ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Antonio Balsamo e Alessia Fusco
Sommario: 1. Le ragioni di interesse per il tema, a partire dalla trasformazione della “natura” del procedimento di prevenzione patrimoniale – 2. Tassatività processuale e ragionamento probatorio – 3. Un nuovo calcio d’inizio per la partita U.E. sulla confisca: la proposta di una nuova direttiva – 4. NCB, istruzioni per l’uso: il documento ECCD del Consiglio d’Europa – 5. Alcuni rilievi conclusivi.
1. Le ragioni di interesse per il tema, a partire dalla trasformazione della “natura” del procedimento di prevenzione patrimoniale
Uno dei più importanti fattori di evoluzione degli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione è rappresentato oggi dal percorso di costruzione di “regole giuridiche comuni europee e persino universali (…) che incoraggiano la confisca di beni collegati a reati gravi come la corruzione, il riciclaggio, le attività illecite in materia di sostanze stupefacenti e così via, senza la precedente esistenza di una condanna penale”[2].
In questo contesto, emerge una evidente centralità del tema dell’asset recovery: il “recupero dei patrimoni” derivanti dalle attività delittuose di maggiore gravità costituisce un importante terreno di dialogo e di impegno comune anche tra paesi aventi strutture istituzionali ed economiche profondamente diverse tra loro.
Anche nella cultura giuridica italiana, negli ultimi decenni, si è manifestata una chiara consapevolezza della speciale rilevanza del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali, disciplinato dal “Codice antimafia”.
Oggi, da parte degli studiosi più autorevoli, questo sistema non viene più considerato come una “anomalia italiana”, ma come uno dei più significativi esempi, a livello internazionale, del modello della confisca non basata sulla condanna (non-conviction based confiscation).
È significativo che proprio il sistema italiano della prevenzione patrimoniale sia divenuto il modello ispiratore delle riforme recentemente introdotte in altri Stati interessati a costruire un rapporto più stretto con l’Unione Europea: ad esempio, la riforma adottata nel 2017 in Albania rispecchia in modo evidente numerose previsioni del nostro “Codice antimafia”.
Nella categoria generale della non-conviction based confiscation rientrano, oltre alle misure di prevenzione patrimoniali italiane, anche una serie di tipologie conosciute da altri ordinamenti, non solo di common law (ad es. quelli del Regno Unito, dell’Irlanda, degli Stati Uniti, dell’Australia) ma anche di civil law. Tra gli esempi più noti, vi sono la civil forfeiture, la confisca in rem, le unexplained wealth procedures.
Tutte queste tipologie sono contrassegnate da una medesima tendenza evolutiva, consistente nella progressiva concentrazione dell’accertamento processuale sugli aspetti economici di un intero fenomeno criminale, in vista della applicazione di misure che incidono essenzialmente sul patrimonio ed hanno una funzione prevalentemente preventiva o compensativa, senza comportare la irrogazione di sanzioni restrittive della libertà personale (le quali, per loro natura, richiedono necessariamente la pronunzia di una condanna penale).
Dall’Analysis of non-conviction based confiscation measures in the European Union pubblicata il 12 aprile 2019 dalla Commissione Europea emerge un dato di indubbio rilievo: in tutti gli Stati dell’Unione Europea sono state introdotte forme di confisca non basate sulla condanna, quantomeno nelle ipotesi in cui è impossibile pervenire ad una sentenza affermativa della responsabilità penale dell’imputato.
Il modello in questione ha ricevuto un forte sostegno anche da un consesso politico internazionale contrassegnato da una intensa cultura garantistica come l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, la quale nella risoluzione n. 2218 del 26 aprile 2018 ha qualificato la non-conviction based confiscation come “il modo più realistico per gli Stati di affrontare l'enorme, e inesorabilmente crescente, potere finanziario della criminalità organizzata, al fine di difendere la democrazia e lo stato di diritto”.
Si assiste, in effetti, a quello che la dottrina ha definito come lo sviluppo inarrestabile della “giustizia penale patrimoniale” (o “processo al patrimonio”)[3]. A ben vedere, l’affermazione della più evolute forme di “confisca senza condanna” è espressione di un percorso di ripensamento delle tradizionali categorie giuridiche che prefigura un vero e proprio passaggio storico: quello della costruzione di un diritto penale “mite” di stampo postmoderno, capace di superare il vecchio modello “individualistico” fondato su un orizzonte stato-centrico e sul primato della pena detentiva, per indirizzarsi decisamente verso la percezione della natura collettiva e della dimensione economica dei più gravi fenomeni criminali, la progressiva diversificazione dei modelli sanzionatori, e la costruzione di nuovi metodi di intervento inseriti nel più ampio scenario delle molteplici forme di reazione affidate non solo al sistema istituzionale ma anche alle iniziative di solidarietà della società civile.
Viene così promossa – per usare le parole di Francesco Palazzo[4] - una giustizia penale dal “volto umano”, aliena da ogni furore punitivo e capace di apprestare una risposta efficace alle sfide della modernità.
Si tratta di un percorso che nel nostro Paese ha ricevuto una spinta decisiva negli anni ’80, quando nella lotta alla mafia sono stati sperimentati metodi di intervento del tutto nuovi, dove efficienza e garanzia sono state viste come due fattori capaci di rafforzarsi a vicenda. Particolarmente significativo, al riguardo, è il pensiero espresso, proprio all’indomani dell’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre, da due dei magistrati più impegnati nella lotta alla mafia, Giovanni Falcone e Giuliano Turone, secondo cui «il vero tallone d’Achille delle organizzazioni mafiose è costituito dalle tracce che lasciano dietro di sé i grandi movimenti di denaro, connessi alle attività criminose più lucrose», e di conseguenza «lo sviluppo di queste tracce, attraverso un’indagine patrimoniale che segua il flusso di denaro proveniente dai traffici illeciti, è quindi la strada maestra, l’aspetto decisamente da privilegiare nelle investigazioni in materia di mafia, perché è quello che maggiormente consente agli inquirenti di costruire un reticolo di prove obiettive, documentali, univoche, insuscettibili di distorsioni, e foriere di conferme e riscontri ai dati emergenti dall’attività probatoria di tipo tradizionale»[5].
Questa impostazione è alla base della dinamica evolutiva che ha valorizzato le potenzialità del sistema italiano delle misure di prevenzione patrimoniali, applicate attraverso un procedimento ad hoc, parallelo e complementare al processo penale. Esso è stato contrassegnato da una incessante evoluzione normativa, che ha progressivamente rafforzato il ruolo della giurisdizione e la tutela dei diritti fondamentali.
Allo stesso modo, nel contesto internazionale, la consapevolezza che l’efficacia della lotta alla criminalità va necessariamente di pari passo con il pieno riconoscimento delle ragioni del garantismo, si è tradotta in una intensa valorizzazione del ruolo della giurisdizione.
Ciò è particolarmente evidente nel settore del contrasto al terrorismo internazionale, dove, per effetto del “dialogo tra le Corti” in tema di congelamento dei beni delle persone fisiche e delle organizzazioni inserite nelle liste formate presso l’ONU dal Comitato per le Sanzioni del Consiglio di Sicurezza (c.d. listing), si è sviluppata una rilevante estensione della “doppia funzionalità” dell’intervento giurisdizionale, visto come uno strumento indispensabile per realizzare un tessuto connettivo tra i diversi ordinamenti e per coniugare la tutela dei diritti con l’effettività della risposta preventiva.
In questo settore si è assistito alla crescente utilizzazione di strumenti già collaudati contro la criminalità organizzata, sulla base dell’avvertita esigenza di adeguare la reazione giuridica all’attuale realtà del finanziamento del terrorismo, che si caratterizza per la diffusa compresenza di risorse lecite e illecite, l'utilizzo di canali informali e lo sfruttamento dell'economia legale[6].
Sono assai numerosi e rilevanti i fattori che hanno condotto ad una crescita di interesse, nelle più diverse sedi di produzione normativa a livello nazionale e internazionale, nei confronti delle forme più moderne di sequestro e di confisca dei beni della criminalità organizzata, divenute ormai il costante modello di riferimento per le strategie di prevenzione e repressione di tutte le principali forme di illecito penale con una precisa dimensione economica, comprese quelle di matrice terroristica, tecnologica o amministrativa.
Il concetto di “dimensione economica” della criminalità organizzata, che sin dagli anni ’80 del secolo scorso è stato il più diffuso paradigma utilizzato nell’analisi scientifica per illustrare le caratteristiche di tale fenomeno, è divenuto parte integrante del sistema giuridico delle Nazioni Unite per effetto della risoluzione 10/4 adottata il 16 ottobre 2020 a Vienna dalla Conferenza delle Parti della Convenzione ONU di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale: un atto che la comunicazione istituzionale[7] e i mass media[8] hanno immediatamente presentato come la “risoluzione Falcone” in quanto essa - con una indicazione nominativa che è rarissima nell’ambito dei documenti ufficiali adottati nel contesto delle Nazioni Unite - menziona specificamente la grande eredità ideale del magistrato italiano che con la sua vita e il suo impegno ha aperto la strada alla stessa Convenzione.
La strada così tracciata è proseguita con la “Dichiarazione di Kyoto”, adottata il 7 marzo 2021 in apertura del Congresso ONU sulla prevenzione della criminalità e la giustizia penale, che presenta tra i propri punti più innovativi e qualificanti l’impegno di affrontare la dimensione economica della criminalità.
Il concetto di “dimensione economica” è idoneo a ricomprendere sicuramente i seguenti profili:
Non si tratta solo di una indicazione di principio, ma di un preciso orientamento di politica criminale, da attuare attraverso una serie di misure concrete. Ai fini del potenziamento delle attività di prevenzione e di contrasto incidenti su quella vastissima rete di beni e rapporti economici destinati alla conservazione ed all’esercizio dei poteri criminali, occorre tenere conto di tre esigenze fondamentali:
2. Tassatività processuale e ragionamento probatorio
Per realizzare congiuntamente le suesposte tre esigenze, può assumere un ruolo di speciale rilevanza la capacità del nostro Paese di dare vita a un “giusto processo al patrimonio”, che divenga un preciso modello di riferimento sulla base del quale dare impulso, da un lato, all’armonizzazione delle legislazioni adottate da numerosi Stati per il contrasto alle diverse forme di criminalità e, dall’altro lato, alla piena circolazione delle misure patrimoniali sia nello spazio giuridico europeo, sia nel contesto internazionale.
Com’è noto, le forme di non-conviction based confiscation solo in epoca recente hanno formato oggetto di disciplina nell’ambito della normativa “eurounitaria”, che in passato aveva già applicato il principio del reciproco riconoscimento alle decisioni giudiziarie della più diversa natura.
Precisamente, il Regolamento (UE) 2018/1805 del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca, dovrebbe applicarsi, secondo il “considerando” n. 13, a tutti i provvedimenti di congelamento e tutti i provvedimenti di confisca emessi “nel quadro di un procedimento in materia penale”, con la precisazione che quello di “procedimento in materia penale” è “un concetto autonomo del diritto dell'Unione interpretato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, ferma restando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo”.
Si tratta di un concetto che comprende tutti i tipi di sequestro e di confisca “emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato” e va sicuramente oltre i confini della Direttiva 2014/42/UE, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, la quale aveva perseguito l’obiettivo della armonizzazione delle legislazioni nazionali in questa materia, limitando però il proprio ambito di operatività al settore penale.
Nel suddetto “considerando” n. 13 viene, infatti, espressamente affermato che il nuovo Regolamento “contempla inoltre altri tipi di provvedimenti emessi in assenza di una condanna definitiva”, e si aggiunge che “benché tali provvedimenti possano non esistere nell'ordinamento giuridico di uno Stato membro, lo Stato membro interessato dovrebbe essere in grado di riconoscere ed eseguire tali provvedimenti emessi da un altro Stato membro”. Per converso, però, si precisa che i provvedimenti di sequestro e confisca “emessi nel quadro di procedimenti in materia civile o amministrativa” dovrebbero essere esclusi dall'ambito di applicazione del Regolamento.
Si è, dunque, in presenza di un persistente problema applicativo a proposito della inclusione nella sfera di operatività del Regolamento delle misure di prevenzione patrimoniali italiane, le quali, al pari di analoghe ipotesi contemplate da altri ordinamenti, da un lato sono qualificabili come provvedimenti “emessi in seguito a procedimenti connessi ad un reato”, ma dall’altro lato, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, restano soggette soltanto ai principi del “processo equo” valevoli per le controversie su diritti ed obbligazioni di carattere civile, di cui all’art. 6, § 1, della CEDU, in quanto sono applicate attraverso una procedura in rem, si sostanziano in forme di regolamentazione dell’uso dei beni in conformità all’interesse generale, e sono quindi riconducibili alla previsione dell’art. 1, § 2, del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU[9].
Per eliminare ogni dubbio sulla inclusione delle misure di prevenzione patrimoniali nell’area di operatività del nuovo regolamento, la soluzione preferibile sembra essere quella di una estensione al relativo procedimento di tutte le garanzie previste dall’art. 6, §§ 1 e 3, della CEDU in rapporto alla materia penale.
Viene così ulteriormente sviluppato l’approccio culturale sotteso all’attività di quella parte della giurisprudenza di merito che, valorizzando lo strumento delle misure di prevenzione patrimoniali, ha circondato il relativo procedimento di una serie di garanzie tale da rendere possibile la circolazione dei provvedimenti di sequestro e di confisca sia nello spazio giuridico europeo, sia nel territorio di paesi posti al di fuori dell’Unione Europea.
Di particolare interesse sono, al riguardo, le già citate sentenze adottate dal Tribunale Penale Federale della Svizzera il 2 giugno 2016, il 21 gennaio 2011 e l’1 dicembre 2010, che hanno accolto le richieste di cooperazione giudiziaria internazionale formulate dall’autorità giudiziaria italiana in relazione a beni situati nel territorio elvetico.
Muovendo dalla premessa che la cooperazione giudiziaria internazionale può essere attivata solo nell'ambito di un procedimento penale, il Tribunale Penale Federale ha affrontato la questione concernente la natura giuridica del procedimento di prevenzione, sul presupposto della non vincolatività esegetica della qualificazione giuridica adottata dal legislatore nazionale.
In questa prospettiva, i giudici svizzeri, hanno ravvisato la sussistenza dei presupposti della mutual legal assistance nell'ambito di ogni procedimento che, sebbene non formalmente penale, sia preordinato all'apertura di un procedimento penale, all'esercizio dell'azione penale o sia comunque collegato ad un procedimento penale.
Sulla scorta di tali argomentazioni, il Tribunale elvetico ha accolto la tesi della natura sostanzialmente penale del procedimento di prevenzione patrimoniale, richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ne conferma la piena compatibilità con i principi dell'equo processo e del diritto di difesa, sanciti dall’art. 6 della CEDU.
Dunque i profili garantistici effettivamente applicati, assimilabili a quelli di un procedimento penale in senso stretto, costituiscono elementi inferenziali, per i giudici elvetici, della natura penale del procedimento di prevenzione[10].
Evidentemente, alla base di questa valutazione compiuta dall’autorità giudiziaria estera, vi è stata la capacità della magistratura italiana di costruire un “diritto vivente” del contrasto alle basi patrimoniali della criminalità organizzata connotato in senso ampiamente conforme agli standard internazionali del “processo equo”[11].
Nelle migliori esperienze applicative, infatti, il procedimento di prevenzione patrimoniale ha rivelato una sicura idoneità ad attuare pienamente i principi di efficienza e di garanzia, grazie alla riconosciuta possibilità di utilizzare il complesso dei mezzi di prova tipici del sistema penale (avvalendosi anche di banche dati basate sulla più moderna tecnologia), di concentrare l’accertamento processuale sull’analisi delle dinamiche finanziarie e di accumulazione patrimoniale avvalendosi anche del contributo di esperti provenienti da altre istituzioni (come la Banca d’Italia), di consentire una ampia esplicazione del diritto di difesa, e di fondare la decisione finale su un elevato livello di approfondimento degli aspetti fattuali e giuridici. Si tratta di una linea di pensiero che risale alla teorizzazione del modello delle indagini finanziarie contro la criminalità organizzata da parte di Giovanni Falcone e al suo «forte richiamo allo Stato di diritto ed al rispetto della legalità, proprio nel momento in cui l’accresciuta virulenza del crimine organizzato suscita suggestioni crescenti di interventi autoritari e di leggi eccezionali»[12].
I risultati concreti di questa costruzione giurisprudenziale meritano adesso di essere cristallizzati in una appropriata regolamentazione legislativa, la cui necessità appare sempre più evidente nello scenario aperto dalla sentenza de Tommaso della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo[13], che, nel ribadire l’esigenza della previsione legislativa delle misure di prevenzione, ha posto in evidenza il profilo della qualità della legge, nel duplice senso della accessibilità del testo normativo per gli interessati e della prevedibilità dei suoi effetti.
Nel prendere in esame le conseguenze “sistemiche” della suddetta pronuncia sul piano del diritto interno, la Corte Costituzionale[14] ha tracciato una rilevante distinzione tra il concetto di tassatività sostanziale - attinente al rispetto del principio di legalità sulla base degli artt. 41 e 42 Cost., nonché dell’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU, ed inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova - e il concetto di tassatività processuale.
Quest’ultimo concetto, secondo il Giudice delle leggi, attiene alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali sono comunque dotati di «fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione».
Il ruolo del principio di tassatività processuale in questa materia è rimasto finora quasi del tutto inesplorato; esso però sembra sicuramente destinato a crescere in un prossimo futuro, anche per la sua connessione con la garanzia della certezza del diritto affermata dalla Corte europea come requisito implicito essenziale del “processo equo”.
La tassatività processuale forma quindi oggetto di un preciso obbligo di matrice costituzionale e convenzionale, che grava non solo sul legislatore ma anche sull’interprete, riferendosi agli standard qualitativi – in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – di una nozione di legalità che include in sé, oltre al materiale normativo, anche il formante giurisprudenziale.
A fronte di quest’obbligo, la disciplina contenuta nel Codice antimafia appare ancora assai carente, risolvendosi in una regolamentazione vistosamente sommaria e antiquata di una materia di estrema rilevanza e attualità. Le norme dedicate dal Codice antimafia al procedimento di prevenzione patrimoniale sono, per molti aspetti, così scarne da rendere possibili prassi applicative del tutto diverse tra loro, e per nulla prevedibili dai soggetti interessati.
Emerge quindi con chiarezza la necessità della costruzione di un “giusto procedimento di prevenzione” con una riforma legislativa che riempia i vastissimi “spazi interstiziali” lasciati vuoti dalla lacunosa disciplina attualmente contenuta nel Codice antimafia, implementando in modo efficace tutte le garanzie processuali previste dall’art. 6, § 3, della CEDU in rapporto alla materia penale: si tratta di un passaggio che assume una valenza decisiva sia per assicurare il rispetto dei principi costituzionali e convenzionali, sia per internazionalizzare le strategie di contrasto alle basi economiche delle organizzazioni criminali[15].
3. Un nuovo calcio d’inizio per la partita U.E. sulla confisca: la proposta di una nuova direttiva
Nell’ambito delle iniziative adottate sul piano sovranazionale per incrementare le potenzialità dello strumento della confisca di prevenzione ai fini del contrasto alla criminalità organizzata, merita specifica considerazione la proposta di direttiva riguardante il recupero e la confisca dei beni adottata a Bruxelles il 25 maggio del 2022 dal Parlamento e dal Consiglio.
