GLI ILLECITI PENALI IN MATERIA DI SICUREZZA ALIMENTARE: L’INNESTO DELLE NORME COMUNITARIE NEL SISTEMA GIURIDICO PENALE NAZIONALE
di Valeria Giannoni e Alfonso Giannoni
Sommario: 1. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria. - 2. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria. - 3. L’innesto della normativa europea nel sistema penale italiano. - 4. Commercio di sostanze alimentari nocive quale reato di pericolo concreto. - 5. Conclusioni
1. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione comunitaria
La tutela della sicurezza alimentare è un tema di notevole interesse per il legislatore comunitario. La libera circolazione di alimenti sicuri e sani è, infatti, un aspetto fondamentale del mercato interno e contribuisce in maniera significativa alla salute e al benessere dei cittadini. La normativa comunitaria in materia di sicurezza degli alimenti e dei mangimi dovrebbe, pertanto, contribuire al conseguimento di un livello elevato di tutela della salute nella Comunità. La definizione di standard, cui obbligatoriamente devono attenersi tutti i produttori di alimenti, rappresenta, dunque, un presupposto imprescindibile per la libera circolazione degli alimenti stessi all’interno del mercato unico.
Il corpus giuridico comunitario in materia di sicurezza alimentare è contenuto, prevalentemente, nei Regolamenti comunitari del cosiddetto “pacchetto igiene” quali il Reg. CE 178/2002, il Reg. CE 852/2004, il Reg. CE 853/2004, il Reg. CE 854/2004, il Reg. CE 882/2004 cui si è aggiunto il recente Reg. UE 625/2017. Attraverso questi interventi normativi si è provveduto ad abrogare i pregressi atti di natura “verticale” che, cioè, normavano, ognuno, una singola tipologia di prodotti e a sostituirli con atti normativi di natura “orizzontale” applicabili, invece, con le dovute eccezioni, alla totalità dei prodotti alimentari, così da creare un testo legislativo unitario.
2. La tutela della sicurezza alimentare nella legislazione nazionale
Quanto all’impatto della legislazione comunitaria sugli ordinamenti giuridici dei Paesi membri, la maggior parte di essi non ha avuto difficoltà nella ricezione della norme europee in considerazione del sostanziale vuoto normativo nazionale in materia di sicurezza alimentare. In Italia, al contrario, l’adeguamento è stato, ed è tuttora, più complesso; ciò è dovuto al fatto che il nostro Paese, diversamente dagli altri, vantava già un corpus normativo dedicato alla tutela della salute mediante la disciplina dei requisiti sanitari degli alimenti.
La prima legge in materia di sicurezza alimentare risale al periodo post-unitario allorché venne emanata la L. 22/12/1888 n. 5849 “Tutela dell’Igiene e della Sanità pubblica” con la quale veniva istituito, presso ogni provincia, il Servizio Pubblico Veterinario con il compito di eseguire ispezioni nei macelli e negli spacci di carne dei Comuni particolarmente ricchi di bestiame. A tale legge seguirono, per citarne le più importanti, il Regio Decreto n. 7045/1890 “Regolamento speciale per la vigilanza igienica sugli alimenti, sulle bevande e sugli oggetti di uso domestico”, il Regio Decreto n. 45/1901 “Regolamento generale sanitario”, il Regio Decreto n. 1265/1934 “Testo Unico Leggi Sanitarie”, il Regio Decreto n. 3298/1928 “Vigilanza Sanitaria delle carni”, la Legge 30/4/62, n. 283 “Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande” e il suo regolamento di esecuzione approvato con DPR 26/3/80, n. 327.
Tali atti normativi hanno posto indubbiamente l’Italia all’avanguardia sul piano della tutela della sicurezza alimentare ma hanno reso, al contempo, più difficoltosa l’attività di adattamento della legislazione interna a quella comunitaria sopravvenuta rendendo, così, più difficoltosa l’azione delle Autorità Competenti all’effettuazione di controlli sugli alimenti (ASL, Carabinieri NAS, etc.) sia quella dell’Autorità Giudiziaria chiamata ad irrogare sanzioni nei casi in cui siano riscontrati illeciti penalmente rilevanti.
3. L’innesto della normativa europea nel sistema penale italiano
L’attività di adattamento delle norme interne a quelle comunitarie risulta particolarmente complessa in ambito penale. C’è da premettere che nessuna istituzione dell’Unione Europea gode del potere di legiferare in materia penale stante l’inderogabilità assoluta del principio di riserva di legge statale contenuto nell’art. 25 Cost.. Tuttavia, l’accelerazione del processo di integrazione europea ed il progressivo espandersi delle competenze unionali a settori sempre più vasti consente di affermare che l’attività legislativa dell’Unione Europea abbia, quantomeno, un’efficacia riflessa sulla legislazione penale interna determinando il modo in cui il giudice è tenuto ad interpretare una norma penale che intercetti una materia di interesse dell’Unione Europea. Occorre, pertanto, verificare l’influenza che la normativa comunitaria abbia avuto su quella interna dettata in materia di sicurezza alimentare.
La materia trova la sua fonte principale, a livello comunitario, nel regolamento CE n. 178/2002 il quale stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare. In particolare, l’art. 14 di tale Regolamento afferma che “gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato”.
