Memoria oggi: impegno di coerenza, oltre la conoscenza
di Noemi Di Segni
Celebriamo il giorno della memoria da venti anni, sulla base della l. 211/2000 Moltissime sono le iniziative che si concentrano in questo periodo, e ciascuna di esse merita la massima attenzione e partecipazione, riconoscendo a chi le promuove e vi presenzia la consapevolezza ed il sentimento della loro doverosità.
Se fino a qualche anno fa il sentimento portante di queste celebrazioni era fare memoria intesa come narrazione di quanto avvenuto nella shoah, per “conoscere pur senza comprendere” usando le parole di Primo Levi, per omaggiare il ricordo dei sei milioni di ebrei, sinti, rom, omosessuali e oppositori politici che sono stati massacrati e sottoposti a torture per le quali nessun dizionario umano aveva termini, e nessun codice pene associabili, per realizzare che un’intera umanità capace di creare bene non è stata generata, oggi il sentimento prevalente è quello dello smarrimento e del dubbio sul presente.
Smarrimento perché ci si chiede se quanto avviene attorno e tra noi debba essere o meno letto come segnale di allarme o debba essere considerato come “tasso naturale” di mancata etica o di antigiuridicità di atteggiamenti, di singoli, di alcuni riferimenti istituzionali o di intere nazioni, se qualcosa di allora si sta rivivendo. Espressioni di odio razziale (o razziste) amplificate dalla rete e condivise con un solo click, piazze virtuali gremite di slogan e incitamento ai totalitarismi, intitolazione di strade a figure che rappresentano un passato mai sopito, senza un ripensamento neanche all’esito del macello di oltre cinquanta milioni di vite, glorificazione del proprio passato per fortificare un presente nazionalizzato non solo nei simboli ma nelle pretese giuridiche e nelle disparità. Espressioni di attenzione e di ascolto sulla vicenda della shoah, cerimonie di conferimento di onorificenze ai sopravvissuti per poi esprimere concetti di discriminazione e di odio altrove e verso Israele, o al contrario una determinata difesa dello Stato di Israele e dell’antisemitismo di matrice terroristica, ma anche la sottovalutazione della radicalizzazione di destra.
Smarrimento per la fatica di conciliare il cuore e la mente che vanno al passato con il massimo rispetto verso le decisioni della magistratura, quando delitti efferati vengono qualificati come mero atto di goliardia o di violenza ordinaria senza averne colto quel lato oscuro dell’odio antisemita che, forse, solo chi l’ha subito per secoli sa riconoscere all’istante.
Smarrimento perché nonostante l’impegno di moltissimi appartenenti alle istituzioni e docenti, in parallelo si sono moltiplicate forme di negazionismo, di deviazioni rispetto a quella promessa costituzionale di ripristinare o affermare i beni superiori da tutelare – verità storica, dignità umana e solidarietà. E quindi la celebrazione di questo giorno è chiamata a dare un significato nuovo al concetto di memoria. Quello della coerenza. Quello dell’impegno che va oltre alla memoria narratrice per arginare quanto si sta già vivendo. Fermare una nuova verità, e non solo affermare quella storica.
Come in molti altri contesti il diritto, e in particolare il diritto positivo, diventa lo specchio scritto di una realtà sociale, nazionale, sulla quale oggi occorre riflettere. Anzi, perché il termine “riflettere” allude quasi ad una pacatezza di azione, occorre agire e ritornare al concetto di legalità ed ai principi, e quindi intervenire.
Come risponde oggi il diritto, o la magistratura chiamata ad applicare le norme, rispetto alle distorsioni emergenti? Ne evidenzio alcune.
- Il negazionismo rappresenta una condotta penalmente rilevante qualificata come reato, soprattutto dopo il decreto legge 116/2016 che in applicazione della decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio dell'Unione europea ha aggiunto un comma 3-bis all’art. 55-quater della legge 654/1975. Ma quante ipotesi possono essere riconducibili al concetto stesso di negazionismo?
