ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La rapina sconclusionata di quattro studenti universitari, in un film che cerca la verità nella finzione.
Lexington, Kentucky: dei libri molto preziosi, una biblioteca con blandi sistemi di sicurezza, la noia dei pomeriggi universitari.
Ci sono tutti gli elementi per un colpo facile facile, anche alla portata di quattro collegiali scapestrati.
Questa la trama di American animals, il nuovo film di Bart Layton (presentato l’anno scorso alla Festa del Cinema di Roma); ma anche la vera storia di Spencer Rheinhard, studente di storia dell’arte, che nel 2003 aveva radunato una banda di amici per mettere a segno il furto di due rari volumi (le edizioni di Birds of America di James Audubon e L’Evoluzione della Specie di Charles Darwin) dalla biblioteca dell'università.
In American animals Layton ripropone il trucco metanarrativo che già aveva adottato in The Imposter (osannata pellicola indie, fra documentario e cinema di genere, che esplorava la mitomania del ladro d’identità Frederic Bourdin). E così mescola le interviste dei protagonisti reali alla finzione di un heist movie, tanto preciso nella regia quanto assurdo nei connotati (niente armi sofisticate o diavolerie informatiche, un taser basta e avanza; nessun clan rivale né spietati avversari da eliminare, c’è solo una bibliotecaria sessantenne da immobilizzare).
Il colpo, lo si intuisce fin dall’inizio, è un fallimento totale. Ma non è quello il cuore del film.
Mentre sorridiamo seguendo l’ideazione del piano (compreso lo spassoso ammiccamento a Le iene) e ascoltiamo la vera voce degli improvvisati Ocean’s Four, si affaccia il vuoto di orizzonte che li pervade: quattro giovani bianchi americani, più o meno di buona famiglia, che intravedono finalmente l'occasione di vivere qualcosa eccezionale, l'identità che cercano, per rispondere al disperato bisogno di sentirsi speciali.
E poi, tra le righe, c’è il tema dell’instabilità della memoria, dell’impossibilità di offrire un’unica versione dei fatti nemmeno sulla base dei racconti di chi c’era, quando possono farsi più labili le linee di demarcazione tra verità e finzione (e già sentiamo gongolare i teorici della “docu-fiction”).
La realtà si scolora, via via i ragazzi appaiono meno convincenti degli attori, il documentario abborda la messinscena.
All'inizio del film compare una scritta: "This is not based on a true story. This is a true story". Un monito, una dedica, un'insolenza: ma qual è la vera storia?
La sentenza della corte costituzionale n. 88/2019: ma la revoca della patente è sempre identica?
di Roberto Aniello
Sommario:1. I motivi della declaratoria di illegittimità costituzionale. - 2. Il presupposto del ragionamento della Corte Costituzionale: l’identità della sanzione amministrativa. - 3. La duplicità di sanzioni - sospensione e revoca – nell’art. 222 comma 2 cod. str.
1. I motivi della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Con sentenza n. 88/2019 (ud. 19.2.2019 - dep. 17.4.2019) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 comma 2, quarto periodo, del codice della strada, “nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna, ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli artt. 589-bis (Omicidio stradale) e 590-bis (Lesioni personali stradali gravi o gravissime) del codice penale, il giudice possa disporre, in alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2 dell’art. 222 cod. strada allorché non ricorra alcuna delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e terzo degli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen.”
Il ragionamento che ha condotto il giudice delle leggi a tale pronuncia è assolutamente lineare e si articola nei seguenti passaggi logici:
Queste sono dunque le argomentazioni fondamentali che hanno condotto il giudice delle leggi alla declaratoria di incostituzionalità.
Vi è per la verità una successiva considerazione in ordine alla sovrapposizione delle sanzioni amministrative della sospensione della patente, prevista dal secondo e terso periodo dell’art. 222 comma 2, e della revoca, prevista dal quarto periodo per fattispecie di reato in parte identiche. Tuttavia, a questo rilievo la Corte, nell’ambito del ragionamento relativo alla illegittimità costituzionale della revoca non attribuisce efficacia, limitandosi ad osservare che si tratta di “una poco coerente sovrapposizione di fattispecie sanzionate, o no, con la revoca della patente, che si aggiunge all’irragionevolezza intrinseca della sanzione indifferenziata per ipotesi marcatamente diverse in termini di gravità della condotta”.
