ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Covid-19 e le nuove frontiere tecnologiche: l’app Immuni e (il ritorno dei) braccialetti elettronici?
di Francesca Bailo
Sommario: “Immuni”, il contagiato e l’esposto al contagio: è configurabile qualche responsabilità penale? – 2. Non solo “Immuni”: il braccialetto elettronico come “supporto” per il distanziamento sociale. 3. Le alterne (s)fortune del braccialetto elettronico come strumento di “sorveglianza domiciliare”: un primo quadro d’insieme. – 4. L’emergenza Covid-19 nelle carceri e i più recenti provvedimenti assunti per fronteggiarla.
1. “Immuni”, il contagiato e l’esposto al contagio: è configurabile qualche responsabilità penale?
Stante le riscontrate criticità in ordine alla governance stessa dell’app Immuni e il potenziale impatto sui diritti fondamentali delle persone (e, su tutti, la protezione dei dati personali più sensibili, quali sono quelli sanitari)[1], converrà almeno segnalare che non paiono esservi evidenti dubbi in ordine alla facoltatività e, dunque, della volontarietà dell’applicazione, con la conseguente assenza di pregiudizi per coloro che non possano o, comunque, decidano di non farne impiego e, viceversa, di premialità per coloro che decidano di installarla.
Sembra però non del tutto scontato domandarsi se, al contrario, per questi ultimi possano configurarsi ipotesi di condotte penalmente rilevanti, dal momento che, in una prospettiva comparata, può osservarsi che alcuni Paesi europei – suscitando, peraltro, non pochi dubbi sulla legittimità delle misure adottare – hanno previsto forme di uso più o meno obbligatorio di app di tracciamento poste, tra l’altro, in diretto contatto con le forze dell’ordine in caso di violazione degli obblighi di quarantena[2].
Il riferimento è, dunque, alla posizione rivestita da colui che sia risultato positivo al Covid-19 e a colui a cui venga notificato di essere stato “esposto” al contagio.
In ottemperanza a quanto stabilito dall’art. 6, comma 2, del d.l. 30 aprile n. 28 del 2020, la valutazione d’impatto sulla protezione dei dati personali presentata dal Ministero della Salute relativa ai trattamenti effettuati nell’ambito del sistema di allerta Covid-19 inviata con nota del 28 aprile al Garante per la protezione dei dati personali chiarisce che al paziente risultato positivo ad un tampone verrà chiesto, per il tramite dell’operatore sanitario del Dipartimento di prevenzione dell’Azienda Sanitaria locale competente, se voglia rendere disponibili le proprie TEK al fine di allertare del rischio di contagio gli utenti con cui è entrato in contatto stretto nei giorni precedenti la diagnosi o la manifestazione dei sintomi.
Dovendo il consenso ad un tal tipo di attività essere espresso, oltretutto con una condotta attiva, e potendo essere sempre facoltativo, non pare al proposito configurabile alcuna possibile responsabilità penale in caso di diniego, fermo restando che nei confronti dello stesso varranno pur sempre, in via generale come per tutti coloro che siano risultati positivi al virus, gli obblighi connessi alla “quarantena”, con l’applicazione del relativo regime sanzionatorio.
Così, a quest’ultimo proposito e sia pur incidentalmente può segnalarsi che, secondo quanto stabilito dall’art. 4, comma 6, del d.l. 25 marzo 2020, n. 19 (conv., con modif., nella l. 22 maggio 2020, n. 35), salvo che il fatto costituisca violazione dell’articolo 452 c.p. (delitto colposo contro la salute pubblica) o, comunque, più grave reato, la violazione dell’obbligo della quarantena è punita, ai sensi dell’articolo 260 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, con l’arresto da tre a diciotto mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000[3][4].
Sennonché detta disciplina, applicabile già alla c.d. “fase 1”, deve essere coordinata con quanto disposto dall’art. 1, comma 6, del d.l. 16 maggio 2020, n. 33 per la c.d. “fase 2”, secondo cui “è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus Covid-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata”. Divieto, quest’ultimo, peraltro anch’esso sanzionato, sia pur autonomamente ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.l. n. 33/2020, con la medesima pena già disposto dall’art. 4, comma 6, del d.l. n. 19/2020[5].
Più complessa risulta, invece, la situazione di colui a cui sia notificata l’esposizione al contagio.
Come stabilito nella citata nota del Ministero della salute del 28 maggio 2020, infatti, per ricevere tale notifica l’interessato deve fornire uno specifico consenso al momento stesso dell’installazione dell’applicazione e, però, sono state rilevate dallo stesso Garante per la protezione dei dati personali criticità sia in ordine all’affidabilità dell’algoritmo con cui viene ad individuarsi il “contatto stretto” in virtù del quale la notifica viene inviata, sia in ordine alla presa in carico, dal punto di vista sanitario, dell’esposto al contagio.
L’art. 6 del d.l. n. 28 del 2020 dispone, infatti, più precisamente, che il sistema di allerta debba avere l’obbiettivo non solo di allertare il potenziale contagiato ma anche di “tutelarne la salute attraverso le previste misure di prevenzione nell’ambito delle misure di sanità pubblica legata all’emergenza Covid-19” e, a tal fine, è conferito al Ministero della sanità il compito di porre in essere gli ulteriori adempimenti necessari alla gestione del ridetto sistema di allerta, in coordinamento con i diversi soggetti previsti dall’art. 6, comma 1, del medesimo d.l. E, sempre quest’ultimo deve stabilire dei criteri, nell’ambito delle misure “tecniche e organizzative contenute nella valutazione d’impatto”, sulla base delle quali individuare il “contatto stretto”, rilevante ai fini dell’allerta.
Nel provvedimento di autorizzazione ad avviare il trattamento relativo a Immuni del 1° giugno 2020, tuttavia, si rileva che nella nota del Ministero inviata in data 28 maggio 2020 non risultano ancora puntualmente individuati “i criteri epidemiologici di rischio e i modelli probabilistici su cui si basa l’algoritmo, né i parametri di configurazione impiegati corredati dalle assunzioni effettuate”, ritenendosi, in particolare, che “la valutazione della distanza fra dispositivi è intrinsecamente suscettibile di errori in quanto l’intensità del segnale bluetooth dipende da fattori diversi come l’orientamento reciproco di due dispositivi o la presenza di ostacoli fra essi (compresa la presenza di corpi umani)”.
Il rischio concreto è, dunque, quello che l’applicazione rilevi «falsi positivi» e «falsi negativi» e che l’app generi notifiche di esposizione che non sempre riflettono un’effettiva condizione di contagio. Il che ha, quindi, spinto il Garante ad ammonire circa la possibilità che ciò comporti una compromissione della fiducia degli utenti nell’affidabilità di Immuni e, soprattutto, a prescrivere che sia reso chiaro all’interessato che “in nessun caso la ricezione di un messaggio di allerta proveniente dall’app significa automaticamente che l’utente è stato sicuramente contagiato”.
