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza, con vanificazione dell’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finendo per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo (sicché l’irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata risiede anche in uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti).
Se è lecito muovere un solo appunto alla sentenza della Corte, esso riguarda il passaggio della motivazione in cui è affermato che “nelle controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, il quadro probatorio è spesso articolato, tanto da non essere compatibile con una verifica “prima facie” dell’insussistenza del fatto, che la legge richiede ai fini della reintegrazione”.
Ed infatti potrebbe qui obiettarsi che, nell’ottica del legislatore, l’ipotesi della verifica “prima facie” dell’insussistenza del fatto non era considerata la regola o una evenienza necessaria, sì da potersene ipotizzare l’irragionevolezza in quanto, per la maggior parte dei casi, esclusa.
4. Due brevi considerazioni.
Come nella precedente sentenza n. 59 del 2022, il Giudice delle leggi ha evidenziato, in rapide ma nette battute, la manifesta irragionevolezza della norma censurata (sotto più profili).
Dal che possono trarsi due considerazioni, sia pur su versanti diversi.
Innanzitutto – come nel caso del “può” – una illegittimità evidente si è protratta per un decennio, nel corso del quale in molte controversie è stata negata la reintegra (rimanendo oggi aperta la strada, quanto al passato, ai lavoratori coinvolti in contenziosi pendenti nell’ambito dei quali sia stato impugnato il capo di sentenza concernente la affermata legittimità del licenziamento o l’applicazione della tutela indennitaria) solo in ragione di una “accidentalità” legata all’andamento del processo, all’esito del quale, appunto, l’insussistenza del fatto è stata giudicata non “manifesta”.
In secondo luogo, il Giudice delle leggi, nel far ricorso al parametro costituzionale che impone l’adozione di un principio di ragionevolezza, ha operato una demolizione normativa dando, in qualche modo, dignità anche ai vincoli di sistema, integrati, in primo luogo, proprio dalla coerenza e razionalità di determinate scelte normative, nel quadro di un disegno complessivo in cui rileva non solo l’obiettivo di massima avuto verosimilmente di mira dal legislatore, ma anche la modalità con le quali tale obiettivo dovrebbe essere perseguito, tenuto conto di altre esigenze concorrenti.
5. Scenari futuri.
Una inversione di tendenza sembra registrarsi, oggi, nell’area del licenziamento disciplinare, ove la Cassazione, rettificando il precedente indirizzo, ha affermato che il giudice possa interpretare le norme generiche od elastiche dei contratti collettivi anche ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria, non essendo necessario a tal fine che la condotta contestata (ed accertata in giudizio) coincida con quella punita dalla fonte negoziale con sanzione conservativa[5].
L’opzione poggia anche sulla intrinseca irragionevolezza di una interpretazione contraria, che legittimerebbe l’applicabilità o meno di una tutela così rilevante come quella reintegratoria sulla base di una mera casualità (od accidentalità), per essere la condotta contestata al lavoratore e sanzionata con il licenziamento descritta in modo dettagliato nella fonte negoziale che prevede l’applicabilità della sanzione conservativa.
In tal caso, pertanto, il giudice di legittimità sembra aver fatto ricorso all’interpretazione adeguatrice, per altro confortata dallo stesso testo della norma, con cui è decisamente compatibile.
Si tratta ora di analizzare brevemente cosa rimane, nell’area del giustificato motivo oggettivo, della tutela indennitaria forte.
È la stessa Corte costituzionale a fornire un supplementare ausilio.
Infatti, una volta tenuta fuori dalle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, di cui all’art. 18, comma 7, st.lav., la mancanza di uno dei tre elementi costitutivi della fattispecie classica (i.e.: ragioni inerenti al riassetto organizzativo, nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, impossibilità di “repechage”), residua, quale ipotesi diversa dal “fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto”, quella del mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile (ed in tal senso l’orientamento corrente rimane valido, sia pur per diversa ragione).
Un’ultima annotazione riguarda il richiamo, operato dalla Corte costituzionale, all’insussistenza del fatto che “vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso”.
Se in tale affermazione volesse ravvisarsi un giudizio di “valore” assoluto di gravità del vizio rappresentato dall’insussistenza del fatto, che il legislatore ha mantenuto inalterato nel regime del “Jobs Act” solo per il licenziamento disciplinare (nella cui area, appunto, è ammessa la reintegra ove il fatto risulti insussistente), potrebbe sostenersi che l’eliminazione, nel predetto regime, dell’istituto della reintegra per l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dichiarato illegittimo dia luogo a dubbi di legittimità non tanto sul piano della violazione del principio di uguaglianza, bensì su quello dell’“irragionevolezza intrinseca”, trattandosi di vizio “più grave” sanzionato – in contrasto con la “ratio” normativa di riservare l’applicabilità della reintegra solo ai casi di licenziamento macroscopicamente viziato – con la tutela indennitaria.
Immaginare altro è allo stato difficile, ma non sono da escludere ulteriori ritocchi che inducano il legislatore a mettere mano nuovamente all’intera disciplina dei licenziamenti, stavolta, eventualmente, anche con uno sguardo ai vincoli di sistema.
[1] V. Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; cfr., di recente, Cass. 4 marzo 2021, n. 6083.
[2] V. Cass. 25 giugno 2018, n. 16702; cfr., altresì, Cass. 8 gennaio 2019, n. 181, e, da ultimo, Cass. 4 marzo 2021, n. 6083, cit., ove è precisato che alla chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso non possono essere equiparate né una prova meramente insufficiente, né l’ipotesi nella quale tale requisito possa semplicemente evincersi da altri elementi opinabili o non univoci.
[3] V., tra le altre, Cass. 11 novembre 2019, n. 29101.
[4] Cfr. Cass. 19 maggio 2021, n. 13643; in precedenza v. Cass. 25 luglio 2018, n. 19732.
[5] v. Cass. 11 aprile 2022, n. 11665.
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