ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Tra Roma e Monaco di Baviera, un grande giudice: Vincenzo Di Cerbo
di Guido Raimondi
Quando Paola Filippi e Roberto Conti mi hanno detto che Giustizia insieme non poteva lasciar passare il 70° compleanno di Vincenzo Di Cerbo senza che la Rivista celebrasse degnamente la conclusione del suo percorso in magistratura, e di aver pensato a me per la redazione di uno scritto a lui dedicato, ho avuto qualche preoccupazione per la responsabilità che gli amici Paola e Roberto consegnavano nelle mie mani. Mi sono sentito però, oltre che onorato, felice di avere l’occasione di esprimere, una volta di più, la mia immensa considerazione per le straordinarie qualità professionali e umane di un grande magistrato, per l’appunto Enzo Di Cerbo.
Mi sia consentita una notazione personale. Sono da sempre un ammiratore di Enzo Di Cerbo, che è un esempio per tutti i magistrati e quindi anche per me. Un esempio per la passione sempre profusa per il lavoro di giudice, inteso come servizio per la collettività e di elemento essenziale della democrazia, per il rigore dei comportamenti, la continua tensione verso lo sviluppo e l’affinamento delle proprie competenze professionali e l’assoluta integrità. Non avevo però avuto modo di frequentarlo molto, sino all’anno scorso, quando, nel mese di maggio, ho fatto ritorno alla Corte di cassazione dopo un’assenza notevolmente lunga. In quel momento Enzo, Presidente titolare della Sezione Lavoro, mi ha accolto in sezione, prima come consigliere, poi come presidente non titolare, accordandomi subito una fiducia e un credito che non davo assolutamente per scontati. Sebbene avessi ricoperto durante la mia assenza responsabilità di un certo rilievo, sarebbe stato del tutto legittimo dubitare, da parte sua, delle mie reali capacità di riadattarmi ad una Corte che, nel frattempo, aveva conosciuto riforme profondissime. Non è stato questo il caso. Enzo mi ha fatto sentire subito di nuovo a casa, integrandomi in quella meravigliosa struttura che è la Sezione Lavoro della Corte di cassazione, e facendomi il dono prezioso della sua amicizia. Un gran colpo di fortuna per chi scrive!
La carriera di Vincenzo Di Cerbo, nel cui contesto la Corte di cassazione e il diritto del lavoro occupano un posto assolutamente eminente, è molto ricca e rivela la varietà dei suoi interessi culturali, oltre che la sua capacità a guardare al di là dell’orizzonte puramente nazionale e la sua passione per l’innovazione, con costante attenzione ai modi di utilizzazione delle nuove tecnologie a servizio della funzione giurisdizionale.
Tre principali direttrici sono evidenti nello straordinario percorso professionale di Enzo Di Cerbo: il diritto del lavoro, praticato da giovane magistrato come giudice monocratico di primo grado, in seguito, ancor giovane, ma con una già lunga esperienza, da giudice di appello, poi al Massimario della Corte di cassazione, ed infine alla Corte, prima come consigliere, poi come presidente di sezione e Presidente titolare della Sezione Lavoro; il diritto della proprietà intellettuale, del quale si è occupato ad altissimo livello come giudice dei Boards of Appeal dell’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera; l’informatica giuridica e le nuove tecnologie, settore nel quale egli ha esercitato le importantissime funzioni di Direttore del C.E.D., il Centro elettronico di documentazione della Corte di cassazione.
Tutti e tre questi campi hanno poi offerto a Vincenzo Di Cerbo spunti per una vasta produzione scientifica e per un’importante attività nel campo della formazione, in particolare assicurando per molti anni l’insegnamento del Diritto del lavoro presso la scuola di perfezionamento per le professioni legali - Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e contribuendo a molteplici attività della Scuola della Magistratura e delle strutture di formazione decentrata.
La lunga esperienza di Enzo Di Cerbo come giudice lavorista è stata importante nei gradi di merito, ma ha certamente raggiunto la sua piena maturità presso la Cassazione. La Corte di cassazione deve molto a Di Cerbo, il cui contributo in tutte le responsabilità assunte presso il giudice di legittimità, dal Massimario a quella di consigliere e di presidente, e a quella di Direttore del C.E.D., senza contare quella di componente del Consiglio direttivo, di Presidente della Commissione Flussi e tante altre, è stato sempre offerto a livelli di eccellenza. Tra queste responsabilità, la più visibile è senza dubbio quella – che egli ha appena lasciato – di Presidente titolare della Sezione Lavoro.
Non è questa la sede per analizzare l’imponente azione svolta sul piano organizzativo da Enzo Di Cerbo nel quadro della Sezione Lavoro della Corte di cassazione. Basti dire che, come ha osservato egli stesso, sotto la sua guida la Sezione Lavoro ha cercato in particolare di cogliere le potenzialità gestionali offerte dalla legge 26 ottobre 2016 n. 197, di conversione del D.L. n. 168 del 31 agosto dello stesso anno, aumentando l’impegno relativo all’esame preliminare dei ricorsi garantito dall’Ufficio spoglio sezionale in stretto coordinamento con quello sotto sezionale corrispondente presso la Sezione Sesta, e all’inserimento dei relativi risultati nel sistema informatico della Corte, in modo da rendere possibile un’analisi immediata e allo stesso tempo articolata dell’intero contenzioso sulla base dello strumento informatico. Ciò al fine di consentire una gestione del contenzioso che, anche in deroga rispetto al tradizionale criterio della trattazione dei processi secondo l’ordine cronologico stabilito dalla data di presentazione del ricorso, consenta l’agevole accorpamento delle cause sulla base dell’identità delle questioni giuridiche trattate, delle materie affrontate e delle relative problematiche. Tutto questo in coerenza, del resto, con le indicazioni contenute nelle “Tabelle di organizzazione” vigenti, nelle quali viene esplicitamente espresso un orientamento favorevole ad un modello organizzativo che privilegi, nell’ambito della singola sezione, oltre alle udienze seriali, anche le udienze monotematiche.[1]
Ho posto l’accento su quest’azione, una tra le tante iniziative realizzate da Di Cerbo sul piano organizzativo, perché essa riflette una sua costante preoccupazione, che chi scrive condivide profondamente, circa la funzione della Corte di cassazione. L’esigenza cioè, per usare le sue parole, del “… formarsi di una giurisprudenza di legittimità che, evitando contrasti giurisprudenziali che non siano frutto di un approfondito dibattito all’interno del collegio o, nei casi più rilevanti, dell’intera sezione, offra agli operatori del diritto e, in particolare ai giudici del merito e al foro, principi di diritto più coerenti ed affidabili.”[2]
Sia consentito a chi scrive sottolineare non solo la grande importanza di questo obiettivo in una società democratica, ma anche la sua piena sintonia con una delle affermazioni sulle quali la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo insiste con maggior forza, quella cioè della sécurité juridique, senza la quale non vi è un buon funzionamento dello Stato di diritto, e che riposa sulla stabilità e sull’affidabilità della guida che le corti supreme devono offrire alla comunità giuridica con la loro giurisprudenza.
Come componente giurista delle Camere di ricorso (Boards of Appeal) dell’Ufficio europeo dei brevetti, Enzo Di Cerbo ha partecipato da membro del collegio giudicante alla trattazione e decisione di oltre quattrocento procedimenti. In particolare, è stato estensore di alcune rilevanti decisioni che sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell'Ufficio Europeo dei Brevetti (EPO Official Journal). Fra queste merita di essere ricordata la decisione T 1173/97 IBM - Computer program product, la prima in tema di brevettabilità del software, decisione che ha avuto larga eco in Europa e negli Stati Uniti.
Le realizzazioni di Enzo Di Cerbo nell’ambito del C.E.D. sono innumerevoli, e non è possibile ricordarle tutte in questa sede. Una però mi sembra particolarmente importante, anche perché in linea con la sua costante preoccupazione sulla qualità e la coerenza della giurisprudenza di legittimità. Mi riferisco al cosiddetto "ARCHIVIO RUOLI" - all'interno del SIC (Sistema Informativo della Cassazione). Si tratta di un programma di "navigazione", pienamente operativo, attraverso i singoli fascicoli processuali; il programma consente, fra l'altro, di effettuare, in modo rapido, facile ed intuitivo, ricerche incrociate attraverso parole chiave e altri elementi identificativi, così da migliorare, anche facilitando l'opera di accorpamento dei ricorsi, le capacità di gestione del contenzioso e ad evitare contrasti inconsapevoli di giurisprudenza.
A proposito dell’attività scientifica e di formatore di Enzo Di Cerbo, senza riprodurre qui l’elenco delle sue numerosissime pubblicazioni e delle sue molteplici attività accademiche e di formazione, vorrei semplicemente esprimere una volta di più la mia ammirazione per la sua parola – scritta e non – una parola sempre chiara, sempre competente, sempre accessibile.
* * *
Si dice che siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile. Forse è vero, quando si pensa ad istituzioni importanti e complesse come la Corte di cassazione, ma lasciatemi dire, ed è un pensiero strettamente personale, che per me questa Corte non sarà la stessa senza Enzo.
Fortunatamente non sarà senza Enzo la mia vita, e quella dei tanti colleghi della Corte – e di tanti altri – che sono onorati dalla sua amicizia e che potranno goderne, è un auspicio forte e sincero, per tanti, tantissimi, anni a venire.
A lui e alla sua bellissima famiglia gli auguri più affettuosi.
[1] V. DI CERBO e AMENDOLA, Misure organizzative per la nomofilachia: l’esperienza della sezione lavoro della Corte di Cassazione, in Lavoro, Diritti, Europa, Rivista on line, pubblicato il 25 luglio 2019, disponibile in rete.
[2] DI CERBO, Informatica e giudizio di cassazione, in ACIERNO, CURZIO e GIUSTI (eds.), La Cassazione civile, Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, Bari, 2015, p.586.
Roberto Giovanni Conti
Intervista a Luigi Ferrajoli, Emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre
Antonio Ruggeri, Emerito di Diritto costituzionale, Università di Messina
Luciano Eusebi, Ordinario di Diritto penale, Università Cattolica di Milano
Giorgio Trizzino, medico, parlamentare
1.Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1. Le notizie drammatiche in questi tempi veicolate dalle autorità coinvolte e dai mass media hanno fortemente insistito sul fatto che la maggiore pericolosità del Covid-19 coinvolge le persone in età avanzata, al punto da diffondere le notizie circa i decessi sempre collegate all’età anagrafica avanzata.
Rispetto all’emergenza di una terapia intensiva tra pazienti di diversa età affetti da gravi patologie respiratorie, la scelta rimessa al sanitario o all’equipe che si dovesse trovare a non potere soddisfare contemporaneamente le urgenze di diversi pazienti gravi deve seguire delle regole deontologiche, sanitarie ed etiche. Queste scelte sono condizionate dall’età del paziente, dalla gravità delle sue condizioni, dalle prospettive di successo dell’intervento sanitario. Qual è la sua opinione?
2. In questo periodo si è spesso tornato a riflettere sul rapporto fra scienza e diritto. Il tema della prima domanda può secondo Lei essere affrontato dando prevalenza alle regole tecniche della medicina o della scienza e in che misura espone il soggetto chiamato a scegliere a responsabilità di natura giuridica o etica?
3. Dal punto di vista filosofico la decisione di posporre l’intervento sanitario in un caso di impossibilità di fare fronte a diversi interventi è governata secondo Lei da un’etica dei diritti? La scelta tragica fra diversi diritti che non possono trovare tutti contemporanea soddisfazione merita un esame comparativo di tipo soggettivo ovvero una prospettiva più ampia? In altri termini, la scelta va fatta unicamente orientando l’indagine sul profilo del singolo paziente e dei tempi di ricovero o deve coinvolgere anche una prospettiva solidaristica che guarda alla società, al beneficio che essa potrebbe avere in relazione alle scelte adottate dal sanitario?
4. Nell’ipotesi in cui il diritto alla assistenza sanitaria venisse limitato secondo criteri di priorità dal legislatore, riterrebbe opportuno anche riconoscere e garantire ai sanitari un diritto alla obiezione di coscienza come normativamente previsto, ad esempio, nei casi di sperimentazione animale, procreazione medicalmente assistita e interruzione volontaria di gravidanza? Ed in caso di mancato riconoscimento normativo di un diritto di “obiezione” quali scenari pensa si aprirebbero in concreto negli ospedali italiani?
2.La scelta del tema
Roberto Giovanni Conti
L’emergenza nazionale ed internazionale prodotta dal Covid-19 sta ponendo interrogativi bioetici e biogiuridici di grande spessore. Giustizia Insieme intende offrire al suo pubblico di lettori delle riflessioni su alcuni dii questi interrogativi, coinvolgendo filosofi del diritto, giuristi bioeticisti e medici.
3. Le risposte
1. Le notizie drammatiche in questi tempi veicolate dalle autorità coinvolte e dai mass media hanno fortemente insistito sul fatto che la maggiore pericolosità del Covid-19 coinvolge le persone in età avanzata, al punto da diffondere le notizie circa i decessi sempre collegate all’età anagrafica avanzata.
Rispetto all’emergenza di una terapia intensiva tra pazienti di diversa età affetti da gravi patologie respiratorie, la scelta rimessa al sanitario o all’equipe che si dovesse trovare a non potere soddisfare contemporaneamente le urgenze di diversi pazienti gravi deve seguire delle regole deontologiche, sanitarie ed etiche. Queste scelte sono condizionate dall’età del paziente, dalla gravità delle sue condizioni, dalle prospettive di successo dell’intervento sanitario. Qual è la sua opinione?
Luciano Eusebi
Ritengo innanzitutto che la drammaticità della situazione – scrivo da una delle zone lombarde più tremendamente colpite – non debba giustificare soluzioni semplificatorie, che possano far pensare, o aprire la strada, a comportamenti di selezione a priori tra categorie di malati. La vicenda del coronavirus non deve davvero essere utilizzata per dare una parvenza di eticità, anche per il futuro, a prospettive di questo genere. I medici in prima linea hanno continuato a ripetere, in questi giorni, che le valutazioni di futilità o comunque di proporzionatezza circa l’utilizzo delle risorse sanitarie disponibili sono riferite, caso per caso, all’insieme delle condizioni di salute di una data persona, e non a un solo fattore (per esempio l’età) da solo discriminante. E proprio in questo senso hanno cercato di dilatare al massimo, anche nei modi più impensabili, le risorse disponibili, soprattutto con riguardo alle postazioni di terapia intensiva e semintensiva: senza che in alcun momento si sia ceduto a considerare tali risorse come un presupposto dato, rispetto al quale vi fosse, asetticamente, da operare una selezione.
Semmai, si tratta di trarre da tutto questo qualche insegnamento per il futuro (una gran bella parola, che eravamo troppo abituati a dare per scontata). È necessario tornare a valorizzare lo Stato sociale, anche rispetto all’enfasi su certi diritti solo individuali, che rischiano di volatilizzarsi come neve al sole di fronte a difficoltà del tipo di quella attuale, che si possono affrontare soltanto “insieme”. Ed è necessario tornare a riflettere, altresì, sul rapporto tra Stato sociale e mercato: è inaudito il fatto per cui stiamo rischiando di rimanere – addirittura – senza personale sanitario in prima linea nella battaglia contro il coronavirus perché in Italia nessuna impresa aveva interesse a produrre mascherine e camici per uso medico, che invece sarebbero necessari per tutti i cittadini (in Cina sono stati utilizzati con successo da tutti i cittadini). E ciò vale, almeno in parte, anche per i respiratori. Che lo Stato si occupi di tutelare, in primis, la sicurezza delle persone non vuol dire essere contro il mercato, ma contro l’esasperazione delle sue logiche. Abbiamo le scorte di gas e di petrolio, ma ci siamo accorti di non avere risorse banali ma essenziali per fini sanitari, nonostante la qualità del nostro impagabile Sistema Sanitario Nazionale.
E allora bisogna dire che, per scongiurare ogni tentazione di rottamazione futura dei soggetti deboli (in altre parole, la Caporetto dell’art. 2 della Costituzione), dobbiamo accettare l’idea che le risorse prioritarie devono essere destinate alla tutela delle persone, piuttosto che all’incentivazione dei consumi voluttuari. Del resto, anche produrre respiratori genera PIL. Ciò, tuttavia, rimanda a un nodo di fondo: dobbiamo accettare di essere più poveri, dal punto di vista dei beni di consumo, per essere più ricchi, dal punto di vista della tutela delle condizioni di vita (dalla sanità, al lavoro, all’istruzione, alle pensioni).
Ma c’è un altro punto, che forse proprio il giurista può meglio intendere. Da sempre, insegnando diritto penale, cerco di far capire come la giustizia non si identifichi con dinamiche di corrispettività, secondo le quali a un giudizio negativo nei confronti dell’altro sarebbe logico rispondere in modo altrettanto negativo. Le dinamiche di competizione tra Stati e tra sistemi socio-economici stanno portandoci alla distruzione: e non solo perché da tre quarti di secolo disponiamo degli strumenti capaci di por fine alla storia dell’umanità. Quando vedo volteggiare sopra la mia casa, perché vivo nelle vicinanze di uno dei più importanti aeroporti militari italiani, un F15 o qualcosa di simile, non posso non pensare, in questi giorni, a quanti posti di terapia intensiva corrisponda (non fate il conto, rimarreste esterrefatti) il suo costo. Eppure non possiamo, da soli, rinunciare alla difesa. E allora c’è la necessità di un movimento dal basso tra tutti i popoli il quale porti a dire ai Governi che non ce ne importa più nulla delle logiche di competizione, le quali sottraggono risorse indispensabili per il bene delle persone e dei popoli, perché ormai avvertiamo ciò che papa Francesco e il grande iman di al-Azhar hanno definito, insieme, come il senso di una fratellanza universale.