Lo stesso Garante, nel richiamato provvedimento autorizzatorio, ha, inoltre, rappresentato la possibilità di altri profili che potrebbero mettere in discussione l’affidabilità della notifica, non essendo da escludere che, per errore, vengano caricati Tek non riferiti a soggetti positivi a causa di errori materiali, omonimia, scambio di referti. E, nella valutazione d’impatto pubblicata il 3 giugno 2020, sono state riscontrate altre criticità derivanti, più in generale, dalla vulnerabilità delle soluzioni di exposure notification dovute, tra le altre, a malware, a sniffer, a eventuali limiti spaziali del dispositivo e ad attacchi di re-identificazione di tipo inferenziale nonché, più specificamente per i sistemi delocalizzati, a “paparazzi attack”[6].
Parimenti problematica, poi, rispetto alle più puntuali indicazioni disposte dall’art. 6 del d.l. n. 28 del 2020, pare, come accennato, la presa in carico, dal punto di vista sanitario, dell’esposto al contagio dal momento che questo parrebbe dover ricevere semplici raccomandazioni sul comportamento da assumere e l’invito a consultare il proprio medico di medicina generale/pediatra di libera scelta che, a sua volta, dovrà provvedere a contattare il Dipartimento di prevenzione della Azienda sanitaria locale territorialmente competente, senza ulteriormente chiarirsi se il soggetto in questione sarà sottoposto ad ulteriori accertamenti e se questi rimarranno a sue spese o a carico del sistema sanitario nazionale.
Ad ogni modo, viste tutte le richiamate incognite sull’affidabilità della notifica di esposizione al contagio e, ancora una volta, la facoltà – e non già l’obbligo – posta in capo all’interessato di rivolgersi al proprio medico curante (con l’ulteriore incognita sul da farsi una volta che, per l’appunto, quest’ultimo ne sia stato informato), in assenza di prescrizioni nello stesso d.l. n. 28 del 2020 (che non è ancora stato convertito), parrebbe, dunque, non potersi ravvisare per questi neppure l’obbligo della quarantena “precauzionale”[7] di cui all’art. 1, comma 2, lett. d), del d.l. n. 19 del 2020 (ma anche, e sempre in via autonoma, per la c.d. “fase 2”, dall’art. 1, comma 7, del d.l. n. 33 del 2020) che, peraltro, è punita, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del medesimo d.l. (richiamato anche dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 33 del 2020), con la sola sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 1.000.
Ciò anche se occorre almeno segnalare che dai primi esiti della sperimentazione – e, val la pena di ribadire, malgrado i moniti del Garante in ordine al rischio di “falsi positivi” e in assenza di alcun dato normativo che disponga sul punto – parrebbe che ad almeno alcuni “esposti” al contagio sia stata applicata dalla Asl proprio la misura dell’isolamento precauzionale, ponendosi invece a carico dell’interessato la facoltà (e, soprattutto, i costi) di un controllo della propria effettiva condizione di salute[8].
2. Non solo “Immuni”: il braccialetto elettronico come “supporto” per il distanziamento sociale.
Ciò posto, può ancora osservarsi che, accanto alle app sul c.d. contact tracking, com’è noto, sono stati realizzati e/o sono in fase di progettazione altri sofisticati sistemi di sorveglianza sia “generali”, perché approntati su categorie indistinte di individui[9], sia “individuali”, perché elaborati per l’uso personale, con il comune obiettivo di monitorare la temperatura corporea e/o il rispetto del distanziamento sociale.
Tra questi ultimi, il braccialetto elettronico parrebbe avere maggiori probabilità di impiego, almeno nel nostro ordinamento (ma anche in altri dove, peraltro, è già una realtà concreta: si pensi a Hong Kong, ove è stato applicato a coloro che si trovavano in quarantena domestica obbligatoria al fine di scongiurare eventuali spostamenti[10], ma anche, ad esempio, all’Australia[11]), perché meglio in grado, rispetto agli altri, di affiancare “Immuni”, al fine di colmare quei problemi di efficienza che la stessa, all’evidenza, presenterebbe se non fosse adottata da almeno il 60% della popolazione interessata.
Esso, infatti, da un lato, si presterebbe a essere di più agevole accesso, specie per le categorie “digitalmente escluse”[12] che pure presterebbero il proprio consenso all’installazione della app ma che non ne avrebbero l’opportunità per motivi non dipendenti dalla loro volontà. E, dall’altro, sarebbe un efficace mezzo per ovviare a quei problemi di compatibilità con i sistemi operativi di alcuni modelli di smartphone Android e IoS che si sono presentati nel primo periodo di sperimentazione in alcune regioni.
Così, tra i vari progetti di utilizzo di detto dispositivo che stanno prendendo forma, si possono segnalare il “Safety Bubble Device” (SBD), prodotto da un’azienda marchigiana, che parrebbe essere impiegato da un’azienda romana per il distanziamento sociale dei propri dipendenti nei settori dell’edilizia e dei prefabbricati; il “proximity sensor”, che sarebbe programmato con analoghe finalità per un’azienda bresciana; e, infine, iFeel-You, creato dall’IIT di Genova che, oltre al distanziamento sociale, è dotato di sensori per la misurazione della temperatura e della saturazione per il livello di ossigeno nel sangue.
Tutti questi strumenti – a differenza della app – parrebbero, peraltro, privi della possibilità di un qualche tracciamento al fine dichiarato di rispettare la privacy e, dunque, non dovrebbero più presentare quelle criticità che ne avevano, di fatto, bloccato la diffusione qualche anno addietro proprio in ambito lavorativo[13].
Ad ogni modo, in attesa di verificare se detti e altri progetti approntati per le ridette finalità di distanziamento sociale troveranno, a breve, una concreta realizzazione, non può trascurarsi che l’uso del braccialetto elettronico è tornato alla ribalta soprattutto perché “rilanciato” come strumento utile per sopperire alla necessità di contenere il contagio all’interno delle carceri.
È, dunque, soprattutto a questo profilo che occorre ora guardare con rinnovato interesse, anche se si ritiene convenga, sia pur per sintesi e in via preliminare, ripercorrerne le principali tappe, al fine di mettere a fuoco quali siano state le principali problematicità che, per il passato, non ne hanno, sia pur in un ben diverso contesto, permesso il definitivo decollo.
3. Le alterne (s)fortune del braccialetto elettronico come strumento di “sorveglianza domiciliare”: un primo quadro d’insieme.
Può, dunque, al proposito, ricordarsi come sia stato con il d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (conv., con modif., dalla l. 19 giugno 2001, n. 4) che è stata per la prima volta introdotta la possibilità, previo il consenso dell’interessato e a determinate condizioni, di applicare “mezzi elettronici” e “altri strumenti tecnici” alle persone sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari e ai condannati in stato di detenzione domiciliare, così da permettere che la relativa sanzione potesse venire irrogata in un luogo diverso dall’ambiente carcerario.
Le modalità di installazione ed uso sono state quindi dettate, secondo quanto disposto dall’art. 19 del citato d.l., da un apposito decreto del Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero della Giustizia[14], che, per l’appunto, ha ritenuto che il mezzo utile a soddisfare quanto disposto dal d.l. fosse un braccialetto elettronico “applicato alla caviglia della persona” e corredato di “uno speciale cinturino che, una volta applicato, evidenzi qualsiasi tentativo di manomissione, generando specifici ed identificabili allarmi”, dovendo l’intero apparato di trasmissione “essere a tenuta stagna, di materiale ipoallergico e di dimensioni e peso contenuti”.
