ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il tempo del giudizio - 2. La lettura del giudizio: le sentenze della Corte Costituzionale - 3.Ordinanze e participi.
1.Il tempo del giudizio
Sono trascorsi oltre dieci anni da quando la legge 18 giugno 2009, n. 69, a partire dal 4 luglio 2009, sostituì l’art. 132, II c., n. 4, c.p.c. eliminando tra i requisiti di forma-contenuto delle sentenze civili la concisa esposizione dello “svolgimento del processo” e così limitando il requisito propriamente motivazionale alla esposizione, comunque concisa, “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Tale novella è stata per lo più interpretata come una mera semplificazione in senso riduttivo – una sorta di dimagrimento - della struttura della sentenza civile, così trascurandone, invero, l’impatto sulle modalità stesse di formulazione della motivazione.
E’ infatti da evidenziare il rilievo assegnato alla essenziale connotazione della sentenza in termini di giudizio (“le ragioni”) piuttosto che di narrazione/rievocazione di fatti, con conseguente emarginazione dei contenuti storici della vicenda sostanziale e processuale.
Nell’orbita propria del giudizio i fatti non sono certamente da trascurare ma sono piuttosto da rappresentare esclusivamente nella loro dimensione di ragioni di fatto, vale a dire nella sola consistenza funzionale alle considerazioni in diritto che se ne traggono, in quanto proprio da tale rappresentazione dei fatti derivano le consuete operazioni inerenti alla sussunzione nella fattispecie astratta e, soprattutto, all’individuazione degli effetti che si spiegano nel caso concreto.
Gli eventi sono, in tal senso, nuovamente rappresentati affinchè sia disposto alcunchè in ordine alla loro ideale prosecuzione nella concreta vicenda sostanziale o processuale: così all’accertamento di un fatto illecito consegue la sanzione restauratrice del corso degli eventi, in forma specifica o per equivalente; alla dichiarazione di nullità dell’atto processuale le conseguenti rinnovazioni ex art. 162 c.p.c..
Si dovrebbe, pertanto, adottare nei verbi un tempo adeguato a rappresentare gli eventi nel loro svolgersi per cogliere la continuità tra tali accadimenti e gli effetti che ne derivano all’attualità e che si protendono nel tempo successivo, in quel divenire tra passato, presente e futuro che contrassegna propriamente l’esercizio della giurisdizione.
Di qui l’incongruità dell’uso dei tempi passati, i quali emarginano il fatto in un contesto già esaurito e segnano una netta cesura rispetto all’attualità della narrazione; è piuttosto da apprezzare l’uso del tempo presente con riguardo non solo alle considerazioni in diritto ma anche a quelle propriamente in fatto, pur se gli accadimenti risalgono a molti anni indietro rispetto all’epoca della decisione: Tizio stipula il contratto nel 1985, si avvale nel 1996 della clausola risolutiva, chiede oggi la condanna ecc..
La formulazione dei fatti al tempo presente (c.d. presente storico) determina indubbiamente un apparente appiattimento degli eventi pur succedutisi a notevole distanza temporale: si tratta, tuttavia, di un livellamento connaturale alla giurisdizione, laddove gli eventi rilevano solo come elementi di fattispecie tutti da rappresentare contestualmente ai fini della formulazione della regola finale del caso concreto.
Il giudice è, infatti, chiamato ad una operazione essenzialmente logica utilizzando le risultanze processuali ed parametri normativi ed è, quindi, affatto congruo che i fatti - sub specie di ragioni di fatto - siano tutti esposti nel medesimo tempo pur nella diversa – ed eventualmente precisata – collocazione diacronica.
L’effetto drammatico – rievocativo resta, invero, integro - così come avviene con il tradizionale uso dell’imperfetto : Tizio stipulava ….non corrispondeva ecc. - in quanto l’autore continua a porre se stesso ed il suo ideale lettore sullo stesso piano degli eventi narrati, colti nel momento in cui accadono; ma è, altresì, evidenziato, con il tempo presente, che gli eventi rilevano all’attualità come elementi di un giudizio e non nella loro dimensione propriamente storica.
In tal senso il tempo proprio della sentenza diventa il tempo presente quale tempo del giudizio, vale a dire del momento di formulazione delle ragioni di fatto e di diritto in cui si articola la motivazione.
2.La lettura del giudizio: le sentenze della Corte Costituzionale
Ogni motivazione è destinata ad essere ovviamente letta: non rileva cioè nella sua mera obiettività, come compiuta e tecnicamente esatta esposizione delle ragioni, ma anche nella idoneità ad essere congruamente percepita.
In tal senso si può riscontrare che l’uso del tempo presente agevoli senz’altro non solo l’esposizione ma anche la comprensione dei fatti rappresentati.
Tuttavia l’attenzione al destinatario della motivazione – che non è solo il difensore o la parte ma potenzialmente l’intera comunità – deve indurre ad una più profonda semplificazione della formulazione del giudizio, quanto meno nel senso di attenuare, per quanto possibile, lo sforzo richiesto per la sua percezione.
Potrebbe così essere giustificata una minore compiutezza o precisione nel richiamo ad un fatto – magari già in precedenza circostanziato - allorchè si tratta formulare propriamente solo un giudizio sullo stesso.
Al riguardo è forse utile aprire il sipario anche sulle sentenze della Corte Costituzionale - nella sua veste di giudice delle leggi - le quali appaiono, invero, conformate ad un modello formale tutto imperniato sulla compiutezza della esposizione piuttosto che sulla leggibilità e, quindi, sulla fruizione della motivazione.
Sono, infatti, strutturate in una prima parte, recante l’epigrafe “Ritenuto in fatto”, la quale corrisponde in realtà allo svolgimento del processo, ed in una seconda parte propriamente motiva, con l’epigrafe “Considerato in diritto”, nella quale vengono esposte le ragioni della decisione.
Tuttavia è da riscontrare che le considerazioni “in diritto” sono nuovamente precedute dalla compiuta riformulazione delle stesse questioni già esposte in precedenza “in fatto”, così sostanzialmente integrando autonomamente il requisito della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto proprie della sentenza civile ex art.132, II c., n. 4, c.p.c..; al punto che il lettore ben potrebbe limitarsi a tali “Considerazioni in diritto” per comprendere il contenuto della sentenza.
Il parametro normativo specifico per le sentenze della Consulta, l’art. 18, legge 11 marzo 1953, n. 87, si limita a disporre che siano indicati i “motivi di fatto e di diritto”, con formulazione che ben può leggersi come simmetrica, in via sistematica, con quella dettata per la sentenza civile, nel senso cioè che i “motivi” corrispondono alle “ragioni” ex art. 132 c.p.c..
E’ vero, poi, che avanti alla Corte Costituzionale i “fatti” di cui si controverte sono in realtà “le leggi”, tuttavia anche le leggi potrebbero essere richiamate solo in quanto funzionali ad un “giudizio” destinato ad essere essenzialmente “letto”; di qui la preferenza che dovrebbe essere accordata alla continuità della esposizione delle “ragioni” piuttosto che alla completezza degli elementi meramente descrittivi delle leggi.
In concreto è, ad esempio, da evitare che le leggi siano reiteratamente citate mediante l’indicazione dei rispettivi “titoli”, i quali aprono parentesi quasi sempre non utili alla formulazione delle “ragioni” e costringono continuamente il lettore ad operare mentalmente dei “salti” per non pregiudicare la continuità della percezione dell’argomentazione.
Analoghi rilievi potrebbero essere svolti quanto alla citazione delle reiterate modificazioni intervenute “medio tempore” rispetto alla formulazione originaria della disposizione di legge (“l’art. X della legge Y così come modificata dall’art. A della legge B ecc.”); tali citazioni possono, infatti, essere effettuate una sola volta nel corpo della motivazione ed eventualmente sostituite dal mero richiamo alla vigenza della disposizione in un dato contesto temporale (“l’art. X nella formulazione vigente alla data del….”).
Si tratta di rilievi apparentemente banali ma che proprio nella legislazione contemporanea finiscono per assumere rilievo in quanto fioriscono leggi dal contenuto disomogeneo, con titoli intenzionalmente ipertrofici, le quali si sovrappongono diacronicamente con intensa frequenza: di qui la opportunità di una citazione delle disposizioni di legge semplificata, per quanto possibile, per assicurare l’agevole leggibilità della motivazione, vale a dire la sua funzionalità oltre che la compiutezza strutturale.
3.Ordinanze e participi
A fronte della semplificazione operata nel 2009 nella struttura della sentenza è da rivedere anche l’originario assunto secondo cui l’ordinanza abbia un contenuto essenzialmente minore quanto alla motivazione: in effetti il parametro normativo non implica alcuna apprezzabile differenza in quanto l’ordinanza è “succintamente motivata” ex art. 134, I c., c.p.c. e la sentenza comprende, analogamente, “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto” ex art.132, II c., n.4 c.p.c..
La tradizionale articolazione delle ordinanza in capoversi preceduti da participi (“Rilevato che”, “Ritenuto che” ecc.) non sembra, poi, corrispondere ad alcuna effettiva semplificazione in quanto un dato può essere rilevato od un giudizio può essere espresso anche senza la reiterazione di un participio passato come premessa: si può così argomentare che il cielo è azzurro anche senza preavvisare il lettore che si è “considerato che”.
Con ciò non si vuole affatto sminuire l’utilità di una articolazione della motivazione, in sentenza come in una ordinanza, per punti e paragrafi, segnalati anche da opportuni simboli numerici o grafici; tuttavia l’incipit reiterato con i participi passati sembra, oltre che inutile, il retaggio di un esercizio della giurisdizione, dall’alto di una sovrana intelligenza, certamente non più consona alla attuale dialettica processuale imperniata sulla parità delle parti.
di Mario Serio
Sommario: 1.Il precedente scientifico - 2.Le prime intuizioni della scientificità del diritto comparato nelle sue originarie denominazioni:l'opera di Emerico Amari (1810-1870) - 3. Uno sguardo storico alla sistemazione del diritto comparato nella dottrina di common law dei primi decenni del XX secolo - 4.Le giornate Gorla del 1979 e le loro conseguenze sugli assetti dei rapporti tra diritto comparato e diritti interni - 5.Il rapporto tra comparazione giuridica e fattore formante giurisprudenziale; 6.Le scuole civil-comparatistiche italiane e la loro influenza culturale.
Questo studio si propone di porre a disposizione dei lettori un ritratto composito e non necessariamente omogeneo nei suoi oggetti dell'accesso della comparazione giuridica nel mondo globale (per materia e per territorio) della scienza e della conoscenza giuridica per calcolarne qualità e quantità di apporti e contributi espressi nel tempo e nello spazi.
