Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici
di Davide Galliani e Lello Magi*
1. La Corte cost., con sent. 23 ottobre 2019, n. 253, ha dichiarato incostituzionale la presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto che, potendolo fare, non collabora con la giustizia. Da questa presunzione assoluta derivava l’impossibilità di accedere ad ogni benefico penitenziario (e quindi al permesso premio, oggetto della pronuncia) e ad ogni misura alternativa alla detenzione (come l’affidamento in prova, la semilibertà e la liberazione condizionale, non toccate dalla decisione). Altro non rimaneva al detenuto, se non il differimento della pena per infermità fisica e, dopo la sent. 99/2019 della stessa Corte, anche per grave infermità psichica (e della grazia da parte del Capo dello Stato non serve dare conto)[1].
2. La sentenza contiene nel dispositivo anche una parte additiva: la relativizzazione della presunzione comporta la necessità di acquisire elementi tali da escludere, non solo l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo di un loro ripristino. Prima di radiografare la sentenza sia consentita qualche considerazione introduttiva.
Da un lato, almeno per chi conosce la materia, non si è alle prese con una sentenza rivoluzionaria. Magari per alcuni inattesa, ma non un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi anni, in riferimento alle presunzioni assolute, l’orientamento della Consulta è stato chiarissimo. La decisione individualizzata, caso per caso, affidata al giudice, è la pietra costituzionale intorno alla quale la Corte è intervenuta per smontare le presunzioni assolute e valorizzare l’obbligo di motivazione. Il giudice costituzionale interviene a difesa del ruolo del giudice e della sua attitudine a inverare la ragionevolezza e la proporzionalità degli interventi limitativi dei diritti di libertà, a dispetto di un legislatore che, con le presunzioni assolute, ne paralizza il mestiere[2].
Dall’altro lato, nessuna rivoluzione anche perché la pronuncia non è una monade isolata. È solo per questioni temporali che le due ordinanze di remissione, della Cassazione (caso Cannizzaro) e del Tribunale di sorveglianza di Perugia (caso Pavone), non hanno utilizzato il parametro di cui all’art. 117, I c., Cost.: la sentenza Viola v. Italia n. 2 della Corte di Strasburgo è stata depositata il 13 giugno 2019, troppo tardi per le due ordinanze, rispettivamente, del 20 novembre 2018 e del 28 maggio 2019. Ed anche se divenuta definitiva il 7 ottobre 2019, prima dell’udienza pubblica della Corte costituzionale (22 ottobre 2019), la sentenza della Corte di Strasburgo non poteva avere un ruolo dei più rilevanti: non tanto per il differente punto di partenza, la liberazione condizionale e non il permesso premio, quanto (appunto) per la mancanza, negli atti di promovimento, del parametro costituzionale di cui all’art. 117, I c., Cost.[3].
Questo tuttavia non significa che la Consulta sia stata indifferente alla sentenza Viola, anzi, in alcuni passaggi motivazionali della n. 253 chiunque può scorgere riflessioni molto simili a quelle sviluppate a Strasburgo, pur nell’ambito di un percorso argomentativo che – già in premessa e quasi a tacitare le ricorrenti manifestazioni di dissenso basate sul mero comunicato stampa – esclude che l’oggetto del giudizio ricomprenda – in quanto tale – la legittimità costituzionale del cd. ergastolo ostativo e sottolinea come del solo permesso premio “si fa questione”[4].