Ad un primo periodo di sperimentazione in sole cinque province[15] ha fatto quindi seguito, nel 2003, un accordo con Telecom per la gestione unitaria del sistema in tutto il territorio nazionale, rinnovato, dopo un annullamento del medesimo da parte del Tar Lazio[16], nel 2012. Tuttavia, se questa nuova convenzione ha permesso un relativo aumento dei dispositivi messi in circolazione (passandosi da circa quattrocento a duemila braccialetti elettronici), di questi se ne è continuato a fare uno scarso (se non nullo) impiego malgrado gli elevati costi sostenuti[17].
Neppure particolarmente dirimente[18] è risultato quanto disposto, per la fase cautelare, dall’art. 1, comma 1, lett. a), del d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 (conv., con modif., dalla l. 21 febbraio 2014, n. 20), che, sulla scorta della pronuncia della Corte Edu Torreggiani c. Italia[19], ha novellato l’art. 275-bis, comma 1, primo periodo, c.p.p., con l’obiettivo di favorire gli arresti domiciliari “elettronici” in sostituzione della custodia cautelare in carcere, ottenendo il solo risultato di obbligare il giudice a dover motivare la scelta del ricorso ai domiciliari “semplici”, senza nel contempo incidere sull’ambito di applicazione delle misure custodiali detentive.
L’impiego del braccialetto elettronico è stato, invece, ampliato, sempre dal 2013, alle ipotesi di cui all’art. 282-bis c.p.p. (e, cioè nei confronti di coloro che siano stati sottoposti alla misura dell’allontanamento dal domicilio familiare)[20] e, poi, con l’introduzione, nel 2015, dell’art. 275, comma 3-bis, c.p.p.[21], è stato ancora stabilito che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice debba indicare le specifiche ragioni per cui ritenga inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275-bis, comma 1, c.p.p.
A tali sensibili riforme non ha, tuttavia, corrisposto un’adeguata disponibilità materiale dei dispositivi, così che è dovuta intervenire, nel 2016, la Corte di cassazione, a sezioni unite[22], per chiarire che, in mancanza di braccialetti elettronici, il giudice “escluso ogni automatismo nei criteri di scelta delle misure”, debba rivalutare l’opportunità di ricorrere agli arresti domiciliari “semplici” o, viceversa, alla misura coercitiva, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, nel rispetto dei canoni di “idoneità, adeguatezza e proporzionalità” della misura prescelta.
Così che la già non particolarmente brillante vicenda dei braccialetti in questione ha subito, se possibile, un’ulteriore battuta d’arresto sino a che, conclusasi la convenzione con Telecom il 31 dicembre 2018, il nuovo bando di gara è stato aggiudicato (per un costo superiore ai 19 milioni) a Fastweb, che si è, altresì, impegnata a implementare l’infrastruttura, in modo da allineare i dispositivi alle più moderne tecnologie Gps, con l’obiettivo dichiarato (dalle parti in convenzione) di far sì che il nuovo sistema di controllo a distanza consentisse il rilascio di circa mille detenuti al mese, per un totale di ventiduemila detenuti nei trentasei mesi di durata della convenzione stessa.
Ma anche quest’ultimo progetto non è decollato a causa, a quanto pare, dei ritardi, da parte del Ministero dell’Interno, nella nomina della commissione di collaudo del sistema (quindi l’infrastruttura, la sede di controllo e i devices), così che ancora il 30 novembre 2019 l’Unione delle Camere Penali Italiane, in occasione della V giornata nazionale dei braccialetti, denunciava questa situazione di sostanziale stallo.
4. L’emergenza Covid-19 nelle carceri e i più recenti provvedimenti assunti per fronteggiarla.
Un’improvvisa accelerazione, come anticipato, pare sia stata dettata dall’emergenza sanitaria in corso.
Anche alla luce di alcuni spunti in questo senso provenienti dal Consiglio d’Europea[23], il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (conv., con modif., dalla l. 24 aprile 2020, n. 27) ha, infatti, da un lato, istituito il Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19, a cui è stata data facoltà di procedere all’acquisto di dispositivi finalizzati a contrastare l’emergenza. E, nel contempo, in deroga a quanto disposto dall’art. 1, commi 1, 2 e 4 della l. 26 novembre 2010, n. 199, l’art. 123 del citato d.l. ha stabilito che, fino al 30 giugno 2020, la pena detentiva possa essere eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove la pena non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, fatte salve enumerate ipotesi di preclusione per fattispecie di reato più gravi, oppure qualora gli interessati siano incorsi in individuate infrazioni disciplinari.
Ciò, si badi, a condizione che sia applicata “la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari”, potendo la stessa essere esclusa e/o disattivata solo in caso di detenuti minorenni o per coloro che debbano scontare una pena residua non superiore ai sei mesi. E, a tal fine, è stato disposto che, con provvedimento del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della giustizia, d’intesa con il capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, debba essere adottato entro il termine di dieci giorni dall’entrata in vigore del d.l. e periodicamente aggiornato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, da utilizzarsi per l’esecuzione della pena con le modalità così stabilite, tenuto conto anche delle emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti.
Tuttavia, se, già in fase di conversione del d.l., si erano levate critiche, specie nell’ambito della dottrina processual-penalistica[24], a motivo della mancata previsione di una analoga disciplina per i detenuti non definitivi, le maggiori polemiche sono sorte per la scarcerazione, tra gli altri, di detenuti sottoposti al regime di isolamento di cui all’art. 41-bis dell’ord. penit. che, oltretutto, avevano ricoperto posizioni apicali all’interno di associazioni di stampo mafioso[25].
Così, anche al fine di arginare dette polemiche, si è provveduto all’emanazione, dapprima, del d.l. 30 aprile 2020, n. 28 che, all’art. 2, prevede che per la concessione di permessi premio ex art. 30-bis dell’ord. penit., o per il rinvio dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 o 147 c.p. con applicazione della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., per i condannati per determinati delitti, si richieda anche il parere dei procuratori presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti soggetti al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit., del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, per essere sentito in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto[26]. E, dipoi, all’adozione, dopo appena dieci giorni[27], del d.l. 10 maggio 2020, n. 29, con cui si è ulteriormente stabilito che, nelle fattispecie sopra indicate (ma anche per altre specificamente enumerate) il magistrato di sorveglianza, nel termine di quindici giorni dall’adozione dei provvedimenti di concessione della detenzione domiciliare, degli arresti domiciliari[28] o del differimento della pena, possa ri-valutare la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile (dopo aver sentito anche l’autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta della Regione, sulla situazione sanitaria locale) o ancor prima, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto.
Mentre, per i detenuti che fanno ora ingresso negli istituti penitenziari e negli istituti penali per i minori, l’art. 1, comma 1, lett. cc), del d.p.c.m. 17 maggio 2020 (così come sostituito, peraltro, dal d.p.c.m. del 18 maggio 2020) dispone, oltre al contenimento della diffusione tramite appositi presidi sanitati, che i sintomatici siano tenuti in condizioni di isolamento dagli altri detenuti.