1.Il precedente scientifico
La ricerca esordisce con un balzo all'indietro alle origini storiche della giuscomparazione e progredisce verso l'enucleazione dei sedimenti consegnati all'avvenire, in coerenza con un modello storicistico di indagine proprio della comparazione stessa. Nel lavoro si rievoca una manifestazione culturale, di cui si celebra adesso il quarantennale dallo svolgimento, che in misura non trascurabile ha segnato corso ed impronta della disciplina comparatistica,suggellandone la scientificità e assiedendola,con pari dignità,assieme alle altre,storicamente più blasonate,discipline giuridiche nazionali.Non è,infatti,oggi più revocabile in dubbio che da allora il diritto comparato abbia trovato in Italia collocazione formale-accademica di tutto decoro e si sia attribuita uno statuto metodologico ed epistemologico saldo e congruo. Tra i vantaggiosi apporti che la giuscomparazione ha saputo dare si annovera qui il nuovo impulso alla ricerca giuridica in senso casistico-problematico,a propria volta generatrice di un sempre più fecondo dialogo tra dottrina e giurisprudenza, che da tempo alberga con esiti edificanti nel common law inglese.Questo dialogo viene classificato come testimonianza delle intercomunicazioni,ormai patrimonio comune dei giuscomparatisti,tra i vari fattori formanti di ogni sistema giuridico,che ne facilita la comprensione,agevolando al tempo stesso il disvelamento delle dissociazioni interne ai vari ordinamenti tra regola astratta e sua applicazione concreta.
Sullo sfondo dell'acquisita sanzione di scientificità della disciplina si delinea,infine,il quadro dell'odierno stato della giuscomparazione italiana,dei suoi nuovi orientamenti,dei suoi processi di sviluppo,del suo forte spirito identitario. Il quinto colloquio dell'Associazione italiana di diritto comparato ( ad essa si affianca dal 2011 la SIRD,Società italiana per la ricerca in diritto comparato),tenutosi,sotto la presidenza di Rodolfo Sacco, a Torino tra il 25 ed il 27 maggio 1979 fu dedicato al tema che dà il titolo al presente saggio,assumendo per acclamazione assembleare la denominazione di “Giornate Gino Gorla”:i riflessi culturali di quel fondamentale convegno-ma non l'esatto resoconto,come ricorda lo stesso Sacco nella Presentazione- furono raccolti in un volume dell'anno successivo, edito dalla Giuffrè con il medesimo titolo,che racchiude prestigiosi contributi,tra i quali quelli dei due Studiosi citati.
Erano quelli anni in cui il diritto comparato iniziava il volo verso le vette accademiche,sebbene il suo decollo fosse stato agli esordi accidentato ( al momento del Colloquio torinese erano appena 5 le cattedre italiane di Diritto Privato Comparato,circa un settimo di quelle odierne ) in ragione di correnti pregiudizi e diffidenze,largamente addebitabili al disconoscimento dei risultati benefici,in termini metodologici,epistemologici,teleologici,pratici,conseguiti sul piano generale dell'elaborazione giuridica compiuta per mezzo della comparazione.
Quelle giornate di studio ,ravvivate da un entusiastico,orgoglioso spirito di corpo manifestato dai partecipanti, si rivelarono un successo perchè,grazie alle illuminanti lezioni dei Maestri della materia,si potè stilare un bilancio degli apporti già forniti dalla comparazione alla scienza giuridica e,al tempo stesso,tracciare la via per la rinnovazione in futuro degli stessi.
Qualunque indagine sul tema qui trattato non può ,per debito di riconoscenza e perdurante attualità, che prendere le mosse dai notevoli spunti di un quarantennio addietro:essi vanno fatti utilmente precedere da una essenziale ricostruzione del quadro storico della comparazione giuridica nei periodi anteriori,sia in Italia sia altrove nel mondo.
2. Le prime intuizioni della scientificità del diritto comparato nelle sue originarie denominazioni:l'opera di Emerico Amari (1810-1870).
Gli ariosi fermenti circolanti nell'Europa ottocentesca,che avrebbero condotto all'unità d'Italia ed alla riedizione della struttura politica dell'Europa,trassero sostanzioso alimento dal pensiero di dottrinari che avvertirono l'esigenza di aprire le loro menti ad esperienze politiche,istituzionali,giuridiche maturate all'esterno dei confini nazionali.In questo valicamento degli orizzonti di conoscenza si posero le fondamenta di scopi e di metodo di quella che allora fu individuata come “Scienza delle legislazioni comparate”.Ed invero,mettendo a frutto i Principi di Giovan Battista Vico ( 1668-1744) della prima metà del XVIII secolo,accreditanti una “ comune natura delle nazioni” e le conseguenti lezioni di Vincenzo Cuoco (1770-1823) nel suo corso di legislazione comparata ,rivolte ad una “mente comune delle nazioni”, il palermitano Emerico Amari pubblicò-come ricordato nel mio “Gli albori della comparazione giuridica nella Critica di una scienza delle legislazioni comparate,1857 di Emerico Amari” in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi,2012,pag.411 ss.- nel 1857 i 2 volumi della “Critica di una scienza delle legislazioni comparate” (raccolti in una edizione del 1969 curata dalla Regione Siciliana,con una ricchissima introduzione di Vittorio Frosini,1922-2001).In questa amplissima trattazione l'Autore,che ricoprì cariche accademiche e politiche ( fu Deputato ),sentì l'urgenza di identificare paragoni e “simiglianze” ricavati da “costumanze diverse di tempi e di popoli”,allo scopo di trarre un'idea comune che “spieghi e governi” le leggi nazionali.A questo compito egli ritenne dovesse essere adibita una nuova scienza,quella della “legislazione comparata”,cui attribuì la potenziale capacità di costituire un proficuo mezzo di comunicazione ed armonizzazione tra i popoli nei più svariati campi delle loro relazioni,così realizzando il “primo fine pratico” della nuova scienza,rivolta allo studio delle leggi altrui,con l'ulteriore vantaggio di impararne la lingua “primo elemento di comunicazione tra i popoli”.Correlativo a tale ultimo scopo è,secondo Amari,il processo di “imitazione e propaganda” delle leggi straniere,che costituisce un fine e,per quel che in questa sede rileva,specialmente una forma di utile apporto alla scienza giuridica in generale- della comparazione giuridica nella misura nella quale la loro conoscenza può indurre alla riforma delle leggi nazionali o,addirittura,il loro recepimento sotto forma di adozione integrale.L'insigne giurista palermitano sottolineò l'ulteriore “ufficio pratico” della comparazione,consistente nella creazione di un corpo scientifico autonomo e nuovo,cui ben può farsi ricorso all'interno dei diritti nazionali “ per illustrarne l'applicazione pratica nei contratti e nei giudizi della nazione che l'ha ricevuta”.E',a questa stregua,agevole rinvenire nella scienza comparatistica,e nel connesso metodo di studio da essa postulato,un mezzo di “dimostrazione della qualità delle leggi” nazionali.Metodo generale che,nell'impostazione dell'Autore,venne a perfezionarsi attraverso l'indicazione del submetodo empirico-deduttivo,decisivo per un suo utile dispiegamento,condensato nella seguente proposizione:” Ma per compiere la dimostrazione della potente efficacia della legislazione comparata sulla dottrina del diritto universale ,credo importante l'osservare un fatto singolare,il quale per modo contrario la conferma,e però potrebbe chiamarsene la controprova,argomento decisivo nelle logiche deduzioni....Omonomie,per provarlo,antinomie per confutarlo...”.L'immediata notazione stimolata da questo significativo passaggio argomentativo è che,in chiave prospettica,questa costruzione metodologica,orientata a dedurre dall'osservazione del particolare la regola o il principio generale ( se non universale),largamente precorre l'odierna falda dicotomica del diritto comparato,scisso nella sua versione microcomparatistica ed in quella macrocomparatistica.La costruzione di Amari reca con sé la coerente affermazione che “la legislazione comparata costituisce la scienza dei luoghi e dei tempi,l'elemento dell'opportunittà nella scienza della legislazione”; più in particolare la disciplina nuova viene dallo stesso definita come “lo sperimento nelle scienze giuridiche e legislative”,quello stesso “sperimento” che,nell'area delle scienze dure,moltiplicato all'infinito consente ai fisici di “formulare le leggi”.Donde,il carattere necessariamente scientifico,in virtù del criterio tipico della verificazione v. falsificazione del dato,della scienza delle legislazioni comparate.Ma anche dal punto di vista squisitamente speculativo-teorico ( in seguito di tempo si sarebbe detto dogmatico: sulla questione si vedranno le considerazioni di Sacco sul moderno superamento delle tentazioni pandettistiche da parte della concezione vigente degli studi comparatistici),la novella scienza incoraggia un rimarchevole progresso che “ consiste nel ridurre la molteplicità all'unità”: potrebbe dirsi con linguaggio che risente dei tempi che alla comparazione va ascritta una positiva tendenza uniformatrice o armonizzatrice dei modelli sistemici presenti in un certo momento storico in vasti territori .Ed il ruolo pionieristico dei volumi del 1857 si coglie proprio in questa felice dimensione prolettica.Quest'ultima trova consolidato vigore nella constatazione parallela secondo cui la scienza delle legislazioni comparate,da un canto,facilita il processo elaborativo di categorie generali del pensiero giuridico e,dall'altro,produce l'effetto,indotto dall'osservazione sperimentale e transnazionale dei fenomeni,di identificarne la concreta configurazione per quanto attiene ai relativi elementi costitutivi ed ai fattori (“rapporti fattori” secondo l'espressione dell'Autore) che li hanno prodotti,ossia quelli che oggi con fortunata e diffusa espressione vengono chiamati “formanti”.Della loro descrizione la “Critica” del 1857 si cura dettagliatamente,passandoli in rassegna e tassonomicamente classificandoli in base all'influenza su di essi esercitati dai luoghi,dagli usi ,dall'economia.
La prospettiva finalistica affidata dal grande giurista alla scienza in questione è quella -precorritrice in sostanza della teoria di Gorla- di misurare differenze e somiglianze tra sistemi ordinamentali diversi,così di fatto decretandone la vicendevole “fortuna”e divenendo “la maestra della riforma progressiva e perpetua della legislazione”.