3. Vediamo i quattro più importanti passaggi a fondamento della sentenza. In primo luogo, dietro il ridimensionamento della portata della presunzione di pericolosità (non più superabile solo attraverso la scelta collaborativa, dunque non più assoluta in assenza della medesima) si coglie una nettissima differenziazione tra opzioni di politica investigativa e finalismo del trattamento penitenziario. Parole taglienti: se correlato alla centralità della scelta collaborativa il regime ostativo “prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario” (§ 8.1, II cpv., cons. dir.). La detenzione non ha questo scopo. Il legislatore può premiare una scelta collaborativa del detenuto, mentre non è consentita la “inflizione” (§ 8.1, V cpv.) di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante. Un concetto che taglia la testa ad ogni pretesa vetero-retribuzionista, spalancando le porte alla ragionevolezza, unico moderno portato – costituzionalmente ammissibile – della retribuzione: la gravità della pena deve essere proporzionale alla gravità del reato, pertanto, in fase di esecuzione, non può esistere una ulteriore “afflizione” per via di una scelta, quella di non collaborare, che non può porsi come antecedente fattuale di un trattamento peggiorativo ricollegato ad una presunzione, non altrimenti vincibile, di pericolosità. La scelta di non collaborare non può – di per sé – rappresentare il presupposto di un trattamento deteriore, proprio in ragione del fatto che non può imporsi al detenuto quello “scambio” avente finalità diverse (progressione investigativa) rispetto a quelle strettamente e costituzionalmente trattamentali.
3.1. Questo il secondo passaggio da evidenziare. Non un vero e proprio diritto al silenzio, che riguarda il processo, ma di certo la libertà di non collaborare, che deve essere riconosciuta in fase di esecuzione, senza alcuna distinzione. Ti premio se collabori, ma non ti posso sanzionare (rectius: affliggere) se non lo fai[5].
3.3. In terzo luogo, restando agli esiti, la Corte – ferma restando la sottolineatura della riferibilità della pronunzia alla sola frazione del trattamento rappresentata dal permesso premio – ha gioco facile nel dichiarare l’illegittimità costituzionale consequenziale, estendendo gli effetti della pronuncia dalla partecipazione/agevolazione alle associazioni di cui all’art. 416 bis c.p. a tutti i reati previsti nel I c. dell’art. 4 bis o.p. Stiamo sempre parlando di richiesta di permesso, non di meno non sarebbe stato sostenibile abbattere la presunzione assoluta di pericolosità sociale per la partecipazione/agevolazione mafiosa e mantenerla in piedi ad es. per il peculato. La Corte non le manda a dire: se non intervenisse con una ablazione generalizzata si avrebbe una “paradossale disparità”, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali “possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza” (§ 12, VI cpv.). Parole cristalline: nell’elenco del I c. dell’art. 4 bis o.p. (che, secondo la Corte, è frutto di scelte di politica criminale “non sempre tra loro coordinate”) vi sono reati per i quali la collaborazione “è priva di giustificazione” per accedere ai benefici e non vi è niente da dimostrare riguardo all’attualità dei collegamenti…dato che il sodalizio non è mai esistito. Si colgono evidenti segnali di critica verso la eterogeneità dei reati raggruppati all’interno della disposizione di legge[6].
3.4. Infine, in quarto luogo. In tutta la motivazione della sentenza si ragiona solo di due funzioni della pena, entrambe speciali, una positiva, la risocializzazione, una negativa, prevenire la commissione di nuovi reati. Anche in questo caso, si percorre un sentiero già tracciato in precedenza, in particolare, anche se con toni più vistosi, nella 149/2018. Nella sentenza qui in commento ci si spinge a sostenere “il carattere necessario alla luce della Costituzione” (§ 9, XI cpv.) della funzione di prevenzione speciale negativa. Non vi è nulla sul punto da obiettare, se non qualche appunto rispetto alle conseguenze che la stessa Corte ne fa derivare.