2. Il presupposto del ragionamento della Corte Costituzionale: l’identità della sanzione amministrativa.
I passaggi argomentativi della pronuncia in esame appaiono ineccepibili, ma danno per scontato un presupposto: quello della identità della sanzione amministrativa della revoca della patente per tutte le ipotesi di reato alle quali la stessa consegue.
Se così fosse, certamente si verificherebbe quell’indifferenziato automatismo sanzionatorio censurato dalla Corte Costituzionale e posto a fondamento della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Ma è proprio così?
Certamente, la revoca è, a differenza della sospensione, atto definitivo, come espressamente stabilito dall’art. 219 comma 3 cod. str.; infatti, in seguito alla sospensione, una volta decorso il termine prescritto, la patente viene restituita, senza necessità di attivazione dell’interessato (art. 218 comma 4 cod. str.), mentre la revoca impedisce che la patente conseguita possa riacquistare validità.
Però la revoca non ha una indefinita efficacia impeditiva rispetto al conseguimento di una nuova patente di guida, non ha, in altri termini, effetti permanenti.
Il titolare di patente revocata può infatti conseguire una nuova patente sostenendo nuovamente gli esami prescritti dalla legge, ma le norme del codice della strada impongono dei termini dilatori per il conseguimento della nuova patente (decorrenti dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che dispone la revoca: Cass. Civ. Sez. 2^, n. 13508/2019).
In particolare, l’art. 219 comma 3 bis cod. str. prevede, nell’ipotesi di revoca di cui al precedente comma 2, che “l'interessato non può conseguire una nuova patente se non dopo che siano trascorsi almeno due anni”; nel caso di revoca della patente di guida disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187 cod. str., il termine è di tre anni.
Per le ipotesi che qui interessano, la legge n. 41/2016 ha effettivamente previsto, introducendo i commi 3 bis e 3 ter dell’art. 222 cod. str., la revoca della patente di guida per tutte le ipotesi di cui agli artt. 589 bis e 590 bis c.p.
Ha però, al contempo, differenziato i limiti temporali per il conseguimento della nuova patente: il comma 3 bis prevede 15 anni per i reati cui all’art. 589 bis secondo, terzo e quarto comma; 10 anni per il reato di cui all’art. 589 bis quinto comma; il termine è elevato a 20 anni per chi sia già stato condannato per guida in stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti e a 30 anni in caso di omissione di soccorso e fuga. Il comma 3 ter stabilisce un termine di 5 anni per i reati di cui agli artt. 589 bis e 590 bis, raddoppiato per chi sia già stato condannato per guida in stato di ebbrezza o di alterazione da stupefacenti e aumentato a 12 anni in caso di omissione di soccorso e fuga.
Facendo riferimento a queste differenziate previsioni per i termini dilatori a seguito dei quali la patente di guida può, dopo la revoca, essere nuovamente conseguita, la Procura generale della Corte di Cassazione aveva concluso, già con requisitoria in data 24.7.2018 (ric. Olivelli), nel senso della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata col ricorso e la Corte di Cassazione aveva condiviso tale conclusione con sentenza di Sez. 4^ n. 52804 del 14/09/2018 Cc. (dep. 23/11/2018)[1], ric. Olivelli, sentenza così massimata: “È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 222, comma 2, quarto periodo, cod. strada, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui rende obbligatoria la revoca della patente di guida quale effetto della condanna ovvero dell'applicazione della pena su richiesta delle parti per i reati di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., rientrando tale previsione nel legittimo esercizio del potere legislativo”.