Assertiva è la formula finale adottata per illustrare questo itinerario di scopi della comparazione,scolpita in queste parole:”E la dottina giuridica della civiltà universale è il supremo assunto che costituisce il sommo dei gradi,il titolo vero della scienza nostra”.Scienza che,in modo del tutto originale rispetto allo spirito del tempo,Amari indirizzò verso l'analisi delle fonti formali di produzione dei diritti nazionali (“ tutte le regole positivamente decretate e tutte le altre...le quali in qualunque modo accettate reggono i popoli”) sì da concorrere a formare la “dottrina giuridica della civiltà universale”.Riassume la profondità dell'intuizione Amariana,ed il non nascosto compiacimento per il suo esito sistematico,la consapevolezza dell'utilità della raccolta comparativa “delle leggi di tempi e popoli diversi,per servire a molti usi e pratici e scientifici,ma tutti di civile e di morale utilità”.
In conclusione ,la nuova prospettiva culturale battuta in breccia nei due volumi della Critica non solo dischiude un cospicuo patrimonio di fini e di criteri della conoscenza giuridica,ma soprattutto ingaggia il diritto comparato nella fondamentale funzione di promotore dell'universalità ,in atto o in potenza,del fenomeno giuridico,riducendo le varianti nazionali ad oggetti di esplorazione in chiave agevolatrice di soluzioni il più possibile comuni.Concetti di straordinaria modernità,questi,che,peraltro,seppero adombrare “in nuce”il fitto catalogo di apporti che il diritto comparato,sin dalla sua più risalente declinazione nominalistica e metodologica,appare,ieri come oggi,capace di far confluire nel capiente contenitore della scienza giuridica ad ogni latitudine.
Desta ragionato stupore la modestia di richiami che la dottrina italiana ha voluto effettuare all'opera in questione,la pregevole e più recente eccezione essendo costituita dagli Studi di diritto comparato e teoria generale del 1972 di Mario Rotondi,che accredita Amari di “geniali intutizioni”, a propria volta preceduti negli anni 1930 dalle introduzioni allo studio del diritto comparato di Sarfatti (1933) e di Di Carlo (1936).Non dimentica del pensiero dello studioso è stata la Scuola comparatistica Palermitana,il cui fondatore,Giovanni Criscuoli (1931-2003), Maestro impareggiabile verso il quale nutro ,con i nuovi allievi locali,un imperituro sentimento di devozione,ha intitolato a Lui il Circolo di studi comparatistici presso il quale le leve successive si sono formate ,anche grazie alla sua espansa biblioteca di lavori stranieri,ed in particolare sul common law inglese.
3.Uno sguardo storico alla sistemazione del diritto comparato nella dottrina di common law dei primi decenni del XX secolo.
Un evento destinato a rimanere scolpito nell'evoluzione planetaria del diritto comparato segnò il primo anno del secolo scorso:nel 1900,infatti,si svolse a Parigi il primo congresso mondiale di diritto comparato ( i cui lavori furono pubblicati 5 anni dopo),una sorta di battesimo della “scienza nuova”.Alla svolta la classe degli studiosi non si fece trovare impreparata,approntando,attraverso una serie coordinata di alti interventi,una tavola culturale della disciplina che tentava di innestarsi su una pianta ramificata in una molteplicità di aree giuridiche,sostanzialmente inclinate verso il piano nazionale.Si inaugurò,così,una nuova stagione di fervidi studi e di fascinose avventure intellettuali,inizialmente indirizzate verso l'edificazione di un manifesto storico della comparazione giuridica ( esemplare fu,in questo senso,l'allocuzione dell'eccelso studioso inglese Sir Frederick Pollock (1845-1937) dedicata alla storia del diritto comparato,poi ripresa in articoli editi negli anni immediatamente successivi al congresso parigino).
Prese allora avvio una fioritura di saggi articolati secondo una scansione espositiva diretta alla ricerca dei confini metodologici,cognitivi,distintivi di questa materia :la comunità scientifica albergante nei sistemi di common law inglese e statunitense mostrò qualificata propensione verso l'obiettivo e scrisse pagine di sicuro interesse sia storico sia fondativo dei caratteri propri della comparazione.In questa sede è solo possibile riferirsi a quei contributi così originali di idee da costituire,anche in forza del prestigio degli Autori,durevole testamento.
Nella ricerca monografica del 1928 “A panorama of the world's legal systems” il giurista americano John Henry Wigmore (1863-1943) ,sintomaticamente attingendo a piene mani all'apparato linguistico-nozionale di Amari,distinse tre campi di esercizio della comparazione giuridica: quello nomoscopico diretto ad accertare e descrivere i vari sistemi giuridici nazionali,considerandoli alla stregua di fatti storici oggettivi più che di fenomeni giuridici in senso stretto;quello nomotetico rivolto all'analisi delle basi di politica del diritto ,e del relativo merito,degli stessi sistemi prima richiamati;quello nomogenetico perseguente l'approfondimento delle fasi evolutive vicendevoli di tali sistemi,riguardate in senso cronologico e causale ( analogo tentativo di razionalizzare l'esposizione delle aree di intervento della comparazione giuridica fu compiuto dal Professor Lambert nel 1931 nella Encyclopaedia of social sciences,allorchè predico la coesistenza di una comparazione giuridica in senso descrittivo,di una in dimensione storica,di una terza concentrata sulla ricerca delle legislazioni e delle giurisprudenze nazionali).E' palese che la divisione delle competenze comparatistiche in rapporto agli scopi ed agli oggetti presentasse già al tempo del concepimento aspetti di certa ricaduta sulla struttura delle riflessioni inerenti ai diritti interni,che vennero,pertanto,ad essere esplorati anche in funzione della loro raffrontabilità con ordinamenti stranieri:in effetti,le gravi scorie autarchiche del ventennio italiano rallentarono molto il fenomeno ,che solo nel secondo dopoguerra conquistò,come si dirà nel paragrafo conclusivo, pieno diritto di cittadinanza accademica.
Di non minor interesse ed attualità si rivela lo studio ( apprezzato e sempre citato da Gorla come autorità di caratura mondiale) di Walther Hug (1898-1980),giuseconomista svizzero molto noto in Nord America,The history of comparative law,pubblicato nella Harvard law review del 1932 che assegnò alla comparazione giuridica una duplice immagine ( giuridica in senso stretto e storica) con un mandato da svolgere in due fasi per ciascuna delle facce.Per quella giuridica :la prima,di carattere ricognitivo dei dati comuni e differenziali tra gli ordinamenti posti a confronto,la seconda, di natura analitico-sistematica ,calibrata verso la identificazione delle cause della formazione di differenti sistemi normativi.Analogo approccio bifasico venne concepito per il volto storico della comparazione,declinato nel senso della descrizione in senso sincronico e diacronico dell'evoluzione dei vari sistemi giuridici.
Questi brevi riferimenti ai moti culturali del secolo scorso sul versante della scienza comparatistica appaiono atti a testimoniare circa la sussistenza di un profilo peculiare ed innovativo degli studi comparatistici,sottolineandone l'intensa attittudine riconformatrice dei parametri di conoscenza dei diritti interni,proiettati su uno scenario meno angusto e dalle prospettive universali.E che di sensibile apporto si tratti non pare fondato dubitare.
4. Le Giornate Gorla del 1979 e le loro conseguenze sugli assetti dei rapporti tra diritto comparato e diritti interni.
Il convegno torinese fu teatro di un orgoglioso risveglio della cultura comparatista,affidato in modo preponderante e memorabile alle parole ed all'architettura concettuale di Gino Gorla (1906-1992) e Rodolfo Sacco (1923).Il primo aggiornò l'uditorio sui progressi intorno alla storiografia comparatistica ( nel volume del 1980 il suo saggio ebbe come titolo “Prolegomeni ad una storia del diritto comparato europeo);il secondo si rivolse al disvelamento critico dell'universo del diritto comparato,fatto di continue evoluzioni rispetto a consolidati assetti di pensiero,di analisi intorno ai nuovi approcci euristici,di compenetrazione tra oggetti e metodi della ricerca,di emersione dei fattori formanti i sistemi giuridici nazionali,di criteri di conoscenza del dato giuridico ( sintomatico il titolo del suo contributo nel citato volume:”Comparazione giuridica e conoscenza del dato giuridico positivo”).Sembra che i due padri fondatori avessero trovato un'intesa,figlia della feconda amicizia e della deferenza serbata dal più giovane di essi verso il più anziano,circa le sfere reciproche di competenza,a propria volta determinate da quelle dell'interesse scientifico individuale.
Ed infatti,per Gorla è la storia,anche nei suoi riverberi storiografici,il motore della comparazione giuridica e,in fondo,il mezzo di concreto accertamento delle conformazioni dei sistemi giuridici ( tema già brillantemente e sapientemente padroneggiato nel 1964 nella voce “Diritto comparato” dell'Enciclopedia del Diritto in cui venne coniata la nozione di diritto comparato come scienza implicante un'attività o un processo di conoscenza di due o più fenomeni giuridici per vedere cosa abbiano di diverso o di comune),la base stessa ( non il fine) della ricerca comparatistica.E l'innato storicismo comparatistico garantisce natura genuinamente scientifica agli studi attorno ad esso sviluppatisi .Proprio le profonde radici storiche della scienza comparatistica hanno permesso di progredire lungo l'itinerario della demarcazione e delle vicendevoli influenze tra i principali ordinamenti europei,sì da pervenire alla ( solo in apparenza) sorprendente scoperta dei regolari ed omogenei flussi di comunicazione,soprattutto a livello di prassi giurisprudenziali nella materia mercatoria ,tra il common law inglese ed i sistemi di diritto continentale,che potè dar vita ad una sovente disconosciuta ( a cagione del pregiudizio insito nella tralaticia tesi delle barriere insuperabili tra i due emisferi giuridici appena ricordati)”civili orbis nostrae (NdA:Aeuropae) comunicationis qui cum legibus vivit”,di lunga durata,da Gorla stimata nel lasso intercorso tra il XII secolo e la seconda guerra mondiale.Il traguardo cui mirò quella accurata ed appassionata ricerca,che scandì la maggior parte della biografia scientifica del grande Studioso,fu di attestare in maniera probatoriamente persuasiva la edificazione,storicamente e fattualmente percettibile,di un diritto comune europeo ( inglobante anche il diritto comune classico) che per gran tempo governò la scena giuridica del vecchio continente sotto l'insegna delle concordanze tra i diritti di vari Stati,soprattutto di quelli formatisi tra il XVI ed il XVIII secolo.E se questa creatura di origine mista,ma con effetti unificanti,potè veder la luce,ciò avvenne-secondo Gorla- in virtù dei processi di comparazione interordinamentale europea,nel fondamentale presupposto scientifico che “comparatio est comunicatio”,nel preciso senso che,per utilizzare il moderno lemmario,ogni ricerca comparatistica va indirizzata alla finalità della verifica dei modi attraverso i quali si manifesta la circolazione dei modelli.Essa,a propria volta,lungi dal dar luogo ad una semplice ed elementare forma di comparazione ( il primo gradino),quella che va sotto l'angusto nome di studio del diritto straniero,assicura la possibilità che si apra il ventaglio delle plurime occasioni di apporto del diritto comparato alla scienza giuridica,quali la possibile uniformazione tra sistemi appartenenti ad una medesima area geografica ed il certosino sforzo teso a cogliere somiglianze e differenze tra di essi.