4. Come abbiamo detto in apertura, la Corte dichiara sì incostituzionale – per come strutturata – la presunzione assoluta di pericolosità sociale oggetto di scrutinio, ma in motivazione (nell’intero § 9) e nel dispositivo scende in modo creativo sul terreno delle regole probatorie, finendo con il sostituire al precedente statuto regolativo – di cui afferma la contrarietà ai principi evocati dai giudici remittenti – un diverso criterio di ripartizione e, per il vero, di particolare peso dell’onere probatorio gravante sull’aspirante al permesso. La premessa logica di tale intervento additivo è chiara: non si nega la validità, sul piano delle massime di esperienza, di una presunzione semplice, correlata alla dimensione storico-sociologica del fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso, tale qui da legittimare, sul fronte della attualità della pericolosità, una inversione delle ordinarie dinamiche dimostrative che porti alla acquisizione, a fini di superamento di detta presunzione, di “congrui e specifici elementi”[7]. Si richiede, al contempo, che la valutazione del giudice tenga conto delle possibili evoluzioni della personalità del soggetto ristretto, in ciò valorizzando non solo il percorso individuale e le eventuali mutazioni degli scenari esterni, ma soprattutto un fattore per nulla estraneo alle precedenti pronunzie della Corte sul tema generale della pericolosità: il tempo trascorso[8]. Rispetto a tale profilo la coerenza è massima: dato che in discussione vi è la partecipazione all’associazione mafiosa (da qui parte la Corte, “assorbendo” l’agevolazione); dato che, per valutare il superamento di ciò che resta una presunzione relativa, ossia l’attualità dei collegamenti, vi devono essere criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio; ebbene, dato questo, la Corte introduce un ulteriore criterio, oltre alla verifica della non attualità dei collegamenti, prevista sin dall’introduzione del regime ostativo.
Un nuovo necessario criterio, dice la Corte, perché derivante dalla Costituzione, che consiste nella necessaria esclusione – a fini concessori – del pericolo di ripristino dei collegamenti “tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. Difficile non avvertire, sul punto, una qualche perplessità. Il giudice costituzionale indossa le vesti del legislatore, peraltro come se intendesse anticiparne eventuali interventi. Ma, al di là di tale – pur significativo – aspetto, ci si chiede quale sia la dimensione effettuale e concreta di simile peripezia probatoria, che tende a differenziare la prova di un “fatto” (presenza o meno di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata) dalla prova negativa (inesistenza) di un semplice pericolo. Evidente che, in tale dimensione, non soltanto si inverte legittimamente – sulla base della presunzione relativa – la dinamica probatoria (con onere di allegazione gravante sull’aspirante), ma si innova l’oggetto della prova, ossia la proposizione da provare. La modifica non è di poco momento, sia per il suo oggetto sia per l’ambito ove si colloca. Se è vero che ci si trova – pur sempre – nel campo delle valutazioni di pericolosità soggettiva (il permesso si nega per questo e la attualità dei collegamenti è antecedente logico di una perdurante pericolosità), è anche vero che siamo già nell’ambito di un giudizio prognostico che – per logica comune – contiene margini di preoccupante soggettivismo, ove non rigidamente basato sull’analisi delle pregresse condotte della persona, cui si unisce la considerazione dei possibili mutamenti (interni e di contesto) intervenuti medio tempore[9]. In simile scenario, la Corte tende a valorizzare, in chiave di rafforzamento della presunzione, il contenuto delle informazioni ricevute dalle autorità competenti affermando che, se le informazioni pervenute, in specie dal comitato ordine e sicurezza pubblica, depongono in senso negativo allora “incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno” (così si chiude il § 9). Non si tratta, dunque, esclusivamente di una diversa ripartizione dei pesi dimostrativi figlia della presunzione, quanto dell’adozione di un criterio dimostrativo che sembra ricollegare alla concessione del “semplice permesso” la constatazione (in funzione di riequilibrio della assenza di scelta collaborativa) da parte del giudice di un mutamento profondo della persona e del contesto, tale da escludere anche un semplice pericolo di riattivazione di contatti orientati alla manifestazione di pericolosità.