Sin dalle prime battute, le istituzioni dell’U.E. sottolineano quanto lo strumento della confisca sia essenziale per garantire la sicurezza all’interno dell’Unione. Attraverso un riferimento esplicito alla Strategia dell’U.E. per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025[16], si pone il focus sulla necessità di colpire il profitto economico, scopo principale delle reti della criminalità organizzata. In questa prospettiva, introdurre disposizioni normative a ulteriore presidio delle operazioni di confisca e recupero dei beni si pone come una priorità dell’Unione per conseguire l’obiettivo che «il crimine non paghi»[17].
Un nuovo atto normativo in materia si è reso per di più necessario all’indomani dello scoppio del conflitto russo-ucraino. Misure restrittive che colpiscono il patrimonio – sotto forma di congelamenti di beni, restrizioni all’ammissione, clausole anti-elusione – sono state irrogate nei confronti di Russia e Bielorussia, sulla scorta di quanto già disposto nel 2014 in risposta all’annessione illegale di Crimea e Sebastopoli.
Sul piano internazionale, la proposta di direttiva è sinergica rispetto ad alcune misure adottate su scala mondiale. In particolare, si pone in linea con le Convenzioni ONU sulla criminalità organizzata e i relativi protocolli, la Convenzione ONU contro la corruzione, la Convenzione di Varsavia del Consiglio d’Europa e la raccomandazione n. 4 del GAFI, il Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale: il cuore normativo di tali atti è l’imposizione agli Stati parte di introdurre provvedimenti atti a congelare e confiscare I beni che risultino connessi ad attività criminali.
L’art. 83 TFUE costituisce la base giuridica della direttiva in oggetto: esso è uno dei fulcri della cooperazione giudiziaria in materia penale e include la criminalità organizzata nel novero delle «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale». Insieme con l’art. 83, anche gli art. 82 e 87 contribuiscono a delineare la base giuridica delle nuove misure, rispettivamente per i meccanismi di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale e per la cooperazione transfrontaliera in materia di indagini.
Di facile deduzione risultano la necessarietà e l’opportunità dell’intervento U.E. in tema di contrasto alla criminalità organizzata: il rispetto del principio di sussidiarietà si evince per tabulas dalla pervasività del fenomeno e dalla fatica che i singoli Stati membri incontrano nel combatterla motu proprio e, in questa direzione, l’introduzione di una norma minima comune si impone in ossequio al principio di proporzionalità.
La direttiva in commento accorpa in un unico atto la decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, la decisione del Consiglio relativa agli uffici per il recupero dei beni e la direttiva relativa alla confisca, stabilendo norme comuni per il reperimento e l'identificazione, il congelamento, la gestione e la confisca dei beni. La scelta di procedere alla riunione in un’unica direttiva di più atti normativi vigenti va oltre mere esigenze di drafting e si mostra maggiormente idonea a perseguire la realizzazione dello scopo principale attraverso una strategia più efficace anche sul piano normativo. La scelta della direttiva, fondata sulle basi giuridiche predette, assegna agli Stati un margine di manovra rilevante nell’individuazione, attraverso gli atti normativi di recepimento, delle linee di azione realizzative degli scopi fissati dall’Unione.
Misure restrittive della capacità patrimoniale del soggetto, come quelle attualmente in discussione, chiamano in gioco numerosi diritti fondamentali. La proposta di direttiva contiene un rimando esplicito al rispetto di questi ultimi, per come previsto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., e segnatamente a quella clausola, contenuta nell’art. 52, che pone in stretta connessione principio di proporzionalità e finalità legittima di realizzare obiettivi di interesse generale dell’U.E. e salvaguardia dei diritti e delle libertà di tutti.
L'ingerenza delle misure proposte nei diritti fondamentali (compresi segnatamente i diritti di proprietà) è giustificata dalla necessità di privare efficacemente i criminali e in particolare la criminalità organizzata dei loro beni illeciti, in quanto questi rappresentano sia la principale ragione che li induce a commettere reati, sia i mezzi per proseguire ed espandere le loro attività criminose. Le misure proposte sono limitate a quanto necessario per conseguire tale obiettivo. Il nuovo modello di confisca introdotto è giustificato dalle difficoltà intrinseche nel ricondurre i beni a specifici reati nei casi in cui il proprietario è coinvolto in attività della criminalità organizzata che consistono in molteplici reati commessi lungo un arco di tempo prolungato. Infine, il rispetto dei diritti fondamentali sarà assicurato mediante garanzie che comprendono efficaci mezzi di ricorso a disposizione dell'interessato per tutte le misure previste nella direttiva proposta, comprese le nuove prescrizioni riguardanti le vendite pre-confisca o il nuovo modello di confisca.
Non va tralasciata, da ultimo, l’attività di stakeholders engagement avviata in fase di redazione della proposta di direttiva. Law Enforcement Agencies, soggetti privati, enti territoriali, università, organizzazioni non-governative, organizzazioni internazionali, istituzioni europee, centri di ricerca sono stati opportunamente consultati per individuare le misure normative più opportune alla luce degli interessi concretamente presenti nella realtà fattuale.
Monitorando l’iter di formazione dell’atto legislativo, si osserva che il 22 maggio 2023 la Presidenza del Consiglio U.E. ha trasmesso al Comitato dei Rappresentanti permanenti e al Consiglio un general approach relativo alla proposta della Commissione[18]. Si tratta di uno strumento attraverso cui l’istituzione U.E. si preoccupa di fornire agli Stati membri indicazioni circa il recepimento della Direttiva che verrà, in particolare per quel che concerne le operazioni di individuazione dei beni, che saranno organizzate secondo le regole degli ordinamenti interni, e che si dovranno svolgere in sinergia con i recovery offices. È meritevole di attenzione il riferimento al trattamento dei dati, il cui accesso diretto e immediato dovrà essere garantito, con speciale riferimento alle categorie di dati sensibili, quali i dati fiscali e i dati nazionali di sicurezza sociale: per quanto concerne tali categorie, gli Stati membri dovranno garantire ai recovery offices «un accesso rapido in conformità al diritto nazionale e nella misura in cui ciò sia necessario al fine del rintracciamento e dell’identificazione di proventi, strumenti e proprietà»[19].
L’interesse delle istituzioni U.E. nei confronti dei problemi oggetto della direttiva è pressante. Nella seduta dell’8 e 9 giugno 2023, il Consiglio ha avuto modo di adottare alcune posizioni comuni, prodromiche alla negoziazione con il Parlamento europeo nel contesto della procedura legislativa ordinaria, relative a temi cui esso assegna una rilevante priorità nelle sue strategies: tra questi, appunto la lotta alla criminalità organizzata, che l’istituzione intende rafforzare nel rispetto della tutela dei diritti fondamentali[20].
4. NCB, istruzioni per l’uso: il documento ECCD del Consiglio d’Europa
Nell’aprile del 2021, il Consiglio d’Europa, attraverso l’Economic Crime and Cooperation Division (di seguito: ECCD), ha ribadito quanto lo strumento della NCB possa essere decisivo per la lotta alla criminalità organizzata e, in un paper, ha consegnato alla comunità della c.d. “Grande Europa” alcune “istruzioni per l’uso” riferite a tale strumento[21]. Come noto, il tema non è nuovo per il Consiglio d’Europa, che vi ha profuso la sua attenzione anche sul piano normativo, introducendo, nel 1990, la Convention on Laundering, Search, Seizure and Confiscation of the Proceeds from Crime[22], in cui la confisca è definita «following proceedings in relation to a criminal offence or criminal offences resulting in the final deprivation of property». Sul piano delle fonti del diritto internazionale convenzionale, tra quelle che maggiormente disciplinano l’oggetto in questione, è opportune fare riferimento alla Convenzione ONU di Palermo, alla Convenzione di Vienna e alla Convenzione di Merida[23].
La lettura del paper del 2021 aiuta a rinvenire la genesi della NCB sul terreno anglosassone. A tal proposito, è riportato un passo assai significativo di uno speech parlamentare di Lord Goldsmith:
Someone at the centre of a criminal organisation may succeed in distancing himself sufficiently from the criminal acts themselves so that there is not sufficient evidence to demonstrate actual criminal participation on his part. Witnesses may decline to come forward because they feel intimidated. Alternatively, there may be strong evidence that the luxury house … the yachts and the fast motor cars have not been acquired by any lawful activity because none is apparent. It may also be plain from intelligence that the person is someone engaged in criminal activity, but it may not be clear what type of crime. It could be drug trafficking, money laundering or bank robbery. However, the prosecution may not be able to say exactly what is the crime, and thus the person will be entitled to be acquitted of each and every offence. If, in a criminal trial, the prosecution cannot prove that the person before the court is in fact guilty of this bank robbery or that act of money laundering, then he is entitled to be acquitted. Yet it is as plain as a pikestaff that his money has been acquired as the proceeds of crime[24].
L’ECCD compie un’interessante rassegna della confisca in vari ordinamenti - non solo degli Stati parte del Consiglio d’Europa - volta a dimostrare come lo strumento della NCB si sia inverato in modi differenti nelle esperienze dei singoli Stati e come, in alcuni Paesi, la cattura dei proventi illeciti non sia condotta in alcun modo. Degno di nota è il riferimento all’ordinamento italiano e alle previsioni del codice antimafia. Sul punto della definizione della pericolosità generica, non appare corretto il riferimento all’art. 1 del Codice antimafia, in particolare ove si afferma che il carattere di detta pericolosità è da provarsi in relazione alle stesse regole che presiedono la prova nel processo penale. Il tratto distintivo della NCB che si ricava dall’analisi dei vari modelli presentati è da rinvenirsi in una base probatoria solida su cui fondare lo strumento e nella remissione della valutazione in capo all’applicazione della confisca a un tribunale specializzato o a un giudice anziano.
Centrale è altresì l’analisi dei benefits e challenges compiuta dall’ECCD.
Il piano delle sfide è dominato dai rischi connessi al mancato presidio delle garanzie processuali penali. Applicare una NCB significa incidere in modo massiccio nell’ambito dei diritti fondamentali della persona, che viene spogliata dei suoi beni, senza che tale procedimento sia garantito dalle regole del processo penale. In particolare, non dovrebbero essere sottovalutati lo stress e lo stato di incertezza giuridica arrecati al preposto. Un pregiudizio serio si misura in relazione all’ambito della civic constitutional culture e all’impatto che un procedimento di prevenzione potrebbe avere sul cittadino. Un soggetto cui è applicata la misura della confisca – che comporta un depauperamento della sua capacità patrimoniale – potrebbe erroneamente credere di essere coinvolto in un procedimento penale, a motivo della rilevanza delle accuse a suo carico.
Da un lato, a ben vedere, la confisca dei beni acquisiti illegalmente - che pure colpisce le proprietà e non la persona - ha effetti che si avvicinano nella percezione sociale a quelli dei procedimenti penali. Dall’altro, una puntuale informazione dei soggetti coinvolti è resa necessaria dall’assenza di connessione automatica tra sequestro dei beni e comportamento illecito del loro detentore, laddove la proprietà confiscata sia passata nelle mani di terzi, i quali non siano direttamente responsabili di comportamenti di rilevanza penale. Questi ultimi devono in ogni momento poter esercitare il loro diritto alla conoscenza della natura dei procedimenti in corso ed essere in grado di opporvisi.
Un’ulteriore criticità collegata alla NCB risiede nella debolezza dell’onere della prova e nel conseguente rischio che la sanzione comminata risulti sproporzionata rispetto all’entità delle situazioni contestabili sulla base delle prove fornite. La relativa facilità con cui è possibile accedere a misure gravemente penalizzanti sul piano patrimoniale potrebbe incoraggiare le autorità giudiziarie a servirsi di preferenza della via civile, anziché della via penale, come strumento di sanzione dell’illecito. Strategie di questo tipo, emerse per esempio nel Regno Unito (nell’ambito della causa Regina vs. Innospec Limited), hanno suscitato i rilievi critici degli osservatori, colpiti dalle potenzialità delegittimanti che, agli occhi dell’opinione pubblica, può avere la scelta di perseguire comportamenti criminali gravi - in quel caso, la corruzione di pubblici ufficiali - con dei mezzi civili, i quali del resto, non prevedendo misure di custodia, rischiano di essere inefficaci nel disincentivare dai reati contestati.
Garanzie per i soggetti coinvolti e uso non arbitrario sono, insomma, le condizioni necessarie di un efficace esercizio della NCB, che non può servire come un surrogato del processo penale laddove questo sia possibile e opportuno, ma si rivela efficace nella misura in cui, venuta meno la possibilità di perseguire penalmente i presunti criminali, permette di danneggiarli concretamente sul piano economico.
5. Notazioni conclusive
Nell’analisi svolta si è cercato di far emergere quanto sdrucciolevole sia il terreno, sostanziale e processuale, della prevenzione patrimoniale. Nata come strumento potente della lotta contro la criminalità organizzata, essa sconta alcune lacune vistose sul piano della fairness procedimentale, a cominciare dallo scarso inveramento del principio di tassatività processuale. L’introduzione di maggiori e più adeguati presidi nell’ambito procedimentale è postulata con forza dalla delicatezza degli interessi coinvolti nel procedimento di prevenzione patrimoniale: da un lato, l’interesse dello Stato a emettere provvedimenti ablativi del patrimonio che colpiscano al cuore nuclei criminogenetici; dall’altro, l’interesse del singolo a confidare su regole formulate in modo chiaro e prevedibile, che siano in linea con gli standard sovranazionali. Appunto in questa direzione, volgendo lo sguardo al panorama sovranazionale, si ha come la percezione di uno iato esistente tra la prescrizione - o, in ogni caso, l’indicazione - da parte di istituzioni dell’U.E., da un lato, e di organi internazionali, dall’altro, di soglie di legalità atte a garantire il cittadino nei procedimenti di prevenzione e l’ubi consistam delle misure di prevenzione patrimoniale sul terreno dei singoli ordinamenti nazionali.
In questa prospettiva, il caso italiano mostra dei tratti emblematici, a cominciare dalla vexata quaestio inerente la natura penale dell’intero sistema processuale della prevenzione. Trattasi di una discussione che si connota a tratti come stantia e poco aggiornata: copiosa giurisprudenza di merito, di legittimità e costituzionale italiana, che si rifà anche a precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, argomenta la natura civile-amministrativa del procedimento di prevenzione basandosi su precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo[25] che trovano la loro origine in un momento storico in cui l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali era effettuata congiuntamente a quella delle misure di prevenzione personali. Sinora, però, non è rintracciabile un precedente in cui la Corte europea abbia scrutinato la questione della natura della confisca di prevenzione - misura patrimoniale - applicata disgiuntamente dalle misure personali.
Nell’ambito del procedimento di prevenzione patrimoniale, le carenze applicative del principio di tassatività processuale rendono evidente la “frode delle etichette”[26]: la scarsità delle garanzie non aiuta di certo a costruire il rispetto delle regole del giusto processo in un procedimento che, appunto in quanto autonomo rispetto al procedimento penale, esige un intervento chirurgico dello Stato nella costruzione dei suoi presidi. Il recupero della vera natura del procedimento di prevenzione patrimoniale passa anche attraverso la costruzione di un giusto procedimento della prevenzione.
*Lo scritto riprende, con alcune modifiche, il contributo destinato a Galileu – Rivista di Diritto ed Economia del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Autonoma di Lisbona.
[1]Sebbene frutto di una riflessione congiunta dei due autori, i paragrafi 1 e 2 sono stati scritti da Antonio Balsamo, mentre i paragrafi 3, 4 e 5 da Alessia Fusco.
[2] Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 maggio 2015, Gogitidze e altri c. Georgia.
[3] Luparia, Contrasto alla criminalità economica e ruolo del processo penale: orizzonti comparativi e vedute nazionali, in Processo penale e giustizia, 2015, n. 5, 5.
[4] Palazzo, Diritti, pena e…Antigone, in disCrimen, 2020.
[5] Falcone - Turone, Tecniche di indagine in materia di mafia, in AA.VV., Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, Quaderni del CSM, Roma, 1983, 46.
[6] Balsamo, La prevenzione ante-delictum, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di Kostoris-Orlandi, Giappichelli, 2006.
[7] Cfr. la lettera dei Ministri degli Esteri, dell’Interno e della Giustizia, "Su quali gambe cammineranno le idee di Falcone", in Corriere della Sera, 13 dicembre 2020.
[8] V. ad esempio Ribaudo, L’Onu vota la «risoluzione Falcone». Il metodo del giudice ispirerà la lotta alle mafie del mondo, in www.corriere.it, 17 ottobre 2020; Mafie, ok a Vienna a "risoluzione Falcone". La sorella Maria: "Grande traguardo", in www.repubblica.it , 17 ottobre 2020.
[9] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia; 15 giugno 1999, Prisco c. Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri c. Italia. Con riguardo alle forme di forfeiture previste nell’ordinamento inglese rispettivamente dal Drug Trafficking Act 1994 e dal Criminal Justice (International Co-operation) Act 1990, v. Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 giugno 2002, Butler c. Regno Unito, e 10 febbraio 2004, Webb c. Regno Unito, che le qualificano come misure preventive non assimilabili a sanzioni penali, in quanto finalizzate a togliere dalla circolazione denaro presumibilmente connesso al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, all’esito di un procedimento che non implica una decisione su un’accusa penale.
[10] In proposito, si rinvia a Balsamo – Luparello, La controversa natura delle misure di prevenzione patrimoniali, in Le misure di prevenzione, a cura di Furfaro, Utet, 2013.
[11] Sull’argomento si rinvia a Balsamo – Recchione, Mafie al Nord. L'interpretazione dell'art. 416 bis c.p. e l'efficacia degli strumenti di contrasto, in www.penalecontemporaneo.it, 18 ottobre 2013.
[12] Falcone, La lotta alla mafia - perché si vince coi giudici, in La Stampa, 6 novembre 1991.
[13] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, su cui v. i commenti di Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, in www.penalecontemporaneo.it, 3 marzo 2017; Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità̀ generica: la Corte Europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità̀ della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in www.penalecontemporaneo.it, 6 marzo 2017, 13 ss.; Menditto, La sentenza De Tommaso c. Italia: verso la piena modernizzazione e la compatibilità̀ convenzionale del sistema della prevenzione, in www.penalecontemporaneo.it, 26 aprile 2017.
[14] C. cost., 24 gennaio 2019, n. 24.
[15] In proposito, si rinvia a Balsamo, Le misure di prevenzione patrimoniali. profili processuali, in La legislazione antimafia, a cura di Mezzetti - Luparia, Zanichelli, 2020.
[16] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52021DC0170.
[17] Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Recupero e confisca dei beni: garantire che "il crimine non paghi" (COM(2020) 217 final del 2.6.2020.
[18] Disponibile all’URL https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9314-2023-INIT/en/pdf.
[19] Ibidem, § 17 (trad. nostra).
[20] Così il Ministro della Giustizia svedese, Gunnar Strömmer: «Combatting organised crime is a top priority for the Swedish presidency. The important decisions made today will improve the capability of law enforcement to fight organised crime, at the same time respecting fundamental human rights. This will strengthen the freedom and security of all citizens in the EU member states» (cfr. https://www.consilium.europa.eu/en/meetings/jha/2023/06/08-09/).