La tensione che animò l'impegno di Sacco nel corso di quelle non più vicine ( se non idealmente) giornate fondative dello statuto del diritto comparato ( non fu casuale la messa a punto delle basi della prima versione,poi doppiata nel dicembre del 2001,durante il Convegno trentino dell'Associazione Italiana di Diritto Comparato del 1987 ,proprio su ispirazione di Sacco e della sua scuola,del cosiddetto “Manifesto culturale” ,che riassumeva gli elementi proprii della comparazione) fu quella di affrancare la disciplina da pericolose schegge dogmatiche,di prospettarne l'autonomia,di predicarne la (positiva,si può aggiungere) diffusività all'interno dell'intera scienza giuridica.
La concezione Sacchiana del diritto comparato si impernia,al pari di quella di Gorla,sul contrassegno scientifico della materia:in altri termini,esso non si distingue da qualsiasi altra scienza in termini funzionali,perseguendo la migliore conoscenza del dato sui cui cade il suo esame:Funzione cognitiva,pertanto,cui può sussidiariamente non disgiungersi quella dell'utilizzazione relativa in chiave pratica.L'Autore fa notare che la comparazione nel campo civilistico,in Italia ed in altri sistemi di diritto continentale,è nata come una sorta di reazione al metodo concettualistico imperante in Europa tra la fine del XIX secolo e la prima parte dei quello successivo.Una delle più evidenti conseguenze dell'accantonamento del dogmatismo giuridico è consistita inevitabilmente nel recupero e nella debita valorizzazione del ruolo della giurisprudenza tra i fattori formanti i sistemi ordinamentali nonché la più acuta indagine sulle cosiddette regole operative ( o operazionali,come lo stesso Sacco le avrebbe definite più tardi),intese come criteri concreti di giudizio,talora in contraddizione rispetto al dato normativo o a quello formale.E nella spasmodica inchiesta circa le dissonanze tra regole teoriche e regole operative,tanto se circolanti nel medesimo ordinamento quanto se fissate in sistemi diversi, risiede un carattere essenziale ed originale della comparazione.Essa,pertanto,si interessa dei cosiddetti crittotipi,creature ingannevoli,perchè frutto di una descrizione della realtà giuridica quale scolpita in un mero enunciato formale che,però,si rivela in netta frattura nei confronti della fenomenica e differente applicazione al caso concreto di una diversa regola di giudizio. La scoperta di questa dissociazione tra formanti ben può essere facilitata dallo studio di esperienze straniere le quali mostrino alternativamente analoghe manifestazioni o,all'opposto,esibiscano coerenza tra enunciato ed applicazione e traccino la via utile da seguire nel diritto interno .Questo, a propria volta, potrà beneficiare,nel momento applicativo,dei risultati di conformità verificabili in altri ordinamenti che si trovino ad affrontare e risolvere il medesimo problema.Ancor più specificamente,pensò Sacco,la comparazione giuridica porta ad appurare che in aree territoriali distinte leggi identiche forniscono soluzioni applicative diverse o che soluzioni applicative identiche dipendono da leggi diverse.Esito,questo,coagulabile nella formula espressiva che conferisce alla comparazione giuridica una vocazione storicistica ed antisistematica ( mi sia permesso di insinuare che proprio il secondo di questi connotati può essere stato l'artefice dell'ostracismo per non breve periodo di tempo decretato,peculiarmente nell'area della dottrina civilistica italiana,ai danni del diritto comparato,reputato troppo eccentrico e disordinato).Che questa doppia vocazione debba necessariamente coesistere nella branca scientifica oggetto di questo scritto trova avallo nell'adozione,a partire dai volumi sul contratto di Gorla del 1955,del metodo fattuale,storico,problematico e casistico di accertamento del dato di conoscenza,soggetto all'indispensabile procedimento di verificazione e falsificazione di matrice scientifica-naturale ( metodo fruttuosamente esteso proprio da Gorla allo studio dei rapporti tra civil law e common law,in particolare in materia privatistica,rischiarato dall'esigenza di individuazione del problema pratico-giuridico sostanziale al di là di concetti o categorie).Al contrario,nell'affresco che Sacco regalò del mondo dei giuristi moderni,chegiocoforza ospita anche i comparatisti,il giurista sistematico considera- diversamente dal comparatista che si nutre del disseppellimento delle contraddizioni intrinseche ad uno o più sistemi ordinamentali onde lasciarne affiorare in modo completo la reale configurazione-come unico oggetto di conoscenza scientifica del diritto un insieme coerente di definizioni.La comparazione giuridica cospira verso il risultato della caduta del velo che copre nei singoli ordinamenti,isolatamente valutati o a paragone tra loro,l'opposizione che esiste tra le definizioni d'insieme ( legali,dottrinarie,giudiziarie) e le regole operative,assegnando il giusto peso deterministico a ciascuno dei formanti.Ancora più abrasivo è il giudizio che Sacco formulò sulle definizioni d'insieme allorchè in esse scorse il disvalore risultante dal privilegio che esse accordano ad una soluzione “monista”,ignorando le soluzioni intermedie tra quelle estreme che le regole di dettaglio possono offrire ed altresì trascurando le grandi possibilità di accrescimento della conoscenza giuridica derivanti dalla focalizzazione delle indagini intorno al fatto inteso come elemento basilarmente costitutivo della “fattispecie” legale.
In conclusione,l'apporto della comparazione alla scienza giuridica venne fatto consistere-così elevandosi l'affermazione a formula di consacrazione delle giornate torinesi del 1979-nell'osservazione dei vari modelli ordinamentali nel momento della loro circolazione,connessione,diversificazione e nella consegna anche ad altre scienze umane,quali la sociologia,dei risultati delle proprie ricerche.
5. Il rapporto tra comparazione giuridica e fattore formante giurisprudenziale.
Dal momento che l'inclinazione del pensiero Gorliano verso l'approdo giurisprudenziale come effettivo ed affidabile punto di verifica della reale configurazione di un ordinamento giuridico si è tramutata in condiviso vettore e strumento di orientamento delle ricerche comparatistiche, la presente indagine non può omettere di prendere in esame la catena di rapporti che legano la comparazione giuridica alla produzione giurisprudenziale ,confidando nella ricorrenza di mutui ,vantaggiosi apporti ( in tale impianto culturale si inscrisse il convegno palermitano del 2009 dedicato a “Scienza giuridica e prassi” organizzato dall'Aristec,rinomata associazione scientifica internazionale di studi storico-compartistici,i cui atti vennero pubblicati due anni più tardi in un volume edito dalla Jovene).
Già in precedenti contingenze si è avuto modo di dirigere l'attenzione scientifica sul tema ( si può vedere il mio “L'apporto della comparazione nel rapporto tra scienza giuridica ed elaborazione giurisprudenziale” nel volume appena citato),che,in effetti,supera le strettoie delle relazioni tra teoria e pratica del diritto e muove nella direzione di definire i contorni della riflessione comparatistica in ciascuna delle dimensioni (metodologiche,storiche,casistico-problematiche) nelle quali si articola.
La tesi che si è consolidata attraverso lo studio appena ricordato,e che qui viene esposta nella invarianza di presupposti e conclusioni, tende ad accreditare un sistema relazionale,alla luce di specifiche esperienze comparatistiche, tra configurazioni,teorica e pratica,del diritto qualificato dalla piena integrazione ed inscindibilità degli elementi ( tra i quali spiccano ,anche per sporadico ma non infrequente contrasto,i fattori dogmatici e quelli giurisprudenziali) che concorrono a darvi vita.Nè va escluso,sempre alla luce della fenomenologia,che la comparazione possa aver assunto ,e possa adempiere tale missione anche in futuro,un ruolo di guida all'interno di tale sistema interrelazionale.Il riferimento all'esperienza giuridica quale tempo e luogo di svolgimento della ricerca di cui ci si sta occupando nasce e validamente si sostiene sul fondamento del memorabile insegnamento di Capogrossi ( ne Il problema della scienza del diritto, del 1962) secondo cui “La scienza lavora.Essa è nell'esperienza giuridica e partecipa alla vita dell'esperienza giuridica”.
È da aggiungere che gli studiosi comparatisti hanno generalmente operato mediando tra due concezioni rivali in termini di rappresentazione dello stato complessivo di un ordinamento giuridico,l'una fondata sul carattere scientifico e dogmatico del diritto e sulla sua razionale coerenza,l'altra traente origine dalle espressioni del diritto quali si possono ricavare dalla concreta,casistica esperienza( così nota opportunamente Moccia,nella monografia del 2005 Comparazione giuridica e Diritto europeo).In questo cuneo trova piena legittimazione scientifica la giuscomparazione in misura direttamente proporzionale alla sua attitudine a trattare dei problemi relativi agli “ ordinamenti,intesi come entità globali ,ai loro elemeni essenziali,ai fattori che formano le strutture caratterizzanti e rappresentano le peculiarità” ( così si esprimono Sacco e Gambaro nell'edizione del 2008 dei loro Sistemi giuridici comparati ).
Tornando ai rapporti tra scienza giuridica e prassi,come conformati anche per effetto dell'intervento della comparazione giuridica,si deve tener conto,come ho già scritto, che la declinazione in senso casistico delle ricerche comparatistiche,ed in particolar modo di quelle che corrono lungo la pista dei raffronti tra “figurae iuris”,più che nell'aria rarefatta delle tassonomiche classificazioni degli ordinamenti ( alla stregua delle opere di David e Costantinescu),non è solo un dato di fatto ripetuto ed approvato ma è soprattutto una modalità peculiare e prestigiosamente attuata per interpretare i compiti del comparatista ( illuminanti sono le parole di Gorla al riguardo,scritte nei due volumi,già citati, “Il contratto.Problemi fondamentali trattati con il metodo comparatistico e casistico”,di metà degli anni '50 del secolo scorso,inneggianti al metodo casistico,concepito come quello che consente di “rifare o riprodurre nella nostra mente....il processo mentale che porta giudici e legislatori...a formulare astrazioni di regole e principii”).Nè,una volta postulata e riconosciuta la circolarità degli scambi tra scienza giuridica e prassi inverata ed oggetto di ricognizione da parte della comparazione giuridica,quale sia l'elemento che esercita sull'altro maggiore influenza: ciò che conta qui stabilire è che la comparazione giuridica,in quanto diretta promotrice dell'aggregazione di tutti gli elementi costitutivi di un dato ordinamento, è destinataria e protagonista del dibattito tra aspetto scientifico-teorico ed aspetto pratico-casistico.