Luigi Ferrajoli
Siamo di fronte a un tipico caso di scelte tragiche. Considero peraltro inaccettabile assumere l’età del paziente come criterio di scelta in tali decisioni. Un simile criterio contraddice il principio del valore e della dignità della persona in quanto tale, quali che siano le sue caratteristiche personali. Il solo criterio accettabile, a me pare, è quello rappresentato dalle prospettive di successo dell’intervento sanitario. È poi evidente che un simile criterio favorirebbe – di solito, ma non sempre – le persone più giovani: ma non in quanto più giovani, bensì per le maggiori probabilità di guarigione che su di loro avrebbe l’intervento.
Antonio Ruggeri
Desidero fare una duplice premessa prima di rispondere al quesito che ci è stato posto.
La prima si richiama alla magistrale lezione teorica schmittiana, secondo cui ogni valore costituzionale tende – come si sa – alla propria tirannica affermazione: i conflitti tra i valori fanno, dunque, parte delle quotidiane esperienze giuridiche, in ispecie di quelle che si svolgono presso le aule in cui si amministra la giustizia, comune o costituzionale che sia. Si dà un canone fondamentale, diciamo pure una sorta di “metavalore”, che presiede alle dinamiche dei valori quali prendono forma in occasione del loro “bilanciamento”, ed è quello della ricerca – non di rado assai impegnativa e sofferta – del punto ottimale di sintesi e di appagamento dei valori stessi, ovverosia, in buona sostanza, dei beni della vita evocati dai casi; il che, poi, equivale alla ricerca dell’affermazione magis ut valeat della Costituzione nel suo insieme, quale tavola dei valori fondamentali di una comunità politicamente organizzata e delle regole di articolazione dei poteri al servizio degli stessi. Insomma (e più semplicemente), si tratta di puntare ad un esito del “bilanciamento” stesso che comporti il minor costo possibile per i valori nel loro fare “sistema” o – il che è praticamente lo stesso – che porti a fissare il più in alto possibile il punto di sintesi degli stessi.
Deve, poi, essere chiaro che “bilanciare” non è – ahimè – molte volte dare congiunta e paritaria soddisfazione ai beni suddetti (ed è, perciò, che reputo giusto riportare tra virgolette il termine); purtroppo, molte volte i casi della vita obbligano, infatti, a scelte dolorose, talora tragiche, che inducono a mettere da canto – sia pure solo per un caso – un bene per far posto ad un altro, giudicato meritevole di prioritaria protezione, fermo restando che in casi oggettivamente diversi la soluzione può presentarsi parimenti diversa. Un giudizio, poi, che fatalmente risente dell’ideologico (o, più largamente, culturale) preorientamento di chi lo compie e che, nondimeno, richiede pur sempre di andare soggetto al sindacato secondo ragionevolezza, qui intesa in una delle sue più dense, genuine e qualificanti espressioni, vale a dire quale congruità, a un tempo, rispetto alla situazione di fatto vista nel suo complesso ed alla tavola dei valori, essa pure riguardata nel suo insieme, per il modo con cui i valori stessi fanno – come si diceva – “sistema”. Ragionevole, insomma, è ogni soluzione che comporti il minore stress possibile per la Costituzione e gli interessi da questa protetti, dai casi della vita portati ad entrare in reciproco conflitto.
La seconda premessa riguarda il “posto” che è da riconoscere alle situazioni di emergenza nelle operazioni di “bilanciamento”. Non mi soffermo qui, non essendovene la necessità, sul problema definitorio di ciò che propriamente può dirsi “emergenza”, quali ne sono i confini concettuali e gli indici esteriori idonei a darne un sia pur relativamente sicuro riscontro. Considero, infatti, fuori discussione che la condizione del tempo presente rientri a pieno titolo in tale categoria[1].
Desidero, nondimeno, fare al riguardo una precisazione[2]. Non so se la diffusione del virus che ci affligge avrebbe potuto essere arginata con l’adozione di misure ancora più tempestive ed incisive di quelle draconiane e assolutamente inusuali poste in essere; so, però, che alcune emergenze, in ambito sanitario come pure in altri campi, avrebbero potuto essere evitate o, quanto meno, contenute nei loro effetti devastanti sol che si fossero adottati per tempo i necessari provvedimenti. Vi sono emergenze, quali quelle conseguenti ai terremoti, che risultano ad oggi imprevedibili ed altre invece, quali quelle riportabili al dissesto dei territori o alle malattie trasmesse dagli animali agli uomini (le c.d. zoonosi), dovute alla insipienza degli uomini stessi[3]. Ho più volte deplorato il modo di pensare e di operare di chi, muovendo dall’assunto che la situazione di fatto è quella che è, rinvengono in essa la giustificazione a “copertura” di misure straordinarie e gravosissime poi adottate per farvi fronte. Se, per fare ora solo il primo esempio che viene in mente, lo svolgimento dei processi (perlomeno di alcuni) continua a protrarsi troppo a lungo, non è di certo colpa di un evento della natura improvviso ed irreparabile ma di regole farraginose e della mancanza di strutture, mezzi, personale adeguati al bisogno complessivo e viepiù imponente dell’amministrazione della giustizia. E se – venendo al tema che oggi ci occupa – il numero dei posti-letto in terapia intensiva in tutta Italia è assai limitato, di sicuro inadeguato a far fronte ad un’emergenza sanitaria ingravescente, non lo si deve di sicuro ad un fatto naturale avverso bensì ad una politica sanitaria colpevolmente non lungimirante.
Invece, il sillogismo che sovente si fa è il seguente: a) premesso che la situazione è quella che è, b) si giustifica l’adozione di misure extra ordinem, alle quali poi c) i giudici (e, segnatamente, quello costituzionale) sono obbligati – lo vogliano o no – ad offrire il loro benevolo e generoso avallo, considerando pertanto abilitata la disciplina positiva prodotta per contrastare l’emergenza a derogare, anche in modo vistoso, ai disposti della Carta costituzionale.
Se n’è avuta conferma in occasione di vicende pregresse, nel corso delle quali la giurisprudenza costituzionale ha avallato misure legislative pure riconosciute come abnormi (o, come le si è pudicamente definite, “insolite”[4]), premurandosi nondimeno di precisare che esse rinvenivano giustificazione unicamente nella sofferta congiuntura che aveva portato alla loro adozione e che, pertanto, sarebbe stato irragionevole il loro mantenimento una volta cessata l’emergenza stessa.
Ricordo solo, al riguardo, il caso emblematico della disciplina varata per contrastare il terrorismo rosso, fatta salva da una nota pronunzia della Consulta, la n. 15 del 1982, con la quale in particolare è stata mandata assolta una disciplina positiva che prolungava per un tempo insopportabile lo stato di detenzione in carcere per persone sospette di appartenere alle BR sol perché v’era il fondato timore che, non riuscendosi a celebrare i processi per tempo e liberate per scadenza dei termini, esse potessero darsi alla macchia e tornare a prendere per bersaglio cittadini incolpevoli.
Insomma, ciò che – a dire del giudice delle leggi – è ragionevole (e, anzi e per ciò stesso, imposto) prima può divenire irragionevole poi[5].
Venendo a ciò che è qui di specifico interesse, le pratiche mediche sono assai di frequente obbligate a misurarsi con situazioni di emergenza, per far fronte alle quali gli operatori sono chiamati a scelte, alle volte bisognose di essere adottate in un lasso temporale ristretto, gravide di valenze per la vita stesse delle persone affidate alla cura dei sanitari, scelte che devono ispirarsi alle indicazioni date dal codice deontologico alla cui osservanza i sanitari stessi sono tenuti[6] (qui la questione si intreccia con quella evocata dal quesito immediatamente seguente e, dunque, la riprenderò con maggiore svolgimento di qui ad un momento).
Riguardata la questione alla luce della premessa sopra fissata, la ricerca della soluzione meno gravosa per la Costituzione e i suoi valori dispone di alcuni punti di riferimento ai quali far capo. E così, il “bilanciamento” tra diritti costituzionalmente protetti va fatto avendo costantemente presenti i valori fondamentali della vita e della dignità della persona umana. Quest’ultima, anzi, secondo una sua felice rappresentazione teorica[7], è la “bilancia” stessa su cui si dispongono i beni della vita in campo al fine della loro reciproca ponderazione, ovverosia – come si è tentato di argomentare altrove[8] – è un valore “supercostituzionale”, da cui ogni altro valore trae luce, alimento, giustificazione.
Il punctum crucis è, però, che fare quando si è in presenza non già di un conflitto tra valori diversi, di cui si facciano portatori soggetti parimenti diversi, bensì di un conflitto di un valore con… se stesso, che si appunti sul capo di più persone[9].
Qui, la scelta si fa tragica perché idonea a risolversi nell’atroce locuzione mors tua vita mea.
Soccorre, tuttavia, al riguardo il dovere di solidarietà nel suo fare tutt’uno con quello di fedeltà alla Repubblica[10]. L’uno spinge vigorosamente nel senso di perseguire una soluzione che, portandosi oltre l’interesse individuale, risulti la meno gravosa possibile per l’intera collettività; l’altro, in situazioni di autentica crisi ordinamentale, induce ad optare per una soluzione che metta al riparo la continuità del gruppo sociale, assicurandone la trasmissione – per quanto possibile, integra – nel tempo.
Spetta alla scienza ed agli operatori che alle sue indicazioni fanno richiamo suggerire i percorsi da battere al fine di pervenire, sia pure in modo assai sofferto, alla meta illuminata dai doveri suddetti, essi pure al tirar delle somme riportabili al “metavalore” della sopravvivenza della specie e della identità assiologicamente qualificata di una comunità organizzata.
La “medicina delle catastrofi” offre alcune indicazioni al riguardo, nella tristissima congiuntura che stiamo vivendo riprese da alcune Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, formulate dalla Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) il 6 marzo scorso[11]. Il punto centrale è dato – a me pare – dal non esclusivo ed assorbente rilievo che è da assegnare al criterio first come, first served. In condizioni di assoluta eccezionalità, è infatti giocoforza privilegiare – si dice – il criterio della “maggior speranza di vita”, peraltro soggetto a costante verifica, nell’intento del conseguimento del massimo beneficio per il maggior numero possibile di persone[12]. Ciò che appunto induce – troviamo scritto nelle Raccomandazioni in parola – ad una “quotidiana rivalutazione dell’appropriatezza, degli obiettivi di cura e della proporzionalità delle cure”. I sanitari sono, dunque, abilitati, “in uno scenario di afflusso eccezionalmente elevato di pazienti” a non posticipare una decisione di “desistenza terapeutica” e di “rimodulazione delle cure da intensive a palliative”.
In larga misura, peraltro, si tratta di criteri da tempo invalsi nella cultura biomedica[13], oggi nondimeno bisognosi di essere riconsiderati alla luce degli sviluppi della scienza e della tecnologia.
È fondamentale, ad ogni buon conto, non perdere mai di vista che le persone non sono cose e che in nessun caso si giustifica lo svilimento della loro dignità per effetto della disumanizzazione delle pratiche giuridiche e mediche.
Giorgio Trizzino
Non si tratta, per l’appunto, di avere un’opinione sul tema quanto di seguire delle linee guida. La prassi prevede una scelta che è figlia di un’analisi che passa per tre fasi:
La prima fase è quella della ventilazione non invasiva, che si chiama Niv.
Il secondo passo prevede un parere sanitario che si basa su una comparazione tra fattori ed in particolare l’età in relazione al quadro clinico generale del paziente.
L’ultimo passo merita una breve premessa, quella indotta dal Covid 19, infatti, è una polmonite interstiziale molto aggressiva che impatta tanto sull’ossigenazione del sangue. La ventilazione non invasiva, quindi, è solo una fase di passaggio. Ad un certo punto, quindi è necessario ventilare meccanicamente e quelli su cui si sceglie di proseguire vengono tutti intubati e pronati. A questo punto, dunque, in base al numero di pazienti gravi, è necessaria una scelta che si basa sull’analisi della capacità del paziente di guarire. In sostanza si guarda alla speranza di vita.
2. In questo periodo si è spesso tornato a riflettere sul rapporto fra scienza e diritto. Il tema della prima domanda può secondo Lei essere affrontato dando prevalenza alle regole tecniche della medicina o della scienza e in che misura espone il soggetto chiamato a scegliere a responsabilità di natura giuridica o etica?
Luciano Eusebi
La scienza si sostanzia nell’acquisizione di conoscenze e dunque, di per sé, non indica scelte. Le scelte dipendono sempre da valutazioni di carattere razionale ed etico. Ma simili valutazioni non potrebbero essere tali se non tenessero conto dei dati scientifici. Vaccinare i bambini contro certe malattie costituisce una scelta razionale ed etica, ma questa conclusione si fonda proprio sulla considerazione scrupolosa dei dati scientifici. Talora il diritto recepisce e formalizza certe scelte che appaiono incontrovertibili, anche per ragioni organizzative. Ma sarebbe un’illusione pericolosa pensare che il diritto possa e debba dirimere, al di là dei principi di fondo, ogni caso concreto: sono troppe le variabili in gioco. Tanto che non a caso le stesse linee guida, e le norme di buona pratica clinica, cui sono chiamati ad attenersi i medici costituiscono pur sempre meri criteri orientativi, e purché le raccomandazioni in esse previste, come precisa la legge Gelli-Bianco, «risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Del resto, il primo caso italiano di contagio da coronavirus è stato individuato, purtroppo in ritardo, proprio perché una dottoressa ha ritenuto di dover «adeguare» la lettura delle linee guida alle condizioni di polmonite particolarmente gravi del paziente interessato. Il diritto descrive dei binari di principio, e la medicina attraverso quei summenzionati criteri, come pure attraverso lo stesso codice di deontologia medica (nonché attraverso i codici afferenti alle altre professioni sanitarie), orienta alle scelte più appropriate circa i diversi contesti patologici, ricostruiti alla luce delle conoscenze scientifiche. Non riterrei utili contrapposizioni. Né tantomeno una giuridicizzazione sistematica dell’attività medica.
Luigi Ferrajoli
È chiaro che la risposta data alla domanda che precede può essere fornita con cognizione di causa soltanto sulla base di valutazioni di tipo medico. Chi è chiamato a simili scelte è ovviamente un medico: lo stesso medico cui compete la valutazione sulle maggiori probabilità di successo del suo intervento e che non mi pare, perciò, che possa essere esposto, per una simile valutazione e per la conseguente decisione, a responsabilità di tipo morale o giuridico, se non – come in qualsiasi altro intervento medico – per imperizia o negligenza, l’una e l’altra ingiustificate.
Antonio Ruggeri
Il rapporto tra scienza e diritto in genere (e, per ciò che di mia specifica competenza, diritto costituzionale in ispecie) è estremamente complesso, non facile da rappresentare con la necessaria sintesi nello spazio ristretto di cui oggi disponiamo. In breve (e sia pure col costo di una eccessiva schematizzazione), a me pare che tra i termini della relazione in parola si dia (e debba costantemente darsi) mutuo soccorso ed alimento. Per un verso, infatti, le disposizioni normative, con particolare riferimento a quelle concernenti i diritti direttamente interessati dallo sviluppo scientifico e tecnologico (potremmo dire: i diritti scientificamente sensibili), richiedono di essere intese e fatte valere alla luce delle indicazioni venute dalla scienza. Per un altro verso, però, quest’ultima non può restare impermeabile alle indicazioni venute dai principi espressivi dell’etica pubblica repubblicana, nei quali nel modo più immediato e fedele si rispecchiano i valori fondamentali dell’ordinamento.
È interessante fermare un attimo l’attenzione sul punto, chiarendo il senso complessivo delle affermazioni appena fatte, avvalendomi allo scopo del richiamo agli esiti di alcune recenti pronunzie del giudice costituzionale in tema di esperienze d’inizio-vita.
Sappiamo che la legge 40 del 2004 è stata, in buona sostanza, riscritta in alcuni punti di particolare rilievo, attingendo proprio agli esiti fin qui raggiunti dallo sviluppo scientifico e tecnologico[14]. Ancora non molto tempo addietro, poi, la Consulta ha avuto modo di precisare (e il punto è di speciale interesse ai nostri fini) che, laddove la scienza non abbia ancora raggiunto al proprio interno la necessaria stabilità e i più larghi e convinti consensi, la Costituzione è, in buona sostanza, obbligata a restare “muta”, vale a dire non offra essa pure, di conseguenza, sicure indicazioni agli operatori di diritto (v., part. sent. n. 84 del 2016, in relazione alla vessata questione riguardante la eventuale destinazione degli embrioni crioconservati alla ricerca scientifica). La Corte, insomma, rigetta la questione per inammissibilità, allo stesso tempo però – e il punto ha suscitato un vespaio di discussioni – rimettendosi al discrezionale apprezzamento del legislatore in ordine alla scelta giudicata più opportuna, con la conseguenza che il divieto riguardante gli embrioni in parola, quale stabilito dalla legge 40, non è, ad avviso del giudice costituzionale, in sé e per sé irragionevole. Altri divieti, poi, della legge suddetta sono stati fatti salvi, quale quello che impedisce alle coppie composte da persone dello stesso sesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita – sent. n. 221 del 2019 –, sempre in nome del rispetto della discrezionalità del legislatore, malgrado qui – com’è chiaro – la scienza e la tecnologia non rimangano silenti, a conferma del fatto che il ruolo da queste ultime giocato non è comunque assorbente e sempre risolutivo. Non indugio, poi, qui, al fine di non portarmi troppo oltre l’hortus conclusus in cui questa riflessione è tenuta a stare, sui casi, il più eclatante dei quali si è di recente avuto con Cappato[15], in cui invece la Corte non si è fatta scrupolo di menomare la discrezionalità del legislatore, fino al punto di azzerarla del tutto, facendo luogo ad una scrittura “a rime libere” (e non già “obbligate”, secondo la fortunata metafora crisafulliana) della disciplina sin dall’origine mancante[16]. Se ne ha, dunque, una eloquente testimonianza dell’uso alquanto disinvolto fattosi della categoria della “discrezionalità”, dilatata ovvero contratta a fisarmonica secondo congiunturali convenienze e, per ciò stesso, una testimonianza altresì della connotazione marcatamente politica dei giudizi di volta in volta emessi dal giudice delle leggi[17], non casualmente emersa in modo prepotente in talune esperienze processuali nel corso delle quali si è assistito ad un vistoso scostamento da parte del giudice nei riguardi dei canoni relativi all’esercizio delle sue funzioni[18]. La qual cosa, poi, come si è tentato di argomentare altrove, comporta fatalmente uno stato di sofferenza per la “giurisdizionalità” della giurisdizione, sia costituzionale e sia pure, a ruota, comune, chiamata a dare seguito alle pronunzie della Consulta.