Il legislatore interno, invece, ha dedicato alla tutela della sicurezza alimentare diverse norme penali tra cui sovviene, principalmente, l’art. 444 c.p. il quale dispone che “chiunque detiene per il commercio, pone in commercio ovvero distribuisce per il consumo sostanze destinate all'alimentazione, non contraffatte né adulterate, ma pericolose alla salute pubblica, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a cinquantuno euro”.
Occorre, pertanto, verificare in che modo possano conciliarsi la normativa interna e quella comunitaria. Deve essere subito sottolineata la differenza semantica tra i due impianti normativi: quello europeo, più attuale e adeguato all’impronta scientifica, utilizza appropriatamente la parola “rischio” come la funzione della probabilità e gravità di un “pericolo”. Il pericolo viene distinto in chimico, microbiologico o fisico e per esso va intesa la sostanza, il microorganismo o il fattore fisico (ad esempio le radiazioni) che può causare un danno alla salute del consumatore. La normativa nazionale, ovviamente più datata ma non per questo meno efficace, utilizza, invece, l’espressione “alimenti pericolosi per la salute pubblica”.
Ferma restando la differente locuzione utilizzata dalle due norme è indubbio che l’interprete, nel valutare la sussistenza del pericolo richiesto quale elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 444 c.p., farà utilizzo proprio delle coordinate enunciate nell’art. 14 Reg. 17/2002. Quest’ultima norma, infatti, afferma che gli alimenti sono da considerarsi a rischio nei casi seguenti:
a) se sono dannosi per la salute;
b) se sono inadatti al consumo umano.
La stessa norma aggiunge, poi, che per determinare se un alimento sia a rischio occorre prendere in considerazione quanto segue:
a) le condizioni d'uso normali dell'alimento da parte del consumatore in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della distribuzione;
b) le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull'etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti.
Tali direttive, impartite dal legislatore europeo, certamente verranno prese in considerazione dal giudice ai fini della valutazione della sussistenza del pericolo richiesto dall’art. 444 c.p.
4. Commercio di sostanze alimentari nocive quale reato di pericolo concreto
Giova ricordare che l’art. 444 c.p. rientra nel novero dei reati c.d. “di pericolo”; essi si distinguono dai reati di danno in quanto l'offesa consiste nella mera messa in pericolo del bene giuridico a prescindere dalla verificazione di una effettiva lesione dello stesso con anticipazione, dunque, della soglia di tutela penale. All'interno di questa categoria di reati si distingue tra reati di pericolo presunto (o astratto) e reati di pericolo concreto, sulla base della differente posizione che il pericolo assume nell'ambito della norma. Nei reati di pericolo concreto, il pericolo figura quale elemento costitutivo della norma e andrà accertato dal giudice caso per caso in modo che se il bene giuridico non sia stato esposto effettivamente a pericolo il reato non sussiste. Nei reati di pericolo astratto (o presunto) è il legislatore che formula in via preventiva il giudizio di pericolosità in relazione ai comportamenti antigiuridici. Il pericolo costituisce il motivo dell'incriminazione e non un elemento costitutivo del reato e, per tale motivo, il giudice accerta la ricorrenza del comportamento antigiuridico, a prescindere dal fatto che la condotta, nel caso concreto oggetto del giudizio, abbia causato un pericolo effettivo o meno.
L’art.444 c.p., richiamando all’interno del precetto il pericolo per la salute pubblica, certamente si configura quale reato di pericolo concreto. Spetterà, dunque, al giudice verificare quando le condotte descritte dalla fattispecie presentino una effettiva carica potenzialmente lesiva per il bene giuridico tutelato dalla norma.
Ad esempio sarà considerata pericolosa e, quindi, sanzionata penalmente la commercializzazione di alimenti nei quali, mediante analisi, si è accertato il superamento dei limiti di uno o più dei batteri patogeni elencati nell’allegato 1 del Reg. CE 2073/2005. Tale Regolamento definisce i cd. “criteri di sicurezza alimentare” approntati al fine di definire l’accettabilità di un prodotto o di una partita di prodotti alimentari sotto il profilo microbiologico; nel caso de quo il pericolo microbiologico è presente, il rischio è alto, e la fattispecie può essere sussunta nell’art. 444 C.P che vieta la commercializzazione di sostanze pericolose per la salute pubblica, ferma restando l’indifferenza per il legislatore, ai fini della punibilità, della effettiva verificazione di un danno.
5. Conclusioni
Appare evidente, in conclusione, che la tutela della sicurezza alimentare abbia suscitato grande interesse per il legislatore comunitario intento a garantire un elevato livello di benessere per tutti i cittadini. Tale materia, dunque, non poteva che essere foriera di notevoli interventi legislativi tesi a fissare standard qualitativi degli alimenti e a vietare pratiche scorrette.
È innegabile che tale corpus normativo, ferma restando l’assenza di un potere legislativo in materia penale dell’Unione, abbia contribuito notevolmente a definire i margini dell’area del penalmente rilevante imponendo al giudice di interpretare la normativa penale interna alla luce delle prerogative e degli standard imposti dall’Unione stessa. L’interprete, pertanto, nell’attività di accertamento dell’illecito penale, non farà più esclusivo uso di criteri interni, tratti dalla legislazione nazionale, ma finirà per fare riferimento a quelli di matrice comunitaria.