[21]https://www.coe.int/en/web/corruption/-/eccd-publishes-a-paper-on-the-use-of-non-conviction-based-seizure-and-confiscation.
[22] Council of Europe Convention on Laundering, Search, Seizure and Confiscation of the Proceeds from Crime (ETS No.141), Article 1(d).
[23] Un esame dei profili convenzionali sul tema è compiuto da Balsamo, Le misure patrimoniali tra armonizzazione e cooperazione giudiziaria internazionale, in Balsamo-Mattarella-Tartaglia, La Convenzione di Palermo: il future della lotta alla criminalità organizzata transnazionale, Giappichelli 2020, 257 ss.
[24] House of Lords Debate 25 June 2002, vol 636, cols 1270-71, per Lord Goldsmith.
[25] CtEDU Raimondo c. Italia, Prisco c. Italia e Bongiorno c. Italia.
[26] Già denunciata, ad esempio, nei confronti dell’ordinamento italiano, dal giudice portoghese Paulo Pinto de Albuquerque nella sua opinione dissenziente in CtEDU, De Tommaso c. Italia. Attesa la natura di «incubatrice dell’indirizzo giurisprudenziale di domani» (l’espressione, del Presidente della Corte suprema federale Earl Warren, è riportata da P. Barile, Risposta a Per un miglioramento della comprensione e della funzionalità della giustizia costituzionale, in Democrazia e diritto, 1963, 509) posseduto dalle opinioni dissenzienti e, in generale, separate, non sorprenderebbe se il contenuto argomentativo dell’opinione del giudice Pinto potesse essere ripreso in un nuovo arresto della Corte europea sul punto.
(Immagine: Victor Dubreuil, Take One, olio su tela, circa 1886)
di Paolo Mancuso
In cosa risiede la legittimazione della delega che i componenti di una comunità affidano ai loro magistrati per giudicare ed essere giudicati? Le risposte che nella storia del diritto sono state date a questa domanda sono state tante, ma la prevalente, e più convincente consiste nella pretesa che essi garantiscano i loro diritti ed amministrino i loro interessi secundum ius, con impegno, professionalità ed imparzialità, cioè senza pre-giudizio dettato da posizioni o convincimenti personali o di parte.
Di qui nasce la domanda: ma un giudice per essere imparziale, cioè per rispondere correttamente a quella delega, deve anche apparire imparziale? E soprattutto: qual è il limite di una condotta da non superare per garantire l’immagine di imparzialità?
Sappiamo tutti che il giudice della turris eburnea, il giudice di Montesquieu, è figura immaginaria, non esistente in natura. Se hai un figlio licenziato per giusta causa, sarai un buon (i.e. imparziale) giudice del lavoro? Se una tua amica ha subito una condotta violenta, lo sarai per un codice rosso? Se sei in lite con il tuo condominio, lo sarai in un analogo procedimento civile? E gli esempi possono essere innumerevoli. Ma, cambiando registro: se sei orientato politicamente (leggi con continuità ad esempio, la Repubblica o il Foglio); se fai parte di un’associazione di volontariato per l’assistenza ai senza tetto, o ai detenuti, o ai migranti? Se scrivi articoli sui diritti delle persone LGBTQ? Se eri nel milione di persone che ha manifestato con Cofferati contro l’attacco allo Statuto dei lavoratori al Circo Massimo, ormai lontano nel tempo? Sarai un buon giudice? Risponderai a quella pretesa della tua comunità che è alla base della terribile delega che ti è stata affidata?
Ovviamente, quello che viene fuori a questo punto è la domanda delle domande: qual è il modello di giudice ideale? Pensare che esista una risposta a questa domanda è irreale. Tuttavia, di là da quanto prevedono norme disciplinare ormai (più o meno!) codificate, si può tentare di dare una risposta ad una domanda diversa, ragionando per inversione. Quale giudice non vorremmo incontrare, come nostro giudice? È forse il caso di ricordare che il Ministro della Giustizia del Partito Liberale prof Vincenzo Arangio Ruiz, noto grandissimo giurista napoletano, abolì nel 1944 (Governo Badoglio) il divieto (introdotto dal Governo Mussolini) per i magistrati di partecipare alla vita politica, e addirittura abolì il divieto di essere iscritto a partiti politici, osservando che essendo impossibile che un magistrato non abbia idee politiche è preferibile conoscerle.
Impossibile non avere idee politiche? Forse non proprio: c’è davvero chi è convinto di non averle, o almeno di averne poche, confuse e irrilevanti. Sarà un buon giudice, costui? Cosa sarebbe la società italiana, cosa la nostra giurisprudenza, cosa lo stesso mondo del diritto se non avessimo avuto figure di ‘rottura’ di orientamenti consolidati quali i pretori che contrastarono i monopoli dei petrolieri? O altri monopoli, quelli dell’informazione? O che protessero lo stesso nostro ambiente prima di qualsiasi legislazione (procedendo ad esempio contro gli inquinatori delle acque utilizzando la legge sulla pesca)? O che elaborarono una giurisprudenza in materia di sicurezza sul lavoro alla fine tradotta in normativa? E si potrebbe continuare fino ai giorni nostri, sul fine vita, sulla procreazione assistita e, e, e. La verità è che solo la progressiva espansione di una sensibilità ai valori della nostra Costituzione ha consentito, ad una magistratura che andava sempre più abbandonando l’ingannevole mito del giudice indifferente, di spezzare pigre prassi consolidate, paludi mefitiche, e di dare un senso al valore tanto mitizzato, e tanto ingannevole se declinato in astratto, della propria indipendenza.
Perché cos’altro è l’indipendenza se non la capacità di decidere senza aspettative, senza timori, senza pregiudizi, ma avendo ben presente che ogni decisione deve rispettare una scala di valori che è scritta nella pietra su cui ogni magistrato ha giurato. E se ritiene che un Governo che stabilisce un prezzo alla libertà personale stia violando i valori della Costituzione (e che il contrasto con la normativa europea lo consenta), semplicemente disapplica il decreto che impone quel prezzo. Ed è facile prevedere che se davvero in manovra finanziaria verrà introdotta la tassa di 2.000 € per gli stranieri che vogliano usufruire del SSN, ci sarà un giudice in Italia che disapplicherà anche questo. E quel giudice, se ritiene che il cd. decreto Cutro consenta l’espulsione di stranieri senza valutarne l’inserimento familiare nel nostro Paese, disapplica il decreto Cutro (Cass., I Sez civ., 10/7/2023, ric. 27304). Ora dobbiamo aspettarci che anche il Presidente Abete, che ha emesso questa decisione, venga sottoposto ad un vero e proprio dossieraggio, come la malcapitata collega Apostolico? E gli contesteranno il colore dei calzini (anche questo è avvenuto, Berlusconi governante) o andranno a spulciare qualche sua dichiarazione di critica al Governo?
Perché alla fine oggi è sull’immigrazione che si scarica l’ansia di prestazione del Governo: inadeguato a comprendere la portata storica del fenomeno, incapace di trovare una risposta che garantisca i diritti dei migranti e la sicurezza dei cittadini, indifferente rispetto alla sofferenza di donne, minori, malati, in fuga da miseria, malattie, fame e guerre, mosso unicamente da un’urgenza securitaria che gli garantisca consenso e potere, reagisce producendo normative affrettate e tecnicamente inadeguate, gravemente lesive dei diritti di umanità, ma anche della normativa europea e soprattutto della nostra Costituzione.
Oggi è qui, su questa materia, che la magistratura è chiamata a esercitare, e non solo declamare, la propria indipendenza. Che è, ovviamente e prima di tutto, indipendenza dal potere ed affermazione della legge (che, diceva un nostro filosofo, è il potere dei senza potere). E i dossieraggi, e le fotografie, e il coinvolgimento di familiari in vicende del tutto lontane ed irrilevanti potranno restare ininfluenti e non scalfire il senso di autonomia che quel giudice manifesta solo se l’intera categoria respingerà come odiose, vili ed intimidatorie tali manovre. Manovre che hanno un unico vero obiettivo: costringere al silenzio ogni manifestazione di dissenso rispetto al sacrificio dei valori che in questo momento sono in gioco: consapevoli tutti che una magistratura silente, conformista ed intimidita al suo interno, ma mitizzata e premiata all’esterno, sarà proprio quel cane da guardia del potere in cui dovrebbe realizzarsi, secondo alcuni, il corretto rapporto fra politica e giurisdizione.
Ma il gioco è vecchio; è scoperto; questo tavolo la magistratura (guidata dalla sua parte migliore e più consapevole) lo ha rovesciato da tempo. Nessuno provi a rimetterlo in piedi.
di Chiara Polini
Sommario: 1. Fatti all’origine della controversia e prime osservazioni 2. L’integrazione delle attività come obiettivo prioritario del PIAO 3. Ulteriori obiettivi apprezzabili alla luce della disciplina sul PIAO 4. Sintesi conclusiva: individuazione di alcuni aspetti di metodo utili per la redazione di un PIAO “modello”.
1. Fatti all’origine della controversia e prime osservazioni
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di approfondire i contenuti di una recente pronuncia del giudice contabile (in particolare, Corte dei conti, Sez. cont., Sicilia, 15 febbraio 2023, n. 48) che, per la prima volta, si diffonde sul PIAO (Piano integrato di attività e organizzazione) come atto idoneo a configurarsi (come rileva il medesimo giudice) «quale documento unico finalizzato a compendiare, in una logica organica e coordinata, i molteplici contenuti ad esso assegnati»[1].
Merita subito evidenziare che, a differenza di quanto accaduto in altre pronunce in materia, solo in quella oggetto del presente commento si va oltre il semplice richiamo al PIAO[2].
Prima di trattarne più approfonditamente, merita ricordare che il PIAO è stato introdotto nel nostro ordinamento con il d.l. n. 80 del 2021, al fine di rafforzare la «capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni[3]» per poter attuare il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza)[4].
In base alla disciplina positiva che lo regola, anziché redigere separatamente una molteplicità di piani autonomi, come ad esempio il piano triennale dei fabbisogni di personale, il piano anticorruzione e trasparenza, il piano per le azioni positive e quello organizzativo del lavoro agile, viene predisposto tramite questo nuovo strumento un unico atto nel quale confluiscono alcuni piani, tra cui quello dei fabbisogni di personale menzionato[5]; a ciascuno di essi corrisponde attualmente una Sezione (o Sottosezione) in cui il PIAO è articolato.
Nonostante la disciplina del 2021 si diffonda sugli aspetti relativi al contenuto e alle modalità con cui deve essere redatto, la stessa non risulta essere esaustiva. Infatti, l’assetto delineato in astratto potrebbe in concreto assumere svariate configurazioni ed in tal senso risulta emblematica proprio la pronuncia oggetto di disamina.
In quest’ultima, a rivolgersi al giudice contabile erano il Comune di Lampedusa e di Linosa.
Essi in particolare chiedevano all’organo giurisdizionale come collegare il proprio PIAO con un procedimento attivato successivamente all’approvazione dello stesso e riguardante l’assunzione di personale con contratto di lavoro flessibile. Ed in effetti, nella disciplina relativa al PIAO la programmazione costituisce un presupposto fondamentale per la redazione della sottosezione 3.3 concernente i fabbisogni di personale[6]. Più in particolare, il dubbio riguardava la possibilità di procedere alternativamente all’aggiornamento della sola sottosezione predetta[7], lasciando immutate le altre, ovvero se fosse necessario approvare un nuovo PIAO al fine di tener conto degli eventuali effetti prodotti anche sulle altre sezioni.
Alla prima ipotesi indicata è sottesa una concezione del PIAO come strumento di semplice sovrapposizione di piani che non sono tra loro coordinati e non si integrano vicendevolmente. Una condizione, questa, che legittima la modificazione di singole sezioni senza procedere ad alcun riesame complessivo. Evidentemente si tratta di un’idea che riduce sensibilmente la portata innovativa del PIAO, poiché ricalca nella sostanza l’assetto previgente dei piani separati, con la sola differenza che gli stessi vengono inseriti all’interno di un documento unico.
Se passasse questa linea di pensiero si andrebbe fatalmente a verificare quella problematica già adombrata dal Consiglio di Stato, secondo cui: piuttosto che semplificare e migliorare l’azione si sarebbe creato un altro layer of bureaucracy[8].
Se fosse così sarebbe allora preferibile, anziché introdurre uno strumento unitario, lasciare i piani separati, evitando di dar luogo ad un nuovo adempimento a carico dell’amministrazione.
Prospettate le due possibili opzioni, la Corte dei conti ha ritenuto di prediligere quella che si ritiene più fedele allo spirito innovativo del PIAO, ossia che impone il riesame complessivo a fronte di ogni modifica subita dallo stesso, precludendo ad aggiornamenti di singole sezioni che non tengano conto del contesto generale in cui vengono inserite.
Nel prosieguo si preciseranno le ragioni a fondamento della correttezza di tale impostazione.
2. L’integrazione delle attività come obiettivo prioritario del PIAO
Come anticipato; la decisione a cui è approdata la Corte dei conti si fonda su una concezione del PIAO che si caratterizza per il necessario coordinamento tra i piani assorbiti in esso, dunque tra le Sezioni e Sottosezioni in cui si articola[9]. Certo, da ciò non deriva che si debbano sempre rettificare le restanti parti, ma quantomeno occorre una verifica in tal senso.
Ora, anche in ragione dei «criteri» contenuti nel successivo D.M. n. 132 del 2022, di attuazione del PIAO, la decisione assunta dal giudice contabile risulta essere quella più conforme non solo allo spirito della norma ma anche alla sua lettera.
Infatti, secondo il giudice «una approvazione per “stralci”» del PIAO, vale a dire «una sua non meglio precisata “formazione progressiva”», non sarebbe in sintonia con la disciplina positiva indicata. Ciò trova conferma nell’incipit dell’Allegato al D.M. 132 già menzionato, in cui si specifica che «il presupposto logico dell’intero sistema delineato dal PIAO consiste nel coordinamento delle diverse sezioni in cui è articolato»; coordinamento che evidentemente non potrebbe configurarsi qualora si modificasse una singola sezione del piano.
Da questa esigenza di coordinamento consegue quasi come suo naturale corollario, la centralità dell’aspetto relativo alla ricerca di forme di integrazione tra le varie Sezioni che il PIAO reca con sé al fine del miglioramento dell’azione amministrativa; e la pronuncia presa in esame merita apprezzamento proprio per questo, poiché coglie pienamente il profilo innovativo alla base del PIAO[10].
L’individuazione di opportuni momenti di sintesi tra le diverse attività amministrative comporta un naturale innalzamento dei livelli di qualità dell’azione amministrativa. Meritano in tal senso di essere ricordati alcuni peculiari obiettivi cui il PIAO è preordinato e fra questi: «assicurare la qualità e la trasparenza dell’attività amministrativa e migliorare la qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese» procedendo «alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi[11]».
Più in generale è attraverso questo strumento di integrazione che si rafforza la “capacità amministrativa” delle P.A. anticipata in apertura finalizzata anche all’attuazione del PNRR.
Dunque, il fatto di far confluire piani (prima separati) nelle diverse Sezioni e Sottosezioni del PIAO sembra poter rappresentare un nuovo metodo di integrazione tra attività. Se si approdasse ad una valutazione diversa e per così dire “più conservatrice”, sarebbe complesso cogliere elementi di innovazione utili a giustificare l’introduzione di questo nuovo istituto. A quel punto l’unica reale novità rispetto ai contenuti dei piani previgenti (e assorbiti dal PIAO) sarebbe forse esclusivamente riferibile a due obiettivi nuovi di cui il PIAO si deve comunque occupare, vale a dire: «piena accessibilità, fisica e digitale, alle amministrazioni da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilità[12]», che costituisce a ben vedere un’originale declinazione dell’ampia nozione di valore pubblico previgente,[13] nonché l’individuazione dell’«elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare[14]».
Partendo da questa visione innovativa, fine prioritario del PIAO non è di ridurre il volume di attività che le P.A. devono svolgere, bensì di ricercare integrazioni utili ad innalzare la qualità dell’azione amministrativa. Deve trattarsi - in ogni caso - di integrazioni che siano in grado di apportare un miglioramento sulla qualità dei servizi offerti alla comunità di riferimento. Ne deriva che non ogni attività prevista nel PIAO debba integrarsi con un’altra, con la sola eccezione costituita dalle attività di monitoraggio che per loro natura si rapportano con le altre, trattandosi di strumenti di controllo sull’attuazione delle misure previste in astratto nel piano. Il monitoraggio è infatti per definizione un’attività trasversale a tutte le attività indicate nel PIAO.
Nonostante la centralità dell’aspetto riguardante l’integrazione, la normativa fornisce però pochi esempi utili in tale direzione. Questo è forse il principale profilo di criticità dell’intera disciplina sul PIAO. Da esso derivano sicure difficoltà in fase applicativa, al punto che sarà probabilmente necessario un particolare sforzo creativo nella stesura dei PIAO. Di contro, la disciplina prevede scadenze abbastanza ravvicinate, avendo il piano validità triennale, con la necessità di aggiornamenti annuali; dunque, sarebbe stato utile predisporre una fattispecie più puntuale in grado di veicolare il disporre col successivo provvedere, istituendo ad esempio un “PIAO modello”.
3. Ulteriori obiettivi apprezzabili alla luce della disciplina sul PIAO
Un’altra osservazione derivante dalla pronuncia in commento è quella in cui il giudice, riprendendo l’espressione usata dall’istante, definisce il PIAO come uno «strumento integrato» orientato «al valore pubblico». Da ciò sembra potersi desumere come la creazione di valore pubblico costituisca obiettivo esclusivo o quantomeno prioritario del PIAO. Tuttavia, dalla lettura della disciplina in materia emerge un esito diverso, nel senso che il menzionato valore pubblico rappresenta soltanto uno degli obiettivi del PIAO e peraltro neppure il principale, come dimostra il fatto che questo sia appena accennato nel già menzionato D.M. n. 132 del 2022 (e nel relativo Allegato).
Merita poi precisare che la disciplina sul PIAO ha il pregio di fornire una specificazione dell’ampia nozione di “valore pubblico”, qualificandola come azione finalizzata «a realizzare la piena accessibilità alle amministrazioni, fisica e digitale, da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilità», ossia di quei soggetti che sono definibili come vulnerabili.
È appena il caso di rilevare che quanto appena indicato risulta essere coerente con l’idea secondo cui il valore pubblico coincide con l’incremento del benessere dei destinatari dei servizi[15].
Resta il fatto che la nozione di valore pubblico può essere declinata in modi diversi e fra i meriti da ascrivere al PIAO, vi è anche quello di aver contribuito ad individuarne il contenuto sostanziale senza per questo averne ancora definito completamente l’essenza.
Spetta dunque alle pubbliche amministrazioni in fase di redazione del PIAO specificare che cosa si debba intendere quando si utilizza la locuzione valore pubblico al fine di evitare che siano inseriti obiettivi troppo generici.
Del resto, a ben vedere qualora non si tenesse conto di questa indicazione sarebbe difficile poter misurare l’efficacia del PIAO in direzione del “valore pubblico”.
4. Sintesi conclusiva: individuazione di alcuni aspetti di metodo utili per la redazione di un PIAO “modello”.
La pronuncia in esame si segnala per aver saputo cogliere aspetti fondamentali di questo nuovo atto pianificatorio, evidenziando le possibili ragioni poste a fondamento di una riforma dell’assetto previgente che si caratterizzava per la redazione di piani separati.