Tale pronuncia, peraltro, aveva motivato essenzialmente non già sui diversi limiti temporali previsti per il conseguimento di nuova patente, ma sulla diversa natura delle sanzioni amministrative rispetto a quelle penali, osservando che la modifica delle sanzioni amministrative operata della legge n. 41/2016, in relazione all'accertamento delle due nuove fattispecie autonome di reato di omicidio colposo stradale (589 bis cod. pen.) e di lesioni personali stradali gravi o gravissime (590 bis cod. pen.), aveva inteso inasprire le conseguenze di carattere amministrativo in relazione a condotte di guida accomunate da particolare gravità sia sotto il profilo della condotta che dell'evento, in quanto lesive dei beni primari della vita e della integrità fisica., con una scelta legislativa non sindacabile sotto il profilo della ragionevolezza.
Successivamente, la stessa Sez. 4^, con sentenza n. 6423 del 06/11/2018 Cc. (dep. 11/02/2019) ric. Lobbia[2], ha fatto espresso riferimento alla differente durata dei periodi previsti prima che l’interessato possa acquisire una nuova patente; la massima recita: “E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 222 cod. strada, commi 2, quarto periodo, e 3-ter, in relazione agli artt. 3, 25, 27 e 111 Cost., laddove ad esso consegue la revoca della patente di guida tanto per le lesioni gravi o gravissime quanto per l'omicidio stradale, atteso che il trattamento sanzionatorio deve essere valutato nel suo complesso, e che la diversa durata, prevista dalla norma, dei periodi di inabilitazione alla guida prima che l'interessato possa acquisire una nuova patente, conferisce una diversa afflittività alla sanzione in base alla gravità del fatto”. In motivazione si precisa che vi è equiparazione solo tra l'omicidio stradale 'basico' e le lesioni gravi e gravissime, equiparazione che però non appare irragionevole
Le argomentazioni di tale pronuncia sono state richiamate e ribadite con al sentenza di Sez. 4^ n. 7548 del 28/11/2018 Cc. (dep. 19.2.2019), ric. Nespoli (non massimata)[3].
Si può solo ulteriormente evidenziare che la durata dei termini dilatori per il conseguimento di nuova patente appare strettamente correlata alla differente gravità delle fattispecie, cosicché la revoca risulterebbe avere una efficacia concretamente commisurata all’entità del fatto commesso.
Ciò posto, le osservazioni che avevano indotto la Corte di Cassazione a dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale non sembrano di trascurabile importanza, ma sta di fatto che la Corte Costituzionale, pervenendo all’opposta conclusione della incostituzionalità della norma in esame, non le ha minimamente prese in considerazione. Si può ipotizzare, una volta esclusa la possibilità di una lacuna motivazionale, che i giudici delle leggi abbiano ritenuto del tutto irrilevanti gli argomenti illustrati dalla Corte di Cassazione, il che però desta qualche perplessità, verosimilmente destinata a rimanere tale.
3. La duplicità di sanzioni - sospensione e revoca – nell’art. 222 comma 2 cod. str.
Per completezza, con riferimento alla sovrapposizione delle sanzioni amministrative rilevata nella sentenza in esame, è opportuno evidenziare che anch’essa era stata già presa in considerazione dalla Corte di legittimità, pervenendo a quella che appare l’unica soluzione possibile.
Invero, la legge 41/2016 ha modificato l’art. 222 comma 2 quarto periodo, che ora è del seguente tenore: “Alla condanna, ovvero all'applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale consegue la revoca della patente di guida”.
La riforma ha però lasciato inalterati i primi tre periodi dell’art 222 comma 2, con i quali sussiste ora un evidente contrasto.
Infatti, i primi tre periodi prevedono la sospensione della patente di guida – con differenti durate – per i fatti commessi con violazione del codice della strada dai quali derivino lesioni personali colpose lievi, gravi o gravissime o omicidio colposo.
Secondo la disciplina previgente alla legge 41/2016, ai sensi del quarto periodo, qualora i fatti di cui al secondo o terzo periodo (lesioni gravi e gravissime e omicidio) fossero commessi da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice applicava la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente.
La legge 41/2016, nel sostituire questo quarto periodo, ha fatto riferimento ai reati di cui agli artt. 589 bis e 590 bis c.p., nei quali sono confluite tutte le ipotesi di omicidio stradale e lesioni stradali gravi e gravissime.