Resta,tuttavia, da percorrere la strada della scientificità intrinseca anche del metodo casistico,dimostrandone l'attendibilità.In questa intrapresa di speciale utilità si rivela il ricorso allo studio dell'esperienza giuridica inglese,indicata come prototipo di siffatto atteggiamento mentale nonché pragmatico.
In verità,il mondo giuridico anglosassone mostra quanto sia sempre stato sentito l'interesse verso il dialogo dottrina-giurisprudenza,respingendo l'idea della separatezza tra teoria e pratica del diritto e della carenza in quest'ultima di adeguate basi scientifiche.Nel celebre caso Spiliada Maritime Corporation v Consulex Ltd del 1987 Lord Goff of Chieveley tributò gratitudine ad alcuni autori che gli erano stati d'aiuto nella redazione della sua opinione,accomunando giuristi pratici ( giudici) e teorici ( studiosi) nelle vesti di pellegrini in cammino lungo una strada infinita, alla volta di un'irraggiungibile perfezione, che conversano tra loro in modo reciprocamente gratificante.
Lo stesso filone di pensiero era stato reso esplicito agli inizi degli anni '30 del XX secolo da due memorabili saggi ascrivibili ad altrettanti autori reputati maestri della dottrina inglese.Si tratta di Pollock con il suo The science of case-law,apparso postumo nel 1961-dopo la morte dell'autore nel 1937- e di Goodhart con il suo Precedent in English and continental law del 1934.Nel primo scritto il case law venne definito come quella parte del diritto inglese formata non da atti normativi ma da pronunce giudiziali riportate in appositi repertori che seguono “servilmente” i precedenti,con il solo temperamento di evidenti finzioni (è trasparente il riferimento alla tecnica del “distinguishing” adottato come mezzo di sottrazione all'obbligo sequenziale in parola) ,anche se già dal titolo si palesa il riconoscimento della scientificità del diritto casistico,pur non immune dal rischio di dannose stratificazioni.L'altro scritto scorge una benefica idoneità del case law a creare nuove regole negli spazi lasciati vacanti dalla mancanza di precedenti (sulla esiguità di regole precedenziali nel common law inglese si era già espresso nel suo “Wyclif on English and Roman law” del 1896 Maitland, (1850-1906)),e ciò in considerazione del rapporto impari tra le sue poche regole vincolanti ed i tanti spazi bianchi che sono figli della estraneità di quell'ordinamento alla tecnica di redazione delle norme in termini generali ed astratti.Seppure frange non marginali della dottrina inglese non abbiano nel tempo mancato di esprimere riserve verso il metodo casistico ( si veda la rassegna di Baker nell'edizione del 1979 di “An introduction to English legal history) per il pericolo, che può generare, di fissità dell'apparato di regole vincolanti ( nonché per l'ambiguità e gli errori di prospettiva che possono annidarsi nei precedenti giudiziali,come notò uno dei massimi teorici della argomentazione giuridica,lo scozzese Mac Cormick -1941-2009- nel suo “Legal reasoning and legal theory del 1978),è ancora oggi del tutto prevalente l'opposto movimento di opinioni che,al contempo, individua nel case law un possibile strumento di calibro scientifico a vantaggio dell'intero sistema di common law e ragiona sui vantaggi attraverso lo stesso conseguibili in termini di stabilità ordinamentale.L'argomento che riscatta il diritto casistico dallo stigma della paventata ascientificità è stato,infine,scolpito nella sua riconducibilità metodologica alle scienze naturali,sotto il profilo della comune predilezione per il criterio di osservazione empirica della realtà a scopi predittivi degli accadimenti e delle esperienze future ,così promuovendo a regola il risultato dell'osservazione stessa .Ed infatti,la regolarità delle reazioni giurisprudenziali a certe azioni dell'uomo che cadono sotto la diretta cognizione giudiziale consente di conoscerne il trattamento nel tempo,trattamento invariabile se non in presenza del mutamento delle condizioni in presenza delle quali fu per la prima volta sancita la regola applicabile: in modo corrispondente-scrisse Pollock nell'opera da ultimo citata-l'osservazione di un fenomeno naturale conduce,in contesti costanti ed in assenza di varianti,al medesimo esito senza possibilità di sorprese,tanto da rendere superflua la rinnovazione dell'esperienza e consegnare alla storia di quella particolare branca delle scienze naturali solo il primo esperimento,in quanto i successivi esibiscono mero carattere reiterativo.
Ai fini della presente indagine riesce nitido il disegno degli apporti della comparazione giuridica,nella peculiare forma del suo esercizio attraverso il metodo casistico,alla scienza giuridica in generale:la predittività del diritto ,o quanto meno la sua prevedibilità,è requisito logicamente necessario per soddisfare l'ideale della sua certezza (Lord Eldon,pronunciandosi nel caso Sheddon v. Goodrich del 1803,affermò che è preferibile la certezza del diritto agli arrovellamenti del giudice circa il modo di apportarvi correzioni migliorative: analogo elogio della certezza fu declamato dal giudice Ashhurst nel caso Goodtitle v Otway nei seguenti termini:"And perhaps it is of less importance how the law is determined,than that it should be determined and certain”).
Non sembri paradossale né destabilizzante l'ipotesi che,mutate le circostanze ,le Corti inglesi siano indotte a cambiare la regola precedente,accedendo alle disparate formule del citato “distinguishing”,dell'"overruling” puro,del "prospective overruling” ( al riguardo si può rinviare al mio “Il valore del precedente tra tradizione continentale e common law:due sistemi ancora distanti?” del 2008).Perchè,come insegna Pollock,essendo scopo del diritto fare giustizia “ between man and man”,non può cedersi alla tentazione della immutabilità della regola precedente per sole ragioni di “elegantia iuris”,a scapito delle esigenze del caso concreto ( ed in questa controllata mobilità della regola giurisprudenziale si colloca l'elemento differenziale rispetto alle regola sperimentale propria delle scienze naturali).
Una prima conclusione si può trarre relativamente al ruolo svolto dal case law nel complesso ordito del sistema giuridico inglese: esso continua a prosperare, senza tema di eclissarsi, occupando tutti gli spazi consentiti dalla mancanza di un'opera codificatrice,ma senza per questo indulgere mai alla seduzione di compiere ultrattivamente la propria funzione di law making quando sulla materia a proposito della quale le Corti sono chiamate a giudicare il Parlamento abbia legiferato,di cui queste sono tenute a rispettare la sovranità in aderenza alla teoria costituzionalistica elaborata da Dicey (1835-1922) ed illustrata nelle varie edizioni,succedutesi nel tempo,di “An introduction to the study of the law of the Constitution”.
Se la posizione del common law inglese appare,nella logica del tributo che la giuscomparazione è in grado di onorare nei confronti della generale scienza giuridica,di lampante ed imponente rilievo per via delle interconnessione tra prassi e teoria,non può negarsi che anche dal versante dei contributi scientifici dei comparatisti italiani esposti nei paragrafi precedenti i risultati siano sicuri e convalidati dall'estensione dei riferimenti alle esperienze straniere circolanti in tutti i formanti,come dimostrano sia gli studi di diritto interno, che ormai non rinunciano allo sguardo profondo oltre i confini nazionali,sia l'avvalimento molto frequente ed utilissimo da parte della giurisprudenza degli “exempla” esterni ( diffusi in modo pregnante nelle pronunce di legittimità ),sia il recepimento da parte del Legislatore di modelli normativi stranieri invalsi in materia di speciale rilevanza sociale.Nè impediente ,dal punto di vista giurisprudenziale,si è in sostanza dimostrata la disposizione dell'art.118 comma 3 disp.att. cod.proc.civ. (che,come spiega Monteleone (1943) nel bel saggio del 2007 “Gaetano Filangieri e la motivazione delle sentenze”,rinviene un suo antecedente nella Prammatica del 27 settembre 1774 di Ferdinando IV di Borbone,confermata nel dispaccio reale del 25 novembre dello stesso anno che ammonisce i Giudici a non fondare le proprie decisioni sulle nude autorità dei dottori,che hanno purtroppo con le loro opinioni o alterato,o reso incerto ed arbitrario il diritto”) secondo cui “In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici”.Ed invero,e per fortuna,la secca e rigorosa previsione viene costantemente elusa mediante il meritorio stratagemma delle citazioni impersonali o dei richiami delle prevalenti o maggiormente qualificate correnti di pensiero,da cui originano provvidenziali flussi comunicativi ed informativi tra dottrina e giurisprudenza ( tanto fitti che icasticamente Castronovo (1946) nella sua “Eclissi del diritto civile” del 2016 contempla l'evenienza della giurisprudenza che si fa dottrina).Flussi che vengono alimentati proprio dallo sguardo lungo lanciato verso esperienze ordinamentali diverse,soppesate in tutti i loro formanti,a partire da quelle comunitarie e dei diritti umani.In questo gioco di interazioni ed integrazioni ordinamentali,che ha nella comparazione giuridica la propria genitrice,si è perfettamente innestata la giurisprudenza inglese che,nel corso di una ormai più che ventennale stagione,che si auspica non venga bruscamente interrotta da improvvide pulsioni Brexiteer,fa del ricorso agli altri sistemi europei ( si veda l'opinione di Lord Goff nel caso White v Jones del 1995,infarcita di mutui dai diritti francese e tedesco) ed alla giurisprudenza comunitaria ( si veda la leading opinion di Lord Nicholls of Birkenhead nel caso del 2001 White and The Motor Insurance Bureau,deciso sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di interpretazione delle eccezioni racchiuse nelle direttive poi trasposte negli ordinamenti degli Stati membri) un vero e proprio “common place”,con evidenti effetti sul terreno della ri-edificazione di un “ius commune aeropeum”.
Al termine di questo viaggio nel multiforme universo comparatistico è lecito consolidare la fiducia in una visione infrazionabile dell'intero fenomeno giuridico ,nella sua componente scolare ed in quella casistica.E questo notevole merito va riconosciuto ai cultori della nostra materia,giovane ma ormai saldamente immersa nelle acque degli ordinamenti territoriali.