Provvedimenti tutti, questi ultimi, che, se non hanno evitato la presentazione delle mozioni di sfiducia individuali nei confronti del Ministro della Giustizia, anche per la discussa nomina del capo del Dipartimento della amministrazione penitenziaria[29], hanno quantomeno contribuito (unitamente al paventato rischio di una vera e propria crisi di governo) a determinarne il respingimento. Occorre, peraltro, incidentalmente segnalare come l’art. 2 del d.l. n, 29/2020 sia già stato fatto oggetto di una questione di legittimità costituzionale da parte del Magistrato di sorveglianza di Spoleto per l’asserito contrasto con gli artt. 3, 24, comma 2 e 111, comma 2, Cost., in particolare “nella parte in cui prevede che proceda a rivalutazione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, il magistrato di sorveglianza che lo ha emesso”[30]. Mentre un’altra ordinanza di rimessione del Tribunale di sorveglianza di Sassari ha censurato la stessa norma, nonché l’art. 5 del medesimo d.l., per la presunta lesione degli artt. 3 e 27, comma 3, 32, 102, comma 1, e 104, comma 1, Cost.[31]
In attesa, dunque, degli esiti di detto sindacato di costituzionalità, per quanto più ora interessa, va peraltro rimarcato il più recente intento del legislatore di invitare la magistratura “a far rientrare il più presto possibile in cella i detenuti mafiosi già scarcerati”[32], con la conseguenza, più o meno indiretta, di una sensibile riduzione delle ipotesi di ricorso, in genere, alla “sorveglianza domiciliare” al posto di quella detentiva. Conferma ne è, da ultimo, la sospensione, con circolare del Dap del 16 giugno 2020, della precedente circolare del 21 marzo con cui, a pochi giorni dall’entrata in vigore del citato d.l. n. 18/2020, erano state date disposizioni per la comunicazione alla Autorità giudiziaria, “per le eventuali determinazioni di competenza”, dei nominativi dei ristretti in condizioni di salute tali da comportare un elevato rischio di complicanze in caso di contagio.
Così la “questione” braccialetti elettronici – di cui ad oggi non è dato, a quanto consta, conoscere i dati di effettivo utilizzo, malgrado gli obblighi normativamente imposti al proposito – potrebbe essere nuovamente messa in ombra.
Al di la della situazione contingente appena segnalata, deporrebbero, infatti, in questo senso anche le prime riscontrate difficoltà nell’applicare la disciplina di cui all’art. 123 del d.l. n. 18/2020 proprio per il lamentato “ingabbiamento” della concessione della misura all’impiego di un dispositivo elettronico la cui disponibilità permarrebbe (purtroppo) scarsa[33], in assenza di una specifica previsione di spesa che ne aumenti la dotazione[34].
Ciò senza contare che, almeno ad avviso di una parte della dottrina penalistica, la stessa obbligatorietà dell’impiego dei ridetti dispositivi potrebbe essere giudicata lesiva del principio di ragionevolezza, essendo la misura rimasta invece facoltativa per condannati in astratto più pericolosi o perché trovatisi a dover espiare una pena (di ben più lunga durata ma ormai) inferiore ai sei mesi, o perché comunque, abbiano avuto accesso, indipendentemente dalla situazione emergenziale attuale, alla misura della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, commi 1 e 1-bis, ord. penit[35].
[1] Al proposito v. L. Trucco, App Immuni: una storia stran(ier)a e incompiuta, in questa Rivista.
[2] Il riferimento è in particolare, alla Polonia, dove sarebbe stata rilasciata un’app denominata “quarantena domestica”, obbligatoria per chiunque abbia contratto il virus o sia potenzialmente infetto e che deve, tra l’altro, inviare periodicamente selfie localizzati per provare che sia a casa, in caso contrario dovendosi allertare la polizia. In Bulgaria, inoltre, è stata approvata una legge che consente alla polizia di richiedere i dati degli operatori telefonici e delle compagnie internet per monitorare i movimenti delle persone e far rispettare la quarantena obbligatoria. In Croazia, poi, è stata votata una proposta di legge per facilitare l’accesso delle autorità ai dati sulla localizzazione delle persone e, analogamente, in Slovenia è stata discussa una proposta di legge che consentirebbe alla polizia di monitorare la posizione delle persone che optano per l’autoisolamento invece della quarantena obbligatoria. Sul punto, e per maggiori approfondimenti, cfr., volendo, all’indirizzo telematico https://www.aduc.it/notizia/1984+braccialetti+droni+obbligo+selfie+domestici_136912.php.
[3] Per alcune osservazioni critiche su detto regime sanzionatorio (e, in particolare, sulla configurabilità dei più gravi reati di cui agli artt. 438 e 452 c.p.), cfr., tra gli altri, I. Pardo, Gli illeciti amministrativi, il nuovo reato di infrazione dell’obbligo di quarantena e il delitto di epidemia colposa. Effetti del DL 19/20 su procedimento e misure in corso, in questa Rivista, 28 marzo 2020; L. Agostini, Pandemia e “penademia”: sull’applicabilità della fattispecie di epidemia colposa alla diffusione del covid-19 da parte degli infetti, in Sistema penale (www.sistemapenale.it) 4/2020, 229 ss.; R. Bartoli, Il diritto penale dell’emergenza “a contrasto del coronavirus”: problematiche e prospettive, ivi, 24 aprile 2020; M. Grimaldi, Covid-19: la tutela penale dal contagio, in Giurisprudenza penale web (www.giurisprudenzapenale.com), 4/2020, 1 ss.; S. Raffaele, Delitto di epidemia: l’affaire coronavirus, in Diritto Penale Uomo (www.dirittopenaleuomo.org), 4/2020.
[4] Al proposito, cfr. anche le osservazioni di G.L. Gatta, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantena, in Consulta OnLine (www.giurcost.it), Studi, I/2020, 6 aprile 2020, 200 ss., spec. 206, secondo cui nulla dice il d.l. “a proposito dei provvedimenti, individuali e concreti, che applicano la misura della quarantena: né in merito all’autorità competente, né a riguardo dei doveri di informazione, della durata e dell’eventuale revisione periodica e revoca, né circa la convalida della misura e i rimedi per contestarne l’applicazione”: aspetti, tutti, che avrebbero dovuto essere regolati da una fonte primaria e che, invece, sono stati rimessi, in parte, ad una fonte secondaria (e, in particolare, alla Circolare del Ministero della Salute del 22 febbraio 2020). In senso analogo, cfr. anche G. Lattanzi, in La pandemia aggredisce anche il diritto?, in questa Rivista, 2 aprile 2020, 15.
[5] Sulle possibili criticità derivanti dal coordinamento tra i due d.l. (e con la l. di conversione n. 35/2020), cfr. G.L. Gatta, Emergenza COVID-19 e “fase 2”: misure limitative e sanzioni nel d.l. 16.5.2020, n. 33 (nuova disciplina della quarantena), in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 18 maggio 2020.
[6] Al proposito, cfr., ancora, L. Trucco, App Immuni: una storia stran(ier)a e incompiuta, cit.