Particolarmente significativo è il fatto che il giudicante abbia sottolineato come «una approvazione per “stralci”» o a «“formazione progressiva”» non appaia in sintonia con la disciplina sul PIAO.
Questo nuovo istituto è infatti, come si intuisce dalla stessa denominazione attribuita dal Legislatore, uno strumento per effettuare integrazioni, il che costituisce un qualcosa in più rispetto alla somma delle singole componenti che lo formano.
Secondo questa visione d’insieme le varie sezioni e sottosezioni che ne fanno parte non possono essere prese in considerazione in modo isolato e modificate senza verificare gli eventuali aggiornamenti delle restanti parti.
In sostanza, ciò che fa la differenza rispetto all’assetto previgente non è tanto il contenuto del piano, quanto il modo in cui lo si predispone, dando luogo a forme di integrazione.
Inoltre, trattandosi di uno strumento in cui confluiscono, al fine di coordinarli, diversi adempimenti prima contenuti in piani separati, è importante attenersi particolarmente a due indicazioni fornite dall’Allegato al D.M. 132 del 2022 più volte menzionato, vale a dire la sinteticità e la necessità che il contenuto del PIAO sia sufficientemente specifico.
Con riferimento al primo requisito, i singoli piani saranno inevitabilmente ridimensionati a beneficio dell’agevole fruibilità del documento, eliminando gli adempimenti superflui e facendo risaltare al contempo gli elementi in grado di apportare un concreto miglioramento all’attività amministrativa[16].
Per quando riguarda invece il secondo requisito è necessario che il contenuto del PIAO sia adeguatamente specificato agli obiettivi che persegue, anche attraverso l’eventuale indicazione di obiettivi intermedi e di breve periodo, al fine di evitare di predisporre un piano privo di effettività.
Indubbiamente sarà necessario, specie in questa fase immediatamente successiva alla sua introduzione, uno sforzo delle P.A. per poter attuare al meglio la relativa disciplina, in maniera tale che questo nuovo strumento venga valorizzato nella sua portata innovativa[17].
È un compito certamente impegnativo che pronunce come quella qui analizzata contribuiscono ad affrontare.
[1] In generale, sul tema del PIAO vedi fra gli altri: A. Bianco, Il Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO), in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 1/2022, pag. 20 ss.; P. Morigi, Il bilancio e il nuovo Piano integrato di attività e organizzazione, in Finanza e tributi locali, 2021, pag. 7 ss.; Id., Il nuovo Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO) implica attività di programmazione e lavoro in team, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 1/2022, pag. 10 ss.; A. Riccobono, Concorsi pubblici e progressioni di carriera nella stagione del «grande reclutamento», in Riv. giur. lav., n. 1/2022, pag. 71 ss.; C. Siccardi, Anticorruzione e PNRR: profili costituzionali, in Consulta online, 1/2022, pag. 430 ss; E. Tagliaferri, La costruzione del PIAO: l’esperienza del comune di Forlì, in Azienditalia, 1/2023, p. 114 ss.
[2] Alcune recenti sentenze in cui si effettua un richiamo al PIAO sono: TAR Lazio, Roma, n. 12492/2023; TAR Campania, Napoli, n.5210/2023; TAR Toscana, Firenze, n. 484/2023.
[3] Così l’introduzione del d.l. n. 80 del 2021.
[4] Sono escluse dall’ambito di applicazione della disciplina sul PIAO le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, mentre per le pubbliche amministrazioni con meno di cinquanta dipendenti sono previsti adempimenti semplificati (art. 6, comma 1, d. l. n 80 del 2021).
[5] In particolare, gli adempimenti assorbiti dal PIAO sono individuati nel d.P.R. n. 81/2022. Sulla semplificazione degli adempimenti «cartolari» cui è tenuta la pubblica amministrazione vedi: A. Riccobono, op. cit., pag. 72.
[6] Art. 8, comma 1, d.P.R. 132 del 2022.
[7] Corrispondente al previgente piano triennale dei fabbisogni di personale.
[8] In particolare si fa riferimento al punto 4.1 del parere del CDS, n. 506 del 2022. Sul rischio di dar luogo a mere sovrapposizioni di piani si veda: A. M. Savazzi,Il piano integrato di attività e amministrazione, in Azienditalia, 4/2022, pag. 776 e 784; C. Siccardi, op. cit., pag. 430 e 431; A. M. Savazzi, Organizzazione e gestione del personale, in Azienditalia 4/2022, pag 776.
[9] P. Morigi, Il nuovo Piano integrato di attività e organizzazione (PIAO) implica attività di programmazione e lavoro in team, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 1/2022, pag. 10 ss.
[10] In senso contrario rispetto alla reale portata innovativa del PIAO R. Nobile, Il Piano integrato di attività e organizzazione negli enti locali: un documento privo di reale efficacia innovativa, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 2/2022, pag. 44 ss.
[11] Art. 6, comma 1, del d.l. n. 80 del 2021.
[12] Art. 6, comma 2, l. f) del d. l. n. 80 del 2021.
[13] C. Tubertini, La nuova pianificazione integrata dell’attività e dell’organizzazione amministrativa, in Gior. dir. amm., 2022, pag. 620, in cui si definisce, invece, la sezione valore pubblico come «la parte senz’altro più nuova».
[14] Art. 6, comma 2, l. e), d.l. n. 80 del 2021.
[15] Linee guida sulla performance del 2016 e d.lgs. n. 150 del 2009.
[16] Sul ridimensionamento dei singoli piani confluiti nel PIAO vedi: C. Ascani, L'impatto del PNRR nell'ambito dell'anticorruzione, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 3/2021, pag. 57 e 58; R. Dagostino, Nuovi percorsi di ibridazione fra pubblico e privato: dai modelli organizzativi ex D.lgs. n. 231/2001 ai piani per la prevenzione della corruzione nella p.a., in Dir. soc., 1/2022, pag. 159.; C. Siccardi, op. cit., p. 431; C. Tubertini, op. cit., 2022, pag. 621; E. Carloni, A. Nieli, Bagliori al tramonto. I piani di prevenzione della corruzione tra contrasto della criminalità e assorbimento nel piano integrato, in Ist. fed., 1/2022, pag. 117 ss.
[17] Sulle difficoltà legate all’attuazione del PIAO: C. Siccardi, Anticorruzione e PNRR: profili costituzionali, in Consulta online, 1/2022, pag. 431; C. D’Aries, Il Piano Integrato di Attività e Organizzazione (P.I.A.O.) quale occasione per una programmazione-gestione- controllo di 'qualità' della P.A., in Finanza e tributi locali, 9/2022, pag. 45. A. Corrado, La difficile strada della semplificazione imboccata dal PIAO, in Federialismi.it, n. 27/2022, pag. 203; E. Tagliaferri, La costruzione del PIAO: l’esperienza del comune di Forlì, in Azienditalia, n. 1/2023, pag. 121.
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. La questione in sintesi. – 2. La responsabilità “precontrattuale” della P.A.: inquadramento giurisprudenziale. – 3. Note sulla responsabilità da “provvedimento illegittimo”. – 4. Le responsabilità “a confronto”: differenze e dissomiglianze secondo i giudici amministrativi – 5. Riflessioni conclusive.
1. La questione in sintesi.
Muovendo da una controversia relativa alla materia dei contratti pubblici[1], il Consiglio di Stato si è nuovamente espresso sulla portata e i confini della responsabilità “precontrattuale” della P.A., configurabile - in estrema sintesi - quando l’amministrazione agisce in violazione del canone della buona fede e commette, pertanto, una scorrettezza foriera di pregiudizio economico per l’impresa partecipante che, tuttavia, non integra l’illegittimità di alcun atto della serie: o perché non è causata dall’adozione di un atto amministrativo (si veda il caso del rifiuto di stipulare il contratto con l’aggiudicatario) o perché l’atto amministrativo che la integra non è illegittimo (è il caso, ed esempio, dell’annullamento d’ufficio legittimo della aggiudicazione).
I giudici di Palazzo Spada, tuttavia, con la sentenza in commento, rilevano un quid extra, in particolare con riferimento alla differenza tra la responsabilità appena citata e quella da “provvedimento illegittimo”.
Nel dettaglio, la responsabilità da mancata aggiudicazione «entra in gioco» se, per le circostanze del caso concreto, l’annullamento dell’atto illegittimo non può assicurare la tutela specifica dell’interesse del ricorrente (il che si verifica, ad esempio, quando all’annullamento dell’aggiudicazione non può far seguito l’inefficacia del contratto e l’aggiudicazione in favore del ricorrente o, quantomeno, la ripetizione della procedura, nei casi previsti dagli artt. 121-124 c.p.a). Viceversa, secondo il giudice di seconde cure, la responsabilità propriamente “precontrattuale”, in quanto finalizzata alla riparazione di pregiudizi derivanti da attività illecita e tuttavia non illegittima, costituisce, al ricorrere delle relative condizioni, l’unico strumento di tutela a disposizione dell’impresa, attivabile malgrado il pregiudizio non trovi causa in un atto illegittimo, suscettibile di impugnazione o di annullamento, bensì in un atto legittimo o in un comportamento che neppure configura i caratteri propri dell’atto amministrativo.
Per completezza (checché il profilo non riguardi direttamente l’argomento oggetto del presente scritto), la sentenza in commento merita di essere segnalata anche sotto altra prospettiva, ossia con riferimento ai limiti del principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale ex art. 9 del d.lgs. 36/2023 “Nuovo Codice dei Contratti Pubblici”[2]. Secondo i giudici amministrativi infatti, al di là dell’innovativo principio de quo e il dovere ex fide bona di rinegoziazione del contratto, vi è comunque un limite espresso all’applicazione dello stesso, costituito dalla «mancata alterazione della sostanza economica del contratto»[3], nonché dalla necessità che «le modifiche al contratto non siano “sostanziali”»[4]ovvero non incidano sulla struttura dell’operazione economica sottesa al contratto di affidamento del servizio. Ciò senza contare che, nella prospettiva della tutela della parità dei potenziali concorrenti, occorrerebbe ritenere praticabili, secondo i giudici amministrativi, esclusivamente quelle modifiche che siano state in qualche modo “preventivate” nel bando di gara medesimo[5].
2. La responsabilità “precontrattuale” della P.A.: inquadramento giurisprudenziale.
Giova premettere, nei limiti di quanto qui di interesse, che l’affidamento nella legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione - e più in generale sulla correttezza del suo operato - è riconosciuto, pure da risalente giurisprudenza, come situazione giuridica soggettiva tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno[6].
Secondo i principi ivi formulati, le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, «uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte»[7]. Oltre che distinti, dunque, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi[8].
Ancora in giurisprudenza, si è affermato che l’affidamento «è un principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività»[9]. Pur sorto nei rapporti di diritto civile, con lo scopo di tutelare la buona fede ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata[10], l’affidamento è ormai considerato canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo, ovvero quelli che si instaurano nell’esercizio del potere pubblico, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo che sia stato emanato il provvedimento conclusivo[11]. A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all’utilità derivante dall’atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l’amministrazione fonte di responsabilità[12].
Orbene, con riferimento ai limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento, il settore dei contratti pubblici è quello in cui tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di quest’ultima. Le ragioni alla base dell’orientamento di giurisprudenza favorevole al privato venutosi a creare in questo settore si spiega sulla base del fatto che, sebbene svolta secondo i moduli autoritativi ed impersonali dell’evidenza pubblica, l’attività contrattuale dell’amministrazione è nello stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative prenegoziali, da cui deriva quindi l’assoggettamento al generale dovere di «comportarsi secondo buona fede» enunciato dall’art. 1337 c.c.
Ora, per comune acquisizione di diritto civile, la tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale «è posta a presidio dell’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale»[13]. Applicata all’evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale sottopone l’amministrazione alla duplice soggezione alla legittimità amministrativa e agli obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali costituiscono, come in precedenza esposto, profili tra loro autonomi, e da cui può rispettivamente derivare l’annullamento degli atti adottati nella procedura di gara e le responsabilità per la sua conduzione[14]. Nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre tuttavia che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerato come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 c.c.[15]Analogamente, per diffusa opinione nella giurisprudenza amministrativa[16], l’affidamento è legittimo «quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante». L’aggiudicazione è dunque considerato il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale[17].
Peraltro, è stato pure affermato che la responsabilità precontrattuale può insorgere «anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede»[18]. Più in generale, l’Adunanza plenaria ha precisato che la tutela civilistica della responsabilità precontrattuale, pur nel quadro del principio generale dell’autonomia negoziale delle parti, ivi compresa l’amministrazione, opera nel senso di assicurare la serietà delle trattative finalizzate alla conclusione del contratto, per cui essa costituisce il punto di equilibrio: «tra la libertà contrattuale della stazione appaltante e la discrezionalità nell’esercizio delle sue prerogative pubblicistiche da una parte, rispetto del limite della correttezza e della buona fede, dall’altro», tenuto conto che ciascun contraente assume «un ineliminabile margine di rischio in ordine alla conclusione del contratto» e che dunque non può confidare sempre sulla positiva conclusione delle trattative, ma solo quando queste abbiano raggiunto un grado di sviluppo tale da rendere ragionevolmente prevedibile la stipula del contratto[19].
Individuato, quindi, un primo requisito dell’affidamento tutelabile nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, il secondo consiste nel carattere colposo della condotta dell’amministrazione, nel senso che la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve esserle imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. (sul punto, si rinvia, sinteticamente, al paragrafo successivo). A sua volta, poi, non deve essere inficiato da colpa[20] l’affidamento del concorrente[21].
3. Note sulla responsabilità da “provvedimento illegittimo”.
Sulla natura giuridica dell’azione di risarcimento danni per responsabilità della P.A. da illegittimo provvedimento diverse sono state le tesi seguite dalla giurisprudenza[22].
Secondo il tradizionale orientamento, rientrerebbe nell’ambito di operatività della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.[23]; secondo un indirizzo minoritario, dovrebbe, invece, essere concepita quale responsabilità da inadempimento da contatto sociale qualificato[24]; secondo, infine, altre pronunce, costituirebbe una responsabilità sui generis, e, pertanto, non interamente riconducibile al paradigma della responsabilità né extracontrattuale, né contrattuale[25].
Ora, sebbene, infatti, la tesi tradizionale, ancora prevalente, ritenga riconducibile siffatta responsabilità nell’ambito di quella aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c.[26], da alcuni decenni è stata sostenuta in giurisprudenza anche la diversa tesi secondo cui quella dell’Amministrazione in questi casi sarebbe una responsabilità da inadempimento di obblighi scaturenti dal “contatto sociale”[27] che si sarebbe instaurato tra la Pubblica Autorità e l’interessato nell’ambito del procedimento amministrativo[28], con conseguente applicazione della disciplina di cui all’art. 1218 c.c.
Più nel dettaglio, l’Adunanza Plenaria[29] ha chiarito che la responsabilità della Pubblica Amministrazione da illegittimo esercizio della funzione pubblicistica è di natura extracontrattuale, non potendo, infatti, configurarsi un rapporto obbligatorio nell’ambito di un procedimento amministrativo in quanto: (i) nel procedimento amministrativo, a differenza del rapporto obbligatorio, sussistono due situazioni attive, cioè il potere della P.A. e l’interesse legittimo del privato; (ii) il rapporto tra le parti non è paritario, ma di supremazia della P.A.[30]
Centrale è quindi l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio, diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale[31]. Declinata nel settore relativo al “risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”[32], di cui all’art. 7, comma 4, c.p.a., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento può essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. Infatti, diversamente da quanto avviene nel settore della responsabilità contrattuale, il cui aspetto programmatico è costituito dal rapporto giuridico regolato dalle parti contraenti mediante l’incontro delle loro volontà concretizzato con la stipula del contratto-fatto storico, il rapporto amministrativo «si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell'interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale ed in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, ad ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione».
L’ingiustizia del danno che fonda la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi si correla alla sopra menzionata dimensione sostanzialistica di questi ultimi, per cui solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest’ultimo può fondatamente domandare il risarcimento per equivalente monetario. Secondo un orientamento risalente dell’Adunanza plenaria[33], mai posto in discussione, il risarcimento è quindi escluso quando l’interesse legittimo riceva tutela idonea con l’accoglimento dell’azione di annullamento, ma quest’ultimo sia determinato da una illegittimità, solitamente di carattere formale, da cui non derivi un accertamento di fondatezza della pretesa del privato ma un vincolo per l’amministrazione a rideterminarsi, senza esaurimento della discrezionalità ad essa spettante.
Gli elementi costitutivi della responsabilità civile della pubblica amministrazione, pertanto, sono quelli di cui all’art. 2043 c.c., ed ossia, sotto il profilo oggettivo, il nesso di causalità materiale e il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo, e, sotto il profilo soggettivo, il dolo o la colpa. Sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati. Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), e successivamente quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.). Con riferimento alla ingiustizia del danno, deve rilevarsi, altresì, che presupposto essenziale della responsabilità è l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall'ordinamento e, affinché la lesione possa considerarsi ingiusta, la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria - anche se non sufficiente - per accedere alla tutela risarcitoria[34] occorre quindi anche verificare che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole dell'amministrazione pubblica), il bene della vita al quale il soggetto aspira[35]; ovvero il risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest'ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo[36]
Il danneggiato, quindi, dovrà provare: (a) sul piano oggettivo, la presenza di un provvedimento illegittimo causa di un danno ingiusto, con la necessità, a tale ultimo riguardo, di distinguere l’evento dannoso (o c.d. “danno-evento”) derivante dalla condotta, che coincide con la lesione o compromissione di un interesse qualificato e differenziato, meritevole di tutela nella vita di relazione, e il conseguente pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale scaturitone (c.d. “danno-conseguenza”)[37], suscettibile di riparazione in via risarcitoria[38]; (b) sul piano soggettivo l'integrazione del coefficiente di colpevolezza, con la precisazione che la sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione[39] o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell’amministrazione[40].
Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, occorre, quindi, la dimostrazione che la P.A. abbia tenuto un comportamento negligente in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, di cui all’art. 97 Cost., avuto riguardo al carattere della regola di azione violata[41]: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa contestata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità[42].
4. Le responsabilità “a confronto”: differenze e dissomiglianze secondo i giudici amministrativi
Anche alla luce della pronuncia in commento, dunque, ciò che preme evidenziare in questa sede è che la responsabilità precontrattuale è prospettabile, di fatto, quando l’amministrazione «agisce in violazione del canone della buona fede e commette, pertanto, una scorrettezza foriera di pregiudizio economico per l’impresa partecipante»[43], che tuttavia non integra l’illegittimità di alcun atto della serie; e ciò (i) o perché non è causata dall’adozione di un atto amministrativo (può essere il caso, ad esempio, del rifiuto di stipulare il contratto con l’aggiudicatario) oppure (ii) perché l’atto amministrativo che la integra non è illegittimo (è il caso, ed esempio, dell’annullamento d’ufficio legittimo dell’aggiudicazione)[44]. Parimenti sarà prospettabile la responsabilità precontrattuale se l’annullamento legittimo dell’aggiudicazione interviene dopo la stipula del contratto: può qui trovare applicazione lo schema dell’art. 1338 c.c. che costituisce una peculiare applicazione del principio del rispetto della buona fede nelle trattative prescritto dall'art. 1337 c.c.