Tornando all’insegnamento venutoci dalla 84 del 2016, al tirar delle somme, come si vede, la Costituzione talvolta non “parla” e, però, ci dice la Consulta, in sua vece “parla” e può parlare la legge le cui previsioni, prive in tesi di un parametro superiore “eloquente”, rimangono – a quanto pare – devolute ad un sindacato di ragionevolezza allo stato puro che, nondimeno, la Consulta pilatescamente si astiene dal fare[19].
Ciò che, nondimeno, ai fini della riflessione che vado facendo maggiormente importa, è il riconoscimento che la Consulta fa del debito culturale gravante sulla Costituzione e i suoi interpreti nei riguardi della scienza, dalle cui risultanze quella e questi costantemente si alimentano. Allo stesso tempo, però, la scienza non può, in alcun caso o modo, menomare o mettere a rischio la dignità della persona, non può – come dicevo – disumanizzarla e, per ciò stesso, disumanizzarsi[20].
Ciò posto, venendo specificamente al cuore del quesito postoci, gli operatori sanitari possono trovarsi obbligati – come dicevo già in relazione alla domanda precedente – a far luogo a scelte dolorose, che interpellano allo stesso tempo la scienza e la coscienza di chi le compie. Alle volte, le sollecitazioni che vengono dalla prima sono abbastanza chiare e ferme nell’orientamento dato a coloro cui si indirizzano, altre volte invece il quadro è confuso ed appannato, quale ad es. si ha ogni qual volta non sia agevole stabilire le probabilità di successo del trattamento medico in relazione alle condizioni complessive del paziente. È proprio in questi frangenti che il peso gravante sulla coscienza di chi comunque una scelta deve compiere si fa insopportabile, lasciando un segno che potrebbe poi non venire mai meno. In ogni caso, occorre produrre ogni sforzo per far convergere ed incanalare assieme gli svolgimenti della scienza e le pratiche ad essi conseguenti per riportarli comunque entro il solco tracciato dai principi dell’etica pubblica enunciati nella Carta costituzionale, salvaguardando a un tempo la dignità delle persone, specie appunto di quelle maggiormente vulnerabili ed esposte, e restando pur sempre fedeli ai doveri di solidarietà e di fedeltà alla Repubblica nel loro fare “sistema”.
Giorgio Trizzino
Credo che nel caso di specie, così come in tutti i casi di grave emergenza sanitaria, scienza e diritto debbano legarsi inscindibilmente. Il tema della scelta non può che fondarsi su linee guide e prassi che tutti i sanitari debbono seguire pedissequamente e che si fondano su principi generali che negli anni si sono consolidati sulla scorta di regole scientifiche orientate a principi bioetici. La scelta, come è normale che sia, non è orientata sulla scorta di un giudizio di valore sull’individuo. Sono scelte effettuate, come già detto, su basi scientifiche orientate alle principali indicazioni bioetiche. E’ chiaro che scegliere può essere moralmente devastante e sono questi i casi in cui il ruolo del medico assurge a livelli di responsabilità che poche altre professioni hanno. Per questo motivo i nostri medici vanno supportati ed incoraggiati cercando, per quanto possibile, di scaricarli anche dal pensiero di eventuali responsabilità.
3. Dal punto di vista filosofico la decisione di posporre l’intervento sanitario in un caso di impossibilità di fare fronte a diversi interventi è governata secondo Lei da un’etica dei diritti? La scelta tragica fra diversi diritti che non possono trovare tutti contemporanea soddisfazione merita un esame comparativo di tipo soggettivo ovvero una prospettiva più ampia? In altri termini, la scelta va fatta unicamente orientando l’indagine sul profilo del singolo paziente e dei tempi di ricovero o deve coinvolgere anche una prospettiva solidaristica che guarda alla società, al beneficio che essa potrebbe avere in relazione alle scelte adottate dal sanitario?
Luciano Eusebi
Ancora una volta, penserei, si tratta di operare valutazioni di proporzionalità circa le esigenze terapeutiche e i rischi connessi a ciascuno stato patologico, in rapporto alle condizioni dei singoli malati. Senza escludere il rilievo di alcuna condizione personale. E, in effetti, anche nei nostri ospedali lombardi più oberati si è continuato a prestare assistenza in questi giorni – pure attraverso le terapie intensive – anche in favore di chi corresse rischi gravi diversi da quelli derivanti dal coronavirus. La tentazione di un certo semplificare giuridicistico (ma non sarebbe espressione di un buon diritto) potrebbe condurre a immaginare che in determinate situazioni si tratti di operare scelte radicalmente alternative: o una cosa o l’altra. Invece si tratta di coltivare la difficile strada dell’ “et-et”, secondo quelle pur impegnative valutazioni di cui s’è detto. Sicuramente, in ogni caso, tutte le volte in cui nella storia s’è immaginato di poter sacrificare a priori, per un supposto bene sociale, singoli individui le conseguenze sono risultate tragiche. Piuttosto, mi sia consentito ripeterlo, dovremo pensare a non ritrovarci più, in futuro, in una penuria nient’affatto inevitabile delle risorse (il che, peraltro, dovrebbe valere, nel quadro di un’effettiva assunzione globale delle responsabilità, anche rispetto ai paesi poveri del mondo).
Luigi Ferrajoli
Il solo criterio e il solo obiettivo morale cui devono informarsi le scelte del medico sono rappresentati dal salvataggio della vita del singolo malato. Considerazioni sociali di altro genere non devono trovare spazio in simili scelte e dilemmi.
Antonio Ruggeri
Credo di aver già implicitamente risposto a questa domanda ma può tornare utile ancora una rapida precisazione. L’idea che si possa (e si debba) “bilanciare” una vita umana con altre vite è, francamente, ripugnante ed insopportabile. Ogni volta che una vita si spegne, l’intera umanità ne esce impoverita senza rimedio; e, quando ciò avviene, i medici cui, in ultima istanza, è demandata la scelta ne risultano comunque sconfitti, anche se grazie al loro operato altre vite sono state risparmiate e recuperate a beneficio dell’intera collettività. Insomma, a conti fatti, la soluzione risulta giustificata dalla “logica” stringente e per vero soffocante del male minore o, per dir meglio in termini costituzionalmente significativi, appare “coperta” dal “metaprincipio” della massimizzazione della tutela nel suo fare tutt’uno con i doveri di solidarietà e di fedeltà alla Repubblica. Non saprei però dire, non essendo un operatore sanitario e non riuscendo a mettermi nei suoi panni, se ciò possa valere a sgravare la coscienza del peso opprimente che viene dalla consapevolezza di aver abbandonato anche una sola vita umana al proprio crudele destino.
Giorgio Trizzino
La domanda è posta bene in quanto si parla di scelta tragica…è ovvio che preferire una vita ad un’altra comporti in sé una enorme carica di emotività e di responsabilità. Di certo, dunque, è una scelta di ampio respiro che guarda alla società ed ai suoi bisogni nonché alle sue prospettive. Credo che in questo caso la scelta prettamente sanitaria sia molto vicina a quella sociale…preferire infatti quadri clinici migliori comporta un risparmio di tempo e di risorse ed è normale che anche la giovane età del paziente incida, sia in considerazione di temi prettamente scientifici che in considerazione di risultanze prettamente sociali.
4. Nell’ipotesi in cui il diritto alla assistenza sanitaria venisse limitato secondo criteri di priorità dal legislatore, riterrebbe opportuno anche riconoscere e garantire ai sanitari un diritto alla obiezione di coscienza come normativamente previsto, ad esempio, nei casi di sperimentazione animale, procreazione medicalmente assistita e interruzione volontaria di gravidanza? Ed in caso di mancato riconoscimento normativo di un diritto di “obiezione” quali scenari pensa si aprirebbero in concreto negli ospedali italiani?
Luciano Eusebi
Non credo che si tratti di una strada auspicabile, perché la medicina possiede già criteriologie di intervento applicabili anche a contesti difficili. Del resto la tutela della popolazione rispetto al diffondersi del coronavirus si fa assumendo tutte le strategie necessarie, anche le più rigorose, per evitare ulteriori contagi, e non decidendo di non curare più, senza distinzione, altri malati. E anche a tal proposito, bisogna evitare messaggi fuorvianti. Resta comunque, in effetti, il principio liberale fondamentale per cui, nel momento in cui il diritto ritiene di autorizzare comportamenti positivi, quali ne siano le ragioni, che abbiano per conseguenza la lesione di uno dei diritti inviolabili dell’uomo, come la vita, non può imporre un tale comportamento al singolo individuo.
Luigi Ferrajoli
Nell’ipotesi, spero inverosimile, che il legislatore dettasse criteri di scelta di natura diversa da quello qui sostenuto dell’uguale valore delle persone e della sola valutazione medica in ordine alle maggiori possibilità di successo dell’intervento, sarebbero, a mio parere, non soltanto giustificate, ma doverose, l’obiezione di coscienza del medico e, prima ancora, una denuncia di incostituzionalità di una simile norma di legge per violazione dell’articolo 3, 1° comma della nostra Costituzione secondo cui tutti hanno “pari dignità sociale” senza distinzioni di alcun genere
Antonio Ruggeri
Trovo forzato, se posso esprimermi con franchezza, l’accostamento tra le scelte tragiche alle quali possono trovarsi (e temo che già oggi si trovino) chiamati a far luogo gli operatori sanitari in conseguenza dell’emergenza del coronavirus (o altre analoghe) e le vicende relative alla sperimentazione animale o alla procreazione medicalmente assistita ed all’interruzione della gravidanza (ma allora – e perché no? – anche a quelle di fine-vita[21]). In questi ultimi casi, infatti, non si dà una vera e propria emergenza, le strutture sono in grado di funzionare e non v’è motivo di non mettere al riparo la coscienza degli operatori stessi da scelte per essa laceranti. Nel caso invece di carenza dei posti-letto rispetto al flusso imponente dei pazienti che ne avrebbero necessità, la scelta va purtroppo fatta e riguarda non soltanto il singolo operatore ma la stessa struttura di appartenenza. E vengo così alla prima parte del quesito postoci. L’ordine delle priorità non può essere in modo praticamente insindacabile stabilito dal legislatore. Dico così, dal momento che non riesco a prefigurarmi lo scenario di un eventuale sindacato di costituzionalità su norme di legge adottate per far fronte ad una ingravescente emergenza, con i tempi allo scopo richiesti e gli effetti propri delle pronunzie emesse in chiusura del giudizio. Sarebbe – per fare un esempio altrettanto clamoroso – come immaginare un controllo di costituzionalità sulla legge o altro atto con cui le Camere deliberino lo stato di guerra (se, ad es., ricorrano le condizioni al riguardo stabilite nella Carta costituzionale, nel mentre il nemico c’invade o invia missili distruttivi sul nostro territorio).
A me pare, insomma, che qui più che altrove, proprio perché le scelte da prendere riguardano diritti scientificamente sensibili, fino a coinvolgere la stessa vita umana, ci si debba rimettere al prudente apprezzamento degli operatori idoneo a manifestarsi nella cornice di indicazioni essenziali conformi, a un tempo, alla scienza ed all’etica costituzionale. Non mi sembra, poi, praticabile un diritto di obiezione di coscienza del singolo medico, che nel caso della messa a disposizione dei posti-letto di terapia intensiva non vedo come possa esprimersi. Se, poniamo il caso, un posto è già occupato e si tratta di scegliere se liberarlo o no a beneficio di un altro paziente, facendo valere il (supposto) diritto in parola, il medico in buona sostanza si laverebbe le mani (ma non pure – credo – la coscienza), portando al risultato di lasciare il posto a chi già lo occupa. Detto altrimenti, la scelta è comunque posta in essere (nell’esempio appena fatto, in applicazione del criterio first come, first served), non v’è dunque una “non scelta”.
In conclusione, a me pare che le Raccomandazioni di etica clinica, sopra richiamate, forniscano già ai medici, unitamente alle altre indicazioni risultanti dal codice deontologico dell’ordine di categoria, le necessarie indicazioni di base; di lì in avanti, poi, sta all’intelligenza ed alla sensibilità di chi opera sul campo adottare i comportamenti ad esse conseguenti.
Voglio chiudere con una nota di ottimismo, malgrado la spinosa congiuntura del tempo presente, esprimendo l’auspicio, ed anzi la ferma convinzione, che già oggi ed ancora di più nel prossimo futuro la stragrande maggioranza dei medici e del personale che li assiste facciano e faranno quanto è in loro potere per portarci fuori dal tunnel, sempre che sorretti dal necessario senso civico e del bene comune dell’intero consorzio civile, chiamato ad una collettiva prova di responsabilità, a mia memoria, senza precedenti. L’emergenza del coronavirus è, forse, l’occasione giusta per dimostrare tutti assieme che siamo e vogliamo restare comunità animata da spirito di reciproco servizio, all’insegna di quei doveri di solidarietà e di fedeltà alla Repubblica che soli possono traghettarci oltre la sfortunata congiuntura presente[22].
Giorgio Trizzino
È difficile rispondere ad una simile domanda e di certo bisogna considerare che gli esempi da voi riportati riguardano sfere un po’ diverse rispetto ad uno stato emergenziale paragonabile ad una guerra.
Credo che la valutazione vada fatta in questo senso e di certo non è facile rispondere in poche righe… Credo sia un argomento troppo complesso che merita riflessioni ed approfondimenti di un certo livello.
È vero però allo stesso tempo che è difficile fare delle reali previsioni circa la portata di questa epidemia che ormai sembra avere tutte le caratteristiche di una pandemia e che può essere combattuta solo con l’aiuto dei nostri medici. Credo sia il caso di concentrarci sul complesso scenario cui già i nostri ospedali sono sottoposti.
4. Le conclusioni
Roberto Giovanni Conti
Tempi bui quelli che stiamo vivendo che, tuttavia, non possono far recedere dalla necessità di riflettere sull’emergenza, fotografare quanto sta accadendo per poi riservare magari ad un futuro (si spera) migliore i frutti (se ve ne sono) e le macerie che sembrano già evidenti.
Le risposte qui raccolte hanno assunto il sapore della tragicità delle domande e offrono lo spaccato del costituzionalista, dell’accademico penalista, del medico e del filosofo del diritto.
Riflessioni importanti, profonde e sicuramente tali da costituire una guida sul tema che Giustizia insieme ha inteso affrontare.
Dietro al tema, tuttavia, rimangono le persone, e la consapevolezza della vulnerabilità estrema nella quale esse si trovano quando il sistema Paese è chiamato ad offrire loro protezione e assistenza.
La premessa è che il Paese deve oggi più che mai la sua vita al personale sanitario.
Di questo tributo in termini di sacrifici, di abnegazione, di senso del dovere e di solidarietà ci siamo costantemente nutriti in questi giorni e dovremo continuare a nutrirci nei mesi a venire, consapevoli che il sistema sanitario ha rappresentato e deve comunque rappresentare la spina dorsale del Paese. Magari questo aiuterà a riflettere di più sulle spinte che in questi anni hanno condotto, sul piano giudiziario, ad accelerare sulla leva risarcitoria avendo di mira il diritto alla salute. Leve sulle quali, onestamente, il mondo sanitario ha reiteratamente insistito senza incontrare, anche nel mondo giudiziario, interlocutori capaci di raccogliere il messaggio.
Non può né deve essere questa la sede per rileggere criticamente il passato, fortemente caratterizzato da logiche rivolte alla protezione del malato in nome della salvaguardia del diritto alla salute rispetto alla posizione del sanitario che lo ha in cura, ma semmai di sollecitare una riflessione aggiuntiva e più partecipata e dialogata sui temi che ruotano attorno alla salute delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, forti dell’esperienza in questi frangenti maturata.
Detto questo, il paradosso al quale assistiamo si nutre di fotogrammi distonici.
Per un verso, un Paese impegnato commendevolmente, con le sue massime autorità istituzionali, al senso di responsabilità dei nipoti e dei figli affinché si adottino comportamenti idonei a salvaguardare la salute degli anziani e dei beni preziosi che essi custodiscono. Un altro Paese, tuttavia che, per mezzo di chi è chiamato, in un certo dato momento della vita, a decidere sul se sia possibile o meno praticare una terapia (i medici, appunto), sembra in certi momenti avere parimenti il “bisogno” e la “necessità” di posporre quella vulnerabilità di fronte ad altri valori concorrenti, di pari o prevalente valore.
Ora, dietro tutto questo cosa governa le scelte, chi le governa, sulla base di quali protocolli, con il coinvolgimento di chi, del medico-anestesista del reparto dell’ospedale, dell’intera equipe, dei congiunti o del paziente stesso, dei comitati etici? Quale formalizzazione è prevista per le attività che determinano l’ingresso o il non ingresso nelle terapie intensive?