- Se per l’Italia è il fascismo ad essere chiamato in causa, come è possibile che a distanza di oltre 80 anni dalla emanazione delle leggi razziste del ’38, o ancora di più se vogliamo partire dall’avvio del totalitarismo fascista, l’apologia dello stesso si sia intensificata, radicalizzata in gruppi ben organizzati e formalizzati ma non considerati fuori legge, disseminata in miriadi di digit quotidiani nell’anonimato che caratterizza la rete? Quanto è rilevante oggi quell’elemento soggettivo nella legge Scelba (che riguarda l’intento di ricostituzione del partito fascista), pur con il rafforzamento fornito con la legge Mancino, quanto invece è da considerarsi come bene da tutelare quello della dignità delle persone offese e l’argine da porre all’odio che si traduce in violenza, che transita dal mondo virtuale al mondo reale e viceversa.
La derisione fatta da persone che utilizzano luoghi, simboli e persone per rappresentare il loro scherno e dissociazione dal monito “mai più”, l’uso banalizzante dei termini “ebrei” “Auschwitz” “nazista” in contesti che nulla hanno a che vedere con la shoah, come linguaggio della goliardia o della dialettica avversaria? L’appiattimento della narrazione del dramma della shoah e della guerra mondiale attribuendone la responsabilità ai nazisti e alla Germania dimenticando ogni altro agente, ogni altro regime che ha prestato mano al genocidio, ogni vile collaboratore, ogni atto di indifferenza? Quanto la rievocazione di pregiudizi e di falsi che ripetuti diventano fede di odio e indiscussa verità, è riconducibile al negazionismo?
La libertà di espressione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione è certamente lo snodo centrale di questo dibattito. Se il vero bene da tutelare è quello del benessere sociale insieme alla crescita culturale del Paese, con senso di responsabilità quanto meno morale per la propria storia, la libertà rischia di essere pretesa di sopraffazione se ha per oggetto parole di odio, rievocazione dell’odio antisemita, di scritte, simboli e gesti che sintetizzano l’annientamento desiderato e nessun pentimento maturato. Quanto in nome della libertà di espressione del pensiero continueremo ad assistere ai pellegrinaggi a Predappio per inneggiare al Duce sepolto o al nuovo che lo sostituirà, e legittimare tutto l’indotto commerciale che ne deriva? Quanto possiamo assistere a cerimonie nostalgiche che stratificano negli animi di chi le partecipa odio e violenza? Quando l’uso del principio diventa abuso? Noi ce lo chiediamo ogni giorno, e non come riflessione teorica, ma come peso che va aggravandosi ogni giorno.
- La richiesta, nell’ambito del procedimento amministrativo di assegno di benemerenza, a chi è stato perseguitato dal regime nazi fascista di fornire prova concreta di un atto persecutorio affinché si possa beneficare di una benemerenza, sulla base della l.96/55 e successive modificazioni, limitando prima il riferimento al periodo storico ’43-’44, alle sole persone perseguitate in Italia anche se fuggiti in altri Paesi, dimenticando che furono dichiarati nemici della patria coloro che hanno vissuto in Italia per oltre 2.000 anni donando il loro contributo allo sviluppo economico, sociale e culturale del nostro Paese, rappresenta oggi una aberrazione. Le leggi del ’38 e poi la decretazione del ’43 hanno introdotto una sistematica persecuzione legalizzata dei cittadini italiani di fede ebraica. Perché allora richiedere ai perseguitati la prova se una legge dello stato prevedeva come sistema imposto l’esclusione e la privazione di ogni diritto per i quali dovevano diligentemente attivarsi funzionari, operatori, cittadini e forze dell’ordine. Appena pochi giorni fa siamo stati aggiornati su una nuova pronuncia di diniego per mancanza di prove e la concessione del beneficio considerata come aggravio per le casse dello Stato, cosi come una scia di sentenze della magistratura contabile che ribadisce la legittimità di una pretesa economica verso lo Stato solo se fornita ogni prova concreta e precisa di persecuzione, a prescindere da ogni collocazione del tutto all’interno di un sistematico quadro di principi fondamentali di recupero della dignità non solo della persona offesa e perseguitata, ma anche dello stesso Stato italiano che vuole affermare i suoi valori di libertà e rigettare quelli che erano alla base del pensiero fatto regime fascista.