Per queste fattispecie vi sarebbe dunque una duplicità di sanzioni amministrative accessorie, la sospensione della patente prevista dal secondo e terzo periodo e la revoca prevista dal quarto periodo. Soltanto per le lesioni colpose lievi, non rientranti nel nuovo art. 590 bis, rimane la sola sanzione della sospensione.
Sospensione e revoca sono, all’evidenza, sanzioni incompatibili e non applicabili contemporaneamente, né avrebbe senso un’applicazione di entrambe in tempi successivi.
L’unica soluzione ragionevole è allora quella di ritenere implicitamente abrogate le norme precedenti, alla stregua del principio fissato dall’art. 15 delle preleggi in ordine alla incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle anteriori.
Ne consegue che, per le lesioni colpose gravi e gravissime e per l’omicidio colposo commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, la sanzione amministrativa accessoria da applicare è – o meglio, sarebbe, se non vi fosse stata la pronuncia di illegittimità costituzionale - la revoca della patente, ai sensi dell’art. 222 comma 2, quarto e quinto periodo.
A tali condivisibili conclusioni era giunta la Corte di Cassazione con le citate sentenze Lobbia e Nespoli, ora però superate dalla sentenza della Corte Costituzionale, che ha reso la sospensione e la revoca sempre alternative – fatta eccezione per le ipotesi aggravate previste dal secondo e dal terzo comma sia dell’art. 589 bis che dell’art. 590 bis c.p. - e, in quanto tali, rimesse alla valutazione discrezionale del giudice.
[1] Rv. 274523 – 01 - Presidente: Izzo Fausto. Estensore e relatore: Ranaldi Alessandro. Imputato: Olivelli Dario. P.M. Romano Giulio (N.D.R.: indicazione erronea, in realtà P.M. Aniello Roberto) (Conf.) Dichiara Inammissibile, Gip Tribunale Livorno, 25/01/2018.
[2] Rv. 275023 – 01 Presidente: Fumu Giacomo. Estensore e Relatore: Dovere Salvatore. Imputato: Lobbia Giovanni. P.M. Fodaroni Maria Giuseppina. (Conf.) Rigetta Tribunale Pavia, 29/05/2018.
[3] Pres. Fumu, Est. Ranaldi, P.M. Aniello (Conf.).
Il L.A.P.E.C. è una realtà importante per la formazione congiunta dei magistrati e degli avvocati. Tanti, ma non tutti, lo conoscono. Qual è la sua storia e la sua situazione attuale?
Il Laboratorio Permantente su esame, controesame e giusto processo “Ettore Randazzo” è nato da una geniale intuizione di un grande pioniere dell’avvocatura cui oggi è dedicato.
Ettore era un riformista pragmatico: capiva che la parità dei ruoli non si poteva imporre per legge ma sarebbe stata raggiunta da un’avvocatura capace di confrontarsi sul piano culturale con magistratura ed Accademia. Sposo’ la teoria dei piccoli passi cominciando dalla condivisione delle regole sulla Cross Examonation. Anni prima nell’Unione (che di lui si è dimenticata) aveva scritto le regole sulle indagini difensive prevedendo per il difensore una rigorosa applicazione delle regole deontologiche.
Senza di lui le difficoltà sono molte ma l’associazione continua a vivere grazie all’abnegazione della moglie Elisabetta, del nuovo presidente Valerio Spigarelli e del coordinatore nazionale Giovanni Sofia. Sperabilmente in autunno si terrà il congresso nazionale da cui ripartire. A mio parere occorre coinvolgere di più le sezioni territoriali come forza propulsiva.
Come avvocato e studioso che da decenni si occupa di logica e di filosofia della scienza e come cittadino attivo e attento ai fenomeni sociologici e politici, quali ritiene che siano le maggiori carenze che la formazione e la pratica dei giuristi italiani presentano al riguardo?
La ringrazio per la considerazione: da modesto fruitore del diritto trovo che ancora l’ambiente dei giuristi sia troppo autoreferenziale e chiuso agli influssi dell’epistemologia e delle scienze sociali.
Secondo me l’avvocato (e più in generale il giurista) oggi deve sapere o almeno essere curioso di economia e di metodo scientifico, essere aggiornato sul progresso scientifico, capire il contesto sociale e politico. Deve avere apertura mentale insomma. Il Diritto è una visione politica e bisogna ragionarci intorno.