La logica emergenziale che ci è stata fornita dagli organi di informazione fa pensare che tutto questo non sia accaduto per protocolli che alla base abbiano avuto il supporto scientifico delle diverse branche sanitarie coinvolte, ma sia stato necessariamente governato, appunto, dall’emergenza.
La mia generazione non ha vissuto il periodo della guerra ma, semmai, quello della riflessione in vitro su certi argomenti scottanti e tragici per lo più del passato e comunque mai di “massa”, presi al più come parametro ipotetico e astratto sul quale misurare un’elaborazione teorica, una riflessione, una scelta astratta.
Oggi, alla diffusione dei bollettini della Protezione civile, questa stessa generazione si stringe sulla sedia e rimane attonita, vive a contatto – spesso solo a distanza e più spesso virtuale per le notizie diffuse sui media o sui social – con una realtà che registra un numero imponente di medici infettarsi o addirittura perdere la vita nell’esercizio della professione e che ha visto e vede i medici costretti ad adottare scelte appunto tragiche, rivolte ad aprire o chiudere le porte della vita a malati che non possono contemporaneamente accedere a cure destinate a rappresentare una chance di sopravvivenza per il paziente.
Una generazione che sconta dunque la propria impreparazione emotiva rispetto a tali vicende.
Nulla di paragonabile, certo, alla realtà crudele che avvolge chi opera nei reparti di terapia intensiva, lapidariamente descritta dal primario della medicina d’urgenza dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII Roberto Cosentini quando ha qualche giorno addietro dichiarato che “anche non potere aiutare tutti, uccide”.
Proprio in una logica di sostegno rispetto a queste scelte tragiche si sono inserite le “raccomandazioni della SIAARTI, nelle quali si sono individuati, da parte dell’organismo rappresentativo degli anestesisti-rianimatori, dei criteri della massima utilità, da mediare in relazione alla presenza di altre malattie pregresse dei malati ed all’età anagrafica.
Sul significato di tali Raccomandazioni si stanno confrontando i medici e gli studiosi, fornendo letture non omogene, come emerge da alcuni documenti (nota del Comitato tecnico Scientifico COVID 19 istituito presso la Regione Veneto del 13.3.2020; M.Balistreri, Gli anestesisti e la legge del mare: “Prima le donne e i bambini”, in Quotidiano sanità, 15.3.2020; M. Cozzoli, A chi dare la precedenza? Riflessioni etiche sulle Raccomandazioni della Siaarti, in Quotidiano sanità, 19.3.2020; M. Mori, Le Raccomandazioni degli anestesisti e la fine dell’eguaglianza ippocratica; F. Anelli, Coronavirus. Fnomceo sul documento anestesisti: “Nostra guida resta Codice deontologico. Non dobbiamo metterci nelle condizioni di applicare questi inaccettabili triage di guerra”; in Quotidiano sanita, 8 marzo 2020, Coronavirus. Geriatri: “No a Rupe Tarpea, la soluzione non è sacrificare gli anziani”; in Quotidiano sanita, 8 marzo 2020).
Vi è poi stato chi ha apertamente criticato il documento anzidetto arrivando a sostenere che i criteri di massima utilità stilati dalla SIAARTI “con difficoltà si conciliano con il modello personalista sul quale si fonda la Costituzione italiana, che assume la salute come un diritto fondamentale della persona e ambito inviolabile della dignità umana” (C. Di Costanzo, V. Zagrebelsky, L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, contributo al Forum su Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, in BioLaw Journal, 2/2020, 16 marzo 2020).
L’attuale contesto impedisce di potere giudicare o valutare criticamente ciò che sta accadendo oggi negli ospedali di frontiera. Di fronte ad una scelta dilemmatica che avvantaggia l’un individuo a scapito dell’altro non si può, in verità, né si deve ragionare in termini di responsabilità di chi adotta la scelta, se è vero che la condotta di chi agisce tende inevitabilmente a sacrificare un interesse a vantaggio di altro interesse di pari valore, semmai ponendosi un problema nel futuro del quale lo Stato dovrebbe farsi carico in via di indennizzo per le scarse risorse destinate al servizio sanitario (decisioni di primo grado, seguendo la bipartizione operata da Guido Calabresi e Philip Bobbitt nel loro Scelte tragiche, Milano, 2006, 11 ss.) che hanno condizionato la decisione di secondo grado del medico /equipe-cfr., sul punto, P. Tincani, I dilemmi morali e le scelte tragiche, in Non è giusto! Dilemmi morali e senso della giustizia nelle rappresentazioni degli adolescenti, a cura di P. Ronfani, Urbino, 2007, 55-.
Invece questo contesto ad imporre di fare memoria su queste tragiche vicende e di interrogarsi, quando verrà il momento- pur sperando che non si debba più vivere esperienze simili a questa – su come hanno agiti i singoli operatori sanitari nell’emergenza in una prospettiva di costruzione di protocolli condivisi che, seguendo una prospettiva multidimensionale e multidisciplinare, aperta a raccogliere le indicazioni delle diverse branche di specialisti medico sanitari coinvolti ma anche del corpo dei giuristi e bioeticisti al fine di individuare a priori ed in via generale i parametri da considerare – criterio utilitarista, criterio cronologico (c.d. first come, first served, G. Calabresi e P. Bobbitt, Scelte tragiche, cit., 39) criterio casuale (c.d. lottery- G. Calabresi e P. Bobbitt, Scelte tragiche, cit., 38 ss.), o criterio terapeutico terapeutico correlato alle maggiori probabilità di successo dell’intervento medico o della maggiore speranza di vita – e le priorità che devono eventualmente governare tali criteri pur nella necessaria valutazione delle concrete condizioni del paziente, non potendosi comunque sottovalutare il ruolo del consenso del suddetto al compimento o al non compimento del trattamento medico prospettato come necessario dai sanitari. Ciò in vista dell’identificazione dei criteri di accesso alla terapia non più condizionati dalla situazione emergenziale o, malauguratamente, da fattori non omogenei rispetto alle diverse strutture sanitarie che la fragilità delle persone coinvolte non merita.
Merita in ogni caso oggi sottolineare il sacrificio di quelle persone estremamente vulnerabili e fragili che hanno donato la loro vita per il benessere degli altri più fortunati.
Quelle persone (e i loro cari) che sono arrivate a sirene spiegate nelle aree di emergenza con la speranza di essere affidate alle cure dei medici, che pensavano di incontrare i loro salvatori e che, invece, hanno trovato al momento del triage una risposta implacabile, probabilmente non immaginata e quasi sicuramente non voluta.
Una risposta che probabilmente ha lasciato impietriti i loro cari, già tormentati dalle prevedibili angosce collegate alla paura del contagio e tenuti a sopportare nella tragicità del momento il peso di una notizia ancora più insopportabile da accettare per le motivazioni che l’hanno resa tale.
Insieme al sistema sanitario quei morti sono gli eroi di questo tempo, i sacrificati del terzo millennio che se ne sono andati e se ne vanno silenziosamente, dando la mano e lasciando il testimone a chi è più fortunato.
La logica dell’età anagrafica correlata alla spes di vita è sicuramente rispettabile, ma non pare possa fare recedere dalla necessità di regimentare il futuro in modo più attento proprio grazie al sacrificio dei molti che non ce l’hanno fatta ed alla cui memoria andranno dedicati i passi successivi che la scienza medica e gli operatori del diritto faranno insieme.
Ma siamo sicuri che l’assenza di indicazioni non possa indurre a scelte tragiche con diverso orizzonte? Pensiamo alla scelta tragica fra due pazienti entrambi afflitti dal virus e che veda coinvolti un medico che potrebbe salvare tante vite ed un altro anziano, sia esso o meno anziano, ma comunque “non utile” alla società. Interrogativi tremendi. Il rango e la fonte delle raccomandazioni SIAARTE, se sicuramente contribuisce a sgravare il medico dal peso della scelta (v. C. Baldi, Il medico rianimatore: “È un’emergenza e dobbiamo scegliere i criteri per le cure in terapia intensiva”), è dunque altrettanto appagante per chi la subisce?
Questo non può e non deve essere il luogo della verifica a posteriori delle scelte tragiche, quanto quello della riflessione pro futuro, rispetto alla quale non ci si potrà accontentare di un documento proveniente da una categoria degli operatori sanitari per regolamentare, in condizioni diverse da quelle hanno originato le Raccomandazioni di cui si è detto, il fine vite delle persone più fragili. Occorrerà un coinvolgimento più ampio di diverse categorie di medici, di giuristi e di bioeticisti, come hanno opportunamente suggerito Caterina Di Costanzo e Vladimiro Zagrebelsky nel loro recente L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, ricordato in nota da Antonio Ruggeri.
Sembra davvero che “fare memoria” dei singoli casi accaduti in questi frangenti aiuterà a capire in che direzione si sono orientate le scelte, quali condizioni di salute e di età hanno preso in considerazione, se le stesse si sono verificate in condizioni di contemporanea presenza di malati ovvero sono state effettuate con filtri effettuati a monte. Anche la formalizzazione di ciò che è accaduto in relazione alla peculiarità delle situazioni potrà essere di estremo aiuto per il futuro, proprio al fine di ponderare riflessioni e decisioni migliori, allocazioni di risorse più maggiormente orientata alla salvaguardia delle persone.
Sottolineare una particolare cura e attenzione su questi aspetti, anche di natura formale, non vuol dire ribaltare su quei medici che si trovano ad operare in condizioni di carenza di presidi da offrire a tutti coloro che vengono accolti in una struttura sanitaria ulteriori adempimenti, ma solamente dare un senso alla dignità di quei pazienti che non hanno potuto fruire delle terapie.
Una dignità che, dunque, richiede di soffermarsi anche sui particolari, sui minimi particolari che accompagnano un malato in fin di vita. Basti pensare alla solitudine di chi muore o è sul punto di morire, alla solitudine di chi, parente, accompagna ma par di capire fino ad un certo punto il proprio caro in ragione delle esigenze di contenimento e diffusione dei contagi, alla solitudine dei lutti vissuti in isolamento, all’isolamento nel momento della decisione su quale terapia praticare a quel malato.
Occorre, forse, fermarsi un attimo e pensare.
E questo rallentamento che prioritariamente concerne coloro che guardano ab externo ciò che sta accadendo, impone il tentativo di ricollocare le vicende, o meglio ogni singola, nel paradigma normativo adeguato.
Occorre, così ritornare alla legge sulle relazioni di cura fra medico e paziente a quella necessità di presidiare la tutela della vita e della dignità sulla quale il legislatore edificò le disposizioni a tutela dell’autodeterminazione e, per quel che qui più importa, del consenso.
Disposizioni alle quali venne opportunamente affiancato un quadro normativo che si occupa, anche, delle situazioni di emergenza.
L’art.1, c.7 della legge n.219/2017 così dispone: Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”
Si tratta, dunque, di una previsione che si innesta in un articolo dedicato al consenso informato che anche per le situazioni di emergenza fissa dei paletti insopprimibili a presidio delle persone, ma che lascia altresì al sanitario la possibilità di prescinderne “ove le circostanze” non consentano di recepire quella volontà.
Ecco allora l’esigenza di mettere in chiaro che il bene della vita in gioco ogni volta ed in modo ovviamente cangiante per quanto risulti diversa la singola vicenda proprio in ragione di quella carnalità dei fatti sulla quale ritorna spesso in modo illuminante Paolo Grossi impone una straordinaria attenzione su ciò che accade a chi è talmente fragile e solo da non potere pretendere nulla.
Basti riflettere sul fatto che se un ospedale ha inteso fissare al proprio interno una direttiva che guarda a certi criteri in sede di triage, le conseguenze che derivano da quella scelta bloccano in radice la possibilità di tentare un dirottamento del paziente su altre strutture che magari hanno a disposizione i presidi capaci di offrire una chance di vita al paziente. In altri termini i canali della solidarietà tra strutture mediche dislocate in ambiti territoriali diversi delle quali pure si è sentito parlare potrebbero essere attivate solo se, a monte, vi sia una direttiva che impone comunque di salvaguardare la vita del paziente, al di là della speranza di vita o dell’età anagrafica.
Ora viene da chiedersi quanto le strutture sanitarie abbiano fatto fino a ieri per formare ed informare i medici sui contenuti della legge che si è appena ricordata, quanto quella legge sia stata praticata ed attuata negli ospedali.
Ed in questa prospettiva anche le Raccomandazioni SIAARTI qui più volte ricordate in alcuni punti non sembrano affatto brillare per chiarezza quanto al ruolo dei malati ed al loro coinvolgimento nelle scelte terapeutiche.
Un altro punto di riflessione che dovrà necessariamente aprirsi è quello della comparazione fra i diversi Paesi chiamati a fronteggiare l’emergenza coronavirus, in Europa e nel mondo.
Il dopo richiederà uno studio dei casi, un’analisi di ciò che si è fatto, delle modalità di reazione, della comparazione sulle scelte tragiche volta per volta adottate.
Ed occorrerà, ancora una volta, chiedersi se la vita possa valere di più o di meno in un Paese della nostra Europa a seconda della nazione in cui quella vita è in gioco.
Occorrerà dunque chiedersi se l’allocazione delle risorse in ambito sanitario debba essere lasciata integralmente alle scelte dei singoli Stati ovvero se occorra ragionare su standard minimali comuni a livello europeo.
Insomma occorrerà riflettere, prepararsi, essere attenti a raccogliere tutte le sollecitazioni che la tragicità del momento richiede, in nome dei valori rappresentati dalle radici comuni e dalla fratellanza che a livello europeo devono rimanere comuni.
Ecco che, al tirare delle somme, ci si accorge del valore incommensurabile di quelle vite interrotte dal coronavirus e dalle scelte tragiche subite.
Quelle persone che non ci sono più danno quindi il senso dell’essere uomo, offrendo ancorché inconsapevolmente e spesso senza essere state interpellate la loro vita, il cui valore non può dirsi recessivo in alcun modo rispetto a quello del più giovane e/o meno grave e perciò fortunato in quanto titolare di un’aspettativa di vita superiore, avendo anzi dimostrato, tragicamente, di valere molto di più, per chi ce l’ha fatta al loro posto e per l’intera comunità.
Sulle loro vite occorrerà dunque fare memoria per un futuro più attento ai bilanciamenti delle risorse, come hanno sottolineato gli intervistati, più rispettoso dell’esistenza umana, fine e confine – come ha ricordato Marco Dell’Utri nel suo splendido saggio apparso su questa Rivista (Saepe in periculis Note in tema di persona e comunità ) – di ogni intervento normativo e di ogni applicazione giudiziaria di un comando che va ineludibilmente plasmato in modo da salvaguardare i beni ed i valori fondamentali della persona.
[1] Cfr. in tema, i non coincidenti punti di vista di V. Baldini, Emergenza sanitaria e Stato di prevenzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 27 febbraio 2020, 590 ss., e, dello stesso, pure ivi, Lo Stato costituzionale di diritto all’epoca del coronavirus, 10 marzo 2020, 683 ss., e, ora, Emergenza sanitaria nazionale e potere di ordinanza regionale. Tra problema di riconoscibilità’ dell’atto di giudizio e differenziazione territoriale delle tutele costituzionali, 20 marzo 2020, e A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 10 marzo 2020, nondimeno espressi non già con riguardo allo stato di fatto quanto in relazione al modo con cui è stato ad oggi fronteggiato; inoltre, C. Buzzacchi, Coronavirus e territori: il regionalismo differenziato coincide con la “zona gialla”, in La Costituzione.info (www.laCostituzione.info), 2 marzo 2020; G.L. Gatta, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 16 marzo 2020; F. Petrini, Emergenza epidemiologica Covid19, decretazione d’urgenza e costituzione in senso materiale, in Nomos (www.nomos-leattualitaneldiritto.it), 1/2020 e, pure ivi, G. Stegher, In considerazione dell’emergenza sanitaria: Governo e Parlamento al banco di prova del Covid-19; G. Di Gaspare, Effetto domino del coronavirus. 6 proposte di contrasto ad impatto immediato, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 16 marzo 2020; e ancora P. Pasquino, IL coronavirus contro il Parlamento, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 17 marzo 2020; B. Caravita, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, Editoriale, in Federalismi (www.federalismi.it), 6/2020, 18 marzo 2020 e nella stessa Rivista, gli interventi che sono nell’Osservatorio emergenza Covid-19; I. Massa Pinto, La tremendissima lezione del Covid-19 (anche) ai giuristi, e F. Gianfilippi, Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020 n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario, entrambi in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 18 marzo 2020; F. Balaguer Callejón, Solidarietà dimenticata: il fallimento della narrazione pubblica sul coronavirus, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 20 marzo 2020, e, pure ivi, P. Carrozzino, Il sistema delle fonti alla prova dell’emergenza sanitaria da Covid-19; M. Dell’Utri, Saepe in periculis. Note in tema di persona e comunità, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 22 marzo 2020. Infine, i numerosi contributi al Forum su Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, destinato al fasc. 2/2020 di BioLaw Journal (www.biodiritto.org), e gli altri al Forum su La gestione dell’emergenza sanitaria tra Stato, Regioni ed enti locali, in Dir. reg. (www.dirittiregionali.it), 1/2020, e, per i profili di diritto eurounitario, F. Casolari, Prime considerazioni sull’azione dell’Unione ai tempi del Coronavirus, in Eurojus (www.rivista,eurojus.it), 1/2020, 2 marzo 2020, 95 ss., e, pure ivi, C. Sanna, Il COVID-19 ferma i trasferimenti Dublino da e per l’Italia.
[2] La si può vedere, ora, anche nel mio Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in Dir. reg. (www.dirittiregionali.it), 1/2020, 21 marzo 2020, 368 ss., spec. 371.
[3] Con riguardo a queste ultime, v., ora, la succinta ma densa riflessione di M. Carducci, Il corpo “malato” del Sovrano, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 19 marzo 2020.
[4] Così, nella decisione subito di seguito richiamata.