Sul punto dell'unitarietà della scienza giuridica ( cui coopera per le ragioni appena enunciate in maniera brillante il diritto comparato ) le parole di Capogrossi (1889-1956),scritte nell'opera già citata,costituiscono un legato esemplare:”essa è incapace di diventare o una scienza puramente logica o una scienza puramente storica,ed insieme incapace di escludere interamente l'una e l'altra esigenza,incapace di diventare pura conoscenza:essa è la rappresentazione giuridica della singolarità dell'esperienza giuridica che serve di strumento a tutte le forme di esperienze e realizza una esperienza solo nella quale l'individuo trova la via per realizzare il suo destino”.
6. Le scuole civil-comparatistiche italiane e la loro influenza culturale.
La veloce rassegna, che nelle parti precedenti si è effettuata, della traiettoria storica della giuscomparazione italiana nella sua anima civilistica, anche nelle sue relazioni con le omologhe comunità straniere, dovrebbe servire a delineare un ritratto policromatico di questa articolazione della scienza giuridica .Il diritto comparato nasce in Italia,malgrado le illustri origini Vichiane ( e la prosecuzione nelle lezioni di Cuoco) ed Amariane,circondato da soffuse perplessità e da non nascoste prese di distanza dottrinarie che prendono di mira,in molti casi solo implicitamente,la pretesa di espandere il perimetro della ricerca oltre le rassicuranti e capienti mura domestiche e l'incerta identità scientifica ( a lungo ha suscitato compiacente ilarità lo stantio adagio che dipingeva i comparatisti come aspiranti docenti di diritto interno che ,avendo mancato la cattedra,cercavano asilo accademico presso discipline esotiche) di chi si accingeva agli studi comparatistici.Due concatenati e felici gruppi di circostanze rovesciarono il tavolo dalla seconda metà del XX secolo in poi.In primo luogo,l'accreditamento indiscusso di opere incentrate sul chiaro tratteggiamento dei profili metodologici della materia (a quelli di David (1906-1990) e Costantinescu ( 1939),già citati,vanno aggiunti esemplificativamente i nomi di Zweigert (1911-1996), Kotz (1935) , Henri Mazeaud ( 1900-1993).Andrè Tunc ( 1917-1999))ed il rigoroso tracciamento della sua natura scientifica non poterono lasciare insensibili le generazioni di giuristi interni le cui acute menti si andavano predisponendo all'introiezione di nuovi modelli giuridici,nella ragionevole previsione che a questa evenienza avrebbero corrisposto iniezioni di nuova linfa nel diritto italiano,affrancandolo dalle secche concettualistiche imperanti: grandi studiosi di diritto interno come Ascarelli (1903-1959),Sarfatti ,Rotondi ( 1900-1984) recepirono il messaggio di novità già prima della tragedia bellica e si attrezzarono anche didatticamente istituendo corsi universitari della materia.E già alla fine degli anni 1930 ( esattamente nel 1927) vedeva la luce,ad opera di Salvatore Galgano ( 1887-1965) l'Annuario di diritto comparato e di studi legislativi,edito fino al 1972 e ripreso nel 2010 , con bellissime pagine introduttive di Gabriele Crespi Reghizzi ( 1941) ed Antonino Procida Mirabelli di Lauro (1957) ,animato da un folto Comitato di redazione.
La seconda,altrettanto decisiva,causa di irrobustimento del prestigio e della capacità di permeazione della giuscomparazione può individuarsi nell'esempio proveniente dai due padri fondatori del diritto comparato moderno in Italia,Gino Gorla e Rodolfo Sacco i quali,quasi a smentire le maldicenze sul calibro scientifico degli studiosi disciplinari, optarono,da Professori ordinari di diritto civile,per la cattedra comparatistica,allora pressocchè misconosciuta nei piani di studio uiniversitari ed ignota,se non avversata, alla burocrazia ministeriale.Ed alla coraggiosa opzione si accompagnò e seguì una prodigiosa produzione scientifica,nonchè il sempre più profondo ingresso italiano nell'accademia comparatistica internazionale (l' International Academy of Comparative Law, che oggi conta un discreto numero di docenti italiani tra i membri titolari nominati per cooptazione ) , la costituzione dell'Associazione Italiana di diritto comparato,la fruttuosa alleanza culturale con qualificati studiosi di altre discipline quali Verrucoli e Cappelletti (1927-2004).Tutto questo fervore,cui si unì il crescente e plateale riconoscimento del prestigio degli studiosi italiani nell'arena mondiale,condusse verso porti sicuri la giuscomparazione,che vide fiorire nuovi intelletti disseminati lungo lo stivale,dei quali non è possibile adesso la puntuale menzione nominativa ovvero per proprietà di interessi e di produzione.Oggi la schiera dei comparatisti,civilisti e pubblicisti,italiani e delle Scuole e dei Maestri da cui germinano sempre più numerosi e sempre più vivaci allievi è ampia,competente,variegata negli interessi,ascoltata in tutto il mondo della scienza giuridica,diramata geograficamente,presente in terre straniere,produttrice di trattati,manuali,volumi che risentono dell'evoluzione del pensiero ma fedeli nella passione verso il comune e risalente ceppo scolare,portatrice di un orgoglioso senso di appartenenza scientifica.Ed è forse tempo che ,ad onta di ancora esistenti resilienze,venga finalmente adottata,anche nei curricoli universitari ,la dizione unificata ed unitaria della materia,ribattezzandola a tutto tondo come “diritto comparato” senza aggettivazioni areali,in omaggio all'adesione ad un metodo ed a scopi omogenei ,con l'avvaloramento della tradizione mondiale.In questo senso non vanno accolti con favore i ricorrenti tentativi di accrescere del fregio della parola “ comparato” pressocchè ogni diciplina di diritto interno che,pur povera della necessaria formazione metodologica,si inerpichi sugli impervi (quanto sostanzialmente improduttivi di pregevoli risultati scientifici) cammini della occasionale conoscenza del diritto straniero.E tutto ciò per rispetto di un autonomo plesso culturale che ha avuto la capacità di integrarsi perfettamente e proficuamente nell'area vasta della scienza giuridica.
Paola Filippi
Sommario: 1. Remaquillage dell’articolo 236 bis legge fallimentare, abrogazione del falso sulla fattibilità e difetto di delega. - 2. Genesi della fattispecie incriminatrice. - 3. L’oggetto della tutela e l’autore del reato. - 4. Oggetto della falsità - 5. La condotta.
1. Remaquillage dell’articolo 236 bis legge fallimentare, abrogazione del falso sulla fattibilità e difetto di delega.
Il reato di falsità in relazioni e attestazioni, descritto all’articolo 236 bis della legge fallimentare (in vigore sino al 14 agosto 2020), è collocato ora all’articolo 342 del Codice della crisi (in vigore dal 15 agosto 2020), le condotte sanzionate sono quelle originarie salvo qualche remaquillage formale, e …anche non, come si dirà.
Sono stati modificati gli articoli ai quali la norma rinvia -remaquillage formale e necessario- in ragione della nuova collocazione della fattispecie e delle modifiche introdotte con la riforma ex d.lgs. n. 14/2019 in tema di composizione della crisi.
Il falso del professionista, nelle possibili declinazioni omissive e commissive, è dunque diverso per il contesto procedimentale in cui la relazione si inserisce. Nulla sotto questo profilo è cambiato.
E’ stato introdotto ex novo l’inciso “alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.
L’oggetto della falsità è stato dunque ristretto - remaquillage non formale, forse necessario, non delegato-
La legge n.155/2017 non conteneva delega a operare modifiche in ordine al reato di falsità dell’attestatore a riguardo; lo schema licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre 2017 non prevedeva detto inciso, aggiunto successivamente, in sede di revisione del testo, ai fini della presentazione per l’approvazione al Consiglio dei Ministri.
Come si legge nella Relazione ministeriale “attraverso l’introduzione dell’art. 342 c.c.i., viene descritta meglio la condotta incriminata, essendo precisato il contenuto delle informazioni rilevanti la cui omissione costituisce reato”.
L’effetto dell’introduzione dell’inciso è quello dell’abrogazione delle fattispecie incriminatrici del falso integrate da attestazione sulla fattibilità del piano.
2. Genesi della fattispecie incriminatrice.
Il falso in attestazioni è stato introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. l), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, l’obiettivo era quello di assicurare una specifica tutela penale alle procedure di composizione della crisi introdotte con il d.lgs. n. 5/06, ivi compreso il riformato concordato preventivo[1]. L'art. 10 del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015 n. 132, ha aggiunto il rinvio al 182 septies con riguardo alla relazione funzionale ad accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria.
La fattispecie penale era e resta generica, senza delega non poteva essere diversamente, il secco rinvio agli strumenti di composizione della crisi rende infatti difficile per l’interprete l’esatta individuazione della condotta in termini di individuazione della rappresentazione difforme dal vero penalmente rilevante.
3. L’oggetto della tutela e l’autore del reato.
Il bene-interesse del falso del professionista attestatore è il corretto accesso alle procedure di composizione della crisi diverse dalla liquidazione, l’affidamento dei creditori e dunque delle posizioni creditorie coinvolte nella crisi.
L’autore non può che essere il professionista, soggetto privato indipendente, ovvero non legato ai soggetti coinvolti da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l'indipendenza di giudizio.
Il codice della crisi lo definisce all’art. 2 lett. o) come il professionista incaricato dal debitore nell'ambito di una delle procedure di regolazione della crisi di impresa che soddisfi congiuntamente i seguenti requisiti: 1) essere iscritto all'albo dei gestori della crisi e insolvenza delle imprese, nonché nel registro dei revisori legali; 2) essere in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 del codice civile; 3) non essere legato all'impresa o ad altre parti interessate all'operazione di regolazione della crisi da rapporti di natura personale o professionale; il professionista ed i soggetti con i quali è eventualmente unito in associazione professionale non devono aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, né essere stati membri degli organi di amministrazione o controllo dell'impresa, né aver posseduto partecipazioni in essa.
4. Oggetto della falsità.
L’oggetto materiale consiste in falsità nella stesura delle relazioni o attestazioni che il professionista è chiamato a redigere nell’ambito delle procedure di cui agli articoli 56, comma 4, 57, comma 4, 58, commi 1 e 2, 62, comma 2, lettera d), 87, commi 2 e 3, 88, commi 1 e 2, 90, comma 5, 100, commi 1 e 2.
L’articolo 56 si riferisce agli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, trattasi di strumento negoziale stragiudiziale che prevede che l'imprenditore in stato di crisi o di insolvenza possa predisporre un piano, rivolto ai creditori, che sia idoneo a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria. Il piano deve avere data certa e deve indicare: a) la situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell'impresa; b) le principali cause della crisi; c) le strategie d'intervento e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; d) i creditori e l'ammontare dei crediti dei quali si propone la rinegoziazione e lo stato delle eventuali trattative; d) gli apporti di finanza nuova; e) i tempi delle azioni da compiersi, che consentono di verificarne la realizzazione, nonché gli strumenti da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi e la situazione in atto.