Non mi pare che i corsi di studio sulle professioni legali siano sufficientemente aperti, tranne qualche rara eccezione. Il risultato è alla fine un diffuso conformismo, specie nell’avvocatura che pure dovrebbe essere una forza critica contro il potere.
La “manifesta illogicità” della motivazione vizia la sentenza e conduce al suo annullamento (art. 606 lett. e, cod. proc. pen.). Tuttavia, il legislatore non ne definisce la nozione. Se dovesse illustrarne il significato a un suo assistito di cultura media cosa gli direbbe ?
Io sto ancora cercando di spiegarlo a me stesso facendo lo slalom della variegata giurisprudenza sul punto.
Una delle migliori spiegazioni l’ho sentita ad un corso della Sua Scuola Superiore ad opera di Piero Gaeta, magistrato e mente giuridica tra le più brillanti. Il vizio logico e’ la rottura del sillogismo di Aristotele. Proprio quello: Premessa maggiore- minore-sintesi finale
Sbagli uno dei tre ed hai il vizio logico: le faccio un esempio da una esperienza reale.
1- L’affidabilità di una prova scientifica di basa sul metodo, 2- il perito x ha commesso degli errori, 3- il risultato della prova è esatto. E’ evidente che tra le due premesse e la conclusione vi e’ un salto logico. Ciò nonostante l’esempio che le ho fatto è reale: a Sua (e mia) consolazione la Cassazione ha corretto.
Il ricorso alle leggi scientifiche è un dato quotidiano in molti settori della pratica giudiziaria. Quali insidie epistemologiche comporta il loro utilizzo per la ricostruzione di eventi singoli?
Come scrive in un suo bel libro Gaetano Carlizzi (“la valutazione della prova scientifica”) la valutazione di una legge o meglio dire un principio scientifico è un giudizio di affidabilità sul meccanismo di applicazione al caso concreto.
Da Daubert a Franzese a Cozzini abbiamo appreso che non può esserci da parte del giudice una meccanica trasposizione del dato tecnico al giudizio senza una verifica puntuale dei vari passaggi e della correttezza epistemologica. Dunque riproducibilità, percentuale di errore e condivisione della comunità scientifica.
I problemi nascono dalla “maneggiabilita’” di questi concetti ad opera dei giuristi e soprattutto dalla difficoltà di “testare” con regole di valutazioni uniformi le scienze leggere come quelle cognitive.
Un problema, Lei lo sa, che ci appassiona e che ci fa disperare quanto alla sua soluzione perché è legato purtroppo alla soggettività del giudice. Non esiste ancora una legge universale della scienza cognitiva.
Concludiamo con temi para-istituzionali.
Le vicende dei rapporti fra le associazioni dei magistrati e degli avvocati sono state e sono variegate secondo i tempi, i luoghi e i contesti. E’ difficile farne una sintesi… Ma quali realistiche direzioni, possiamo seguire per intensificare la formazione comune e cooperare per un miglior funzionamento delle istituzioni? Inoltre, in questo contesto, quale ruolo attribuire alla magistratura onoraria, oggetto di importanti riforme non ancora completate?
“Vaste programme” ma sintetizzo ritornando all’inizio della nostra chiacchierata , al Lapec di Ettore Randazzo.
Occorre una rivoluzione mentale. Avvocati e magistrati devono sentirsi parte di una unica comunità. Sa quale sarebbe la situazione ideale? Che un giudice come Lei si "sentisse” allo stesso modo con un avvocato come con un pm. Indifferente o accomunato, faccia Lei. Nella realtà non è così . Cerco di far capire ai miei colleghi quanto sia nocivo il senso di inferiorità, e che da parte della migliore magistratura oggi esista un genuino desiderio di conoscere la realtà delle nostre associazioni ed addirittura di crearne di comuni. Questa difficoltà è alla base della realtà incompiuta dei magistrati onorari, impedisce loro di vivere compiutamente la giurisdizione. Ci vuole molto tempo ma io ho fiducia. Penso sarebbe bello per un avvocato poter esercitare la giurisdizione in prima persona per un tratto della sua vita professionale. Solo un periodo limitato, però, perché è importante morire da avvocato.