[5] Così, con riguardo al caso odierno, anche G. Azzariti, Le misure sono costituzionali a patto che siano a tempo determinato, in La Repubblica, 8 marzo 2020.
[6] Sul rilievo del codice in parola e sui suoi possibili conflitti con le discipline legislative in vigore, v., ora, E. Pulice, Riflessioni sulle dimensioni della normatività: etica, deontologia e diritto. Il ruolo della deontologia in prospettiva comparata, in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 1/2020, 173 ss.
[7] G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in AIC (www.associazionedeicostituzionalisti.it), 14 marzo 2008.
[8] A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss.
[9] Se ne tratta nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Giappichelli, Torino 2009, 45 ss., dal quale, volendo, possono aversi maggiori ragguagli.
[10] Sul primo, v., almeno, F. Giuffrè, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Giuffrè, Milano 2002, e, dello stesso, I doveri di solidarietà sociale, in AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - E. Grosso - J. Luther, Giappichelli, Torino 2007, 3 ss., nonché, ora, Alle radici dell’ordinamento: la solidarietà tra identità e integrazione, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2019, 4 settembre 2019, 555 ss.; V. Tondi della Mura, La solidarietà fra etica ed estetica. Tracce per una ricerca, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 00/2010, 2 luglio 2010; A. Spadaro, in più scritti, tra i quali L’amore dei lontani: universalità e intergenerazionalità dei diritti fondamentali fra ragionevolezza e globalizzazione, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it); Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, e I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2011, 6 dicembre 2011; S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014; A. Morelli, I principi costituzionali relativi ai doveri inderogabili di solidarietà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura e A. Morelli, Giuffrè, Milano 2015, 305 ss., e dello stesso, Solidarietà, diritti sociali e immigrazione nello Stato sociale, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 3/2018, 24 ottobre 2018, 533 ss.; L. Carlassare, Solidarietà: un progetto politico, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 1/2016; F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà, Bononia University Press, Bologna 2016; A. Apostoli, Il consolidamento della democrazia attraverso la promozione della solidarietà sociale all’interno della comunità, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 1/2016, 20 aprile 2016, 1 ss., e, della stessa, pure ivi, La dignità sociale come orizzonte della uguaglianza nell’ordinamento costituzionale, 3/2019, 4 dicembre 2019; D. Porena, Il principio di sostenibilità. Contributo allo studio di un programma costituzionale di solidarietà intergenerazionale, Giappichelli, Torino 2017; G.L. Conti, Il pendolo della solidarietà nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017, 463 ss.; G. Bascherini, La doverosa solidarietà costituzionale e la relazione tra libertà e responsabilità, in Dir. pubbl., 2/2018, 245 ss.; J. Ansuátegui Roig, Solidariedad, deberes y Constitución: algunos apuntes conceptuales, in Dir. cost., 2/2019, Doveri costituzionali, a cura di A. Morelli, 11 ss.; con specifica attenzione ai bisogni delle generazioni future, A. Saitta, Dal bilancio quale “bene pubblico” alla “responsabilità costituzionale democratica” e “intergenerazionale”, in Giur. cost., 1/2019, 216 ss., spec. 223 ss., nonché, per le questioni di biodiritto, M. Tomasi, Genetica e Costituzione. Esercizi di eguaglianza solidarietà e responsabilità, Editoriale Scientifica, Napoli 2019. Quanto, poi, al secondo dovere, dopo i noti studi G. Lombardi e L. Ventura, per tutti, A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano 2013, e, più di recente, G.M. Salerno, La fedeltà alla Repubblica: alla ricerca dei caratteri essenziali, in Dir. cost., 2/2019, 85 ss.
[11] Su alcune questioni riguardanti la natura delle Raccomandazioni in parola e sul significato di alcune loro espressioni, v., part., C. di Costanzo - V. Zagrebelsky, L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, contributo al Forum su Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, cit., in BioLaw Journal, 2/2020, 16 marzo 2020.
[12] Da notizie di stampa ho notizia che l’assessorato alla sanità della Regione Piemonte si accinge ad inviare alle direzioni sanitarie un “documento vincolante” avente ad oggetto l’ordine delle priorità nella gestione dei posti di terapia intensiva ove ciò si renda necessario (A. Mondo - A. Rossi, Emergenza coronavirus, la Regione: “Un codice blu per regolare le terapie intensive”, in La Stampa, 12 marzo 2020). Sono inoltre venuto in possesso di una nota del Direttore Generale dell’Area Sanità e Sociale della Regione Veneto del 13 marzo 2020, prot. 120693, che richiama alla osservanza delle Raccomandazioni suddette.
[13] V., per tutti, T.L. Beauchamp - J.F. Childress, Princìpi di etica biomedica, ed. it. a cura di F. Demartis, ed. Le Lettere, Firenze 1999, 363 ss., spec. 377, con riguardo al carattere relativo della regola first come, first served, e C. Petrini, Triage in public health emergencies: ethical issues, in Intern. Emerg. Med., 5/2010, 137 ss.
[14] In tema, per tutti, i numerosi ed approfonditi studi di S. Agosta, tra i quali, ora, Procreazione medicalmente assistita e dignità dell’embrione, Aracne, Roma 2020.
[15] In generale, sulle vicende di fine-vita, nella ormai incontenibile letteratura, richiamo qui solo i noti studi di R.G. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e «congedo dalla vita» dopo la l. 2019/2017, Aracne, Roma 2019; G. Razzano, La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT fra libertà di cura e rischio di innesti eutanasici, Giappichelli, Torino 2019 e, della stessa, ora, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 3 marzo 2020, 640 ss. Infine, S. Agosta, Disposizioni di trattamento e dignità del paziente, Aracne, Roma 2020, e lett. ivi, cui adde i contributi che sono ora in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 1/2020.
[16] Così, nel mio Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 27 novembre 2019. V., inoltre, ora, F. Politi, La sentenza n. 242 del 2019 ovvero della rarefazione del parametro costituzionale e della fine delle “rime obbligate”? Un giudizio di ragionevolezza in una questione di costituzionalità eticamente (molto) sensibile, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2010, 6 marzo 2020, 661 ss., e, nella stessa Rivista, con diverso orientamento, A. Morelli, La voce del silenzio. La decisione della Corte sull’aiuto al suicidio e il «perdurare dell’inerzia legislativa», 11 marzo 2020, 746 ss., nonché N. Colaianni, La causa di giustificazione dell’aiuto al suicidio (rectius: dell’assistenza nel morire), in Quad. dir. pol. eccl., 3/2019, 591 ss., e, pure ivi, A. Licastro, L’epilogo giudiziario della vicenda Cappato e il ruolo «sussidiario» del legislatore nella disciplina delle questioni «eticamente sensibili», 609 ss. Notazioni di vario segno, infine, nei contributi che sono in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 1/2020.
[17] Questo trend è rilevato da molti con non celata preoccupazione (riferimenti in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, cit.; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss., sul cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, nella stessa Rivista, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.).
[18] Su di che, v., part., R. Romboli, che ne ha trattato a più riprese (ad es., in Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, 2995 ss.; Natura incidentale del giudizio costituzionale e tutela dei diritti: in margine alla sentenza n. 10 del 2015, in Quad. cost., 3/2015, 607 ss., e Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, cit., 10 ss.); inoltre, R. Pinardi, La Corte e il suo processo: alcune preoccupate riflessioni su un tema di rinnovato interesse, in Giur. cost., 3/2019, 1897 ss., e R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.
[19] Maggiori ragguagli critici sulla questione, volendo, nel mio Questioni di costituzionalità inammissibili per mancanza di consenso tra gli scienziati (a margine di Corte cost. n. 84 del 2016, in tema di divieto di utilizzo di embrioni crioconservati a finalità di ricerca), in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 2/2016, 245 ss.; cfr., poi, ora, S. Agosta, Procreazione medicalmente assistita e dignità dell’embrione, cit., spec. 70 ss. e 215 ss.; inoltre, ex plurimis, A. Spadaro, Il “concepito”: questo sconosciuto…, in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), Special issue, 2/2019, 429 ss.
[20] Cocente è il ricordo degli esperimenti compiuti dai nazisti su persone svilite ad oggetti in una stagione segnata da collettiva follia e cecità distruttive.
[21] Una vigorosa sottolineatura dell’obiezione di coscienza con riguardo a queste ultime vicende può ora vedersi in G. Razzano, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, cit., 645 ss.
[22] Se n’è avuta una emblematica, incoraggiante testimonianza dalla disponibilità generosamente offerta da quasi ottomila medici alla richiesta di trecento unità da destinare alle zone maggiormente colpite dal virus: una testimonianza davvero illuminante a riguardo alle formidabili risorse di cui non la sola corporazione medica ma l’intero corpo sociale dispone, alle quali poter attingere a beneficio dell’intera collettività.
La società globale del rischio e i limiti alle libertà costituzionali
Brevi riflessioni a partire dal divieto di sport e attività motorie all’aperto
di Giovanni Pitruzzella
SOMMARIO: 1.- La “società globale del rischio” come sfida al costituzionalismo. 2.- Il principio di precauzione e le sue ambiguità. 3.- I limiti alla libertà del “runner” e il bilanciamento dei rischi. 4.- Processo decisionale di selezione dei rischi, motivazione della scelta e ruolo degli esperti.
1.- La “società globale del rischio” come sfida al costituzionalismo.
L’epidemia da Covid 19 ci pone di fronte una realtà che, fin ora, avevamo fatto in modo di non vedere: viviamo in quella che Ulrich Beck chiama la “società globale del rischio”. Una società in cui, anche per effetto delle conseguenze indesiderate dell’azione umana, si moltiplicano i rischi, rispetto ai quali le nostre conoscenze sono insufficienti. Rischi finanziari, economici, connessi ai flussi migratori, al terrorismo globale, alle minacce per la salute derivanti dalle sempre più frequenti epidemie.
Passiamo da una crisi all’altra pensando che siano fasi transitorie mentre, ci piaccia o no, c’è un cambiamento strutturale delle nostre società, ben sintetizzato dalla formula coniata da Beck, che richiede un adeguamento della politica, delle istituzioni e dell’organizzazione giuridica. Le categorie che abbiamo ereditato dal glorioso costituzionalismo novecentesco sono ancora attuali?
In questo contesto come potranno sopravvivere la democrazia parlamentare, l’integrazione europea, le libertà individuali?
Fino a ieri nella cultura giuridica dominava l’idea di una necessaria espansione illimitata dei diritti individuali ben espressa da formule come “l’età dei diritti” (N. Bobbio) e “il diritto di avere diritti” (S. Rodotà). Ma quando è minacciata la vita, cioè la premessa di ogni libertà, tutto il bagaglio concettuale elaborato dalla cultura, dalla dottrina e dalla giurisprudenza sembra di colpo inservibile.
A chi può interessare la libertà di circolazione o la riserva di legge come condizione irrinunciabile per la limitazione delle libertà costituzionali, quando un virus che uccide si diffonde grazie ai contatti sociali e il bollettino giornaliero dei morti a causa del coronavirus richiede decisioni particolarmente rapide? A chi può importare della privacy se per evitare la crescita dei contagi è necessario controllare la vita di ciascun di noi anche ricorrendo all’uso massiccio dei dati personali (la Sud Corea è l’esempio che tende a essere imitato).
Quando l’emergenza sanitaria sarà passata, il virus potrebbe tornare a colpire, come ipotizzano alcuni esperti, ci saranno purtroppo nuove epidemie e vivremo altri rischi e nuove crisi: una forte crisi economica seguirà la crisi sanitaria e poi abbiamo solo messo tra parentesi i rischi legati alle migrazioni, al riscaldamento globale, al terrorismo islamico e tanti altri.
Se la “società globale del rischio” è il mondo in cui viviamo dobbiamo rassegnarci ad assistere ad un processo di strutturale restrizione delle nostre libertà oppure possiamo cercare di adeguare ai caratteri dei tempi presenti le istituzioni e anche la cultura giuridica in modo da salvaguardare, per quanto possibile, i valori della nostra civiltà?
A questo interrogativo non possiamo sfuggire anche se è di quelli da far tremare i polsi. Dovremo affrontare la questione con riguardo alla nostra architettura istituzionale e giuridica. Per esempio sarà difficile gestire i rischi e fare fronte alla lunga ricostruzione economica in presenza dei tanti poteri di veto che rendono l’Italia un Paese bloccato. Di fronte a rischi globali bisognerà rivedere il modo come funziona l’Unione europea e le sue politiche (il che confusamente sta già avvenendo), ma anche capire quale ruolo dare agli scienziati e agli esperti nel processo decisionale.
Con riguardo alle libertà bisogna chiedersi di fronte ai rischi e alla loro gravità se e come esse potranno avere un livello accettabile di tutela. Proprio con riguardo a quest’ultimo aspetto, possiamo svolgere qualche breve considerazione partendo da una questione apparentemente minore ma che potrebbe avere un valore paradigmatico nella gestione futura dei rischi e delle crisi: la questione dei limiti alle attività motorie e sportive all’aperto progressivamente estesi fino ad arrivare al divieto assoluto introdotto dalle ordinanze di alcuni presidenti di regione.
2.- Il principio di precauzione e le sue ambiguità.
Il virus si diffonde grazie ai rapporti sociali e quindi il distanziamento sociale è l’arma principale per contenerne la diffusione. Stare a casa è considerato dagli esperti come la principale strategia per controllare l’epidemia evitando la saturazione del sistema sanitario. Com’è noto, i primi provvedimenti del Governo permettevano lo sport e le attività motorie all’aperto purché fossero mantenute le distanze di sicurezza tra una persona e l’altra.
Di fronte alla crescita esponenziale dei contagi si è detto che ancora troppe persone erano fuori casa e che quindi la strategia del distanziamento sociale non funzionava pienamente. A questo punto un numero crescente di ordinanze dei Presidenti di regione ha limitato fino a impedire del tutto lo sport e le attività motorie all’aperto anche se svolte da una persona singola senza contatti con altri. Poi è intervenuto anche il Governo introducendo la previsione secondo cui si può fare sport solamente nelle vicinanze della propria abitazione.
L’idea sottesa a questo progressivo restringimento è che bisogna stare comunque a casa perché più persone si trovano all’esterno più aumenta il rischio di diffusione del virus. Quindi quello che, nel nostro caso, entra in giuoco è il principio di precauzione. Principio che è destinato a crescere di importanza nella società del rischio. Se un comportamento porta con sé il rischio di una conseguenza dannosa – nel nostro caso, estremamente dannosa per la salute – l’attività va vietata.
Tutto ciò è apparentemente molto persuasivo e può fare facilmente breccia nel nostro animo turbato da un’epidemia che minaccia la vita nostra e dei nostri cari. In questo contesto può facilmente attecchire l’idea secondo cui il runner è un potenziale untore e per questo va fermato e se, malgrado tutto, esce di casa commette un illecito ed è sottoposto ad un forte stigma sociale.
Se, però, nonostante il turbamento emotivo che tutti ci coinvolge, guardiamo al problema con più calma e attenzione vediamo che la questione è più complessa e che diversi sono i valori in giuoco. Tutti sappiamo bene che il principio di precauzione è un principio fondamentale del diritto dell’Unione europea, che è poi trasmigrato negli ordinamenti nazionali ed è presente in una corposa giurisprudenza delle Corti europee e nazionali. Certamente non ce ne vogliamo privare rinunciando alle garanzie che offre a fondamentali valori, come la tutela della salute e dell’ambiente. Ma questo non può impedirci dal vederne le ambiguità o, se si preferisce, la complessità. Il costituzionalista americano Carl Sunstein, che ha dedicato al tema uno studio approfondito, ci dice che il principio di precauzione è paralizzante perché, in buona sostanza, imponendo il divieto di una determinata attività porta con sé altri rischi che derivano proprio dal mancato svolgimento di quella attività, per impedire i quali bisognerebbe invece consentirla. Allora cosa fare? Quale rischio consentire? In base a quali criteri e procedure effettuare la scelta?
Riporto qui brevemente qualche esempio proposto dallo stesso Sunstein, al fine di rendere più chiaro quanto appena osservato. Primo esempio: molti hanno paura del nucleare, ritenendo che le centrali atomiche determinano seri rischi per la salute e la sicurezza, a causa della possibilità di incidenti nucleari. Ma una nazione per non ricorrere al nucleare potrebbe essere indotta a utilizzare i combustibili fossili per produrre energie, aggravando altri tipi di rischi, in particolare quelli associati al riscaldamento globale. Secondo esempio: la durata e il tipo di sperimentazione richiesta prima che sia autorizzato l’immissione in commercio di nuovi farmaci. Per evitare il rischio di danni (i cosiddetti danni iatrogeni) derivanti da farmaci non sufficientemente testati, si impedirà a una parte della collettività di ottenere i benefici potenziali di questi nuovi farmaci aggravando i rischi per la salute cui è soggetta questa parte della popolazione. Terzo esempio: il dibattito sull’attitudine di certi antidepressivi di generare un piccolo rischio di tumore al seno, suggerisce un approccio precauzionale diretto a scoraggiare l’uso di questi farmaci da parte dei consumatori. Tuttavia non assumere antidepressivi può essere a sua volta un fattore di rischio, certamente di tipo psicologico, ma in certi casi anche fisico, perché il malessere psicologico si associa sovente a problemi fisici. Quarto esempio: molti ritengono che impedire la modificazione genetica di prodotti diretti all’uso alimentare possa ridurre il rischio di malattie e decessi che l’uso di questi alimenti, secondo alcuni, potrebbe provocare. Al contempo, però, omettere la produzione più economica e in maggiore quantità di prodotti di tal tipo potrebbe privare una parte importante della popolazione di alcuni Paesi poveri e in via di sviluppo di avere a disposizione una quantità sufficiente di cibo per non morire di fame.