La relazione, che ne condiziona l’ammissione deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità economica e giuridica del piano.
L’articolo 57 si riferisce agli accordi di ristrutturazione dei debiti, trattasi anche in questo caso di strumento negoziale stragiudiziale. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti possono essere conclusi dall'imprenditore, anche non commerciale e diverso dall'imprenditore minore, in stato di crisi o di insolvenza, con i creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti. Gli accordi devono contenere l'indicazione degli elementi del piano economico-finanziario che ne consentono l'esecuzione.
La relazione che ne condiziona l’ammissibilità deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità economica e giuridica del piano e altresì attestazione dell'idoneità dell'accordo e del piano ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei termini.
L’articolo 58 riguarda la relazione da allegare in caso di rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano.
L’articolo 62 si riferisce alla convenzione di moratoria. La convenzione di moratoria è uno strumento stragiudiziale che si conclude tra un imprenditore, anche non commerciale, e i suoi creditori, diretta a disciplinare, in via provvisoria, gli effetti della crisi e avente a oggetto la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile. La relazione in questo caso deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali, dell'idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi, e della ricorrenza delle condizioni richieste per l’ammissione.
L’articolo 87 si riferisce al piano di concordato da allegare insieme alla proposta di concordato. Il piano deve indicare: a) le cause della crisi; b) la definizione delle strategie d'intervento e, in caso di concordato in continuità, i tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; c) gli apporti di finanza nuova, se previsti; d) le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero; e) i tempi delle attività da compiersi, nonché le iniziative da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi pianificati e quelli raggiunti; f) in caso di continuità aziendale, le ragioni per le quali questa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;) ove sia prevista la prosecuzione dell'attività d'impresa in forma diretta, un'analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.
La relazione da allegare deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano. Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano. In caso di concordato in continuità la relazione del professionista indipendente deve attestare altresì che la prosecuzione dell'attività d'impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La relazione può anche contenere attestazione che la proposta di concordato del debitore assicuri il pagamento di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari nel caso si voglia evitare la presentazione da parte dei creditori delle proposte concorrenti di cui all’articolo 90.
L’articolo 88 si riferisce alla relazione da allegare al piano di concordato in caso si preveda un trattamento differenziato dei crediti tributari e contributivi. La relazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti fiscali e previdenziali, deve contenere attestazione della convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale.
L’articolo 90 riguarda le proposte concorrenti che possono essere presentate dai creditori non oltre trenta giorni prima della data iniziale stabilita per la votazione dei creditori sulla proposta di concorso del debitore.
L’articolo 100 riguarda la relazione che il debitore deve allegare per ottenere la autorizzazione al pagamento di crediti pregressi, essa deve contenere l’attestazione che trattasi di pagamenti essenziali per la prosecuzione dell'attività di cui è prevista la continuazione.
5. La condotta.
La condotta si realizza attraverso l’esposizione di informazioni false o omissione di informazioni rilevanti, l’oggetto materiale dell’esposizione di informazioni false riguarda, per effetto della precisazione operata con il d.lgs. n. 14/2019, “la veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.
L’inciso è affetto da difetto di delega, in bonam partem, in quanto abrogativo del falso ricadente in attestazioni sulla fattibilità.
L’esposizione di informazioni false nell’attestazione della veridicità dei dati aziendali è integrata dall’attestazione di veridicità di dati contabili non corrispondenti al vero.
L’omessa esposizione di informazioni rilevanti è integrata dal mancato inserimento nella relazione di dati relativi all’impresa che, se conosciuti avrebbero condotto diversa determinazione il tribunale e i creditori.
La nozione di rilevanza continua ad essere riferita esclusivamente alle informazioni omesse; questa è la conclusione alla quale si giunge in base a interpretazione letterale della norma per la collocazione dell’aggettivo “rilevanti”; sul punto la dottrina non è univoca e, secondo orientamento minoritario, sarebbe ingiustificato ritenere la nozione di rilevanza limitata all’omissione e non estesa anche alle informazioni false, non si è formata giurisprudenza a riguardo[2].
In base ad una lettura sistematica della fattispecie penale e alla luce dell’oggetto della tutela, la rilevanza dell’informazione omessa è nozione diversa da quella elaborata in materia di falso in quanto, come si è detto, nel caso della falsità dell’attestatore l’omissione è rilevante penalmente se specificamente diretta a manipolare o a nascondere un dato che, se conosciuto, deporrebbe per una conseguente non ammissione alla procedura.
La lettura della norma che tenga conto della finalità della relazione consente di affermare che l’informazione omessa è rilevante quando, se conosciuta, in termini di id quod plerumque accidit, avrebbe indotto i creditori a non accettarla e il tribunale a non ammetterla, perché inidonea al conseguimento della causa giuridica o perché in violazione di norme imperative come l’art. 2740 c.c..
La rilevanza dell’omissione coincide con la rilevanza penale della condotta.
Per utilizzare la nozione elaborata dalle Sezioni Unite, per il reato di false comunicazioni sociali, dopo la novella del 2015, deve concludersi che “la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione”.
Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite in materia di false comunicazioni sociali il reato è integrato “con riguardo all’esposizione o alla omissione di fatti oggetto di 'valutazione', se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni" (Sez. Unite sentenza n. 22474/2016).
In altri termini, è sanzionata la condotta del professionista che redige una relazione attestativa nella quale, venendo meno agli obblighi di veridicità ed esaustività, attesti come veri dati aziendali non veri o non informi dell’esistenza di eventuali operazione poste in essere in violazione di norme imperative (prima tra tutte la violazione dell’art. 2740 c.c.) ovvero ometta di informare in ordine a eventuali operazioni che rendono irrealizzabile la causa giuridica del modello di composizione e così giuridicamente non fattibile il piano, l’accordo o il concordato[3].
Sono previste due circostanze aggravanti speciali quella del danno ai creditori e quella del profitto ingiusto.
Dette circostanze confermano la natura di reato di condotta del falso del professionista e l’irrilevanza ai fini della configurabilità del reato degli effetti procedurali della falsa attestazione.
In base alla casistica elaborata in sede di apertura delle procedure di composizione della crisi sono da ritenere informazioni che necessariamente devono essere fornite dall’attestatore e dunque devono essere veritiere, quelle che riguardano l’attivo, in uno con i criteri utilizzati per la valutazione, e dunque i dati relativi alla natura, alla data di acquisto, al grado di obsolescenza e all’effettiva disponibilità dei beni, quelle che riguardano eventuali vincoli. Il dato dell’attivo per crediti commerciali necessita di informazioni sull’esigibilità, recuperabilità dei crediti e solvibilità dei debitori. Il dato della redditività dell’impresa richiede informazioni in ordine alla perduranza dei contratti essenziali per la prosecuzione dell’attività.
Il reato è punito a titolo di dolo generico nella sua fattispecie semplice, ed a titolo di dolo specifico in quella aggravata del secondo comma. [4]
Ai fini della penale rilevanza della falsa attestazione occorre dunque la consapevolezza e l’intenzionalità in ordine alla non veridicità del dato e con riguardo all’omessa informazione, la consapevolezza della rilevanza.[5] La consapevolezza va valutata in relazione al grado di esigibilità di diligenza e perizia da valutarsi in ragione non solo dei requisiti di professionalità richiesti ma anche dell’oggetto dell’incarico conferito che specificamente richiede al professionista attestazione dal contenuto di cui agli articoli ai quali la fattispecie incriminatrice fa rinvio.[6]
Trattasi di reato proprio del professionista ma a concorso eventuale del debitore o dei professionisti che assistono il debitore, concorso che può realizzarsi nella forma dell’istigazione o in quella del concorso morale.
Il professionista agisce poi da autore mediato nel caso in cui il debitore gli consegni ai fini dell’elaborazione dell’attestazione dati artatamente falsificati, e la falsificazione non sia riconoscibile.
Il reato si consuma con il deposito presso la cancelleria del tribunale della relazione.
La genericità della fattispecie e le difficoltà interpretative hanno comunque determinato un’assai scarsa applicazione della fattispecie nessuna sentenza di condanna è stata ancora sottoposta al sindacato di legittimità, l’introduzione del reato di false attestazione è comunque rapidamente divenuto un significativo deterrente per i professionisti attestatori dal redigere attestazioni false o anche semplicemente sciatte sotto il profilo informativo[7].
[1] Bricchetti, Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare in diritto penale contemporaneo fasc. 7/8 2019, 93; Fontana, La disciplina penale, Il nuovo sovraindebitamanento, Bologna 2018, 273; Gambardella, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, in Diritto penale contemporaneo, 27 novembre 2018; Sandrelli, Le esenzioni dai reati di bancarotta e il reato di falso in attestazioni e relazioni, Il Fallimento 7/2013, 789; Bricchetti, Soluzioni concordate delle crisi di impresa e rischio penale dell’imprenditore, Le Societa` 6/2013 689, Bertacchini, Crisi d’impresa tra contraddizioni e giuridica “vaghezza”. Riflessioni a margine del c.d. Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) contratto e impresa 2/2013, 322; Fiore S., Nuove funzioni e vecchie questioni per il diritto penale nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, Il Fallimento 9/2013 1193; Borsari, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate alle crisi d’impresa. Una primissima lettura, in Diritto penale contemporaneo, 2013, 1, 84 ss.; Tetto, La (ritrovata) indipendenza del professionista attentatore nelle soluzioni concordate della crisi di impresa, in questa Rivista, 2013, 675 ss; Mucciarelli, Il ruolo dell’attestatore e la nuova fattispecie penale di ‘‘Falso in attestazioni e relazioni’’, pubblicato il 3 agosto 2012 sul sito www.ilfallimentarista.it.; Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017.
[2] Tetto La (ritrovata) indipendenza del professionista attestatore nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, Fallimento 6/2013, 688; Bertacchini, Crisi d’impresa tra contraddizioni e giuridica “vaghezza”. Riflessioni a margine del c.d. Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) Contratto e Impresa 2/2013, 322. Ai fini della valutazione dell’attività dell’attestatore un rilievo particolare ha assunto il documento redatto, in data 6 giugno 2014, a cura dell’AIDEA, Accademia Italiana Di Economia Aziendale, dell’ IRDCEC, Istituto di ricerca dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, dell’ANDAF, Associazione Nazionale Direttori Amministrativi e Finanziari; dell’APRI, Associazione Professionisti Risanamento Imprese; dell’ OCRI, Osservatorio Crisi dal titolo “Principi di attestazione dei piani di risanamento”
[3] Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017
[4] Brichetti – Pistorelli, Operazioni di risanamento, professionisti nel mirino, in Guida al Diritto, 2012, n. 29, pag. 45 e ss; Borsari, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate delle crisi d’impresa, cit., pag. 97. V. Demarchi Albengo, La fattispecie incriminatrice di cui al nuovo articolo 236 bis legge fall.: la responsabilità penale dell’attestatore, in Il Caso.it, doc. 325/2012, pag. 6.