Ora, va da sé che, chiarito quanto sopra, la responsabilità precontrattuale si differenzia da quella da provvedimento illegittimo.
Ed infatti, la responsabilità da mancata aggiudicazione entra in gioco se, per le circostanze del caso concreto, «l’annullamento dell’atto illegittimo non può assicurare la tutela specifica dell’interesse del ricorrente», il che si verifica, ad esempio, quando all’annullamento dell’aggiudicazione non può far seguito l’inefficacia del contratto e l’aggiudicazione in favore del ricorrente o, quantomeno, la ripetizione della procedura (nei casi previsti dagli artt. 121-124 c.p.a.). Viceversa la responsabilità propriamente precontrattuale, «in quanto finalizzata alla riparazione di pregiudizi derivanti da attività illecita e tuttavia non illegittima», costituisce, al ricorrere delle relative condizioni, l’unico strumento di tutela a disposizione dell’impresa, attivabile malgrado il pregiudizio non trovi causa in un atto illegittimo, suscettibile di impugnazione o di annullamento, bensì in un atto legittimo o in un comportamento che neppure configura i caratteri propri dell’atto amministrativo[45].
L’altra differenza di regime concerne la selezione dei danni risarcibili. Infatti, la responsabilità precontrattuale mira a ristorare il valore delle occasioni perdute per effetto della scorrettezza della controparte, mentre la responsabilità derivante da illegittimità dell'azione amministrativa è commisurata, al valore del bene della vita spettante e non attribuito, che in questo caso è il contratto. Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, dunque, il presupposto di carattere concettuale della responsabilità precontrattuale risiede nella circostanza per cui «la violazione della buona fede deve essere apprezzabile in modo autonomo rispetto alla legittimità dell'azione amministrativa, ovvero nel fatto che il pregiudizio subito dall'impresa non trovi causa in un atto illegittimo della serie».
Del resto, l’autonomia dell’illiceità rispetto alla illegittimità dell’azione amministrativa nelle procedure ad evidenza pubblica è argomentata dalla giurisprudenza con il ricorso alla distinzione, di matrice civilistica, tra regole di validità e regole di comportamento come la buona fede e la correttezza: assumendo vigenti nelle procedure di scelta del contraente le une come le altre, le regole di comportamento possono risultare violate anche quando quelle di validità siano state rispettate, nel qual caso l’attività amministrativa è legittima ma illecita e dunque fonte di responsabilità precontrattuale. La possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento è stata in particolare affermata anche dall’Adunanza Plenaria, in cui si è significativamente affermato che la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure di affidamento di contratti pubblici è una responsabilità «da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale»[46].
La distinzione, peraltro, riflette l’ambivalenza dell’azione amministrativa che si svolge nel procedimento: essa è per un verso funzione, cioè luogo di formazione progressiva della decisione (che culmina nell'esercizio, o nel non esercizio, del potere) e per altro verso, contemporaneamente, comportamento che si svolge all’interno di un rapporto col privato[47]. Il fenomeno, a ben vedere, è ontologicamente unico, e come tale potrebbe anche essere qualificato, ma è il diritto a prenderlo in considerazione in modo duplice, sebbene tramite precetti in larga parte coincidenti[48]. Sul punto, si è ancora affermato in giurisprudenza[49] che, in realtà, la buona fede e la tutela del legittimo affidamento[50] sono regole comuni ad ogni rapporto giuridico, come tali non ascrivibili né al diritto pubblico né al diritto privato, traendone conferma dalla prescrizione della buona fede nell’art. 1 della l. n. 241/1990.
L’assunto, vi è da rilevare, trova significativo riscontro sul piano del diritto positivo proprio nella riforma dell’art. 1 cit. che, nella sua attuale formulazione, al comma 2 bis[51], prescrive che “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”[52]. A fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede, dunque, possono pertanto sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all’utilità derivante dall’atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l’amministrazione fonte di responsabilità[53].
5. Riflessioni conclusive.
Orbene, alla luce di quanto sopra detto, sebbene in maniera sintetica e non esaustiva (non essendo questa la sede per una trattazione “di dettaglio” delle complesse questioni e dei diversi istituti sottesi alle tematiche citate), appare evidente, con riferimento al tema della “responsabilità” qui richiamata, che proprio la codificazione della collaborazione e della buona fede[54], doveri di condotta gravanti reciprocamente sulle parti, comporta una serie di rilevanti conseguenze.
Ed infatti, in primo luogo, elimina i dubbi sull’individuazione del momento in cui sorge l’affidamento del privato, che coincide con l’avvio del procedimento[55]. Non a caso, sin dal momento del suo avvio, d’ufficio o su istanza di parte, si instaura tra le parti un dovere di lealtà, di protezione e di correttezza, oggi cristallizzato in una norma di legge, la cui violazione può dar luogo a responsabilità risarcitoria. In secondo luogo, “consolida e generalizza” il modello di responsabilità per danno da affidamento, che diviene praticabile sia quando la lesione abbia avuto causa in atti formali sia quando sia derivata da condotte comportamentali. In terzo luogo, sgancia l’area dei danni risarcibili dal criterio di spettanza, ponendo a carico dell’Amministrazione «il dovere di comunicare subito al privato il rigetto di un’istanza inammissibile o infondata, senza ingenerare false aspettative o porre in essere condotte dilatorie», con rilevanti conseguenze sulla risarcibilità del danno da mero ritardo[56].
Peraltro, pare appena il caso di rilevare come tale lettura trovi pure dimora, nella materia dei contratti pubblici, anche nel d.lgs. n. 36/2023 (“Nuovo Codice dei Contratti Pubblici”)[57]. Ed infatti, l’art. 5, recante “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento”, introduce una norma specifica[58] sull’obbligo reciproco di correttezza (tra P.A. e operatore economico) che a maggior ragione si giustifica nell’ambito delle procedure a evidenza pubblica, dalla chiara valenza precontrattuale. In particolare il comma 2, nel prevedere che “nell’ambito del procedimento di gara, anche prima dell’aggiudicazione, sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede”, recepisce proprio i principi sulla tutela dell’affidamento incolpevole (anche con riferimento al danno da provvedimento favorevole poi annullato) enunciati dall’Adunanza Plenaria con le richiamate pronunce[59]. Pur non intervenendo sul riparto della giurisdizione, la norma si basa, comunque, sul presupposto secondo cui la lesione dell’affidamento che viene in rilievo nell’ambito del procedimento di gara, anche quando realizzato attraverso comportamenti, presenta un collegamento forte con l’esercizio del potere; pertanto, anche quando il privato lamenta la lesione della propria libertà di autodeterminazione negoziale, la relativa controversia risarcitoria rientra nella giurisdizione amministrativa, specie in considerazione del fatto che, nella materia degli appalti pubblici, il giudice amministrativo gode di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, c.p.a.), che si estende, oltre che ai comportamenti amministrativi (in base alla previsione generale contenuta nell’art. 7 c.p.a.), anche alle “controversie risarcitorie”[60]. Il comma 3, infine, disciplina le “condizioni” di risarcibilità del danno da provvedimento favorevole poi annullato. La norma, nell’escludere il carattere incolpevole dell’affidamento in caso di illegittimità agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti, recepisce nella sostanza proprio i principi espressi dall’Adunanza plenaria n. 20/2021.
In sostanza, l’affidamento, per essere tutelabile in via risarcitoria, deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato. Nella fattispecie del provvedimento favorevole poi annullato (o revocato), il soggetto beneficiario deve dunque vantare una ragionevole aspettativa alla conservazione del bene della vita ottenuto con il provvedimento stesso, la frustrazione della quale possa quindi essere considerata meritevole di tutela per equivalente in base all’ordinamento giuridico[61].
La tutela risarcitoria non interviene, quindi, a compensare il bene della vita perso a causa dell’annullamento del provvedimento favorevole, che comunque si è accertato non spettante nel giudizio di annullamento, ma a ristorare il convincimento ragionevole che esso spettasse. Nella descritta prospettiva, il grado della colpa dell’amministrazione - e dunque la misura in cui l’operato di questa è rimproverabile - va correlato al profilo della riconoscibilità dei vizi di legittimità da cui potrebbe essere affetto il provvedimento.
E ciò in quanto proprio la tutela dell’affidamento si fonda sui principi di correttezza e buona fede che regolano, al contempo, l’esercizio del pubblico potere ma anche il comportamento del privato[62].
Ad ogni buon conto, ciò che emerge dalla sentenza in commento è una - rimarcata - distinzione tra responsabilità precontrattuale della P.A. e responsabilità da provvedimento illegittimo. Distinzione che si riverbera, ovviamente, in plurimi aspetti, ossia, ex aliis: (i) con riferimento alla causa petendi, da un lato vi è la lesione dell’interesse legittimo (responsabilità da provvedimento illegittimo), per cui la giurisdizione su tale responsabilità spetta al g.a. come giudice di legittimità; dall’altro, la lesione di un diritto soggettivo (la responsabilità precontrattuale, in quanto responsabilità da comportamento violativo di una regola privatistica), per il quale il giudice competente dovrebbe invece essere il g.o.[63]; (ii) quanto al danno risarcibile, nella responsabilità precontrattuale quest’ultimo segue quanto previsto dagli artt. 1337 e 1338 c.c., e cioè il c.d. “interesse negativo”, consistente esemplificativamente nel tempo e nel danaro persi nella gara, le eventuali occasioni alternative mancate, ecc.; nella responsabilità da provvedimento illegittimo il danno risarcibile è invece il bene della vita, e cioè, l’interesse positivo alla partecipazione alla gara, all’aggiudicazione del contratto, alla stipula del contratto[64].
Il raffronto, che cela le enormi difficoltà conciliative tra i momenti civilistici e amministrativistici, non è esente da contrasti che, tuttavia, rendono il tema, senza dubbio alcuno, ricco di spunti seducenti.
[1] La sentenza in commento, in particolare, conferma la pronuncia di primo grado resa da T.A.R. Calabria, Catanzaro, 28 novembre 2022, n. 2172, in giustizia-amministrativa.it. Al di là dei plurimi motivi di gravame, le doglianze specifiche da cui prende le mosse il Consiglio di Stato sulla questione in commento sono le seguenti. (A) Circa la responsabilità precontrattuale e da ritardo: l’appellante, dalla premessa secondo cui la sentenza del T.A.R. Catanzaro cit. aveva accertato l’illegittimità del silenzio serbato dalla Regione Calabria in relazione alla domanda di stipulazione del contratto, faceva discendere la prova del nesso causale tra l’illegittimo comportamento dell’amministrazione e i danni da essa riportati a titolo di responsabilità precontrattuale. In particolare, rilevava che la condotta della P.A. avrebbe dovuto essere qualificata come colposa ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., con conseguente obbligo risarcitorio; (B) In merito alla responsabilità da atto illegittimo: l’appellante contestava, ex aliis, l’assenza dei presupposti previsti dall’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 per pervenire ad un provvedimento di revoca, e segnatamente la mancanza di una sopravvenienza, fattuale o normativa, rispetto ai fatti già conosciuti dall’Amministrazione, oltre che l’assenza di una nuova ponderazione dell’interesse pubblico rispetto agli interessi antagonisti.
[2] Il comma 1 dell’articolo citato prevede che “se sopravvengono circostanze straordinarie e imprevedibili, estranee alla normale alea, all’ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato e tali da alterare in maniera rilevante l’equilibrio originario del contratto, la parte svantaggiata, che non abbia volontariamente assunto il relativo rischio, ha diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali”.
[3] Cfr. art. 9, comma 2, d.lgs. n. 36/2023, ove meglio si descrive la finalità sottesa alla rinegoziazione, ossia il “ripristino dell’originario equilibrio del contratto oggetto dell’affidamento”, anche attraverso “l’inserimento nel contratto di clausole di rinegoziazione” al fine di meglio curare la gestione delle “sopravvenienze” di cui al comma 1 (art. 9, comma 4, d.lgs. cit.). Così perimetrata la rinegoziazione, è possibile, peraltro, cogliere pure la differenza tra l’istituto appena descritto e l’“eccessiva onerosità sopravvenuta” di cui all’art. 1467 c.c. Ed infatti, l’art. 9 supra parla di una tutela “manutentiva”, conforme all’interesse dell’operatore e della S.A., anche in virtù dell’interesse pubblico alla base della contrattazione; l’art. 1467 c.c. tratta una tutela “demolitoria”, ove si prevede che la parte “può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458”.
[4] Cfr. art. 120, commi 5 e 6, d.lgs. n. 36/2023.
[5] Sul punto, si veda il parere espresso dalla commissione speciale del Consiglio di Stato n. 1084/00 del 12 ottobre 2001. Nell’occasione, la commissione del Consiglio di Stato ebbe in particolare modo di affermare che anche la rinegoziazione successiva all’aggiudicazione potrebbe alterare la par condicio dei concorrenti, e ciò in quanto «il divieto di rinegoziare le offerte deve razionalmente intendersi in linea di principio […] anche successivamente all’aggiudicazione, in quanto la possibilità di rinegoziazione tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario, modificando la base d’asta, finirebbe (seppure indirettamente) coll’introdurre oggettivi elementi di distorsione della concorrenza, violando in tal modo i principi comunitari in materia».
[6] L’affermazione di principio può essere fatta risalire alla sentenza Cons. Stato, A.P., 5 settembre 2005, n. 6, in giustizia-amministrativa.it, in cui l’impresa aggiudicataria di una procedura di affidamento di un appalto pubblico aveva chiesto la condanna al risarcimento dei danni nei confronti dell’amministrazione che aveva legittimamente revocato la gara. Sul presupposto che nell’applicare le norme sull’evidenza pubblica quest’ultima è anche soggetta alle «norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune», e malgrado la legittimità dell’intervento in autotutela, l’Adunanza plenaria ha riconosciuto il risarcimento per la lesione dell’affidamento maturato dall’aggiudicataria sulla conclusione del contratto, una volta che la sua offerta era stata selezionata in gara come la migliore ed era stato emesso a suo favore il provvedimento definitivo. Cfr. pure Cons. Stato, A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, S. Amato, I nuovi confini della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, in Riv. giur. ed., 2014, 1, 1 ss.; G.M. Racca, La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, 198 ss.; F. Manganaro, Riflessioni su talune recenti tendenze in tema di riparto di giurisdizione e responsabilità civile dell'amministrazione, in Giustamm.it, 2009; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in federalismi.it, 2011, 7; S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Responsabilità precontrattuale, Milano, 2003, 1267 ss.; F.G. Scoca, Tutela giurisdizionale e comportamento della pubblica Amministrazione contrario alla buona fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, in L. Garofalo (a cura di), Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova, 2003, vol. III; E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo, ivi; M. D’Alberti, Diritto amministrativo e diritto privato: nuove emersioni di una questione antica, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 1023 ss.
[7] Si veda, in particolare, Cons. Stato, A.P., 29 novembre 2021, n. 21, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, C. Napolitano, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20), in giustiziainsieme.it, 2021.
[8] . L’«ordinaria possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento» è stata in particolare affermata dalla suddetta A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in cui si è anche precisato che la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure di affidamento di contratti pubblici è una responsabilità «da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale».
[9] Cons. Stato, sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5011, in giustizia-amministrativa.it.
[10] E di cui sono applicazioni concrete, tra le altre, la “regola possesso vale titolo” ex art. 1153 c.c., l’acquisto dall’erede apparente di cui all’art. 534 c.c., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l’acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente ex artt. 1415 e 1416 c.c.
[11] C. Turco, Interesse negativo e responsabilità precontrattuale, Milano, 1990, 755 ss. Si vedano anche le riflessioni di G. Tropea, A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (nota a Cass., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in giustiziainsieme.it, 2020.
[12] Inoltre la lesione dell’aspettativa può configurarsi non solo in caso di atto legittimo, ma anche nel caso di atto illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale. Anche in questa seconda ipotesi può infatti darsi il caso che il soggetto beneficiario dell’atto per sé favorevole abbia maturato un’aspettativa ragionevole alla sua stabilità, che dunque può essere ingiustamente lesa per effetto dell’annullamento in sede giurisdizionale. Ed infatti, secondo l’A.P., n. 21/2021 cit. «nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi».
[13] Cons. Stato, A.P., n. 21/2021 cit., secondo cui «la reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione all’interesse positivo, corrispondente all’utile che si sarebbe ottenuto dall’esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da inadempimento, ma dell’interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. danno emergente - lucro cessante».
[14] Si veda Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 2021, n. 5274; Id., 12 aprile 2021, n. 2938; Id., 02 febbraio 2018, n. 680, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[15] Si veda Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2016, n. 7545; Id., sez. III, 29 marzo 2007, n. 7768, in cortedicassazione.it.
[16] Si veda, amplius, Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237, in giustizia-amministrativa.it.
[17] Il recesso ingiustificato assume i connotati provvedimentali tipici della revoca o dell’annullamento d’ufficio della gara, che interviene a vanificare l’aspettativa dell’aggiudicatario alla stipula del contratto e che, pur legittimo, non vale quindi ad esonerare l’amministrazione da responsabilità per avere inutilmente condotto una procedura di gara fino all’atto conclusivo ed avere così ingenerato e fatto maturare il convincimento della sua positiva conclusione con la stipula del contratto d’appalto. In senso parzialmente diverso si è espressa Cass. civ., sez. I, 03 luglio 2014, n. 15260, ove si afferma che l’affidamento del concorrente ad una procedura di affidamento di un contratto pubblico è tutelabile «indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto»; la stazione appaltante è quindi responsabile sul piano precontrattuale «a prescindere dalla prova dell’eventuale diritto all’aggiudicazione del partecipante».
[18] Cons. Stato, A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in giustizia-amministrativa.it.
[19] Nell'ambito della responsabilità precontrattuale dell'amministrazione appaltante, «è ammessa la risarcibilità del danno non solo nel caso di declaratoria dell'illegittimità dell'atto di revoca dell'aggiudicazione, ma anche nelle fattispecie comportamentali (come un comportamento inerte o dilatorio) che prescindono dall'accertamento dell'invalidità di una pregressa attività provvedimentale; in tali casi, tuttavia, la responsabilità può ritenersi sussistente soltanto ove: a) l'affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) il privato provi sia il danno-evento (la lesiotene della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all'amministrazione»; cfr. T.A.R. Sardegna, sez. I, 27 settembre 2021, n. 658, in giustizia-amministrativa.it.
[20] Sul punto va richiamato l’art. 1338 c.c., il quale assoggetta a responsabilità precontrattuale la «parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte», ed in base al quale viene escluso il risarcimento se la conoscenza di una causa invalidante il contratto è comune ad entrambe le parti che conducono le trattative, poiché nessuna legittima aspettativa di positiva conclusione delle trattative può mai dirsi sorta (in questo senso, Cass. civ, sez. III, 18 maggio 2016, n. 10156; Id., sez. lav., 31 gennaio 2020, n. 2316). Secondo Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2016, n. 3674, in giustizia-amministrativa.it, «al fine di escludere la risarcibilità del pregiudizio patito dal privato a causa dell’inescusabilità dell’ignoranza dell’invalidità dell’aggiudicazione, che il giudice deve verificare in concreto se il principio di diritto violato sia conosciuto o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, tenuto conto dell’univocità dell’interpretazione della norma di azione e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l’invalidità».