- La sentenza recentissima, del 19 dicembre 2019, del tribunale francese nel Caso Sara Halimi, una donna ebrea religiosa di 67 anni, massacrata fino alla morte il 3 aprile 2017, mentre il pestatore inneggiava con letture del Corano, con la quale viene prosciolto l’assassino perché agiva sotto effetto di stupefacenti e quindi non era in grado di rispondere dei suoi atti, vissuto in Francia come un “dejà vu” del caso Dreyfus. Ma anche qui in Italia diverse sono le archiviazioni o le sentenze di assoluzione o di non luogo a procedere seguite alle denunce sporte avverso condotte di incitamento di masse all’odio che hanno suscitato profondo senso di timore e indignazione corale, e poche le pronunce di condanna. Chiara la necessitò di difendere rigorosamente il principio di legalità e l’operato della magistratura, chiaro anche il senso di smarrimento che accompagna simili situazioni.
- Con l’approvazione da parte del governo lo scorso 15 gennaio della definizione di Antisemitismo basata sulla proposta dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) si apre una nuova sfida per il legislatore italiano e la magistratura stessa. La definizione di per sé, come articolata nel documento (https://www.holocaustremembrance.com/working-definition-antisemitism) non è vincolante. Gli Stati sono invitati a recepirla sia nella parte generale dedicata all’inquadramento del fenomeno sia nelle numerose esemplificazioni riportate, che rappresentano condotte da ricondurre al concetto di antisemitismo. Ora, data la molteplicità delle ipotesi, occorrerà vagliarle, una per una, e valutare rispetto al quadro normativo vigente come affrontarne il recepimento, affinché non resti un mero atto politico – che certamente ha valore e impatto nel dibattito partitico - ma sia anche occasione di seria a precisa riconsiderazione di tutte quelle condotte che quotidianamente subiamo e che ad oggi non trovano argine – né quello educativo culturale, né quello legislativo. Saranno quindi da considerare le ipotesi di negazionismo, di contrasto dell’odio dilagante sulla rete e l’impegno delle piattaforme multinazionali, il boicottaggio di Israele e dei suoi esponenti culturali e gli appelli per il disconoscimento del diritto di Israele di esistere o delle sue politiche, che sostanzia un atteggiamento antisemita.
La shoah, l’antisemitismo, non sono “degli ebrei” e non sono temi sui quali prestare un attento ascolto per pietà e profondo dispiacere, né temi su cui sviluppare una dialettica politica servente o esimente, ma sono l’uno conseguenza dell’altro, portato all’estremo del dicibile umano, e pesano sulle coscienze e le responsabilità di tutti.
Per queste ragioni ogni impegno di memoria oggi è in realtà un impegno di coerenza – il rispetto di quanto avvenuto nel passato - il peggio di quanto avvenuto nel passato collettivo di un’intera Europa poi unificata e un’intera nazione come l’Italia che si è destata – non può essere efficacemente tramandato ai nostri figli, se non si affrontano e non si comprendono ad ampio raggio i fenomeni che ne erano alla radice allora e riaffiorano oggi, se non si attivano politiche educative e formative di quell’ovvia – che ovvia evidentemente non è – accettazione di chi è semplicemente cresciuto con altro credo e altre scelte personali, se non si attiva una ricognizione di impatto sociale delle norme oggi esistenti, se si continua a dividere il passato in sezioni logiche alcune partecipate con il cuore, altre con la mente, alcune lasciate cadere nell’oblio, alcune addirittura giustificate con i “sì però”. L’invito nel settantacinquesimo anniversario della liberazione del Campo di Auschwitz che rivolgo ad operatori e studiosi del Diritto è quello di intraprendere un’iniziativa di approfondimento e studio di queste specifiche tematiche, e accompagnarci, o stare al nostro fianco nell’impegno, faticoso anche per noi, di tramandare una memoria nel rispetto di coloro che non hanno mai fatto ritorno, anche se sopravvissuti, all’orrore della shoah.