Questi esempi dimostrano come certi divieti a volte contraddicono il principio di precauzione perché determinano rischi sostitutivi nella forma di pericoli che si materializzano o aumentano in conseguenza della scelta regolativa.
3.- .- I limiti alla libertà del “runner” e il bilanciamento dei rischi.
Se applichiamo le precedenti considerazioni alla questione dei limiti alla libertà del runner, possiamo fissare qualche punto interessante. Vietare in modo assoluto lo sport e l’attività motoria all’aperto anche in forma individuale esclude il rischio che in concreto il runner possa approfittare, in modo più o meno consapevole, del suo stare fuori casa per interagire con altri oppure che correndo da solo diffonda nell’aria il virus o sia egli stesso contagiato. Quale è la probabilità concreta di quest’ultimo rischio? Fin ora gli esperti hanno detto – se ho capito bene – che il virus non sta nell’aria che respiriamo ma è trasmesso tramite i contatti sociali, e cioè che il virus si sposta con le persone che ne sono affette, le quali avendo rapporti con altre persone lo trasmettono a queste ultime. Perciò se chi corre, va in bicicletta o fa una camminata a passo svelto non ha alcun contatto con altri e mantiene con le altre persone che eventualmente incontra una distanza significativa il rischio di contagio sarebbe estremamente limitato o addirittura inesistente.
Di fronte a un rischio di contagio estremamente improbabile, il divieto assoluto di sport e attività motorie all’aperto accentua il rischio di aggravamento di alcune patologie che riguardano una parte non piccola della popolazione, il cui trattamento normalmente richiede un minimo di attività fisica giornaliera. Il rischio per la salute di cardiopatici, ipertesi, diabetici, obesi subisce un aumento che è certo. Si potrebbe pure considerare come un’attività all’aria aperta di qualche ora a settimana potrebbe pure diminuire con riguardo alle persone che non hanno le patologie suddette, il rischio che dopo settimane o mesi di isolamento in casa il loro equilibrio psicofisico ne risulti compromesso, o che le loro difese immunitarie subiscano un abbassamento consistente.
Come si vede c’è un problema di rapporto tra due rischi, che riguardano comunque la salute. Il primo è un rischio che ha un forte impatto sull’immaginario collettivo ma sembra avere una probabilità di tradursi in un evento negativo assai improbabile, mentre il secondo è un rischio certo che però nella percezione comune tende a essere sminuito perché c’è la paura dell’untore.
Resta l’altra possibilità, che è quella, da non escludere, del “runner irresponsabile”, che potrebbe approfittare della libertà di fare attività sportiva o motoria all’aperto per sfuggire alle regole sull’isolamento ed entrare in contatto con altri, magari praticando uno sport collettivo come il calcetto oppure andando a trovare l’amante. Si tratta di un rischio di più probabile concretizzazione, che però potrebbe essere contrastato attraverso il controllo delle forze dell’ordine diretto a evitare assembramenti e a garantire le distanze di sicurezza. Sarebbe opportuno, in ogni caso, capire quanto questi fenomeni siano stati reali oppure amplificati dai media, prima di prendere una decisione sull’equilibrio tra i due rischi coinvolti dal divieto assoluto di sport e attività motorie all’aperto.
Siamo così arrivati ad un terreno delicato che è quello del bilanciamento. Intendiamoci: le limitazioni alla libertà di circolazione sono sacrosante e necessarie per controllare l’epidemia. Stare a casa è un dovere di tutti che va interpretato in modo rigoroso. Ma quanta dose dei rischi legati al divieto assoluto di sport e attività motoria siamo disposti a sopportare? Per limitare al massimo il rischio del “runner irresponsabile” quale livello di rischio connesso a quel divieto vogliamo accettare? Possiamo pure dire che non ci importa nulla dei cardiopatici, degli obesi e di altri malati e tanto meno dell’equilibrio psicofisico o delle difese immunitarie del nostro vicino di casa, che vogliamo eliminare alla radice il rischio del “runner irresponsabile” grazie al divieto assoluto di sport e attività motorie all’aperto. Ma quello che è importante è che bisogna dire in modo chiaro e trasparente quali sono i rischi, quale rischio intendiamo limitare e quale invece accettiamo, esponendo le ragioni della scelta.
C’è un’osservazione da fare a proposito del bilanciamento. Ho parlato di un bilanciamento dei rischi che è cosa diversa dal bilanciamento dei diritti. Le operazioni a cui i giuristi e le Corti sono abituati riguarda il bilanciamento tra diritti che sono entità abbastanza bene individuate nei contenuti e rispetto alle quali si può stabilire con un grado di precisione accettabile quanto sacrificio viene arrecato ad uno per tutelare l’altro. Un compito per il quale i giuristi e i giudici sono ben attrezzati. Quando dobbiamo maneggiare i rischi le cose cambiano. Intanto perché si tratta di fattori molto più indeterminati e incerti, poi perché la loro dimensione, la loro portata, il loro significato, i reciproci rapporti non possono essere definiti con gli strumenti del diritto ma richiedono l’applicazione di un sapere tecnico scientifico. Tutto ciò concorre a spiegare le difficoltà di un sindacato giurisdizionale sulle scelte riguardanti i rischi, mentre il sindacato giurisdizionale probabilmente con più attendibilità e prevedibilità potrebbe spostarsi sui processi seguiti per arrivare a quelle scelte.
4.-Processo decisionale di selezione dei rischi, motivazione della scelta e ruolo degli esperti.
Siamo esposti a molteplici fonti di rischio e il principio di precauzione non ci può salvare da questa che è la realtà in cui viviamo. Possiamo scegliere tra più rischi decidendo di limitare al massimo uno a costo di espandere i rischi che sono aggravati dal divieto. Possiamo pure cercare un bilanciamento dei rischi, dando la prevalenza all’esigenza di contenere quello che viene percepito come il rischio più grave senza arrivare all’espansione eccessiva di altri rischi. Quest’ultima sembra la via intrapresa dal Governo, che cerca di contenere al massimo il rischio del “runner irresponsabile” ma permette un minimo di attività sportiva e motoria sia pure con consistenti limitazioni. Invece molte regioni hanno scelto la via del divieto assoluto circoscrivendo al massimo un determinato rischio a costo di aggravarne degli altri.
Non entro qui nella questione se, visto il riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni, queste ultime possano adottare tale tipo di limitazioni. Ma pur ammettendo che ne abbiano la competenza, quello che probabilmente è cruciale per la tutela delle nostre libertà è la trasparenza del processo decisionale e la motivazione della scelta. Bisogna dire quali sono esattamente i rischi che si hanno di fronte, che tipo di equilibrio creare tra gli stessi, cosa si vuole tutelare, motivarne le ragioni. Ragioni che in questo, come in tanti altri casi che si verificano nella società globale del rischio, si prestano ad un’analisi di tipo tecnico-scientifico. L’epidemia si combatte grazie alla scienza. Sono virologi, epidemiologi, e tanti altri scienziati e medici che ci possono dire cosa fare. Certamente le conoscenze scientifiche sono incomplete, ma comunque soltanto il sapere tecnico-scientifico che gode di maggior consenso nella comunità scientifica internazionale può indicare cosa fare. Le limitazioni delle nostre libertà e quindi le scelte su come gestire i rischi dovranno essere collocate all’interno di un processo decisionale in cui sia istituzionalizzato e ben visibile il ruolo degli scienziati e degli esperti. Altrimenti le scelte su quale rischio privilegiare, su come circoscriverlo, sulle limitazioni da apportare alle nostre libertà saranno dettate solamente dalla paura che di per sé si presta a pericolose strumentalizzazioni politiche.
Fabio Francario
Sommario: 1. – Le misure straordinarie per il processo amministrativo: dal d.l. 11/2020 al d.l. 18/2020; 2. - La sospensione dei termini processuali; 4. - Il rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari conseguentemente all’introduzione del periodo di sospensione; 5. - Riti e modalità di decisione semplificati tanto per le domande cautelari quanto per quelle di merito: a) decisioni cautelari; b) decisioni di merito e altri camerali; c) Le ulteriori misure derogatorie introdotte dal comma 2 dell’art 84; 6.- Peculiari modalità di deposito di atti e documenti.
1.- Le misure straordinarie per il processo amministrativo dal d.l. 11/2020 al d.l. 18/2020.
Il decreto – legge 17 marzo 2020, n. 18, decreto cd “Cura Italia”, detta “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Nel Titolo V reca “Ulteriori misure per fronteggiare l’emergenza derivante dalla diffusione del Civ-19” e, tra queste, misure volte a contrastare l’emergenza e a contenerne gli effetti in materia di giustizia. Le misure in materia di giustizia vengono definite “nuove” in quanto destinate a sostituire quelle in precedenza emanate con il d.l. 8 marzo 2020 n. 11, che aveva appunto recato “misure straordinarie e urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria”[1]. Il d.l. 11/2020 non è stato convertito in legge e le sue disposizioni vengono adesso sostituite da quelle recate dal nuovo d.l., che dispone l’abrogazione del primo conservandone tuttavia l’impianto sostanziale, con significativi aggiustamenti.
Preliminarmente è doveroso sottolineare che, come noto, l’abrogazione ha efficacia ex nunc e che il nuovo decreto - legge non prevede una disciplina transitoria per disciplinare i rapporti sorti per effetto dell’entrata in vigore del dl 11/2020, la mancata conversione del quale ne comporta comunque l’inefficacia ab origine. Detto in altre parole: se è vero che l’abrogazione ha efficacia ex nunc, è anche vero che, ai sensi dell’art 77 Cost., la mancata conversione in legge comporta la perdita di efficacia del decreto “sin dall’inizio”.
Il nuovo decreto non reca, almeno apparentemente, disposizioni volte a regolare “i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti” e i problemi interpretativi di diritto transitorio hanno trovato per quanto possibile risposta nelle disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 (Primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sulle disposizioni introdotte dall'art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18). La scelta fatta dal Governo è stata di riproporre, con significativi aggiustamenti, la disciplina sostanzialmente già introdotta dal primo decreto, facendo retroagire l’efficacia del nuovo decreto alla data di entrata in vigore del precedente. Il d.l. 18/2020, in buona sostanza, dispone (anche) retroattivamente sui rapporti processuali, a decorrere dall’8 marzo 2020.
Le disposizioni che interessano specificamente il processo amministrativo sono contenute nell’art. 84, rubricato Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza da COVID- 19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia amministrativa[2], il quale, nella sostanza, ripropone il disegno proprio già dell’art 3 del d.l. 11/2020. Anche il nuovo decreto prevede infatti misure che, in deroga alla disciplina generalmente dettata dal d. lgs. 104/2010, introducono:
3.- La sospensione dei termini processuali.
Il nuovo decreto conferma innanzi tutto la misura consistente nella introduzione di un periodo eccezionale di vigenza del regime della sospensione dei termini processuali a decorrere dall’8 marzo 2020. Rispetto alla previsione recata dal previgente dl 11/2020, il nuovo decreto precisa espressamente che sono sospesi “tutti i termini relativi al processo amministrativo”, dissipando i dubbi interpretativi che aveva originato il parere reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato reso nell’Adunanza del 10 marzo 2020.
La prima misura introdotta consiste nella sospensione dei termini processuali nel periodo compreso tra l’8 marzo 2020, data di pubblicazione in GU del decreto, e il 22 marzo 2020. La disposizione recata dal comma 1 dell’art. 3 non individua particolari categorie di atti o di adempimenti processuali che debbano ritenersi sospesi, ma, attraverso il rinvio ai commi 2 e 3 dell’art 54 del d. lgs 104/2010, ritiene chiaramente applicabile, eccezionalmente nel suddetto periodo, l’istituto generale della sospensione dei termini processuali: “… dal 8 marzo 2020 e fino al 15 aprile 20202 … Tutti i termini relativi al processo amministrativo sono sospesi, secondo quanto previsto dalle disposizioni di cui all’art. 54 commi 2 e 3 del codice del processo amministrativo”. In realtà, come univocamente chiarito dai primi contributi dottrinari immediatamente apparsi sul tema[3], la formulazione del precedente d.l. 11/2020, che si limitava a dichiarare applicabili ““Le disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”, non dava adito a dubiti interpretativi di sorta. In piena aderenza ai principi generali che vogliono che la disciplina della sospensione dei termini nel periodo feriale si applichi indistintamente a tutti i termini processuali e che, in ragione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, la sospensione sia esclusa per i soli procedimenti cautelari (in quanto il principio sarebbe vulnerato ammettendo che possa aversi soluzione di continuità nella tutela cautelare), l’art 54 del d lgs 104/2010 al secondo comma dispone, senza alcuna limitazione, che “I termini processuali sono sospesi…” e al terzo comma che “La sospensione dei termini previsti dal comma 2 non si applica al procedimento cautelare”. In linea teorica, pertanto, la disposizione recata dal d.l. 11/20202 non aveva di per sé posto problemi interpretativi sull’applicabilità dell’istituto della sospensione dei termini processuali al periodo in questione, che erano stati però originati dal già citato parere della Commissione speciale, che aveva escluso la configurabilità di una vera e propria sospensione dei termini processuali ai sensi del pur richiamato art 54 d lgs 104/2010 e auspicato un intervento interpretativo da parte del legislatore [4].
Quel che realmente innova il nuovo d.l. è la durata del periodo di sospensione, originariamente prevista (dal 8 marzo) fino al 22 marzo 2020 e che viene adesso prolungata fino al 15 aprile 2020.
Dove il disposto dell’art 3 del d.l. 11/2020 aveva effettivamente posto un qualche problema interpretativo è stato con riferimento alle modalità di computo di quei termini, ad esempio per il deposito di memorie e documenti, che vengono calcolati a ritroso da un’udienza già fissata. Nel caso in cui il termine così calcolato venga in scadenza nel periodo di sospensione, è evidente che, differentemente dall’ipotesi generale della sospensione feriale, le parti non hanno previamente avuto contezza dell’esistenza del periodo di sospensione e si troverebbero nell’impossibilità di compiere quelle attività processuali i cui termini sarebbero già scaduti. Già in sede di commento al d.l. 11/2020 ho sostenuto che il problema deve trovare e trova soluzione nell’esercizio del potere presidenziale di riordino dei calendari e dei ruoli d’udienza e comunque nella facoltà di chiedere la rimessione in termini, previsti tanto nel vecchio quanto nel nuovo decreto. Nei casi in cui l’udienza non sia già stata rinviata d’ufficio o in cui il rinvio non risulti sufficiente a garantire il rispetto dei termini a difesa, la parte può chiedere di essere rimessa in termini e il giudice è vincolato al rinvio dell’udienza. Dal momento che la decadenza dal termine processuale è stata determinata da causa non imputabile alla parte perché dipendente da un evento assolutamente imprevedibile ed estraneo alla sua volontà, l’istanza di rimessione finisce con il vincolare il giudice al rinvio dell’udienza nei casi in cui non abbia già provveduto d’ufficio in tal senso al fine di assicurare il rispetto del contraddittorio, esponendo in caso contrario la sentenza resa in violazione del contraddittorio e del diritto di difesa all’annullamento con rinvio ai sensi dell’art 105 comma 1 del d. lgs. 104/2010. Se resa dal giudice di primo grado. E non è affatto da escludere che possano riaprirsi la porte della cassazione per rifiuto di giurisdizione delle sentenze, se rese dal Consiglio di Stato, in ragione del carattere aprioristico e generale della violazione del diritto di difesa.
4.- Il rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari conseguentemente all’introduzione del periodo di sospensione
Dal momento che la sospensione dei termini processuali viene introdotta con riferimento ad un periodo in cui risultano già fissate udienze pubbliche e camerali (tanto cautelari, quanto dei riti speciali), il primo comma dell’art 84, al secondo cpv, come già la corrispondente norma recata dall’art 3 del d.l. 11/2020, ne dispone il rinvio “d’ufficio a data successiva” alla fine del suddetto periodo. Come chiarito dal Comunicato del 9 marzo dell’ “Ufficio stampa e comunicazione istituzionale della giustizia amministrativa” che aveva accompagnato l’uscita del precedente decreto, si tratta di una “misura drastica ma necessaria al fine di consentire su tutto il territorio nazionale comportamenti coerenti con gli obbiettivi di contenimento del virus in questa prima fase in cui ci si attende il picco epidemiologico” e volta ad ottenere che “nessuna udienza sarà celebrata”. Il rinvio viene disposto ex lege per le udienze già calendarizzate fino a tutto il 15 aprile (e non più soltanto fino al 22 marzo, come nel d.l. 11/2020), ivi comprese le camere di consiglio previste per la discussione delle domande cautelari, che, a prescindere da una richiesta della parte, durante il periodo di sospensione verranno decise soltanto con decreto monocratico (infra, par 5).
Il comma 4 dell’art 84 ripropone poi la previsione, anch’essa sostanzialmente già recata dall’art 3 del d.l. 11/2020, per cui i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate possano adottare “direttive vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze coerenti con le eventuali disposizioni dettate dal Presidente del Consiglio di Stato” e possano altresì disporre il rinvio delle udienze procedendo ad una opportuna ricalendarizzazione delle stesse. Le differenze con la norma recata dal precedente d.l. 11/2020 non si limitano alla differenza lessicale del termine “direttive” impiegato in luogo di “linee guida” rispetto al precedente decreto e allo spostamento dal 31 maggio al 30 giugno 2020 della data successivamente alla quale possono essere spostate le udienze. Rispetto alla precedente versione scompaiono sia il limite massimo del rinvio entro il 31 dicembre 2020, sia la previsione che ciò dovrebbe avvenire “in aggiunta all’ordinario carico programmato delle udienze fissate e da fissare entro tale data”. I rinvii a mezzo dei suddetti decreti presidenziali a data successiva al 30 giugno 2020 vanno comunque disposti, com’era già nelle previsioni del d.l. 11/2020, dopo avere sentito sia l’autorità sanitaria regionale che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio e, differentemente dal rinvio disposto ex lege per le udienze calendarizzate fino al 15 aprile, in tal caso non riguarda le udienze camerali per le domande cautelari e i ricorsi elettorali, che potranno svolgersi secondo le modalità indicate dal successivo comma 5. Analoga possibilità è prevista per le cause rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, ma in tal caso è necessario che l’urgenza sia previamente dichiarata dai presidenti con decreto non impugnabile.