[21] Come rilevato da Cons. Stato, A.P., n. 21/2021 cit., «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa».
[22] Recentemente, cfr. Cons. Stato, sez. VII, 27 marzo 2023, n. 3094, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, A. Travi, Tutela risarcitoria e giudice amministrativo, in Dir. Amm., 2001, 20; L. Garofolo, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 2005, 16 ss.; G.M. Racca, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, passim. Cfr. pure V. Parisio, La responsabilità civile in materia urbanistica e di lavori pubblici, in Riv. giur. ed., 2000, 517 ss.
[23] Si veda Cons. Stato, sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337; T.A.R. Lazio, Roma, sez. 3, sentenza n. 11808 del 08 ottobre 2014; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 02 marzo 2018, n. 1350; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 25 settembre 2017 n. 4483, tutte in giustizia-amministrativa.it. Secondo tale indirizzo, che muove dalla sentenza Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, la responsabilità prevista dall’art. 2043 c.c. presuppone che l’agente «non abbia normalmente alcun rapporto o contatto con la parte danneggiata. A tale stregua, la norma prevede una clausola generale da cui discende l’osservanza del dovere generale del neminem laedere a tutela di qualunque posizione soggettiva meritevole di protezione giuridica». Cfr. R. Chieppa, Viaggio di andata e ritorno dalle fattispecie di responsabilità della pubblica amministrazione alla natura della responsabilità per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività amministrativa, in Dir. proc. amm., 2003, 683 ss. Peraltro, secondo la sentenza n. 500 del 1999 cit., «l'imputazione ex art. 2043 c.c. alla P.a. di una responsabilità extracontrattuale (in materia diversa da quella degli appalti pubblici) non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente e da riferire ai parametri della negligenza o imperizia, ma dell'amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo e lesivo dell'interesse del danneggiato siano avvenute in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi». In dottrina, si veda V. Parisio, Primi brevissimi spunti di riflessione in tema di risarcimento del danno per violazione di interessi legittimi alla luce della sentenza della cass. sez. un. civ. n. 500 del 1999, in Riv. giur. ed., 1999, 6, 1239 ss.
[24] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 04 luglio 2012, n. 3897; Cons. Stato, sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 6421, in giustizia-amministrativa.it.
[25] Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047; Id., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5611; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 05 marzo 2018, n. 617; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 06 aprile 2016, n. 650, tutte in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, si veda C. Cacciavillani, Il risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo, nota a T.A.R. Sicilia, Catania, 18 gennaio 2000, n. 38 e T.A.R. Lombardia, Milano, 23 dicembre 1999, n. 5049, in GC, 2000, 5, 1573 ss., secondo cui la lesione dell’interesse legittimo «può essere individuata con aderenza ai nuovi principi giuspubblicistici solo se si riesce ad uscire dal condizionamento classico della bipartizione delle obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali che male si attaglia al rapporto pubblicistico». In merito alla natura della responsabilità derivante da illegittima emanazione del provvedimento autoritativo, cfr. L. Maruotti, La struttura dell'illecito amministrativo lesivo dell'interesse legittimo e la distinzione tra l'illecito commissivo e quello omissivo, in giustizia-amministrativa.it, 2007, rileva che «per ragioni ontologiche, storiche, normative e istituzionali, l'esercizio del potere autoritativo non è assimilabile alla condotta delle parti di un rapporto contrattuale […] non è assimilabile alla condotta dichi […] cagioni un danno ingiusto».
[26] Secondo parte della dottrina civilistica, la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sarebbe entrata in crisi, in quanto «è parsa ad un tempo arbitraria ed inesatta» e «sfumata»; G. Alpa, La responsabilità civile e danno. Lineamenti e questioni, Bologna, 1991, 17 ss. In particolare, l’Autore rileva come «l’obbligazione contrattuale tende a considerarsi come struttura complessa e pertanto involge anche obblighi accessori; nel contempo la responsabilità civile tende a coinvolgere anche fenomeni contrattuali».
[27] Secondo tale orientamento, per un verso tra la pubblica amministrazione e la parte lesa non è rinvenibile l’estraneità giuridica tipica della responsabilità extracontrattuale, che prescinde dall’esistenza di un previo legame di natura obbligatorio. Per altro verso, tale impostazione individua il fondamento normativo del “contatto” tra cittadino e pubblica amministrazione, nella legge n. 241/1990. Sul piano processuale, tale ricostruzione presenta un vantaggio probatorio per il privato, in quanto consentirebbe di superare le criticità relative alla prova dell'elemento soggettivo della colpa del danneggiante, in virtù dell'applicazione dell’art. 1218 c.c. Cfr. Cass. civ., 19 novembre 2002, n. 157, in Foro it., 2003, I, 78 ss., nota di F. Fracchia, Risarcimento del danno causato da attività provvedimentale, e da Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239, in Danno resp., 2001, 1211, nota di M. Passoni, Responsabilità per “contatto” e risarcimento per lesioni di interessi legittimi.
[28] In un contesto di generalizzata possibilità per il giudice amministrativo di disporre il risarcimento dal danno, valgano da monito le considerazioni di F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in giustiziainsieme.it, 2021, secondo cui la patrimonializzazione dell’interesse legittimo non deve diventare un pretesto per «abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità re se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo».
[29] Cons. Stato, A.P., 23 aprile 2021, n. 7, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, cfr. E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021, in giustiziainsieme.it, 2021; M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur.,15 dicembre 2020 n. 1136), in giustiziainsieme.it, 2021;
[30] Secondo Cons. Stato, sez. VI, 14 marzo 2005, n. 1047, in giustizia-amministrativa.it, la responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo «risponde ad un modello speciale non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile».
[31] La giurisprudenza qualifica la responsabilità precontrattuale nei termini di «una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull'interesse legittimo pretensivo all'aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza»; Cons. Stato, sez. VI, 01 febbraio 2013, n. 633, in giustizia-amministrativa.it. Per dimostrare la colpa, inoltre, possono «operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie», con la precisazione che «il privato danneggiato può, quindi, invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile» e che «spetterà, di contro, all'amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata»; Cons. Stato, sez. III, 05 giugno 2014, n. 2867, in giustizia-amministrativa.it.
[32] F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 296 ss., nonché G. Greco, Dal dilemma di diritto soggettivo - interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale - interesse finale, in Dir. amm., 2014, 3, 479 ss.; A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020.
[33] Cons. Stato, A.P., 03 dicembre 2008, n. 13, in giustizia-amministrativa.it.
[34] Cons. Stato, sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217, in giustizia-amministrativa.it.
[35] Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, affermatosi a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 5/2005 (da ultimo ribadito incidentalmente dall’Adunanza Plenaria n.7 /2021) l'inosservanza del termine per la conclusione del procedimento amministrativo costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente a fondare un obbligo risarcitorio dell'amministrazione ai sensi dell'art. 2 bis, comma 1, legge n. 241/1990. Nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell’ingiustizia esige, pertanto, la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza.
[36] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2021, n. 3398; Id., sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1496; Id., sez. IV, 06 luglio 2020, n. 4338; Id., sez. IV, 27 febbraio 2020, n. 1437, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[37] Sul piano probatorio, l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l'evento lesivo - c.d. “causalità materiale” - impone di verificare «se l'attività illegittima dell'Amministrazione abbia determinato la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento»; Cons. Stato, sez. II, 25 maggio 2020, n. 3318, in giustizia-amministrativa.it. Positivamente definito lo scrutinio in ordine alla causalità materiale, a fronte d'un evento dannoso causalmente riconducibile alla condotta illecita, occorre verificare la sussistenza di conseguenze dannose, da accertare secondo un (distinto) regime di causalità giuridica che ne prefigura la risarcibilità soltanto in quanto si atteggino, secondo un canone di normalità e adeguatezza causale, ad esito immediato e diretto della lesione del bene della vita ai sensi degli artt. 1223 e 2056 c.c.
[38] Cfr. Cons. Stato, A.P., 23 marzo 2011, n. 3, in giustizia-amministrativa.it. Peraltro, il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia i presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). In giurisprudenza, Cons. Stato, sez. II, 28 aprile 2021 n. 3414 e 24 luglio 2019, n. 5219; Id., sez. VI, 5 maggio 2016 n. 1768, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[39] Come evidenziato in giurisprudenza, «la possibilità di risarcimento del danno da ritardo/inerzia dell'amministrazione nella conclusione del procedimento amministrativo non già come effetto del ritardo in sé e per sé, bensì per il fatto che la condotta (dolosa o colposa) inerte o tardiva dell'amministrazione sia stata causa di un danno prodottosi nella sfera giuridica del privato; tale danno, del quale quest'ultimo deve fornire la prova sia sull'an che sul quantum, deve essere riconducibile, secondo la verifica del nesso di causalità, al comportamento inerte ovvero all'adozione tardiva del provvedimento conclusivo del procedimento, da parte dell'amministrazione […]. Ora, in applicazione dei parametri individuati dall'Adunanza Plenaria (n. 7/2021) anche la fattispecie di responsabilità per inosservanza dolosa o colposa del termine fissato per la conclusione del procedimento è inquadrabile nel modello aquiliano di cui all'art. 2043 c.c. Incombe, quindi, sul ricorrente l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi tipici della fattispecie sussumibile sotto la disciplina dell'art. 2043 c.c., tra cui il nesso di causalità tra illegittimità della condotta e danno, l'elemento soggettivo, nel senso che l'attività illegittima deve essere imputabile alla P.A a titolo di dolo o colpa, previa verifica dell'effettiva spettanza del bene della vita che il privato intende acquisire alla propria sfera giuridica attraverso l'esercizio del potere e l'emanazione del provvedimento amministrativo richiesto. […] In applicazione delle anzidette coordinate ermeneutiche la valutazione del dolo o colpa della P.A. non può essere fondata soltanto sul dato oggettivo del superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo, essendo necessario verificare se il comportamento della P.A abbia travalicato i canoni della correttezza e della buona amministrazione, ovvero se sia stato caratterizzato da negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili»; ex plurimis, T.A.R. Lazio, Roma, sez. V, 02 maggio 2022, n. 5423 e Cons. Stato, sez. II, 06 dicembre 2021, n. 8123, in giustizia-amministrativa.it.
[40] Cons. Stato, sez. IV, 15 gennaio 2019, n. 358, in giustizia-amministrativa.it.
[41] Si veda, peraltro, Cass. civ., Sez. Un., 22 giugno 2017, n. 15640, in Foro amm., 2018, 3, 428; Cass. civ., Sez. Un., 02 agosto 2017, n. 19170, che ha rilevato come la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell'interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione della sua integrità patrimoniale ex art. 2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole; in senso conforme, si vedano anche Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2017, n. 12799, in Giust. civ. mass., 2017; Cass. civ., Sez. Un., 23 gennaio 2018, n. 1654, in Foro amm., 2018, 1426.
[42] E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità della Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile; cfr. Cons. Stato sez. III, 24 maggio 2018, n. 3131; Id., 16 maggio 2018, n. 2921, in giustizia-amministrativa.it.
[43] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2023, n. 5989, in giustizia-amministrativa.it.
[44] Peraltro, sulla tutela risarcitoria erogata dal giudice amministrativo e le relative implicazioni nell’attuale contesto di riferimento, si vedano le profonde riflessioni di F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in giustiziainsieme.it, 2021. Sul ruolo dell’affidamento nell’ambito dell’annullamento in autotutela, cfr. M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e amministrazione, 2017, 1; M. Ramajoli, L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto di equilibrio, in Riv. giur. urb., 2016, 99 ss.; F. Trimarchi Banfi, L'annullamento d'ufficio e l'affidamento del cittadino, in Dir. proc. amm., 2005, 847 ss.; F. Francario, Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in A. Contieri, F. Francario, M. Immordino, A. Zito (a cura di), L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, 2010.
[45] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2023, n. 5989, in giustizia-amministrativa.it.
[46] Il riferimento è a Cons. Stato, A.P., 04 maggio 2018, n. 5, in giustizia-amministrativa.it. In particolare, si è evidenziato come anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire «con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell'altrui scorrettezza». Peraltro, si è pure affermato che «nell'ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell'aggiudicazione, in seno a tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento». Si vedano pure Cons. Stato, sez. VI, 25 luglio 2012, n. 4236, in giustizia-amministrativa.it e Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636, Id., sez. I, 03 luglio 2014, n. 15260 e Id., Sez. Un., 08 aprile 2011, n. 8034, in cortedicassazione.it. In dottrina, cfr. G.D. Comporti, Regole di comportamento per un ripensamento della responsabilità dell'amministrazione, in Giur. it., 2018, 8, 1983 ss.; F. Trimarchi Banfi, La responsabilità dell'amministrazione per il danno da affidamento nella sentenza dell'adunanza plenaria n. 5 del 2018, in Corr. giur., 2018, 12, 1547 ss.; S. Foà, M.R. Calderaro, Responsabilità precontrattuale della P.A. tra correttezza e autodeterminazione negoziale, in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1598 ss.; I. Pannullo, Responsabilità precontrattuale P.A.: estesa a tutti i comportamenti posti in essere nella fase di evidenza pubblica, in Resp. civ., 2018, 3, 234 ss.
[47] Si segnala, sul danno da mero ritardo e sui profili di risarcibilità, G.D. Comporti, L'Adunanza delle occasioni perse: responsabilità della P.A. in cerca di qualità, in Giur. it., 2022, 708 ss.; G. Sabato, Sulla natura aquiliana della responsabilità amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2022, 111 ss.
[48] Le norme sull’azione amministrativa, quindi, secondo la pronuncia in commento, sono ad un tempo di validità e di comportamento: due qualificazioni che rispecchiano i due differenti referenti oggettivi delle disposizioni stesse, rispettivamente il provvedimento e, appunto, il comportamento.
[49] V. Cons. Stato, A.P., 29 novembre 2021, n. 20, in giustizia-amministrativa.it, ove si rileva che la responsabilità dell'amministrazione per lesione dell'affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sia insorto «un ragionevole convincimento sulla legittimità dell'atto, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell'impugnazione contro lo stesso provvedimento». In dottrina, V. Di Capua, Danno da lesione dell'affidamento incolpevole e riparto di giurisdizione: l'Adunanza plenaria aggiunge un altro capitolo alla saga, in Dir. proc. amm., 2022, 3, 679 ss.; E. Zampetti, Annullamento giurisdizionale di provvedimento favorevole e giurisdizione del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2022, 3, 663 ss.
[50] Sul punto, si rinvia, senza alcuna pretesa di esaustività, a F. Merusi, L'affidamento del cittadino, Milano, 1970; Id., Buona fede e diritto pubblico, in Il principio di buona fede, Milano, 1987; Id., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni «trenta» all'«alternanza», Milano, 2001; F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; F.G. Scoca, Tutela giurisdizionale e comportamento della pubblica amministrazione contrario alla buona fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, Padova, 2003, 471 ss.; V. Cerulli Irelli, Sul principio del legittimo affidamento, in Riv. it. scien. giur., 2014, 247 ss.; A. Travi, Considerazioni critiche sulla tutela dell'affidamento nella giurisprudenza amministrativa (con particolare riferimento alle incentivazioni ed attività economiche), in Riv. reg. merc., 2016, 1 ss.; E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.; M. Calabrò, La (negata) tutela dell'affidamento in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili, in giustiziainsieme.it, 2021.
[51] Articolo che dispone che “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede” (comma aggiunto dall’art. 12, comma 1, legge 11 settembre 2020, n. 120, di conversione, con modificazioni, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76). La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo - forma tipica di esercizio della funzione amministrativa - è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto «dell’apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241». Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata; ed in ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento; Cfr. Cons. Stato, A.P., n. 21/2021 cit.
[52] Per un'analisi delle principali innovazioni introdotte dal d.l. n. 76 del 2020 agli istituti della legge generale sul procedimento amministrativo, si rinvia a F. Liguori, Il problema amministrativo in trent'anni di fermento normativo: dalla legge sul procedimento del 1990 al decreto semplificazioni del 2020. Una introduzione, in Id. (a cura di), Il problema amministrativo. Aspetti di una trasformazione, Napoli, 2021, 11 ss.; F. Fracchia, P. Pantalone, La fatica di semplificare: procedimenti a geometria variabile, amministrazione difensiva, contratti pubblici ed esigenze di collaborazione del privato “responsabilizzato”, in federalismi.it, 2020, 33 ss.; M. Macchia, Le misure generali (commento al Decreto “Semplificazioni”), in Giorn. dir. amm., 2020, 727 ss.; G. Taglianetti, L'impatto del d.l. n. 76/2020 sul diritto processuale dei contratti pubblici, tra vetera et nova, in Munus, 2020, 624 ss.
[53] Si consideri, inoltre, che «le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operano su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte». In sostanza, oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi; cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2023, n. 8273 e Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 2020, n. 4514, in giustizia-amministrativa.it.
[54] Cfr. M.G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, in Il diritto dell’economia, 2023, 1, 118 ss.; M.C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 139 ss.
[55] Come evidenziato in dottrina (Di Capua, op. cit.) con il procedimento, infatti, si instaura tra l'Amministrazione e i soggetti coinvolti una relazione «socialmente e giuridicamente qualificata che trasforma il dovere di solidarietà reciprocamente gravante, in forza dell'articolo 2 della Costituzione, sui membri della collettività in dovere di correttezza e di protezione, e genera ragionevoli e reciproci affidamenti sulla correttezza dell'altrui condotta».
[56] Sul punto, si vedano le riflessioni di V. Di Capua, op. cit., 534. Secondo la citata Adunanza Plenaria n. 5/2018, il danno da ritardo si configura anche a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione d’interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento, con la precisazione che il danno «deriva dalla lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale». La pronuncia evidenzia che il ritardo nell’adozione del provvedimento genera una «situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione». Nella prospettiva indicata, verrebbe quindi in rilievo un danno “da comportamento” e non da provvedimento, nel senso che la violazione del termine di conclusione del procedimento non determina l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo, ma «rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali». In dottrina, L. Lorenzoni, I principi di diritto comune nell’azione amministrativa tra regole di validità e regole di comportamento, in di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti (a cura di), Dialoghi di diritto amministrativo. Lavori del laboratorio di diritto amministrativo, Roma, 2020, 53 ss.; A. Romano Tassone, La responsabilità della p.a. tra procedimento e comportamento, in Dir. amm., 2004, 2, 224 ss.; E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2021, 222 ss.
[57] In dottrina, si segnala, ex plurimis, M.A. Sandulli, Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici, in giustiziainsieme.it, 2022; G. Napolitano, Committenza pubblica e principio del risultato, in Astrid, 2023; A. Crosetti, Principio di buona fede e contrattazione pubblica, in M. Andreis, G. Crepaldi, S. Foà, R. Morzenti Pellegrini e M. Ricciardo Calderaro (a cura di), Studi in onore di C.E. Gallo, Torino, 2023, I, 246 ss.; A.M. Chiariello, Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici, in Dir. econ., 2023, 144; L.R. Perfetti, Sul nuovo Codice dei contratti pubblici. In principio, in Urb. e app., 2023, 5 ss.; L. Carbone, La scommessa del “Codice dei contratti pubblici” e il suo futuro, in giustizia-amministrativa.it; F. Saitta, I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici, in giustiziainsieme.it, 2023.