Novembre 1965. Appena venticinquenne, Piero Cenci, fresco tirocinante in Magistratura, viene redarguito dal Presidente della Corte d’appello perché indossa un abito spezzato (giacca blu e pantaloni grigi), inadatto al decoro di un Magistrato, anziché un più serioso abito intero, preferibilmente di colore scuro.
Inizia così la carriera di un uomo che sognava già da bambino di diventare Giudice: nei suoi ricordi, ricchi d’ironia, emergono episodi di vita e personaggi che raccontano un'umanità variegata attraverso mezzo secolo di storia del nostro paese. Nel libro sono narrati tanti episodi di una Giustizia amministrata in piccole realtà di provincia ed in piccoli Uffici, una Giustizia, per così dire, “minore” ma non per questo meno importante per i destinatari cioè per i cittadini; in un arco di riferimento piuttosto ampio, dal 1965 al 2009, anni di grandi modificazioni nel tessuto sociale, economico e politico dell’Italia, modificazioni di cui – naturalmente – risente anche la magistratura.
La moglie, i figli (uno dei quali magistrato) e i nipoti (che hanno curato la copertina e le godibilissime illustrazioni dei capitoli) dell’Autore, già Presidente del Tribunale per i minorenni dell’Umbria, hanno ritenuto di portarne a compimento l’impegno, pubblicando postumo a scopo di beneficenza il libro che raccoglie i ricordi di vita, professionale e personale, che il Collega Piero Cenci (prima in Pretura e in Tribunale ordinario, poi, per più di trenta anni, nel Tribunale per i minori) negli ultimi mesi della sua esistenza, consapevole di essere malato, aveva affidato ad un dattiloscritto, la cui stesura lo ha aiutato ad affrontare, insieme all’impegno lavorativo, mai abbandonato, la sofferenza e il grave disagio della malattia. Benchè scritto in questo difficile contesto, è un libro pieno di speranza: speranza nel futuro, nella vita, nei giovani.
La Giustizia descritta è una Giustizia, come si legge in una delle qualificate prefazioni al testo, “mite” (come mite era l’aspetto dell’anziano Pretore del paesino di cui si parla nella prima pagina) ed “umana”:
quanto alla mitezza, poiché, secondo le convinzioni dell’Autore, una pena mite, ove ne ricorrano le condizioni, non è segno di debolezza dell’apparato repressivo dello Stato, ma, al contrario, di forza, poiché un ordinamento credibile ed autorevole non ha bisogno di pene esemplari, ma di sanzioni giuste, all’esito di processi garantiti e celebrati in tempi accettabili;
l’ humanitas è lo strumento che consente al Giudice di “filtrare” adeguatamente la tristezza delle vicende che vengono portate alla cognizione del giudice, sia civile (si parla soprattutto di contenzioso in materia di famiglia) che penale, provando talora compassione per chi vive direttamente sulla sua pelle il processo, ma mantenendo comunque il necessario distacco, sforzandosi di interpretare in senso conforme alla Costituzione leggi spesso poco chiare ed applicandole lealmente nei confronti di tutti, con imparzialità e serietà, senza timori ma anche, secondo l’insegnamento di Piero Calamandrei, senza aspettative di nessun tipo di “ritorno”.
Il tema dell’abito del Giudice, presente già nel primo capitolo del libro, cui dà il titolo, viene infine ripreso nel capitolo conclusivo, per sottolineare il valore – naturalmente, non certo del colore della stoffa di un vestito, ma – di una simbologia anche esteriore della serietà, dell’impegno, dell’apparire, oltre che dell’essere, del riserbo, persino dell’isolamento sociale che appare opportuno per chi è chiamato al delicatissimo compito di giudicare – uomo – gli uomini.
Un libro la cui piacevole lettura appare assai utile, particolarmente oggi.
Daniele Cenci
Quando sono entrata in magistratura non avevo ben chiaro cosa fosse l’associazionismo giudiziario.