[7] Per alcune osservazioni critiche sulla quarantena “precauzionale”, cfr., volendosi, la dottrina richiamata, supra, alla nota 60.
[8] Al proposito, cfr. M. Seclì, La «app» fa una prigioniera. In quarantena senza motivo, in Gazzetta del Mezzogiorno, 20 giugno 2020. Il rischio era già stato, peraltro, preconizzato da F. Sarzana, Immuni, scaricano più FaceApp che l’app anti-Covid. E il motivo è molto semplice, in Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2020.
[9] Tra questi, può segnalarsi che a Singapore va sperimentandosi un cane-robot (dal nome “Spot”) teleguidato e dotato di telecamera che ha il compito di ricordare ai runner nei parchi, con messaggio preregistrato tramite altoparlante, di mantenere le distanze. Nella città di Burgas, in Bulgaria, pare che la polizia abbia usato un drone con una termocamera per misurare la temperatura delle persone in un quartiere popolato prevalentemente da persone appartenenti alla minoranza rom. Presso l’aeroporto di Genova, inoltre, sta prendendo forma uno vero e proprio “studio-pilota” su di un software (denominato “Social distancing”) sviluppato dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) funzionale a monitorare automaticamente il rispetto del distanziamento sociale attraverso l’uso di telecamere di sorveglianza in grado di generare una mappatura dell’ambiente sfruttando l’intelligenza artificiale e, quindi, circoscrivere un raggio intorno a tutte le persone presenti, sì da segnalare quando siano troppo vicine. Ciò tra l’altro, nel pieno rispetto della privacy dal momento che i video verrebbero preventivamente anonimizzati grazie a un software che trasformerebbe automaticamente l’immagine umana in sagome bidimensionali rendendo del tutto irriconoscibili le persone riprese.
[10] E per cui, peraltro, parrebbero essersi riscontrati problemi di funzionamento: sul punto, cfr., amplius, all’indirizzo telematico https://www.bloomberg.com/news/articles/2020-03-24/hong-kong-s-faulty-wristbands-allow-quarantined-to-wander-free.
[11] Al proposito, cfr., amplius, al seguente indirizzo telematico https://www.theregister.co.uk/2020/04/01/west_australia_isolation/?fbclid=IwAR0_PqQSR4CZRLVLxFbtCw0c5XVROKk4O-X3xzu-UxLP7VwqtQ87qR8STfY.
[12] Sul punto, cfr. anche il libro bianco della eHealth Network, del 15 aprile 2020 (reperibile all’indirizzo telematico https://d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2020/04/covid-19_apps_en.pdf), ove si suggerisce che le categorie “digitalmente escluse” vengano dotate di soluzioni “mobile”.
[13] A tal proposito, si può, infatti, segnalare che già nel 2018 una società che si occupava della raccolta dei rifiuti per conto della municipalizzata di un comune toscano aveva creato braccialetti dotati di GPS da far indossare a dipendenti addetti alla pulizia delle strade, al fine di effettuare la lettura delle etichette elettroniche collocate sui cestini getta rifiuti e segnalare l’eventuale spostamento di quelli non ancorati al suolo, con l’obbiettivo di rendicontare il lavoro svolto all’Azienza municipalizzata comunale. Sul punto era, tuttavia, intervenuto il Garante per la protezione dei dati personali che, pur giudicando tale configurazione non in contrasto con i principi di necessità e proporzionalità del Gdpr rispetto alle finalità perseguite dalla società, aveva tuttavia ritenuto necessario individuare ulteriori misure maggiormente rispettose della dignità dei lavoratori (cfr. all’indirizzo telematico https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9094427).
Guardando, poi, a imprese di dimensioni internazionali, può ricordarsi che progetti volti alla realizzazione di braccialetti elettronici in grado di monitorare (in modo più o meno palese) i movimenti dei dipendenti e controllarne i ritmi di operatività erano stati brevettati, dal 2016, per Amazon ma non si erano poi concretizzati proprio per la prospettata incompatibilità con le regole dettate dal citato Gdpr.
[14] Il riferimento è al Decreto del Ministero dell’Interno del 2 febbraio 2001, recante “Modalità di installazione ed uso e descrizione dei tipi e delle caratteristiche dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici destinati al controllo delle persone sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari nei casi previsti dall'art. 275-bis del codice di procedura penale e dei condannati nel caso previsto dall'art. 47-ter, comma 4-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354” (pubblicato nella G.U., Serie Generale, 15 febbraio 2001, n. 38).
[15] E, precisamente, nelle province di Milano, Torino, Roma, Napoli e Catania, con una disponibilità di 375 dispositivi di controllo remoto.
[16] Cfr. Tar Lazio, sez, I-ter, sent. 24 maggio 2012, n. 4997. La sentenza è stata poi sostanzialmente confermata, dopo un previo rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia (sez. V, sent. 11 settembre 2014, nella causa C- 19/13) da Consiglio di Stato, sez. III, sent. 20 novembre 2014 (4 febbraio 2015), n. 540.
[17] Sul punto, cfr. anche Corte dei Conti, delibera del 13 settembre 2012, n 11/2012/G, 51 ss., laddove si sottolineava, in particolare, che nei primi dieci anni dall’introduzione del braccialetto elettronico “il costo del sistema ha superato i dieci milioni annui”, a fronte di soli 14 dispositivi utilizzati.
[18] Ma anzi, se possibile, ancor più problematiche: in tal senso e per maggiori approfondimenti, cfr. E. Valentini, Arresti domiciliari e indisponibilità del braccialetto elettronico: è il momento delle Sezioni Unite, in Diritto Penale Contemporaneo (all’indirizzo telematico https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/), 27 aprile 2016, 3.
[19] Corte Edu, sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, req. n. 43517/09 (e al.). Cfr. poi anche la Raccomandazione CM/REC del 19 febbraio 2014 del Comitato dei Ministri sulla Sorveglianza elettronica, con cui gli Stati membri sono stati sollecitati a potenziare l’istituto.
[20] Così come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. a), del d.l. 14 agosto 2013, n. 93 (conv., con modif., dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119).
[21] Il comma è stato, infatti, introdotto dall’art. 4, comma 3, della l. 16 aprile 2015, n. 47.
[22] Il riferimento è a Cass. pen. S.U., sent. 19 maggio 2016, n. 20769.
[23] Il riferimento è, in particolare alla raccomandazione del 20 marzo 2020 dell’European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT), che ha indicato come «imperative, in particular, in situation of overcrowding» a «greater use of alternatives to pre-trial detention».
[24] Al proposito, cfr. il documento approvato dal Direttivo dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo penale “G.D. Pisapia” il 30 marzo 2020.