[58] L’articolo in commento così recita: “1. Nella procedura di gara le stazioni appaltanti, gli enti concedenti e gli operatori economici si comportano reciprocamente nel rispetto dei principi di buona fede e di tutela dell’affidamento. 2. Nell’ambito del procedimento di gara, anche prima dell’aggiudicazione, sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede. 3. In caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l’affidamento non si considera incolpevole se l’illegittimità è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti. Nei casi in cui non spetta l’aggiudicazione, il danno da lesione dell’affidamento è limitato ai pregiudizi economici effettivamente subiti e provati, derivanti dall’interferenza del comportamento scorretto sulle scelte contrattuali dell’operatore economico. 4. Ai fini dell’azione di rivalsa della stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso, resta ferma la concorrente responsabilità dell’operatore economico che ha conseguito l’aggiudicazione illegittima con un comportamento illecito”.
[59] Cfr. Cons. Stato, A.P., n. 5/2018 e nn. 19 e 20 del 2021. In linea con tale giurisprudenza, il senso della norma è quello di evidenziare che l’affidamento rappresenta un limite al potere amministrativo che può venire in considerazione sia in materia di diritti soggettivi che di interessi legittimi ed inerire, pertanto, anche ai rapporti connotati da un collegamento con l’esercizio del potere.
[60] Nella Relazione di accompagnamento al Nuovo Codice, si legge, peraltro, che, sotto tale profilo, «l’espressa menzione delle “controversie risarcitorie” nel testo dell’art. 133, c. 1, lett. e) n. 1 – in un contesto ordinamentale in cui la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo non richiede previsioni di giurisdizione esclusiva (cfr. Corte cost. n. 204 del 2004) – non può che leggersi come volontà del legislatore di includere nella giurisdizione esclusiva in materia di appalti proprio le controversie di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale, a cui fa riferimento la norma in commento». Sarebbe, tuttavia, opportuno che le incertezze in punto di giurisdizione (come chiaramente emergente dal conflitto interpretativo delineatosi fra Sezioni Unite della Corte di Cassazione e Adunanza plenaria del Consiglio di Stato) vengano risolte con una norma ad hoc, che espliciti che, almeno in materia di procedure di evidenza pubblica e in tutti gli altri casi di giurisdizione esclusiva, quest’ultima include anche il danno da lesione dell’affidamento, laddove esso matura in un contesto procedimentale e il comportamento “scorretto” imputato all’amministrazione presenta collegamenti, anche indiretti o mediati con l’esercizio del potere.
[61] Un affidamento incolpevole non è certamente predicabile nel caso in cui il comportamento inadempiente dell’aggiudicataria abbia indotto l’amministrazione ad emanare il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione. Se, pertanto, il motivo che ha determinato la stazione appaltante ad annullare in autotutela una gara è non soltanto conoscibile dalla società aggiudicataria concorrente, ma addirittura ad essa causalmente riconducibile, la responsabilità dell’amministrazione deve certamente escludersi.
[62] C. Fragomeni, Responsabilità dell’amministrazione tra affidamento legittimo od incolpevole (nota a Cassazione Civile, Sezioni Unite, 19 gennaio 2023, n. 1567), in giustiziainsieme.it, 2023.
[63] Come noto, in materia di contratti pubblici il legislatore ha ritenuto di attribuire la giurisdizione esclusiva al g.a. con la conseguenza che anche le questioni relative alla responsabilità precontrattuale sono attratte nella giurisdizione di quest’ultimo. Per un approfondimento di dettaglio, si veda R. Pusceddu, La responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica, in dirittoamministrativo.it, 2019.
[64] R. Pusceddu, op. cit.
di Paola Chirulli
Sommario: 1. Legittimità e merito nel pensiero di Eugenio Cannada-Bartoli- 2. L’ampliamento della nozione di legittimità come presupposto per un sindacato pieno - 3. La relatività della distinzione tra legittimità e merito - 4. Alcune recenti evoluzioni. Qualche riflessione conclusiva.
1. Legittimità e merito nel pensiero di Eugenio Cannada-Bartoli
Qualunque tentativo di indagare il controverso rapporto tra legittimità e merito, al fine di delimitare i poteri del giudice amministrativo, non può prescindere da una rilettura degli scritti di Eugenio Cannada-Bartoli.
Nella voce “Giustizia amministrativa” - che è quasi uno scritto monografico, conoscendo la sinteticità dell’A. - e che è opera della piena maturità, nella quale vengono ripresi e sviluppati temi approfonditi in una vita di studi, la distinzione tra legittimità e merito è il filo conduttore della trattazione[1]. Lì Cannada-Bartoli scrive che non vi è una separazione netta tra i due ambiti e che la distinzione si rivela un ostacolo solo apparente all’individuazione dell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo[2]. Essa ha un carattere storico e relativo, ossia è soggetta a continua revisione[3].
L’affermazione non è elusiva come potrebbe sembrare; vuole anzi sottolineare che non si è nel regno dell’incertezza o dell’indeterminatezza, bensì in quello dell’evoluzione, dell’affinamento progressivo. Ma anche della sensibilità alle circostanze del caso concreto e, aggiungo, di come nel tempo si atteggiano i rapporti tra poteri pubblici, a loro volta specchio del modo in cui essi rispondono alle attese della società, dunque, anche di come il giudice stesso vede il proprio ruolo.
Il giudice amministrativo svolge un compito fondamentale, poiché esso contribuisce quotidianamente alla revisione della distinzione tra legittimità e merito[4], alla sua definizione nel singolo caso concreto, e a una costante verifica critica dei propri limiti.
Gli insegnamenti del Maestro inducono anche a riflettere sul fatto che la distinzione tra legittimità e merito attiene da sempre al modo di esercizio del controllo giurisdizionale più che attingere al diritto sostanziale, nel quale emergerà tardi e con difficoltà[5]. Essa è in buona parte un portato storico del processo di formazione del nostro sistema di giustizia amministrativa, a cui si deve l’aver accentuato, in taluni momenti, la differenza tra legittimità e merito e in altri, l’averla ridotta. La stessa tipizzazione dei tre vizi di legittimità ha spesso condotto a una individuazione ristretta dell’ambito della legittimità, a vantaggio dell’estensione di quella del merito, lasciata indefinita.
E tuttavia, pur sfumata e mobile nel tempo, quella distinzione esiste, per il semplice fatto che la nostra costituzione la presuppone laddove definisce la giurisdizione di legittimità come generale, quella di merito come eccezionale. Inoltre, il controllo di legittimità non esaurisce le forme di sindacato giurisdizionale previste dall’ordinamento[6].
Quanto alla storicità, il quadro delle fonti sulla giustizia amministrativa si è arricchito rispetto a quello tenuto presente da E. Cannada-Bartoli, eppure molti suoi insegnamenti risultano attuali.
Il codice del processo amministrativo, all’art. 7, individua la giurisdizione di merito come un’ “estensione” della giurisdizione del giudice amministrativo, che consente a quest’ultimo, nelle specifiche materie in cui ciò è previsto, di sostituirsi all’amministrazione.
La norma non aiuta, giacché, col riferirsi alla “sostituzione” e alla “cognizione”, per certi versi dice troppo poco, per altri dice troppo.
Quanto all’uso del termine “sostituzione”, conviene tornare allo scritto sulla giustizia amministrativa del Maestro, nel quale, riprendendo Chiovenda, egli osservava che, in realtà, l’intera attività giurisdizionale è sostituzione, e ciò che conta è “determinare quale sia la regola dell’attività altrui, che viene sostituita dal giudice[7].”
Se il termine sostituzione dice troppo, il termine “cognizione” sembra non dire abbastanza, perché porta a circoscrivere l’ambito del sindacato di legittimità, lasciando intendere che esso si caratterizzi per una cognizione più limitata rispetto alla giurisdizione di merito.
Ma, a ben vedere, così non è. Non tutte le questioni di cui il giudice può (e deve) conoscere, può anche decidere. L’azione di annullamento ne è un esempio emblematico: qui la cognizione segna il perimetro di ciò che il giudice può verificare e accertare, mentre la sentenza, pur basandosi su ciò che è stato accertato dal giudice, non sempre può spingersi a tradurre in regola positiva ciò che è stato conosciuto. E tuttavia, misurando i poteri di cognizione su quelli di decisione, si corre il rischio di individuare una nozione molto restrittiva del sindacato di legittimità rispetto all’esercizio dei poteri discrezionali. Di qui, l’ambiguità dello stesso termine “sindacato”.
2. L’ampliamento della nozione di legittimità come presupposto per un sindacato pieno.
È per l’ampliamento della cognizione sottesa al controllo di legittimità che, secondo Cannada-Bartoli, deve passare il processo evolutivo della giurisdizione amministrativa.
Centrale è, anzi, la nozione stessa di legittimità[8], che è riferimento essenziale, al contempo, per la definizione dell’interesse legittimo, inteso come interesse alla legittimità dell’attività amministrativa[9]. Per come la nozione si è sviluppata nell’arco dei decenni con il contributo della dottrina e della giurisprudenza, e soprattutto con le innovazioni apportate dalla costituzione, essa non si esaurisce nella mera legalità, ma si integra con l’applicazione dei principi di buona amministrazione, di logicità, ragionevolezza e di economicità: in sintesi, buon andamento e imparzialità[10]. Inoltre, da attributo del “buon provvedimento”, essa è divenuta canone dell’intera attività amministrativa, e innanzitutto del suo incedere procedimentalizzato, ed è dunque flessibile parametro per il controllo giurisdizionale.
Ciò significa automaticamente rafforzare la posizione di interesse legittimo, connotandone ulteriormente le significative peculiarità, e valorizzando il suo intrecciarsi con processo di definizione dell’interesse pubblico concreto.
Per questo, accorciare la distanza tra legittimità e merito invocando la retorica del “bene della vita”, e la logica della “spettanza”, ossia tentando di equiparare gli interessi ai diritti, non si rivela tecnica promettente.
Secondo Cannada-Bartoli, la costituzionalizzazione (innovativa e non confermativa) delle due diverse forme di tutela - l’una legata ai diritti, l’altra agli interessi - si fonda su una diversità tra le due situazioni giuridiche, sul piano sostanziale prima ancora che processuale.
Sappiamo che la principale differenza sta tra la certezza e la mera probabilità del conseguimento di un bene[11]che la situazione assicura al suo titolare. Ed è un giudizio di probabilità quello che in molti casi il giudice amministrativo è chiamato a effettuare[12].
Così come il titolare dell’interesse, nemmeno il giudice ha la disponibilità di trasformare la probabilità di un bene in certezza[13]. In altre parole, non può sostituire la tutela dell’interesse alla probabilità di conseguire un bene con l’attribuzione di una certezza, tutte le volte che questa non possa ricavarsi dalle norme attributive del potere e dai principi che vi sono sottesi, nonché dai fatti e dalle risultanze dell’attività amministrativa istruttoria, ma richiede una nuova valutazione dell’amministrazione. Né può lo stesso ricorrente optare per la pretesa “maggiore” - quella cioè all’ottenimento di un provvedimento specifico satisfattivo - laddove ciò non sia consentito dalle norme processuali (perché non vi è una delle ipotesi in cui il giudice può sostituirsi nella produzione dell’effetto), o sostanziali (perché vi è un margine di discrezionalità da spendere non conformabile dal giudice).
Questo limite non è solo presente nei casi in cui il giudizio non può estendersi alla spettanza, ma anche in quelli della c.d. opinabilità, ancorché vi sia in gioco un interesse non di tipo pretensivo ma oppositivo. In questi casi il giudice si trova preclusa l’individuazione dell’interesse pubblico concreto e del correlato effetto giuridico, nonché la sua produzione, sia questo il rilascio di un provvedimento favorevole, ovvero l’eliminazione di uno sfavorevole e l’individuazione, attraverso il contenuto conformativo della sentenza, degli effetti da produrre in suo luogo. E ciò in quanto al giudice non viene demandata dall’ordinamento la decisione sul caso concreto, ma l’individuazione, sulla base del materiale probatorio, delle risultanze processuali e della normativa rilevante, dei criteri di “giustizia” per pervenire a una scelta legittima[14].
E tuttavia, è proprio questa natura “condizionata” dell’interesse legittimo a giustificare una tutela non soltanto di tipo negativo, ma anche e soprattutto di contenuto positivo, di tal che la probabilità non si trasforma in certezza ad opera del giudice, e tuttavia possiede un valore giuridico autonomo ed esce “accresciuta” dal giudizio[15].
Ed è, secondo il M., l’art. 97 della costituzione a fondare il potere conformativo del giudice, “che deve collegarsi alla domanda proponibile in giudizio per la tutela dell’interesse legittimo[16]”, e che non è “octroyé”[17], ossia graziosamente concesso, ma dovuto, laddove possibile nel suo esercizio.
Sulla base di questa nozione, il cittadino ha diritto a una definizione dell’interesse pubblico concreto che si conformi ai principi della corretta azione amministrativa e della buona amministrazione intesa come valore giuridico[18]. Provvedimento legittimo è anche quello che tutela l’interesse privato coincidente con l’interesse pubblico e sappiamo che quella dialettica non è necessariamente di opposizione, anzi: l’atto illegittimo lede tanto l’interesse privato quanto l’interesse pubblico.
Il ricorrente domanda la verifica dell’operato amministrativo ai principi di imparzialità e buon andamento, e chiede l’utilizzazione di una tecnica non basata su un criterio di verità né spesso su uno di certezza, ma su quello di probabilità. Nel fare ciò, il giudice può stabilire regole di diritto amministrativo[19], può individuare cioè qual è il modo corretto che l’amministrazione avrebbe dovuto seguire, sulla base dei criteri ricavabili dall’ordinamento, per giungere all’individuazione dell’interesse pubblico concreto nello specifico caso.
Se ne ricava una nozione evidentemente molto ampia di legittimità, e conseguentemente una concezione molto evoluta del controllo giurisdizionale[20].
3. La relatività della distinzione tra legittimità e merito.
Le indicazioni di E. Cannada-Bartoli offrono spunti per comprendere anche la relatività della distinzione tra legittimità e merito, che poco tollera la sussunzione in formule predeterminate. Si pensi all’affermazione, talora ancora diffusa, secondo la quale il controllo di legittimità implica un sindacato “debole” o “esterno”, di tipo non sostitutivo, sulla discrezionalità, frutto di una semplificazione, che omette di tenere in considerazione il fatto che la discrezionalità non è mai uguale a se stessa, perché dipende dal modo in cui il suo esercizio è disciplinato, si è svolto in concreto, nonché dal tipo di interessi sui quali l’amministrazione è chiamata a intervenire.
I primi due punti esprimono la circostanza che la discrezionalità non è un fenomeno statico, ma è un processo dinamico, di cui la scelta rappresenta soltanto il fotogramma ultimo.
L’esercizio dell’attività discrezionale dipende innanzitutto dalla maggiore o minore complessità di ciascun procedimento nella disciplina specifica che esso riceve, ossia dall’articolazione della norma attributiva del potere. È innanzitutto nel riesame delle modalità di svolgimento del procedimento, e nel loro rapporto con la scelta finale adottata, che il giudice ha la possibilità di confrontarsi con i parametri di buon andamento e imparzialità, di verificare cioè il corso funzionale o disfunzionale dell’esercizio del potere.
Poi vi sono le vicende concrete della singola fattispecie, la scomposizione dei singoli passaggi logico-argomentativi, il riesame della c.d. attività conoscitiva svolta dall’amministrazione, sui quali ci ha illuminato il contributo di Bruno Tonoletti[21]. Qui il giudice ha la massima ampiezza di osservazione, di conoscenza e di apprezzamento dei fatti. E in molti casi, se questo esame è svolto accuratamente, si avrà già modo di sindacare la scelta discrezionale nel suo farsi[22]. Sappiamo che il controllo di legittimità si è giovato del progressivo affinamento delle conoscenze tecniche relative anche all’organizzazione e all’attività amministrativa, e dei parametri di cui avvalersi in giudizio, sviluppando un potere di cognizione praticamente illimitato.
Non può del resto sottovalutarsi la questione della c.d. discrezionalità consumata, che si lega strettamente al rilievo che precede, e al cospetto della quale il giudice può spingere in là il limite dei suoi poteri decisori, perché non resta molto o niente di ancora aperto nella formula decisionale che l’amministrazione deve completare. Ciò può dipendere sia dal modo in cui le norme attributive del potere e la complessiva fattispecie del provvedere configurano il percorso decisionale, sia dalla presenza di scelte di predeterminazione già compiute. È quanto il codice del processo ha previsto all’art. 31, co. 3, nel caso dell’inerzia e dell’azione contro il silenzio, laddove ha stabilito che “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione.”
Vero è che vi sono “materie”, nelle quali il peso della scelta soggettiva è più elevato che in altre, ed è sbilanciato rispetto a quello dell’istruttoria, ovvero l’amministrazione che è chiamata a compiere la scelta ha una posizione peculiare nell’ordinamento: concessione della cittadinanza, revoca del porto d’armi, aggiudicazione di appalti, trasferimenti militari, provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura, vincoli storico-artistici, attività di pianificazione, provvedimenti di gestione dell’emergenza e del rischio, decisioni intrinsecamente politiche, come quelle sull’esercizio del golden power.
Qui la verifica “critica” dei propri limiti di sindacato si fa più delicata per il giudice, soprattutto quando sono in gioco valutazioni comparative, decisioni pervase da politicità, o attribuite a organi dotati di una peculiare posizione costituzionale[23]: per dirla con Cammeo, sarà più difficile isolare la “volontà” dall’“intelligenza” delle questioni oggetto del decidere[24].
Ma anche in questi casi, non possono semplicisticamente individuarsi campi preclusi. Non esistono questioni in astratto, o sempre non decidibili[25]. Il grado di sostituibilità non è individuabile ex ante, o affidabile a formule precostituite[26].
Allo stesso modo, non esistono questioni sempre decidibili da parte del giudice, sol perché la particolare materia richiede uno standard di tutela delle situazioni soggettive particolarmente elevato: il riferimento ai provvedimenti sanzionatori delle amministrazioni indipendenti lo rende particolarmente evidente. Qui mi sembra valere la medesima regola: in taluni, non rari casi, si potrà arrivare a un sindacato “sostitutivo”, perché le condizioni del caso specifico lo consentono, ma non può dirsi che il sindacato possa e debba essere sempre e del tutto sostitutivo[27]. La narrativa della full jurisdiction non è a mio avviso del tutto convincente, né risolutiva: che il nostro giudice, anche e soprattutto nei giudizi in materia di sanzioni pecuniarie di tipo afflittivo, sia dotato di una giurisdizione piena (e in parte anche di merito) non mi sembra dubitabile. Ma da ciò, e dalle stesse sentenze che spesso vengono citate, non si ricava che un sindacato pieno sul fatto o sul diritto – così come richiesto dalla CEDU - significhi sostituzione della decisione nel caso concreto, ossia quell’estensione massima del sindacato che identifica l’ambito della giurisdizione di merito. La stessa Corte di Giustizia, nell’escludere di incontrare limiti che le impediscano il sindacato della discrezionalità, in materia di sanzioni antitrust continua a distinguere tra full jurisdiction e unlimited jurisdiction, la prima riguarda la pienezza della giurisdizione, la seconda attiene alla sola possibilità di modificare il quantum della sanzione[28]. Alla possibilità di sostituire sempre anche l’esito dell’accertamento sull’an della sanzione[29] mi sembra che allo stato ostino il combinato disposto dell’art. 134, lett. c) e dell’art. 34, co.1, lett. d), c.p.a., nonché l’art. 7 d. lgs. n. 3/2017[30], per come interpretati dalla giurisprudenza prevalente, e sul punto sarebbe necessario un intervento del legislatore.