Ai miei occhi l’ANM era il sindacato delle toghe, nulla più
Oggi, a 5 anni dalla presa delle funzioni, ho un po' di consapevolezza in più e le prime parole che mi vengono in mente per descrivere cosa sia, per me, l’associazionismo giudiziario sono PARTECIPAZIONE e IMPEGNO COLLETTIVO
Ho imparato ad apprezzare l’importanza ed il valore di queste parole e, quindi, dell’associazionismo, solo dopo qualche anno dall’inizio del mio percorso in magistratura che, soprattutto nella prima fase, è stato fortemente caratterizzato dalla solitudine
Perché come alcuni di voi sanno, perché lo hanno vissuto o lo stanno vivendo sulla propria pelle, iniziare la professione in un ufficio periferico del sud, lontano da casa, in un contesto sociale complicato, dove i problemi, già gravi sul piano nazionale, si avvertono con ancora maggiore violenza e drammaticità, determina, quanto meno all’inizio, un forte senso di vuoto, di solitudine e di isolamento
Ricordo il mio primo anno passato in Procura a Lamezia Terme: ero ovviamente la più piccola. Il procuratore ed i colleghi più grandi, tutti con famiglia, andavano via dall’ufficio per ora di pranzo. Io restavo sola a lavorare fino a sera tardi, sommersa di carte, con quella paura di sbagliare tipica di chi muove i primi passi e brancola nel buio.
E’ stato proprio nel corso di quei lunghi pomeriggi e lunghe serate trascorse da sola in mezzo alle carte che ho compreso quanto alto fosse il rischio di rimanerne sommersa e di diventarne vittima, perdendo quello che per un magistrato è forse il valore più prezioso: l’umanità.
Perché in contesti come quello che vi ho descritto, di solitudine ed isolamento, in cui non ci si può fidare di nessuno e non si può socializzare con nessuno se non con i colleghi, l’assenza di scambio e confronto con gli altri e con lo stesso mondo esterno a lungo andare rischia di portare alla totale chiusura ed autoreferenzialità, senza nemmeno che ce ne si renda conto: l’unico obiettivo quotidiano diventa quello di svuotare la scrivania a tutti i costi (e sottolineo a tutti i costi), per non rimanerne sommersi, con inevitabili ricadute negative sulla qualità delle decisioni e dei provvedimenti
È stato grazie a questo timore di diventare “indifferente e cinica” che mi sono avvicinata all’associazionismo, che mi ha rappresentato per me una grande boccata d’aria. Direi un antidoto contro il pericolo di omologazione e appiattimento. E mi si è aperto un mondo, che ancora sto continuando a scoprire.
Sono uscita dal guscio del mio piccolo ufficio, che mi stava e mi sta tuttora un po' stretto, affacciandomi su una realtà molto più vasta, che ha allargato enormemente la mia prospettiva, fino a quel momento canalizzata solo sulla scrivania, sui fascicoli e sulla mia piccola ed isolata realtà.
È iniziata, così, la mia fase della “partecipazione” e dell’“impegno collettivo”, come dicevo all’inizio: sono entrata in contatto con i colleghi di altri uffici del mio distretto e non solo, organizzando con loro e per loro incontri, iniziative, assemblee, raccogliendo le loro testimonianze, confrontandomi con quelli più grandi e più esperti di me e cercando di coinvolgere quelli più piccoli e di farli “aprire” a loro volta. Mi sono iscritta alle mailing list, seguendo i dibattiti interni alla magistratura su scala nazionale, partecipando a convegni e congressi, interessandomi della politica giudiziaria, leggendo articoli o interviste pubblicate su riviste come QUESTIONE GIUSTIZIA o GIUSTIZIA INSIEME, che sono per me fonte continua di riflessione e ossigeno per la mia curiosità e per il mio bisogno di restare ancorata al resto del mondo
Così, oltre a conoscere tantissimi colleghi e confrontarmi con tante realtà diverse dalla mia, ho ampliato enormemente le mie fonti di conoscenza e questo mi ha consentito di raggiungere un livello più alto di consapevolezza, nel bene e nel male, rendendomi, spero, un magistrato migliore.