Probabilmente, non resta che attendere il diritto vivente e la elaborazione collettiva di canoni dimostrativi compatibili con la logica dimostrativa di fatti, anche se assunti quali meri indicatori del richiamato pericolo. Formuliamo solo due auspici. In primo luogo, l’adozione di forme procedimentali (e ritocchi ordinamentali) che, data la necessaria ampiezza delle attività cognitive da svolgersi, siano rispettosi del contraddittorio sulle particolari fonti informative valorizzate nella decisione della Corte. In secondo luogo, va detto che andrebbe meditata, in simile contesto, l’estensione di regole o principi che, tipici della cognizione, hanno una così sicura copertura costituzionale che meriterebbero di essere utilizzati anche altrove, appunto in sorveglianza, nei momenti cognitivi da cui dipenda il mantenimento di una forma di afflizione aggiuntiva. Non è certo estranea al tema dei giudizi di pericolosità, pur se governati da presunzioni relative, la necessità di andare oltre formule stereotipate, con apprezzamento in concreto del portato probatorio di elementi di fatto, lì dove ciò incida sulle aspirazioni al godimento di frammenti di libertà, il che rimanda a principi generali della valutazione della prova, sia pure modellati sul particolare oggetto da provare.
* Il testo rappresenta il frutto del dialogo che da molto tempo intercorre tra i due autori, senza possibilità di scinderne la responsabilità, che pertanto va attribuita ad entrambi. Una versione ridotta di questo scritto è in corso di pubblicazione per Quaderni Costituzionali.
[1] Il riferimento alla liberazione condizionale – che non è misura alternativa alla detenzione ma causa di estinzione della pena – è qui operato sul piano esclusivamente funzionale, ben consapevoli del fatto che il regime della ostatività deriva – in tal caso – da autonoma previsione di legge (l’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991) che estende a tale istituto lo statuto particolare di cui all’art. 4 bis o. p.
[2] Ci sarebbe molto da scrivere a questo proposito, non fosse altro perché il nostro ordinamento è ancora affollato di automatismi legislativi, che condividono con le presunzioni assolute la volontà di togliere il giudice dalla scena che invece per Costituzione gli spetta. E non pochi automatismi riguardano proprio la pena perpetua, la massima pena prevista nel nostro ordinamento. Per fare tre esempi: l’automatica perdita della potestà genitoriale per chi è condannato all’ergastolo, l’automatica libertà vigilata di cinque anni per l’ergastolano che ottiene la liberazione condizionale, l’imposizione dell’isolamento diurno, ancora una volta automatico, per chi è condannato per due o più delitti ciascuno punito con la pena perpetua. Ad ogni modo, è davvero innegabile che il sentiero ora percorso dalla sentenza 253/2019 assomiglia ad un’autostrada più che ad una viuzza.
[3] Parametro invocato da una delle parti private (il ricorrente in Cassazione) nell’atto di intervento, atto che tuttavia – come evidenziato in sentenza – non può determinare l’ampliamento dell’oggetto del giudizio incidentale, tramite addizione di un parametro di potenziale illegittimità non recepito nella ordinanza di rimessione.
[4] Vi sarebbero altre notazioni introduttive di particolare importanza, ma, per ragioni di spazio, non possiamo soffermarci. Solo quattro velocissime considerazioni: 1) l’ordinanza di rimessione della Cassazione è stata sollecitata da una penetrante requisitoria della Procura Generale, il che valorizza anche il senso del contraddittorio in sede di legittimità; 2) nelle more delle due decisioni, prima di Strasburgo e ora della Consulta, la dottrina ha “affiancato” i giudici, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione (amicus curiae, libri, articoli, convegni); 3) la Corte evidenzia come ad essere tecnicamente rilevante è la restrizione del potere valutativo del giudice, che nei casi portati a scrutinio non può soppesare le ragioni della scelta di non prestare collaborazione, in quanto basata sul mero titolo di reato, confermando che in tali casi la rilevanza della questione deriva, di per sé, dalla eventuale rimozione del limite valutativo, al di là della concreta utilità di cui le parti potrebbero beneficiare in caso di accoglimento della quaestio ; 4) non possiamo non evidenziare che il legislatore tende, di recente, a percorrere sentieri ben diversi – quanto alla sottostante considerazione dei principi fondamentali in gioco –, e ciò non tanto nelle uscite pubbliche da parte di alcuni esponenti politici quanto nelle leggi approvate. A nulla sono serviti gli appelli alla cautela: nel momento in cui il legislatore ha esteso il regime ostativo di prima fascia ad una ennesima serie di altre fattispecie, questa volta in materia di reati contro la pubblica amministrazione, erano già pendenti a Strasburgo e alla Consulta il caso Viola e il caso Cannizzaro. La divaricazione tra gli approdi delle Corti – in punto di ragionevolezza e valorizzazione degli obiettivi rieducativi – e la rincorsa verso l’idea di “fissità” della pena è del tutto evidente e non può non destare preoccupazione, quantomeno tra i giuristi.