In secondo luogo, neppure la tesi pretoria secondo la quale il giudice può sempre vagliare la maggior attendibilità tra le tesi prospettate dalle parti[31] sembra cogliere interamente nel segno, giacché la sua praticabilità è subordinata almeno a due presupposti: richiede innanzitutto che il ricorrente prospetti una soluzione, un metodo, un criterio decisionale alternativo che sia argomentato e che si presti a essere paragonato a quello utilizzato dall’amministrazione, e apprezzato dal giudice, anche attraverso verificazioni o consulenze tecniche[32]. Occorre poi che, quand’anche sia così, ne discenda in ogni caso una regola per il decidere, che il giudice sia in grado di apprezzare nella sua oggettività e nella sua maggior conformità ai canoni della corretta amministrazione. Da ciò discende la possibilità di estendere al merito il contenuto del comando giudiziale, oppure di limitarlo a un annullamento implicante una nuova valutazione, sia pure essa un’applicazione della tecnica valutata come maggiormente attendibile dal giudice.
Proprio perché il sindacato si lega a un fenomeno dinamico, la sua estensione non è misurabile e valutabile ex ante, ma ex post.
4. Alcune recenti evoluzioni. Qualche riflessione conclusiva.
Non mancano casi in cui la giurisprudenza e la stessa legislazione hanno ipotizzato un effetto sostitutivo pieno, che consenta di attribuire al ricorrente l’agognato bene della vita, anche in casi in cui non vi sarebbe una sola scelta possibile, e si tratta di giudizio opinabile, ovvero a discrezionalità c.d. “non consumata”.
Qui la storicità e la relatività della distinzione tra legittimità e merito emergono in tutta la loro evidenza e intercettano l’opera del giudice che esplora criticamente ed empiricamente i propri limiti[33]. Basta evocare l’invenzione giurisprudenziale del one shot c.d. temperato, creata per rafforzare la portata dell’effetto preclusivo delle statuizioni giudiziali, e utilizzata (pure raramente), per arrivare a un effetto sostitutivo pieno da parte del giudice.
Vi sono, poi, anche norme che oggi espressamente sembrano garantire il “diritto incondizionato al bene della vita”, sancendo la consumazione del potere di valutazione dell’amministrazione a fronte di interessi legittimi pretensivi e introducendo delle preclusioni assolute al riesercizio del potere in senso sfavorevole al ricorrente. Il legislatore l’ha recepita estremizzandola con la riforma dell’art. 10-bis l. proc., che ha introdotto la regola del one-shot assoluto, sia pure subordinandola, espressamente o implicitamente, a una serie di condizioni. Nonostante l’apparente assolutezza della previsione, la giurisprudenza ne sta facendo un’applicazione piuttosto limitata, poiché in molti casi l’effetto preclusivo è impedito dalla portata ancora aperta della regola conformativa, ovvero in presenza di una discrezionalità non consumata, ancora disponibile per l’amministrazione[34].
È certamente vero che il codice del processo amministrativo ha previsto il potere del giudice di pronunciarsi sulla fondatezza della domanda in caso di silenzio, di condannare all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione dedotta in giudizio. È inoltre caduto il limite della salvezza degli ulteriori provvedimenti, sostituito da quello, ritenuto più blando, del divieto di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati.
Sono indicazioni che spingono verso l’utilizzazione da parte del giudice di tutti i poteri di cognizione e di decisione che sono nella sua disponibilità. Su questi temi - pur a fronte di una disciplina processuale differente - aveva ragionato diversi anni fa Eugenio Cannada-Bartoli, commentando la sentenza del Consiglio di Stato anticipatrice della dottrina del c.d. one shot[35], e tornando a uno dei suoi temi più cari, il giudizio di ottemperanza e il suo rapporto con il giudicato[36], e completando altre riflessioni sulla necessità di sfruttare appieno tutte le possibilità decisorie e in particolare di evitare il ricorso alla tecnica dell’assorbimento dei motivi, ritenuto dallo studioso un’omissione di pronuncia[37].
L’A. dubitava che la fonte della preclusione ad addurre nel nuovo provvedimento di diniego motivazioni non in precedenza considerate fosse la sentenza del giudice, e non piuttosto una regola sostanziale che impone all’amministrazione di esaminare sempre l’affare nella sua interezza prima di provvedere, raccogliendo alcune suggestioni dottrinali e anticipando così riflessioni sui temperamenti al principio dell’inesauribilità del potere[38].
Il discorso ci porterebbe troppo lontano dal tema che ci occupa.
In conclusione, tra la massima utilizzazione dei poteri cognitori e decisori e l’esercizio di un’attività interamente sostitutiva continua a non esservi piena equivalenza e la giurisdizione “estesa al merito” implica qualcosa in più[39].
Più che espressione di un anacronistico attaccamento al principio della separazione dei poteri, dal quale potrebbe al più ricavarsi una “preferenza” di amministrazione[40], tale conclusione appare la più compatibile con un’interpretazione delle norme sul processo amministrativo conforme al testo costituzionale.
Il merito, così come residualmente circoscritto, e di volta in volta individuato, continua a sfuggire ai poteri decisori del giudice tutte le volte che non è esercizio di giurisdizione, e se questi si spingesse a individuare l’assetto definitivo degli interessi, completando egli stesso la fattispecie aperta discrezionale, senza che ciò fosse argomentabile alla luce delle norme e dei principi, lo farebbe utilizzando regole e strumenti – in altre parole, poteri - che non gli appartengono[41].
Per questo motivo, nei rari casi in cui il giudice amministrativo, pur nell’intento di offrire una tutela satisfattiva al privato, ha chiuso il cerchio dell’elusione, pronunciandosi in luogo dell’amministrazione, e ha riempito egli stesso gli spazi di una discrezionalità non esaurita sostituendosi a giudizi opinabili e soggettivi, privi di un ancoraggio oggettivo e di una motivazione giuridica, esso – in una inedita interpretazione del proprio ruolo – ha esercitato una funzione non solo giurisdizionale, ma anche punitiva e sanzionatoria, ossia più propriamente amministrativa[42].
Può concludersi, allora, che nell’accezione dinamica e relativa che si è tratteggiata, il “merito” non sia sempre precluso al giudice amministrativo, purché questi rimanga nei limiti compatibili con la natura giurisdizionale dell’attività svolta, ricordando, per dirla ancora una volta col Maestro, che “il merito è stato distinto dalla legittimità……non perché “merito”, ma perché amministrativo, dell’autorità amministrativa.[43]”
* Intervento presentato alle giornate di studio sulla giustizia amministrativa svoltesi a Modanella il 16 e il 17 giugno 2023 sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”.
[1] E. Cannada Bartoli, Giustizia amministrativa, in Dig. disc. pubbl., VII, 1991, 508.
[2] Id., 561.
[3] Revisione da parte dell’interprete e “precipuamente dal giudice”: così E. Cannada-Bartoli, Di alcuni aspetti del diritto amministrativo, Studi in onore di G. Zingali, 1965, II, 69.
[4] Il ruolo determinante del giudice è, secondo l’A. una conseguenza del carattere non scritto dello stesso diritto amministrativo.
[5] A. Romano Tassone, Sulle vicende del concetto di “merito”, in Dir. amm., 2008, 524. L’A. sottolineava come l’affiancamento del binomio legittimità-merito a quello sindacato di legittimità-sindacato di merito avesse portato a fare del merito una nozione non solo diversa da quella di legittimità, ma ad essa opposta, determinando la trasformazione della coppia in un binomio “a terzo escluso” e portando, di fatto, a una crisi e a una dissoluzione del concetto di merito.
[6] V. F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, in www.giustiziainsieme.it.
[7] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 544.
[8] Id., Una nozione necessaria: la legittimità degli atti amministrativi, in Foro it., 1955, IV, 201 ss.
Il tema è stato ripreso di recente nel lavoro monografico di A. Cioffi, Il problema della legittimità nell’ordinamento amministrativo, Padova, 2012.
[9] E. Cannada-Bartoli, Interesse (dir. amm.), Enc. Dir., XXII, 1972, 9: “Se l’art. 97, stabilendo i canoni dell’imparzialità e del buon andamento, costituisce la norma fondamentale dell’azione amministrativa, tale norma fonda, ad un tempo, la compiuta risoluzione dell’interesse pubblico nell’ordinamento e, mediante la nozione di legittimità, il contenuto dell’interesse legittimo, che non è possibile definire che in relazione all’interesse pubblico siffattamente risolto.”
[10] Lo precisa A. Cioffi, op. cit., 161, laddove, richiamando quella che definisce essere la grande intuizione della dogmatica classica, dice che “ragionevolezza, giustizia, imparzialità e buon andamento sono i principi della legittimità. Ma non sono esterni ad essa: “sono” la legittimità.”
[11] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 560.
[12] Sulla non coincidenza dell’oggetto dell’interesse con il bene della vita, v. F. G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 410 ss.
[13] Su questo tema, v. le considerazioni di A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2006, 286 ss., laddove l’A. osservava come “la posizione del titolare di un interesse legittimo è dunque contrassegnata da una strutturale incertezza circa la soddisfazione finale dell’interesse di base” e come la possibilità attuativa dipenda dalla “predisposizione normativa di congegni limitativi e conformativi del potere”. Di qui, il limite per il giudice “dell’impossibilità di supplire egli stesso alla mancata attivazione dei congegni sostanziali di tutela dell’interesse legittimo.”
[14] In altre parole, al giudice viene attribuito il potere di decidere “non arbitrio judicis, ma ratione judicii” (E. Cannada-Bartoli, voce Giustizia, cit., 562), come recentemente rammentato da A. Scognamiglio, Rileggendo la voce “interesse” di Cannada-Bartoli, qualche riflessione sul metodo, in Dir. amm., 2022, 986.
[15] E. Cannada-Bartoli, Giustizia, cit., 562.
[16] Ibid., 560.
[17] Secondo una visione del giudice quale “padre spirituale dell’autorità amministrativa”: E. Cannada-Bartoli, op.loc.ult.cit.
[18] E. Cannada-Bartoli, Giustizia, 532. Già F. Cammeo, nel Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, s.d., 315, aveva parlato del concetto equitativo del “buon amministratore”. Per un recente tentativo di ricostruire una nozione giuridica di efficienza, riconducendola nell’ambito della buona amministrazione, D. Vese, Sull’efficienza amministrativa in senso giuridico, Padova, 2017.
[19] Nella voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), Nuov. Dig. It., 1966, vol. XIII, 1084, il M. sottolineava come una delle particolarità della materia fosse proprio l’apporto del giudice amministrativo, anche di legittimità, allo “stabilimento del diritto amministrativo”. Scriveva: “La prova contemplata nell’art. 2697 c. Civ. presuppone la qualificazione normativa, formalmente posta (esterna, quasi) di un fatto produttivo di determinate conseguenze giuridiche. Il giudice amministrativo, invece, operando sulla base del principio costituzionale del buon andamento e dell’imparzialità, concorre a determinare, per integrazione di siffatto principio, regole di diritto amministrativo, epperò la qualifica di determinati fatti”. Sulla giustizia amministrativa come “svolgimento del diritto amministrativo”, o “diritto amministrativo nel suo svolgimento”, v. E. Cannada-Bartoli, Vanum disputare de potestate: riflessioni sul diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 155,
[20] Come sottolineato da A. Scognamiglio, Rileggendo la voce “interesse”, cit., 986.
[21] Nella sua relazione sul sindacato degli atti valutativi e di giudizio, in questo convegno.
[22] Sul punto, sia consentito un rinvio a P. Chirulli, Provvedimenti precauzionali in materia di sicurezza del territorio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Quaderni della Riv. giur. ed., 2014, 102 ss.
[23] V. però ad es. Cons. Stato, Sez. VII, 19 aprile 2023, n. 3990, in materia di attribuzione di un incarico di Procuratore Generale di corte d’appello.
[24] F. Cammeo, Commentario, cit., 134.
[25] V. E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 562: “Si può ammettere e, deriva, anzi, dalle premesse che non in ogni caso la questione sulla giustizia nell’amministrazione sia decidibile; si esclude che sia sempre non decidibile.”
[26] Ricorre in alcune recenti pronunce la seguente affermazione: “La differenza tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, infatti, riposa nel fatto che, nel giudizio di legittimità, il giudice agisce “in seconda battuta”, verificando, nei limiti delle censure dedotte, se le valutazioni effettuate dall’organo competente sono viziate da eccesso di potere per manifesta irragionevolezza o da travisamento dei fatti, vale a dire se le stesse, pur opinabili, esulano dal perimetro della plausibilità, mentre, nel giudizio di merito, il giudice agisce “in prima battuta”, sostituendosi all’Amministrazione ed effettuando direttamente e nuovamente le valutazioni a questa spettanti, con la possibilità, non contemplata dall’ordinamento, se non per le eccezionali e limitatissime ipotesi di giurisdizione con cognizione estesa al merito di cui all'art. 134 c.p.a., di sostituire la propria valutazione alla valutazione dell'Amministrazione anche nell’ipotesi in cui quest’ultima, sebbene opinabile, sia plausibile”: v. ad es. Cons. Stato, Sez. VII, 3 aprile 2023, n. 3409.
[27] Sia consentito un rinvio, anche per opportuni richiami bibliografici e giurisprudenziali, a P. Chirulli, Provvedimenti sanzionatori antitrust e sindacato giurisdizionale: è davvero tempo di una svolta?, in Scritti per F.G. Scoca, Napoli, 2020, vol. I, 781.
[28] Si veda la sentenza Schindler Holding Ltd c. Commissione, caso C-501/11 (ECLI:EU:C:2013:522), e ancor più il par. 38 delle conclusioni dell’A.G. Kokott sul caso ECLI:EU:C:2013:248.
[29] Ipotizzato da ultimo da F. Goisis, Il concetto di full jurisdiction nel sindacato giurisdizionale sulle sanzioni amministrative nella giurisprudenza della Corte EDU e della Corte Europea di Giustizia. Recenti conferme e sviluppi, in www.giustiziainsieme.it.
[30] E’ la norma, invero molto contestata, con cui, in materia di private enforcement antitrust, il legislatore ha previsto l’efficacia vincolante delle decisioni antitrust ai fini del giudizio sul risarcimento, precisando inoltre che “Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima.”
[31] La tesi è stata formulata dalla nota sentenza Cons. Stato, sez. VI, n. 4990 del 15 luglio 2019, in materia di sanzioni antitrust.
[32] A tal fine, non può farsi affidamento a mio avviso sul metodo acquisitivo dell’istruttoria nel processo amministrativo.
[33] V. la relazione di F. Francario, cit.
[34] Si vedano, ex multis, Aspetti processuali dell’assorbimento dei motivi e Dubbi sull’assorbimento, in Giur. it., 1996, risp. 838 e 161.
[35] Cons. Stato, V sez., 6 febbraio 1999, n. 134, in cui, al fine di distinguere le parti di provvedimento su cui poteva pronunciarsi il giudice dell’ottemperanza, e quelle che invece andavano separatamente impugnate, il Supremo Consesso individuava un punto di equilibrio tra il diritto del cittadino alla rapida definizione dell’affare dopo un giudicato d’accoglimento e la giustificata aspettativa del potere pubblico di esercitare la propria discrezionalità anche sugli aspetti del rapporto controverso prima non esaminati, e precisava che l’amministrazione, dopo un annullamento giurisdizionale debba riesaminare la vicenda “con un’attenzione tutta particolare. Non deve apparire negativamente prevenuta nei confronti dei privati che hanno dovuto rivolgersi al giudice; e dunque non deve esporli alla prospettiva di una pluralità di altri giudizi ulteriori. Né deve ingombrare per troppe volte, rispetto al medesimo rapporto, gli uffici giudiziari. Risultati, questi, che possono realizzarsi richiedendosi all’amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o a facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni he ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.”
[36] Specialità del giudizio di ottemperanza, in Giur. it., 1999, 2414, poi confluito negli scritti in onore di Elio Casetta.
[37] Per indicazioni dottrinali e giurisprudenziali, e per un commento critico della disposizione, può vedersi il contributo di P. Chirulli e S. Tuccillo, Il preavviso di rigetto, in Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, IV ed., in corso di stampa.
[38] Riferendosi – è dato presumere – alla monografia di M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, e suggerendo che, appunto, possano individuarsi delle preclusioni sostanziali alla riedizione del potere. Il tema è stato ripreso e sviluppato da M. Trimarchi,L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018, 206 ss.
[39] Si richiama sul punto quanto argomentato da A. Romano Tassone, Sulle vicende, cit., 545, il quale non vedeva contrapposizione tra sindacato di legittimità e di merito, ma una di continuità, di evoluzione, e affermava come sembrasse necessario “impostare il discorso sulla base (quanto meno) di una scansione triadica, nella quale i principali tipi di riscontro positivamente effettuabili nei confronti delle decisioni pubbliche sono ordinati secondo una scala crescente, vuoi di intensità e penetrazione del controllo, vuoi di soggettività della valutazione a tal fine compiuta.”
[40] Id., op. ult. cit., 536.
[41] Scriveva in merito già F. Cammeo, in tutt’altro contesto costituzionale (Commentario, cit., 316): “Se il giudizio di opportunità rimane sempre identico nella sostanza, quale che ne sia la forma, se cioè costituisce sempre funzione amministrativa, l’ordinarlo con metodo giurisdizionale non è aggiungere nessuna garanzia, che proceda da impulsi e da considerazioni nuove, ma moltiplicare istanze di uguale tipo. E la moltiplicazione delle istanze, quando nulla aggiunge di veramente migliore, è spesso inutile. Può esser utile solo in quanto la revisione presenti garanzie di imparzialità per la indipendenza del giudice improprio, che la compie. Ma questa indipendenza la quale non è dannosa nei giudizi in materia di diritto, nella quale il giudice è vincolato precisamente alla legge, è un pericolo grave nei giudizi di opportunità, dove questo vincolo preciso e, per quanto intimo, controllabile manca. Perché indipendenza significa irresponsabilità: e quindi con lo spostamento di competenze meramente amministrative, che viene a verificarsi in questi casi, l’amministrazione tende a ridursi in mani irresponsabili.”
[42] Il riferimento è alla nota Cons. Stato, Sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, che ha condannato l’amministrazione al rilascio di un’abilitazione scientifica nazionale che troppe volte era stata negata in sede di riedizione del potere successivamente a sentenze di annullamento, affermando che “La consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile “frattura” del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contradittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri. In presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.” Sulle perplessità che una siffatta ipotesi di consumazione della discrezionalità solleva, si v. i condivisibili rilievi di S. Vaccari, Il Consiglio di Stato e la ‘riduzione progressiva della discrezionalità’. Verso un giudicato a ‘spettanza stabilizzata’?, in Dir. proc. amm., 2019, 1216.
[43] E. Cannada-Bartoli, Giustizia amministrativa, cit., 561.
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