Ho iniziato a cogliere la differenza tra il modo di interpretare la giurisdizione dei vari gruppi che compongono l’ANM e mi sono resa conto delle enormi ricadute che questa differenza determina sul nostro lavoro e, conseguentemente, sul mondo esterno, sulla società e sulla vita delle persone, che poi sono le destinatarie ultime delle nostre decisioni, dei nostri provvedimenti
Può sembrare banale, ma per me non lo è stato affatto: l’associazionismo mi ha mostrato come si possa essere magistrati davvero in mille modi diversi e come sia pericoloso, talvolta drammatico, fare giurisdizione senza essere consapevoli dell’importanza del proprio ruolo, pensando magari solo alla carriera ed anzi, lavorando al solo fine di garantirsene una, oppure interpretando la funzione in chiave burocratica, per non disturbare nessuno e per non essere a propria volta disturbati.
Mi sono resa conto, infatti, che prima o poi arriva un momento per tutti noi in cui siamo chiamati a fare una scelta e a prendere una posizione: i concetti di terzietà, imparzialità, autonomia, sono le colonne portanti intorno a cui ruota il nostro lavoro, ma se ci pensate, possono essere interpretati e declinati in modi diversi
C’è una grande fetta della magistratura italiana, ad esempio, che pensa che imparzialità nell’esercizio della giurisdizione significhi obbligato silenzio e distacco rispetto a tutto ciò che accade al di fuori degli uffici giudiziari e che la credibilità del giudice si misuri sulla sua capacità di essere invisibile agli occhi della società, muto e del tutto impermeabile ad essa
Ecco, la mia pur beve esperienza di associazionismo ed, in particolare, la mia esperienza in AREA, mi hanno fatto capire come ben si possa essere terzi ed imparziali senza tuttavia diventare neutrali e indifferenti; mi ha fatto capire come la nostra autonomia si misuri ogni giorno con la nostra consapevolezza di essere parte viva della società in cui operiamo, non fuori né tantomeno al di sopra di essa.
Ed, ancora, ho capito come sia importantissima la Associazione Nazionale Magistrati, sia come luogo di riflessione, confronto e di elaborazione collettiva sui temi della giustizia, sia come organo di rappresentanza della nostra voce all’esterno, voce che non può e non deve mai restare silente quando si mettono a rischio i principi costituzionali su cui si basa la nostra democrazia.
Credo, infatti, che per noi magistrati sia fondamentale da un lato, mantenere sempre viva la curiosità intellettuale, l’attenzione e la sensibilità verso i temi inerenti l’esercizio della giurisdizione e l’autogoverno e, con essa, la voglia di uscire dal guscio partecipando ed occupandoci attivamente insieme agli altri di ciò che ci riguarda più da vicino.
Dall’altro lato, credo che sia allo stesso tempo doveroso, alla luce del ruolo che la Costituzione ci assegna e della grande responsabilità che ne consegue, non limitarsi ad intervenire, come associazione, per la mera difesa corporativa della categoria o del singolo collega, ma far sentire sempre con forza la voce della magistratura unita ogniqualvolta vengano messi a rischio i principi democratici, i diritti e le libertà fondamentali delle persone.
E l’associazionismo giudiziario non è che lo strumento per dare una dimensione collettiva a questo duplice impegno attribuendogli, quindi, maggiore forza.
Si dice spesso che il giudice è solo: solo con i suoi dubbi, solo con le sue certezze, schiacciato dal peso della sua responsabilità, la responsabilità del decidere. Probabilmente è vero, ma questo non deve generare paura o chiusura.
Io credo, infatti, che l’apertura, la partecipazione, il confronto, il lavorare insieme per un progetto comune, per un’idea condivisa, siano i necessari strumenti per rifuggire dalla autoreferenzialità e dall’individualismo ed ampliare la conoscenza
La conoscenza è consapevolezza e la consapevolezza, a sua volta, rafforza la coscienza, quella stessa coscienza che guiderà la mano del buon giudice che, a quel punto, nel silenzio della sua camera di consiglio, non sarà più solo.
*Intervento tenuto al Convegno “A Sud. Pensieri meridiani sulla giurisdizione” svoltosi a Bari il 17 e 18 maggio 2019
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