[25] Per una puntuale analisi sulla complessa dinamica venutasi a determinare nei rapporti tra informazione giornalistica, opinione pubblica, ruolo/orientamenti della magistratura e decretazione d’urgenza da parte del governo, cfr., in dottrina, G. Fiandaca, Scarcerazione per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 19 maggio 2020
[26] Per un primo commento all’art. 2 del d.l. n. 28/2020, cfr. le osservazioni di G. Santalucia, Un altro decreto legge – n. 28 del 30 aprile 2020 – in materia di giustizia penale per l’emergenza sanitaria e non solo, in questa Rivista, 30 aprile 2020; A. Della Bella, A proposito delle polemiche in corso e dell'art. 2 d.l. 30 aprile 2020, n. 28, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 1° maggio 2020; M Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, ivi; E. Novi, (Intervista a) Giovanni Maria Flick: “Al 41bis la salute è un optional, diritti banditi dal carcere”, in Il Dubbio (www.ildubbio.news), 1° maggio 2020; P. Canevelli, La magistratura di sorveglianza tra umanità della pena e contrasto alla criminalità organizzata: le soluzioni contenute nel D.L. 30 aprile 2020, n. 28., in questa Rivista, 8 maggio 2020; F. Gianfilippi, Emergenza sanitaria in carcere, provvedimenti a tutela di diritti fondamentali delle persone detenute e pareri sui collegamenti con la criminalità organizzata nell’art. 2 del dl 30 aprile 2020 n. 28, in Giur. pen. (www.giurisprudenzapenale.com), 2020; V. Manca, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, ivi.
[27] Peraltro, una posizione critica è stata assunta nell’immediatezza dalla Giunta dell’Unione delle Camere penali Italiane: al proposito, cfr. I penalisti sul DL scarcerazioni: una vergogna, 10 maggio 2020 (il cui testo è reperibile in Sistema Penale, all’indirizzo telematico www.sistemapenale.it); nonché Memoria per l’audizione dinanzi alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica del 13 maggio 2020. Le considerazioni dell’Unione delle Camere Penali Italiane (reperibile all’indirizzo telematico http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/127/901/Nota_UCPI_audizione_13.05.2020.pdf). In dottrina, cfr. poi le osservazioni critiche di F. Gianfilippi, La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29, in questa Rivista ), 12 maggio 2020; G. Pestelli, D.L. 29/2020: obbligatorio rivalutare periodicamente le scarcerazioni connesse all’emergenza Covid-19, in Quotidiano Giuridico (www.quotidianogiuridico.it), 13 maggio 2020; G. Fiandaca, Scarcerazione per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, cit.; A. Pulvirenti, COVID-19 e diritto alla salute dei detenuti: un tentativo, mal riuscito, di semplificazione del procedimento per la concessione dell’esecuzione domiciliare della pena (dalle misure straordinarie degli artt. 123 e 124 del d.l. n. 18/2020 alle recenti novità del d.l. n. 29/2020, in Leg. pen. (www.lalegislazionepenale.eu), 26 maggio 2020, 31 e ss.
[28] Per maggiori approfondimenti sui provvedimenti al proposito intrapresi, cfr. la Scheda di lettura dell’A.S. n. 1799, di conversione del d.l. n. 29/2019 (Dossier n. 252, reperibile all’indirizzo telematico http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DOSSIER/0/1151621/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione13).
[29] Nella seduta presso il Senato del 20 maggio 2020, n. 219 sono state, infatti, discusse e respinte sia la mozione presentata dai sen. Romeo (L-SP), Ciriani (FdI) e Bernini (FI) (con 160 voti contrari, 131 voti favorevoli e un’astensione), sia la mozione presentata dalla sen. Bonino (Misto) e altri (con 158 voti contrari, 124 voti favorevoli e 19 astensioni). Sulla vicenda, volendo, cfr., amplius, G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di difesa (www.dirittodidifesa.eu), 6 maggio 2020
[30] Per un primo commento all’ordinanza di rimessione del Magistrato Sorveglianza Spoleto del 26 maggio 2020, cfr. le osservazioni di M. Bortolato, Alla Corte costituzionale il decreto-legge sulle “scarcerazioni”, in Quest. giust., 29 maggio 2020, nonché di M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 5 giugno 2020, secondo cui “la saldatura di due paradigmi normativi emergenziali – quello collegato alla criminalità organizzata e quello del coronavirus – ha indotto il governo a plasmare un procedimento di revoca della detenzione domiciliare surrogatoria o del differimento dell’esecuzione della pena – concesso provvisoriamente dal magistrato di sorveglianza – privo dei connotati basilari della giurisdizionalità. Di fronte all’urgenza di rivalutare la posizione di centinaia di soggetti scarcerati, si è pensato di poter derogare ai canoni fondamentali desumibili dagli artt. 13, 24, comma 2, 27, comma 3, 111 Cost., come se quella esecutiva fosse una vicenda puramente amministrativa, nella quale non vengono in gioco i beni più preziosi dell’individuo, quali la salute e la libertà personale dell’individuo, ma solo interessi pubblici la cui valutazione può essere affidata esclusivamente alle amministrazioni pubbliche. Prima tra tutte quella chiamata a promuovere la repressione dei reati (art. 73 ord. giud.)”.
[31] Per un primo commento alla citata ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, cfr. le osservazioni di A. Cabiale, Un’altra questione di legittimità costituzionale si abbatte sul d.l. antiscarcerazioni: questa volta entra in gioco il diritto alla salute, in Sistema Penale (www.sistemapenale.it), 10 luglio 2020.
[32] In questo senso, cfr. G. Fiandaca, Scarcerazione per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, cit.
[33] Al proposito, cfr. C. Minnella, Coronavirus ed emergenza carceri: la via del ricorso alla Corte di Strasburgo, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 15 maggio 2020.
[34] Sul punto, cfr. A. Pulvirenti, COVID-19 e diritto alla salute dei detenuti, cit., 17.
[35] In questo senso, cfr. E. Dolcini, G.L. Gatta, Carcere, coronavirus, decreto ‘Cura Italia’: a mali estremi, timidi rimedi, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 20 marzo 2020. Contra, cfr. A. Pulvirenti, COVID-19 e diritto alla salute dei detenuti, cit., 17.
Falcone e quella notte al Consiglio Superiore della Magistratura (terzo capitolo)
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Marcello Maddalena
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, già componente laico del CSM, in un suo recente saggio dedicato all’analisi delle non commendevoli vicende che attualmente agitano il mondo giudiziario (Notte e nebbia nella magistratura italiana, QG,12 giugno 2020), ha osservato che la vicenda della mancata nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo assume ancora oggi un valore emblematico rispetto alle difficoltà mostrate dal governo autonomo della magistratura sul tema della c.d. anzianità senza demerito degli aspiranti a ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi. Essa, a ben considerare, offre ulteriori e forse ancora maggiori punti di riflessione che riguardano da vicino il rapporto dei magistrati con le correnti, con l'opinione pubblica, la politica ed il CSM.
Giustizia Insieme intende tornare su quella vicenda per farne memoria, soprattutto a beneficio dei tanti che non vissero direttamente quella stagione ed il clima avvelenato che ne seguì, vuoi perché lontani da quella che viene considerata secondo un ben sperimentato stereotipo terra di mafia, vuoi perché non ancora entrati all’interno dell’ordine giudiziario. Ciò ha inteso fare attraverso alcuni dei protagonisti che contribuirono direttamente a scrivere le note di quella notte del 19 gennaio 1988 consumata all'interno del plenum del CSM.