5. - Riti e modalità di decisione semplificati tanto per le domande cautelari quanto per quelle di merito;
Per contrastare e contenere gli effetti della situazione emergenziale nel settore della giustizia amministrativa vengono previste misure straordinarie che semplificano i processi decisionali, tanto cautelari, quanto di merito.
Per agevolare la comprensione delle misure straordinarie introdotte è opportuno distinguere la disciplina delle decisioni cautelari da quella delle decisioni di merito e delle altre camerali e trattare distintamente le ulteriori misure derogatorie introdotte dal comma 2 dell’art 84.
Differentemente dal giudizio di merito e dagli altri giudizi che si svolgono in forma camerale, come si è già ricordato, il giudizio cautelare non è mai soggetto alla sospensione dei termini processuali. Conseguentemente la tutela cautelare deve continuare ad esser fruibile anche durante il suddetto periodo.
La soluzione disegnata già dal d.l. 11/2020, al fine di assicurare il rispetto tanto del principio che non ammette soluzioni di continuità nella possibilità di fruizione della tutela cautelare, quanto dell’esigenza di evitare di tenere qualunque tipo di udienza durante il periodo di emergenza, è stata di trattare le domande cautelari, nel periodo di sospensione, unicamente secondo il rito di cui all’art 56 del d. lgs 104/2010, con decisione monocratica, posponendo l’udienza cautelare camerale al termine del periodo della sospensione.
Nella versione del d.l. 11/2020, la trattazione della domanda cautelare, con decreto monocratico, durante il periodo di sospensione, rimaneva comunque un’eventualità rimessa all’iniziativa di parte, onerata di presentare apposita istanza in tal senso, a prescindere dalla sussistenza dei più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma comma dell’art 56 del d.lgs. 104/2010 (“caso di estrema gravità e urgenza”, in luogo del “pregiudizio grave e irreparabile” richiesto dall’art 55 primo comma per le misure cautelari collegiali); e lasciava aperto il problema di garantire il rispetto del contraddittorio in quanto controinteressato e amministrazione resistente, pur se si dichiarassero disponibili ad essere “sentiti” dal magistrato prima dell’emanazione del decreto non potrebbero esserlo per via del divieto di tenere “udienza”, nè hanno certezza di alcun termine a difesa.
L’art. 84 ridisegna in maniera significativa la trattazione della domanda cautelare durante il periodo di sospensione sotto entrambi i profili. Per un verso, esclude che la trattazione (monocratica) possa dipendere da un’iniziativa di parte, imponendola come forma “ordinaria” di trattazione durante il periodo della sospensione: “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020” (art 84 comma 1, terzo cpv). Per l’altro, prevede opportunamente che la decisione monocratica venga assunta “nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo” (non prima quindi di venti giorni dalla notifica e di dieci dal deposito); facendo peraltro salva la possibilità della parte di chiedere, al ricorrere dei già ricordati più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 56, la pronuncia monocratica non solo “secondo il rito” ma “ai sensi” dell’art. 56, senza attendere pertanto i termini di cui all’art 55[5]. Potrà apparire per certi versi singolare che si disponga di trattare la domanda “con il rito di cui all’art 56 del codice del processo amministrativo … nel rispetto dei termini di cui all’art 55, comma 5 … salvo che ricorra il caso di cui all’articolo 56 comma 1”, ma la formulazione sembra risolvere efficacemente il problema di assicurare e graduare la tutela cautelare, nel rispetto del contradditorio, nel periodo emergenziale. Le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 si preoccupano di precisare (par 4.5) che “la decisione monocratica è assunta dopo lo scadere dei termini di venti e dieci giorni liberi previsti dal comma 5 dell’art 55 c.p.a. a prescindere dall’eventuale precedente fissazione di una camera di consiglio”.
Rimarrebbe invero ancora da chiarire come debbano essere calcolati i due giorni liberi per il deposito di memorie e documenti dal momento che non c’è una camera di consiglio di riferimento. Sarebbe senz’altro auspicabile a tal fine che i presidenti titolari adottino apposite misure organizzative, anche nell’esercizio delle potestà espressamente contemplate dai commi 3 e 4, quale ad esempio la fissazione di una camera di consiglio perlomeno virtuale, atta a valere come termine per la emanazione dei decreti da parte dei magistrati delegati alle pronunce monocratiche e al tempo stesso termine di riferimento per le parti. Qualora ciò non avvenisse, allo stato i due giorni liberi (uno nei riti accelerati) andrebbero necessariamente calcolati con riferimento alla scadenza dei termini previsti dal comma 5 primo cpv dell’art 55 d. lgs 104/2010. Si ricorda che le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 hanno opportunamente sottolineato che in ogni caso “il decreto monocratico non potrà essere emesso prima della data che era stata fissata per l’udienza camerale (oggi divenuta meramente virtuale), rispetto alla quale gli avvocati delle parti avevano calibrato le proprie strategie difensive e in ispecie la tempistica di deposito dei documenti e delle memorie”.
Rimane in ogni caso ferma la necessità che i decreti cautelari concessi durante la sospensione, stante la natura intrinsecamente provvisoria, vengano portati quanto prima possibile in udienza camerale collegiale al termine del periodo di sospensione, ragion per cui il terzo cpv del comma 1 dell’art 84, in chiusura, prevede, come già ricordato, che “la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020”. L’uso dell’indeterminativo e la possibilità che si accumuli una mole quantitativa tale da non poter essere ragionevolmente smaltita in un'unica udienza camerale dovrebbero lasciar propendere l’interpretazione nel senso che, al termine della sospensione, l’udienza camerale venga fissata quanto prima possibile. Tanto più che i ruoli d’udienza dovranno farsi carico anche della trattazione in udienza camerale dei provvedimenti monocratici pronunciati prima della sospensione e per i quali, per via della sospensione, non si è potuta più tenere l’udienza camerale. Ipotesi contemplata dall’ultimo cpv del comma 1 dell’art 84, il quale dispone per l’appunto che “I decreti monocratici che, per effetto del presente comma, non sono stati trattati dal collegio nella camera di consiglio di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo restano efficaci, in deroga all’articolo 56, comma 4, dello stesso codice, fino alla trattazione collegiale, fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto articolo 56, comma 4”. Se la parte “su cui incide la misura cautelare” non si opponga ai sensi del secondo comma dell’art. 84, nei casi in cui vi sia stato accoglimento totale o parziale della domanda cautelare, la trattazione può essere fissata anche prima del 15 aprile (e successivamente al 6 aprile), durante quindi il periodo di sospensione (v. infra, par. 5, sub C).
In considerazione del fatto che il provvedimento monocratico, per quanto provvisoriamente, rischia comunque di stabilizzare per un considerevole arco temporale la decisione della lite cautelare, sarebbe stato opportuno prevedere forme di reclamo immediato al collegio ovvero l’appellabilità del decreto monocratico, ma l’ipotesi è stata scartata. Sarebbe opportuno che una delle due ipotesi (reclamo al collegio, prevedendo la possibilità di partecipazione al collegio anche del magistrato autore del provvedimento monocratico ove ciò sia reso necessario da esigenze di organico; ovvero l’appello, che beninteso non potrebbe essere mai limitato ai soli decreti di accoglimento escludendo quelli di rigetto pena la palese incostituzionalità per violazione dei principi di uguaglianza e del giusto processo) venisse seriamente presa in considerazione in sede conversione del decreto, non essendo allo stato escluso che possano anche aversi ulteriori proroghe del periodo di sospensione alla luce del più generale contesto emergenziale nel quale s’inquadrano le misure straordinarie in materia di giustizia e che la lite cautelare continui pertanto a rimanere definita per un consistente arco temporale in forma monocratica. Il che eviterebbe peraltro di stressare oltremodo la calendarizzazione in tempi ristretti delle camere di consiglio cautelari, imposta dalla necessità di non lasciare privo di controlli l’esercizio del potere cautelare monocratico oltre lo stretto necessario. Nelle more della decisione camerale, avverso il decreto monocratico allo stato rimane esperibile unicamente il rimedio della revoca o modifica “su istanza di parte notificata”, a norma dell’art 56 comma 4.
L’art 84 del d.l. 18/2020, al quinto comma, conferma anche la previsione, alla scadenza della sospensione, di un periodo, che si suppone di transizione verso il rispristino della normalità, nel quale le controversie, sia di merito che cautelari, vengono decise seguendo una procedura semplificata che, in deroga al disciplina ordinaria recata dal codice del processo amministrativo, a fini acceleratori, esclude la discussione in udienza pubblica o camerale: “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso”.
Rebus sic stantibus, la norma non pone problemi interpretativi di sorta per le udienze che risultino fissate nel mese di giugno o alla fine del mese di maggio. La scadenza del termine di sospensione al 15 aprile assicura il rispetto del più ampio termine possibile per garantire il contraddittorio in punto di produzione di documenti, memorie e repliche (ordinariamente fissato in 40, 30 e 20 giorni e dimezzato nei riti speciali).
Il problema si pone, come già accennato, nel caso in cui l’udienza risulti fissata ad una data che non consente di assicurare il rispetto dei suddetti termini in quanto questi sarebbero già venuti a scadere nel periodo della sospensione.
Si spiegano in quest’ottica le disposizioni recate dal secondo, dal terzo e dal quarto cpv del comma 5, a norma delle quali:
Ferma la limitazione del contraddittorio derivante dall’esclusione della possibilità di tenere la discussione orale, l’ipotesi è che la possibilità di limitare ulteriormente il contraddittorio elidendo anche la possibilità di difesa documentale e scritta possa avvenire unicamente con il consenso delle parti e dipenda pertanto, in sostanza, dalla loro rinuncia ad avvalersene. E’ evidente che le parti devono ritenere che le produzioni effettuate prima della sospensione siano comunque sufficienti per consentire il passaggio in decisione del ricorso e che non sia necessario avvalersi delle ulteriori facoltà concesse dal contradditorio ovvero che queste possano essere compensate e condensate in sintetiche note da depositare due giorni prima dell’udienza. L’ipotesi classica è che una o entrambe le parti non abbiano potuto depositare la memoria conclusionale o di replica e che ciò non sia necessario o possa essere compensato dalle note d’udienza. La disposizione nulla dice sui limiti dimensionali delle note d’udienza, se non che debbano essere “brevi”, concetto che rimane indeterminato ma sufficiente per escluderne l’equiparazione alla trattazione ampia e sistematica tipica di una memoria difensiva. Nel disegno normativo le “brevi note” si propongono come succedanee della discussione orale, atte a rappresentare una comparizione figurata delle parti davanti al collegio, attesa l’impossibilità di tenere la discussione in forma orale[6]. Sostituiscono quest’ultima, non le memorie difensive, ragion per cui, ove ve ne sia effettiva necessità, la parti devono chiedere la rimessione in termini. Conseguentemente, il quarto cpv vincola il magistrato a disporre “la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo”[7]. L’ultimo cpv del comma 5 dispone conclusivamente, come già ricordato, che, in tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario.
Sembrerebbe esser stato dunque raccolto l’invito, da più parti rivolto in sede d’interpretazione delle analoghe disposizioni recate dal d.l. 11/2020, ad impiegare l’istituto della rimessione in termini per non comprimere ulteriormente, avendo già infranto il principio dell’oralità, le garanzie del contraddittorio. Per quanto sopra chiarito, la rimessione dovrebbe a rigore esser chiesta anche nell’ipotesi in cui le parti, magari proprio nell’osservanza del citato parere espresso dalla Commissione speciale nell’adunanza dello scorso 10 marzo, abbiano ugualmente depositato memorie e repliche nel periodo della sospensione e, concordemente, intendano avvalersi delle note d’udienza per limitarsi a rinviare alle produzioni effettuate durante la sospensione. La soluzione più rigorosa, di chiedere la rimessione in termini e di escludere il rinvio per relationem attraverso le note d’udienza, potrebbe apparire eccessivamente formalista nel momento in cui evidenti ragioni d’economia processuale sembrerebbero suggerire il contrario, ma la fattispecie in linea di principio pone problemi di non poco conto. Ad esempio stabilire se e fino a che punto si possa ritenere che, in virtù del principio dispositivo, gli atti inefficaci e invalidamente compiuti durante la sospensione abbiano ugualmente raggiunto il loro scopo se vi sia espresso riconoscimento delle parti in tal senso; ovvero se la sospensione sia posta nell’interesse di tutte le parti, giudice compreso, differentemente dalle ipotesi di interruzione che si suppongono disposte a favore della parte che subisce l’evento e che ne ha pertanto una relativa disponibilità. Sarebbe pertanto opportuno che il punto venisse univocamente chiarito in sede di conversione del decreto, chiarendo se, sussistendo l’accordo delle parti, le note d’udienza possano rinviare per relationem alle produzioni effettuate durante il periodo di sospensione con conseguente dovere del giudice di prenderle in esame, e che non sia lasciato alla libera interpretazione dei singoli collegi giudicanti.
Rimane fermo che, se la sospensione non ha pregiudicato la proponibilità di documenti e memorie nei termini (sarebbe il caso in cui i termini erano già maturati tutti nel periodo anteriore alla sospensione che avrebbe interessato soltanto l’udienza o il caso delle udienze che verranno fissate nel mese di giugno o nella fine di maggio), non sussiste la possibilità della parte di chiedere la rimessione in termini (perlomeno ai sensi dell’art 84 del d.l. 18/2020), ma, per quanto si è chiarito, solo quella di presentare brevi note due giorni liberi prima dell’udienza.
Va infine sottolineato che la nuova disciplina non ha conservato la possibilità, contemplata dai commi 4 e 5 del d.l. 11/2020, che a richiesta di almeno una delle parti la causa venisse trattata in udienza camerale o in udienza pubblica, organizzandone lo svolgimento mediante collegamenti da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori alla trattazione dell’udienza. La possibilità di collegamento da remoto rimane limitata alla partecipazione dei magistrati alla camera di consiglio che, sino al 30 giugno, si svolge senza discussione orale (art 84, comma 6: “Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”). Le disposizioni di coordinamento emanate il 19 marzo 2020 dal Presidente del Consiglio di Stato chiariscono che le camere di consiglio decisorie possono essere effettuate con collegamenti da remoto, con qualsiasi modalità (videoconferenza o audioconferenza), purché sia garantita la collegialità e che sono escluse le modalità di comunicazione asincrona quale, ad esempio, lo scambio di email. E’ auspicabile che la verbalizzazione si curi di identificare e circostanziare il luogo dal quale i singoli magistrati si colleghino da remoto, in modo da poter ritenere garantita la segretezza della camera di consiglio.
Il comma 2 dell’art 84 reca disposizioni particolari per il periodo dal 6 al 15 aprile 2020.
Difficile comprendere la necessità della previsione di un regime particolare per tale periodo, che cade peraltro nella settimana pasquale.
Nell’economia delle disposizioni straordinarie recate dall’art 84, quelle del comma 2 rivelano, anche sotto il profilo quantitativo, un impegno significativo del legislatore, che sembrerebbe essere sproporzionato rispetto all’utilità che si prefigge di conseguire e alla ulteriore distorsione che comporta per la comprensibilità del sistema.
Le disposizioni prevedono che, nel periodo dal 6 aprile al 15 aprile 2020, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati. Tale modalità di trattazione, come si è visto, è già eccezionalmente contemplata dal comma 5 per il periodo che va dalla fine della sospensione, attualmente prevista per il 15 aprile, fino al 30 giugno 2020. Il comma 2 consente che ciò possa avvenire anche durante il periodo della sospensione, ma solo nel periodo dal 6 al 15 aprile, e a condizione che vi sia l’accordo delle parti (“se ne fanno congiuntamente richiesta tutte le parti costituite”).
Le disposizioni recate dal comma 2 prevedono inoltre che a partire dal 6 aprile possa essere definito il giudizio cautelare con le medesime modalità (passaggio in decisione senza discussione orale sulla base degli atti depositati) nei casi in cui vi sia stata concessione di un decreto monocratico, in accoglimento anche solo parziale della domanda cautelare. Anche in questo caso è però necessario il consenso delle parti (“delle parti su cui incide la misura cautelare”), che possono opporsi depositando un’istanza di rinvio, che comporterà lo spostamento della trattazione a data “immediatamente” successiva al 15 aprile.
In sostanza, il comma 2 reca disposizioni ulteriormente derogatorie al regime già di per sé straordinario generalmente introdotto dall’art 84 (“In deroga a quanto previsto dal comma 1”), che consentono che durante il periodo della sospensione, a date condizioni, possano comunque aversi trattazioni collegiali delle controversie, sia cautelari che di merito.
Rimane da capire quale sia l’effettiva utilità di anticipare, durante il periodo di sospensione e solo per le cause la cui udienza collegiale risulti fissata tra il 6 e il 15 aprile, la possibilità di trattazione senza discussione orale e sulla base degli atti depositati, già generalmente prevista, si ripete, come regime transitorio, dalla fine del periodo di sospensione fino al 30 giugno.