[5] Solo un piccolo appunto. La Corte – pur se in aderenza alla descritta dimensione della rilevanza della quaestio in termini di idoneità alla mera rimozione del limite valutativo – non approfondisce i motivi che possono spingere una persona a non collaborare con la giustizia. Ne indica solo due, ma senza approfondire: “un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi, ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati” (§ 8.1, XII cpv.). Sul punto è comprensibile il self restraint della Corte, che peraltro non manca di evidenziare che la presunzione assoluta impedisce al giudice valutare ogni cosa, comprese le ragioni della mancata collaborazione. Non di meno, qualche parola in più sarebbe stata utile. Quel che la Corte non dice è bene comunque ricordarlo: non sempre, ma in molti casi la non collaborazione dipende dalla paura di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei famigliari. Di certo vi è una cosa: se esiste il diritto al silenzio (rectius, la libertà di non collaborare), ogni motivo dietro a questo diritto-libertà potrà ora essere valutato dal giudice. E da questo punto di vista l’esperienza insegna che uno dei problemi principali non è tanto la denuncia a carico di terzi (in fin dei conti, questo significa collaborare) e nemmeno il rischio di autoincriminazioni per fatti non ancora giudicati (in questi casi, in effetti, la chiamata in correità può determinare la “uscita” dal regime ostativo), quanto la paura che genera la scelta di collaborare.
[6] Pende, sul tema, questione relativa all’avvenuto inserimento del reato di peculato nel catalogo di cui all’art.4 bis I c., sollevata dalla Corte di Cassazione (ord. n. 31853 del 2019). Così come la sentenza n. 253 ha pesato rispetto alla successiva n. 263, che ha dichiarato incostituzionale l’estensione del regime ostativo ai minori, allo stesso modo avrà un indubbio rilievo in riferimento alla giurisprudenza successiva riguardante il regime ostativo, sul versante – di certo diverso ma affine – della ragionevolezza della selezione delle fattispecie cui attribuire un effetto di “accentuata pericolosità” dell’autore.
[7] In tale assetto si intravede convergenza con recenti arresti dell’organo nomofilattico in tema di prevenzione personale (Cass. Sez. Un. 2018, Gattuso), lì dove, pur nella rilevante promozione e stabilizzazione di un approccio teso alla individualizzazione e alla necessaria espressione di motivazione in positivo sulla attualità della pericolosità, si riafferma la constatazione di una generale tendenza alla stabilità di simili vincoli relazionali.
[8] Pur non espressamente citata, è d’obbligo il riferimento alla decisione n. 291 del 2013, con cui la Corte ha parificato la disciplina delle misure di prevenzione – rimaste sospese per esecuzione della pena – e misure di sicurezza personali, con rivalutazione obbligatoria anche per le prime della attualità della pericolosità al momento della postergata esecuzione, osservando che “… già il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile: ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona che, durante tale lasso temporale, è sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla sua risocializzazione. Se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione: presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita in un assetto che attribuisca alla verifica della pericolosità operata in fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una sua vittoriosa contestazione da parte dell’interessato…”.
[9] Su tali temi, riafferma il fondamento logico e la natura bifasica dei giudizi prognostici di pericolosità soggettiva la stessa Corte Costituzionale, in tema di prevenzione, nella recente sentenza n. 24 del 2019.