[5] Bruno – Caletti, L’art. 236 bis l.fall.: il reato di falso in attestazioni e relazioni, in A. CADOPPI – Canestrari – Manna – Papa, Diritto Penale dell’Economia, Torino, 2017, II, pag. 2260; D’Alessandro, Il delitto di false attestazioni e relazioni, tra incerte formulazioni legislative e difficili soluzioni esegetiche, cit., pag. 552.
[6] Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017
[7] Il reato di falso in attestazioni e relazioni: un delitto fantasma? Jannuzzi-Regi in diritto penale contemporaneo n. 5/17
di Bruno Giordano
Tre anni fa veniva approvata la legge 199 per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro. Migliaia di processi con centinaia di arresti in tutta Italia, sfruttamento economico e umano, azzeramento di qualsiasi diritto sociale, condizioni abitative mortificanti, decine di aziende sottoposte al controllo giudiziario, hanno fatto emergere un paese in cui la regola è il lavoro nero. Un quadro criminoso, sociale ed economico ben più grave ed esteso di quello che si pensava mille giorni fa: non soltanto lo sfruttamento di immigrati nei campi ma di tutti e in tutti i settori in cui il bisogno fa lievitare l’offerta di manodopera a qualsiasi prezzo: edilizia, call center, cantieri navali, pesca, sanità, trasporti, servizi; da Ragusa a Monfalcone, italiani e stranieri, uomini e donne, giovani e anziani, e chiunque debba accettare in silenzio qualsiasi paga.
Il silenzio è la prima vera piaga purulenta. Il bisogno diventa rassegnazione, omertà, ma non delazione; pochissime le denunce dei lavoratori che non riescono a ribellarsi. Per tutelare le vittime occorre innanzi tutto garantire il patrocinio a spese dello Stato, come già avviene per le vittime di reati sessuali, e una serie di benefici anche per chi non ha bisogno di un permesso di soggiorno.
Occorre garantire anche le imprese sane. Chi sfrutta il lavoro non sostiene nessun onere sociale o costo per la sicurezza, non produce di più ma abbassa il costo del lavoro, entra nel mercato con beni o servizi meno cari, usando la dignità dei lavoratori, la forma più cattiva di concorrenza sleale. I costi più bassi sono il frutto dell’abuso dei diritti sociali dei lavoratori sfruttati che ricevono comunque i servizi sanitari, amministrativi, previdenziali, assicurativi, giudiziari. Tutto il lavoro grigio o nero, e a maggior ragione quello sfruttato, diventa spesa pubblica sostenuta da tutti noi, e soprattutto dalle imprese sane che così pagano un doppio conto, nel mercato per la slealtà del concorrente sfruttatore e al fisco per l’aumento della spesa pubblica. Lo sfruttamento non è solo un reato ma la violazione dell’etica del mercato del lavoro e della finanza pubblica. Il mondo delle imprese sane, quindi, dovrebbe essere il primo a chiedere un’applicazione a tappeto della legge 199. Questo è il vero rating di legalità. Non mera pubblicità ma concreta responsabilità sociale.
Soprattutto in agricoltura - il settore primario più foraggiato da sovvenzioni e fondi europei e più gratificato dalla leva fiscale - taluni si giustificano per via dei prezzi troppo bassi imposti dall’oligarchia della grande distribuzione organizzata, che scarica sui produttori ricavi inferiori alle aspettative costringendoli alla riduzione dei salari, ben al di sotto di quanto previsto nei contratti collettivi, anche provinciali. Un’autoassoluzione di coscienza che fa tornare indietro le lancette a quando era il mercato a governare i diritti, ma la nostra Costituzione economica e sociale non tutela i più forti che non sanno resistere a chi è ancora più forte, ma innanzi tutto i più deboli. Il diritto e i diritti governano il mercato, non il contrario.
Soprattutto in agricoltura il caporalato del terzo millennio si insinua tra le pieghe del contratto di somministrazione usato per dare una formale copertura a chi è in grado di reclutare lavoratori stagionali, ben consapevoli dell'obbedienza e rispettoso silenzio che devono all’intermediario dell’agenzia di somministrazione, salvo perdere il lavoro per tutta la stagione.
Il controllo e la vigilanza sulle agenzie è svolto dal Ministero del lavoro che può procedere anche alla revoca dell'autorizzazione, e da parte delle Regioni che possono revocare l’accreditamento delle agenzie. Ma questo non avviene.
Emerge anche un vero e proprio caporalato urbano. Lavoratori di giornata vengono reclutati ogni mattina nelle periferie delle città per l'edilizia, trasporti, facchinaggio, lavori di manutenzione, servizi a domicilio. Insomma dove è più difficile, ma non impossibile, eseguire i controlli. Le zone franche dello sfruttamento sono quelle in cui non arrivano i controlli, che necessitano di interventi sul territorio con una visione complessiva di vari fattori: immigrazione, sicurezza del lavoro, presenza sul territorio, criminalità organizzata. I soggetti incaricati dell’attività di vigilanza (Ispettorato nazionale del lavoro,con Inps e Inail, ASL, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato) sono troppi per consentire la necessaria attività di coordinamento, manca un’unica banca dati e un’Agenzia unica che concentri tutte le forze e le competenze in materia. Contro ci sono resistenze, non argomenti.
Non è solo lotta al caporalato, ma scelta di politica economica e sociale obbligata dall’art. 41 della Costituzione. Ci vuole ancora coraggio, e volontà.
Uno dei problemi endemici dalle nostre parti è rappresentato dalle zanzare. Ricordo da sempre l’eterna lotta con quel fastidioso ronzio notturno che non riesci a superare, che ti costringe o a soffocare sotto le lenzuola durante le nostre caldissime estati oppure ad iniziare improbabili e tragicomiche cacce notturne, armati di improvvisate armi i cui segni si vedranno la mattina successiva sulle incolpevoli mura della stanza da letto.
Ho un vivido ricordo della mia infanzia, una passeggiata fatta con i miei genitori, per fortuna in auto, in una zona di mare periferica; ad un certo punto l’auto venne letteralmente sopraffatta da una nuvola di zanzare che si assieparono intorno ai fanali accesi dell’auto; per fortuna i finestrini erano tutti chiusi, salvo il deflettore dello sportello anteriore (una seicento vecchio modello) da cui sporgeva la mano di mio padre che in breve tempo venne assalita dagli insetti.
Per fortuna l’opera di disinfestazione ha evitato tali fenomeni così evidenti, almeno nelle città, ma anche la natura si è evoluta ed ha inventato le zanzare tigre che lavorano h.24, non più al solo tramonto come ai bei vecchi tempi.
Questi ricordi mi sono recentemente tornati in mente per una vicenda giudiziaria, una delle tante che costellano i nostri tribunali ogni giorno.
I Carabinieri vengono chiamati un giorno dal Pronto Soccorso di un ospedale in quanto era stata da poco ricoverata una donna con una ferita d’arma da fuco alla gola.
Esiste, per fortuna, in tal senso un preciso obbligo di denuncia per i sanitari.
Accorsi sul luogo i Carabinieri non hanno potuto interrogare la donna in quanto sottoposta ad un delicato intervento chirurgico, ma trovano sul luogo il marito, una loro vecchia conoscenza, mille volte arrestato per vari episodi di spaccio di droga, furtarelli, ricettazioni. In alcuni casi coinvolto in qualche associazione criminale del luogo piuttosto pericolosa, uscito sempre indenne da queste accuse probabilmente perché era uno dei pesci più piccoli, l’ultimissima ruota del carro.
L’uomo consegna spontaneamente un borsetto all’interno del quale viene rinvenuta una pistola, risultata rubata in precedenza, da cui era stato esploso il colpo che aveva ferito la donna.
L’uomo viene tratto in arresto. La donna supera indenne l’operazione.
Le indagini appurano che nessun contrasto esisteva tra i due coniugi; benché pregiudicato, l’uomo non era considerato avere un’indole violenta, non aveva precedenti per lesioni, rissa, o maltrattamenti nei confronti della moglie o dei figli.
Atteso che era considerato un pesce piccolo gli investigatori giungono ad ipotizzare che gli fosse stata consegnata in custodia la pistola da parte di qualche esponente di rilievo di una qualche associazione.
Inspiegabile, però, il ferimento della donna che, ripresasi per fortuna dall’intervento, non solo non ha sporto denuncia ma ha anche inviato al tribunale una missiva dichiarando di essere disponibile a riprendersi il marito in casa.
Missiva, invero, dal tenore vagamente minaccioso nei confronti del coniuge, tanto da essere considerata dal difensore di questi un ottimo deterrente per evitare nuovi similari episodi.
In occasione dell’interrogatorio di garanzia, a sorpresa, l’uomo ha deciso di fornire la sua versione dei fatti. Normalmente quelli che hanno già una certa esperienza del mondo criminale, della giustizia e dintorni, insomma i laureati in criminologia attiva, avendo almeno tre o più esperienze carcerarie, non parlano mai davanti ai giudici.
Nel nostro ordinamento, infatti, la parola dell’imputato vale processualmente poco, avendo egli “diritto” di non dire la verità, non dovendo prestare, infatti, alcun giuramento preventivo, ma quanto egli dice innanzi al giudice può essere sempre utilizzato contro di lui.
Il consiglio che spesso e volentieri i difensori danno, pertanto, specie durante le prime fasi delle indagini, è quello di non parlare.
A sorpresa, pertanto, il nostro indagato ha fornito la sua versione dei fatti, ovviamente nella sua lingua madre che qui si traduce:
“Dottò! È stato un incidente. Io avevo in mano il borsello con all’interno la pistola. Stavo impazzendo per il caldo e per una benedetta zanzara che aveva ronzato sulle nostre cape tutta la notte senza farci chiudere occhio. L’ho vista sul muro e non ci ho pensato su e gli ho tirato contro il borsello. Quello ha sbattuto sul muro ed è partito il colpo di pistola che ha pigliato quella sventurata e santa donna di mia moglie. Dottò, sono dispiaciutissimo!”
Sul fondo del borsello, in effetti, è stato ritrovato il buco provocato dal proiettile.
Non il cadavere della zanzara molesta.
FB 13 settembre 2013
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