Carlo Smuraglia, Stefano Racheli, Marcello Maddalena e Vito D’ambrosio, membri alcuni togati (D’Ambrosio, Racheli e Maddalena), alcuni laici (Smuraglia) del CSM che si occupò di quella pratica, hanno accettato di rileggere quegli avvenimenti a distanza di oltre trentadue anni. Una rilettura certamente mediata, per un verso, dall’esperienza maturata dai protagonisti nel corso degli anni passati al Consiglio Superiore della magistratura e, per altro verso, da quanto emerso rispetto alla gestione del goberno autonomo in tempi recenti. La drammaticità di quella vicenda sembra dunque legarsi a doppia mandata all’attuale contesto storico che sta attraversando la magistratura italiana. I contributi che seguono, nella prospettiva che ha animato la Rivista non intendono, dunque, offrire verità ma semmai stimolare la riflessione, aprire gli occhi ai tanti che non vissero quell’episodio e quell’epoca assolutamente straordinaria per tutto il Paese.
La spaccatura che si profilò all'interno dei gruppi presenti in Consiglio e delle scelte che i singoli consiglieri ebbero ad esprimere votando a favore o contro la proposta di nomina del Consigliere Istruttore Antonino Meli pongono, in definitiva, interrogativi più che mai attuali, occorrendo riflettere su quanto nelle determinazioni assunte dal singolo consigliere del CSM debba essere mutuato dall'appartenenza al gruppo e quanto, invece, debba liberamente ed autonomamente attingere al foro interno del consigliere, allentando il vincolo "culturale" con la corrente quando si tratta di adottare decisioni che riguardano gli uffici giudiziari ed i loro dirigenti.
Gli intervistati hanno mostrato tutti in dose elevata la capacità di approfondire in modo costruttivo quell'episodio e per questo va a loro un particolare senso di gratitudine.
In calce ad ognuna delle quattro interviste che saranno pubblicate in successione abbiamo riportato, oltre al verbale consiliare del 19 gennaio 1988 tratto dalla pubblicazione che il CSM ha dedicato alla memoria di Falcone, alcuni documenti storici che Giovanni Paparcuri, testimone vivente delle stragi mafiose e custode delle memorie raccolte nel museo “Falcone Borsellino” ha gentilmente messo a disposizione della Rivista. Documenti che offrono, in cifra, l’immagine dell’uomo e del magistrato Falcone e del contesto nel quale Egli operò.
La terza intervista è del Cons. Marcello Maddalena, già Procuratore della Repubblica Aggiunto presso la Procura di Torino, Procuratore della Republica di Torino e Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Torino. Membro togato del CSM durante il quadrienno1986-1990, attualmente Presidente dell'Associazione DAFNE di Torino.
p.s. Elena Paciotti, che all'epoca della vicenda qui ricordata era componente del CSM, ha cortesemente declinato l'invito a partecipare all'iniziativa promossa dalla Rivista, tanto scriviamo per rispondere alle domande che alcuni lettori hanno inviato alla redazione.
[In calce, la nota inviata dal Consigliere Istruttore Dr. Antonino Meli all'Ispettore del Ministero di Grazia e Giustizia - Dr. Rovello - in data 30 luglio 1988,
avente ad oggetto le notizie di stampa riguardanti il funzionamento dell'Ufficio Istruzione di Palermo]
1) Il contesto ed il clima nel quale si discusse il conferimento dell’incarico di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo nel gennaio 1988 ed il suo prodromo – la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala. Cosa ricorda?
Maddalena: Per quanto riguarda la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala, ricordo che anche quella nomina non fu senza contrasti. La ragione risiedeva nel fatto che a quell’epoca la “regola” che imperava nella scelta dei Dirigenti degli uffici direttivi era rappresentata dalla “anzianità senza demerito”. Era una regola – di per sé certamente molto criticabile – che peraltro assicurava, in certo qual modo, la “pace” all’interno del corpo giudiziario, perché, da un lato, era “accettata” dalla grande maggioranza dei magistrati e, dall’altro, permetteva ai componenti del CSM di sottrarsi molto più facilmente alle segnalazioni, raccomandazioni, rivendicazioni, pressioni da qualsiasi parte provenienti. Era un criterio oggettivo e quindi di per sé idoneo, nella gran parte dei casi, a troncare sul nascere le discussioni. Nel caso della Procura della Repubblica di Marsala, vi era un concorrente che, se ben ricordo, vantava quattro anni di anzianità in più rispetto a Paolo Borsellino e che quindi sarebbe stato “scavalcato” da Borsellino nel caso di sua nomina. E tuttavia il divario di “merito” e di “attitudini” era tale da giustificare l’eccezione. Va aggiunto che sicuramente per Magistratura Indipendente Borsellino era una “bandiera” (non ricordo l’appartenenza correntizia dell’altro concorrente) e quindi umanamente era istintivamente più “facile” giustificare l’eccezione (che peraltro, per quel che ricordo, era pur essa “prevista” dalle circolari in caso di meriti assolutamente eccezionali – rispetto a quelli dei concorrenti – del magistrato meno anziano). Di conseguenza la nomina di Paolo Borsellino non determinò, all’interno delle “correnti”, quel terremoto che avrebbe poi provocato la nomina di Antonino Meli (invece che di Giovanni Falcone) come Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo. E quindi fu, sia pure con qualche mugugno, “assorbita” in tempi relativamente brevi.
Molto più complessa si presentò la situazione per il posto di Consigliere istruttore presso il Tribunale di Palermo. Sia perché si trattava di un posto ritenuto di estrema rilevanza (ovviamente molto maggiore rispetto a quella della Procura della Repubblica di Marsala) sia perché la “attenzione” e la “pressione”(un po’ da tutte le parti: partiti politici, mass-media, magistrati con le loro correnti associative) furono infinitamente superiori. Ricordo al riguardo che in molte sedi giudiziarie si tennero, a livello delle singole correnti e forse anche di Sezioni locali della A.N.M.,, delle riunioni in cui i componenti magistrati del Consiglio ebbero a consultare la loro “base”: e non v’è dubbio, per quel che ricordo (e, quanto meno, per quel che riguarda Magistratura indipendente e forse anche Magistratura democratica) che la maggioranza dei magistrati si espresse a favore della osservanza del criterio della “anzianità”.
2) Media e partiti politici prima, durante e dopo il voto consiliare: quale peso giocarono? Quali furono le posizioni dei consiglieri laici? Quali quelli delle correnti? E della Presidenza della Repubblica con i suoi consiglieri giuridici? Ebbe un peso l’opinione pubblica?
Maddalena: Per quel che è il mio particolare ricordo, e per quanto mi riguarda personalmente, i media ed i partiti politici non ebbero alcun peso nella decisione. Se ben ricordo, i consiglieri laici votarono tutti a favore di Falcone, anche se ebbi l’impressione che qualcuno in realtà preferisse personalmente venisse votato Meli. Quanto alle correnti, in tutte e tre (Magistratura democratica, Unità per la costituzione e Magistratura indipendente) vi furono delle spaccature, nel senso che in tutte e tre la maggioranza si espresse nettamente a favore di Meli (perché la regola era quella della “anzianità senza demeriti”) mentre vi furono 1 componente di MD ed MI e due (o tre non ricordo) di Unicost che votarono per Giovanni Falcone. A favore di Meli, sempre per quel che ricordo, votò anche l’unico magistrato che all’epoca rappresentava il c.d. “Sindacato” (poi scomparso). A mio avviso, la Presidenza della Repubblica (Presidente della Repubblica era Cossiga) non giocò alcun ruolo: né personalmente né tramite i suoi consiglieri giuridici. Parimenti non ebbe alcun peso, per quanto mi risulta, l’opinione pubblica. Ne ebbe invece molta l’opinione dei magistrati la cui maggioranza non vedeva di buon occhio il superamento del criterio della anzianità.