Si può ipotizzare che la previsione abbia un intento deflattivo, nel senso che potrebbe esser volta ad evitare un accumulo eccessivo delle cause da trattare al termine del periodo di sospensione, consentendo di smaltire quelle già fissate nel periodo tra il 6 e il 15 aprile. Se così fosse, se l’esigenza fosse cioè quella di cercare di evitare un sovraccarico al termine del periodo di sospensione smaltendo, ove vi sia l’assenso delle parti alla decisione senza discussione orale e allo stato degli atti, le cause fissate durante il periodo di sospensione, non si capisce perché la possibilità sia stata limitata al solo periodo dal 6 al 15 aprile, e non sia stata estesa a tutto il periodo successivo alla scadenza del termine di sospensione originariamente fissato dal d.l. 11/2020 al 22 marzo. Ciò avrebbe una sua logica, una volta introdotto il principio per cui durante la sospensione possono essere trattate non solo le domande cautelari, ma anche quelle di merito, ove vi sia il consenso delle parti a che la causa passi in decisione allo stato degli atti. Diversamente, la norma rischia solo di arrecare maggior confusione e di complicare la ricalendarizzazione delle trattazioni. Soccorrono opportunamente nel senso sopra detto le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo, secondo le quali “ancorché non previsto dal decreto, nel periodo sottoposto alla sospensione dei termini, rientra nella facoltà dei capi degli uffici giudiziari fissare un’ulteriore udienza nel periodo dal 6 aprile al 15 aprile 2020, per la trattazione degli affari già assegnati a udienze di merito e camerali fissate dall’8 marzo al 5 aprile 2020 e che devono essere rinviate a data successiva al 15 aprile 2020, qualora le parti chiedano congiuntamente il passaggio in decisione delle medesime sulla base degli atti depositati”.
6. Peculiari modalità di deposito di atti e documenti.
Il decreto legge prevede infine che, durante il periodo della sospensione dei termini processuali e fino al 30 giugno 2020, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate, per quanto di rispettiva competenza, possano adottare le misure organizzative necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, e le prescrizioni impartite con i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri emanati ai sensi dell’art. 3 del del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, al fine di evitare assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone. Oltre alle già ricordate direttive per la fissazione e la trattazione delle udienze e al rinvio delle udienze a data successiva al 3° giugno 2020, le misure organizzative possono prevedere la limitazione dell’accesso agli uffici giudiziari ai soli soggetti che debbono svolgervi attività urgenti; la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici o, in ultima istanza e solo per i servizi che non erogano servizi urgenti, la sospensione dell’attività di apertura al pubblico; la predisposizione di servizi di prenotazione per l’accesso ai servizi, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, e adottando ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento.
La sospensione dell’obbligo del deposito di almeno una copia del ricorso in forma cartacea (cd copie d’obbligo o di cortesia) non è più rimessa alla previsione delle suddette direttive, com’era nel d.l. 11/2020, ma è operata direttamente dal comma 10 dell’art 84, che precisa al contempo che il deposito può essere effettuato anche a mezzo del servizio postale.
Tali misure devono armonizzarsi con le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato o dal Segretariato generale della Giustizia Amministrativa e devono essere comunque adottate dopo aver sentito l’autorità sanitaria regionale e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio.
***
Segue testo dell’art 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18
Art. 84
(Nuove misure per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID – 19 e contenerne gli effetti nel processo amministrativo)
1. Fatto salvo quanto previsto dal comma 2, dal 8 marzo 2020 e fino al 15 aprile 2020 inclusi si applicano le disposizioni del presente comma. Tutti i termini relativi al processo amministrativo sono sospesi, secondo quanto previsto dalle disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo. Le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa, fissate in tale periodo temporale, sono rinviate d’ufficio a data successiva. I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020. Il decreto è tuttavia emanato nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo, salvo che ricorra il caso di cui all’articolo 56, comma 1, primo periodo, dello stesso codice. I decreti monocratici che, per effetto del presente comma, non sono stati trattati dal collegio nella camera di consiglio di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo restano efficaci, in deroga all’articolo 56, comma 4, dello stesso codice, fino alla trattazione collegiale, fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto articolo 56, comma 4.
2. In deroga a quanto previsto dal comma 1, dal 6 aprile al 15 aprile 2020 le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, se ne fanno congiuntamente richiesta tutte le parti costituite. La richiesta è depositata entro il termine perentorio di due giorni liberi prima dell’udienza e, in tal caso, entro lo stesso termine le parti hanno facoltà di depositare brevi note. Nei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato decreto monocratico di accoglimento, totale o parziale, della domanda cautelare la trattazione collegiale in camera di consiglio è fissata, ove possibile, nelle forme e nei termini di cui all’articolo 56, comma 4, del codice del processo amministrativo, a partire dal 6 aprile 2020 e il collegio definisce la fase cautelare secondo quanto previsto dal presente comma, salvo che entro il termine di cui al precedente periodo una delle parti su cui incide la misura cautelare depositi un’istanza di rinvio. In tal caso la trattazione collegiale è rinviata a data immediatamente successiva al 15 aprile 2020.
3. Per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID- 19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giurisdizionale e consultiva, a decorrere dal 8 marzo 2020 e fino al 30 giugno 2020, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate, sentiti l’autorità sanitaria regionale e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio, adottano, in coerenza con le eventuali disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato o dal Segretariato generale della giustizia amministrativa per quanto di rispettiva competenza, le misure organizzative, anche incidenti sulla trattazione degli affari giudiziari e consultivi, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, e le prescrizioni impartite con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri emanati ai sensi dell’articolo 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, al fine di evitare assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone.
4. I provvedimenti di cui al comma 3 possono prevedere una o più delle seguenti misure:
a) la limitazione dell’accesso agli uffici giudiziari ai soli soggetti che debbono svolgervi attività urgenti;
b) la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici o, in ultima istanza e solo per i servizi che non erogano servizi urgenti, la sospensione dell’attività di apertura al pubblico;
c) la predisposizione di servizi di prenotazione per l’accesso ai servizi, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, e adottando ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento;
d) l’adozione di direttive vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, coerenti con le eventuali disposizioni dettate dal Presidente del Consiglio di Stato;
e) il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020, assicurandone comunque la trattazione con priorità, anche mediante una ricalendarizzazione delle udienze, fatta eccezione per le udienze e camere di consiglio cautelari, elettorali, e per le cause rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti; in tal caso, la dichiarazione di urgenza è fatta dai presidenti di cui al comma 3 con decreto non impugnabile.
5. Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario.
6. Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Il luogo da cui si collegano i magistrati e il personale addetto è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge.
[1] Per il commento del quale si rinvia a F. Francario, La giustizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo, Id., Postilla a La giusitizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordarie per il processo amministrativo, in questa rivista.
[2] Per commenti a prima lettura v. M.A.Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l art 84 del decreto “cura Italia”, in Lamministrativista.it ; Id. I primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sul decreto “cura Italia”, cit.; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in Lexitalia.it.
[3]Oltre a F. Francario, L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, in questa stessa rivista, Osservatorio emergenza Covid – 19; v anche M.A. Sandulli, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, in Lamminstrativista.it; F. Volpe, Commento all’art 3 , D.L. 8 marzo 2020, n. 11, in LexItalia.it.
[4] Nel parere reso nell’adunanza del 10 marzo 2020 la Commissione Speciale si era espressa nel senso che “il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.)” e non anche gli altri termini endoprocessuali, conclusione raggiunta muovendo dalla duplice considerazione che “con precipuo riguardo al termine per il deposito del ricorso (art. 45 c.p.a.) e soprattutto a quelli endoprocessuali richiamati dal già citato art. 73, comma 1, c.p.a., non si ravvisano le medesime esigenze che hanno giustificato la sospensione delle udienze pubbliche e camerali perché trattasi di attività che il difensore può svolgere in via telematica e senza necessità di recarsi presso l’ufficio giudiziario. Non appare esservi, dunque, alcun pericolo per la salute dei difensori né si moltiplicano le occasioni di contatto sociale e dunque le possibilità di contagio” ; e che “se la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali”. Secondo il Consiglio di Stato, in buona sostanza, non si sarebbe affatto trattato di un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, ma di una sospensione del solo termine per la notifica del ricorso giustificata da una ratio normativa che si prefigge di evitare gli spostamenti delle persone e la loro riunione presso gli uffici giudiziari. Il parere aveva peraltro auspicato che s’intervenisse “a livello normativo, con provvedimento chiarificatore di carattere interpretativo e quindi di portata retroattiva, in modo da assicurare la certezza nella materia dei termini processuali a beneficio di tutte le parti dei giudizi”.
[5] Le disposizioni di coordinamento adottate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 chiariscono efficacemente che “il comma 1 dell’art. 84 distingue tra la tutela monocratica “sostitutiva” di quella collegiale in ragione della situazione emergenziale da Covid-19 e la tutela monocratica in senso proprio; la prima è ancorata ai presupposti e termini della tutela cautelare collegiale (art. 55 c.p.a.) e mutua dalla tutela cautelare monocratica “ordinaria” solo il rito dell’art. 56 c.p.a.; la seconda è ancorata ai presupposti e termini della tutela cautelare monocratica “ordinaria”. Ne consegue che nel primo caso il decreto monocratico verrà adottato nel rispetto dei termini dilatori previsti dall’art. 55 c.p.a., per salvaguardare il diritto di difesa della parte destinataria del ricorso, e non prima della data in cui si sarebbe dovuta tenere l’udienza collegiale anteriore al 15 aprile 2020”.
[6] Norma analoga è dettata dal decreto anche per il processo civile. Con riferimento alle disposizioni come recate dal d.l. 11/2020 v. F. Caroleo, R. Ionta, Udienza civile ai tempi del coronavirus. Comparizione figurata e trattazione scritta (art. 2, comma 2, lettera h, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11), in Giustiziainsieme.it.
[7] L’ipotesi deve pertanto necessariamente rientrare nelle “specifiche esigenze” indicate nel par 3.5 delle disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato il 19 marzo 2020 come possibili eccezioni alla regola della non rinviabilità delle udienze calendarizzate dal 16 aprile in poi.
L’estremo saluto: il rito “inutile” (ma necessario)
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Un divieto che comporta una perdita. 2. Il significato del rito. 3.Ciò che è utile e ciò che è importante. 4. Fuga dalla morte. 5. Il tabù della morte nella nostra società. 6.Il rito del funerale ultima apertura verso l’“oltre”
1. Un divieto che comporta una perdita.
Il divieto di celebrare i funerali, nel quadro della lotta contro il coronavirus, ha avuto sicuramente un impatto umano particolarmente forte in una società come quella italiana, ancora molto legata ad un modello di famiglia dove gli anziani – i più esposti ad andarsene, in generale, ma tanto più in queste settimane di epidemia - , per quanto spesso ormai relegati nelle case di riposo, continuano comunque ad avere un posto importante nella graduatoria degli affetti. Ma anche per chi non aveva col defunto o la defunta un legame di parentela, il rito funebre erano un modo di sottolineare il legame con lui o lei e di testimoniare pubblicamente il valore che si attribuiva a questo legame. Senza dire che la partecipazione a un funerale aveva anche il significato di un gesto di prossimità e di solidarietà verso chi restava.
Ora, fino a una data che ormai è difficile indicare come prossima, tutto questo è reso impossibile dal decreto che impone la riduzione delle esequie a una scarna benedizione della salma all’interno del cimitero, alla presenza dei soli parenti più stretti.
Avvertiamo che qualcosa è andato perduto. Ma forse proprio per questo, come spesso accade nella vita, siamo costretti a renderci conto di quanto fosse importante per noi e a comprendere meglio perché.
2. Il significato del rito.
In primo piano, qui, vi è il valore del rito. Costituisce una peculiarità degli esseri umani, rispetto agli altri animali, il bisogno di andare oltre la sfera fattuale e visibile dell’esistenza, per accedere a quella dei significati. Per questo l’uomo, in ogni sua manifestazione, ha bisogno di simboli. Questa dimensione simbolica conferisce alle cose, ai gesti, alle parole, un valore che va molto oltre la loro portata materiale. Una stretta di mano non è soltanto una contrazione muscolare, ma può esprimere un’intesa, una riconciliazione, un’alleanza....
Si collega a questa esigenza di dare una risonanza simbolica alle vicende della vita la pratica, antica quanto l’uomo, di accompagnare i momenti cruciali dell’esistenza con dei “riti di passaggio” che ne evidenzino e ne celebrino il significato a livello non solo personale, ma anche sociale. Attraverso essi una comunità si costituisce e si rinsalda, riconoscendosi in un patrimonio comune di valori condivisi di cui vivere e da trasmettere ai propri figli.
3.Ciò che è utile e ciò che è importante.
Il funerale è uno di questi riti. Importante, a ben vedere, non tanto per i morti, quanto per i vivi. Dove il termine “importante” rivela la sua peculiare differenza rispetto a quello, spesso scambiato per un suo sinonimo, di “utile”. “Utili” potevano essere le cure, finché il soggetto era in vita. Il funerale è del tutto “inutile”. Se si può tuttavia affermare che è importante, siamo costretti a rimettere in discussione una logica utilitarista che ci porta a confondere le due cose.
In realtà, ciò che è utile non può, per definizione, essere importante in se stesso, perché ha valore solo in funzione di qualcos’altro. Emblematico il caso del denaro, ricercato da tanti come un fine, mentre è solo un mezzo, del tutto insignificante quando non può essere usato come tale. Robinson Crusoe, nel romanzo di Defoe, darebbe volentieri la somma ingente di sterline in suo possesso e che lo renderebbero ricco in un altro contesto, in cambio del più umile attrezzo che nella sua situazione potesse essergli utile.
Il funerale, che si celebra quando per la persona non c’è più niente da fare, ci ricorda che tutti i riti sono inutili, a cominciare da quello, semplicissimo, del saluto reciproco. Dal punto di vista dell’efficienza, una società dove le persone non si salutassero funzionerebbe benissimo. Solo, non sarebbe umana. Perché niente è più necessario all’uomo di ciò che è superfluo, inutile. Spogliata dei riti, la vita sarebbe insostenibile. Perché solo nell’ordine dei simboli essa realizza i suo carattere umano.
4. Fuga dalla morte.
Un passo avanti in questa riflessione può essere costituito dalla messa a fuoco dello specifico valore simbolico che proprio il rito del funerale riveste. E qui non si può fare a meno di menzionare il grande tabù della nostra società: la morte.
In realtà al pensiero della morte, nel mondo moderno, si è sempre cercato di sfuggire. Già nel Seicento Pascal ha denunciato con estrema lucidità questa fuga: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici» (Pensieri, Edizione Brunschvig, n.168).
E in altro passo: «Così si spiega perché sono così ricercati il gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi cariche. Non già che in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né che si pensi che la vera beatitudine consiste nel possedere il denaro che si può guadagnare al gioco, oppure nell'inseguire una lepre; queste cose, se ci fossero offerte, non le vorremmo. Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra, né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte. Questa è la ragione per cui si gusta più la caccia che la preda. Per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto; per questo la prigione è un supplizio così orribile; per questo il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile (...) Questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici. E quelli che fanno i filosofi su questo e credono che il mondo è troppo poco ragionevole nel passare tutto il giorno a correre dietro a una lepre che non accetterebbero se comprata, non conoscono la nostra natura. Quella lepre non ci garantirebbe dalla visione della morte e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce» (n.139).
5. Il tabù della morte nella nostra società.
Su questa scia, oggi il tentativo di distogliere lo sguardo dalla morte ha raggiunto il suo punto estremo. Mentre nel medioevo il rapporto con essa era considerato un salutare richiamo alla condizione creaturale dell’essere umano (si pensi, per esempio, al fatto che tutta la famiglia si riuniva per congedarsi a moribondo, e che i defunti venivano seppelliti nella chiesa parrocchiale o nel piccolo cimitero attiguo ad essa, come ancora in certi paesi dell’Alto Adige), da noi, ormai, si muore quasi soli in ospedale (e comunque, se anche il decesso avviene in casa, si allontanano i bambini), e le sepolture dei morti, per validissimi motivi igienici, vengono relegate alla periferia delle nostre città. La stessa parola “morte” viene accuratamente evitata, come un tempo lo erano quelle riferite agli organi sessuali. E il fenomeno del giovanilismo, per cui persone decisamente anziane rincorrono un’immagine di se stesse che non esiste più, è probabilmente legato alla paura di potere scorgere nei propri tratti i segni della prossima fine.
6.Il rito del funerale ultima apertura verso l’“oltre”
I funerali sono rimasti, nella nostra società, l’ultimo appiglio simbolico al mistero della morte. Se sono importanti non è perché assecondano le mode, ma perché avvertiamo che esorcizzare del tutto questo mistero ci impedirebbe perfino di salutare chi se ne va. Dove il saluto comporta anche la memoria di quello che il defunto è stato per noi e la speranza che il legame stretto durante la nostra comune storia terrena possa sopravvivere, in qualche modo, anche dopo. In questo senso i funerali sono una sosta sul ciglio di una immensa ombra, il solo contatto rimastoci con un “oltre” di cui abbiamo timore, ma in cui sono entrate persone a noi care da cui non vorremmo del tutto separarci.
Si capisce, alla luce di queste considerazioni, perché durante le cerimonie funebri ci siano alcuni che preferiscono chiacchierare di tutt’altro o perfino scherzano. E si capisce anche perché la maggior parte di noi, uscendo dalla chiesa o dal cimitero, si rituffi nelle proprie occupazioni. Pascal non si meraviglierebbe.
Eppure la morte è fondamentale per capire e apprezzare la vita. Il limite creaturale di cui essa è indizio ci restituisce alla nostra identità, fragile e proprio per questo preziosa. Per questo c’è da sperare che la rinunzia ai funerali, che tengono viva la percezione di questo limite, resti un fatto provvisorio, perché senza di essi la censura nei confronti della morte sarebbe completa. E forse si può sperare che proprio l’averne dovuto fare a meno per un certo tempo risvegli in noi la consapevolezza di ciò che questo rito “inutile” significa.
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