3) La composizione del Consiglio superiore della magistratura come influì sulla scelta?
Maddalena: Premesso che secondo me all’epoca il sistema elettorale non favoriva (e non favorì) nessuna estrazione localistica (al contrario) la composizione del CSM non influì in alcun modo nella scelta, se non nel senso che fece prevalere la linea della maggioranza dei magistrati che accettavano di buon grado il criterio della “anzianità senza demeriti” (perchè non “delegittimava” nessuno e non amavano molto i magistrati “protagonisti” (sia che lo fossero per loro “colpa” sia che lo fossero a causa dei procedimenti che trattavano).
4) Quali furono le ragioni espresse del voto e quali gli schieramenti che si manifestarono nel corso del Plenum. Ricorda qualche episodio in particolare che possa risultare, oggi, significativo?
Maddalena: Come ho già detto, le ragioni di coloro che sostennero la candidatura di Meli erano rappresentate dal criterio della maggiore anzianità senza demerito (ed, anzi, in realtà, nel caso concreto, con molti meriti) di Antonino Meli mentre i sostenitori di Giovanni Falcone facevano leva sulla sua maggiore attitudine specifica e la “superiorità” dei suoi meriti ( sicuramente aveva una “marcia in più”). Non ricordo in particolare qualche episodio che oggi possa risultare significativo. Può essere però interessante sapere qualche cosa dei retroscena della vicenda. Per quel che ricordo io, in un primo momento i concorrenti al posto non erano Falcone e Meli ma Falcone e Marcantonio Motisi, che era il consigliere istruttore aggiunto e cioè il diretto superiore di Falcone, che era stato il vice di Antonino Caponnetto il cui posto, rimasto vacante, era quello oggetto del concorso. Ricordo che qualche tempo prima della delibera in Commissione mi aveva telefonato Paolo Borsellino (che era un rappresentante di spicco di Magistratura indipendente) per “raccomandarmi” Giovanni Falcone (che, sia detto per inciso, all’epoca era componente attivo e di grande rilievo della corrente di “Unità per la costituzione”) in quanto ritenuto dai componenti dell’ufficio il più idoneo. Dato che l’alternativa si poneva allora tra Falcone e Motisi chiesi a Borsellino il suo personale giudizio su Motisi: e Borsellino mi disse che era un magistrato eccezionale sotto tutti i profili, sia come giudice istruttore sia come dirittura e integrità morale (ricordo che mi disse che era un magistrato che mai avrebbe fatto o avrebbe fatto fare neppure una telefonata a chicchessia per sostenere una sua candidatura a qualsiasi posto: e infatti nessuno lo conosceva, perché non si era rivolto mai a nessuno). Inoltre non aveva “correnti” di appartenenza a sostenerlo. Mi disse che, per rigore, onestà intellettuale e dirittura morale, era un personaggio addirittura ottocentesco che però aveva un unico difetto: che era un “solitario”, non capace o scarsamente capace di lavorare con gli altri, per cui in ufficio non “legava” tanto con gli altri magistrati (al contrario di Giovanni Falcone). Ed ecco perché gli altri componenti dell’ufficio “tifavano” per Falcone. Motisi era però più anziano e quindi secondo il criterio della “anzianità senza demeriti” avrebbe dovuto prevalere lui. Anche perché un suo “scavalcamento” proprio da parte di un suo diretto “inferiore”, nel suo stesso ufficio, sarebbe apparso come uno “schiaffo” ed una “delegittimazione” non meritata. Ricordo che della cosa io parlai molto con alcuni colleghi ed in particolare con Mario Agnoli e Pino Cariti con cui durante l’intera consiliatura alloggiavo in una “casa” di suore (Regina Pacis) e con cui condividevo quindi tutta la giornata. Pino Cariti faceva parte della Commissione uffici direttivi. Ricordo che alla fine il nostro gruppo (di Magistratura indipendente) si orientò nel senso di sostenere in commissione – attraverso appunto Pino Cariti – la candidatura di Motisi (credo peraltro che all’epoca Stefano Racheli avesse già manifestato il suo personale intendimento di sostenere comunque quella di Falcone). Fatto sta che personalmente rimasi convinto che il gruppo avrebbe “portato” Motisi (sul che ero d’accordo). Senonchè in Commissione spuntò, del tutto inaspettata, la candidatura di Antonino Meli, fortemente sostenuta (nonostante la presenza della candidatura di Giovanni Falcone) dalla maggioranza di Unicost. La vicenda – davvero singolarissima – era stata la seguente. Antonino Meli aveva fatto domanda (ed era addirittura in pole position) per il posto di Presidente del Tribunale di Palermo (posto assai più importante e ben più prestigioso di quello di Consigliere istruttore dell’Ufficio istruzione dello stesso Tribunale!!!). Senonchè, avendo “fiutato” che probabilmente Motisi sarebbe stato “scavalcato” da Giovanni Falcone, aveva deciso di rinunciare al posto più prestigioso ed importante per concorrere a quello meno prestigioso ed importante di Consigliere istruttore dell’Ufficio istruzione: e questo per impedire, lui che era nettamente più anziano sia di Motisi che di Falcone, che al “povero” Motisi venisse fatto l’“affronto” dello scavalcamento da parte di un magistrato più giovane nel suo stesso ufficio. Vicenda degna di un personaggio di Pirandello che non per nulla era siciliano al pari di tutti gli altri protagonisti della vicenda! Si aggiunga che – per quello che venni a sapere dai colleghi siciliani – Antonino Meli era tutt’altro che un personaggio di scarso spessore. Durante l’ultima guerra mondiale in cui era impegnato come pilota di aerei era stato catturato e deportato in Germania dai tedeschi in un campo di concentramento dove aveva scelto il trattamento “peggiore” per aver rifiutato ogni tipo di attività lavorativa a favore del Governo tedesco. E, in Italia, nel suo ruolo di magistrato, come Presidente della Corte di assise di Caltanissetta aveva inflitto “tonnellate” di ergastoli ai vertici di “Cosa nostra” recandosi quotidianamente con la corriera di linea, senza alcuna scorta, da Palermo (dove abitava) a Caltanissetta (dove presiedeva la Corte di assise). Quindi, un magistrato ed un uomo di tutto rispetto, non un Carneade qualsiasi. Fatto sta che in Commissione alla fine la maggioranza –abbandonato Motisi – si concentrò sul più anziano Meli che quindi venne al Plenum con il maggior numero di voti. Prima del Plenum vi fu una riunione di corrente dove, a maggioranza, si decise di avallare la scelta di Pino Cariti e di appoggiare la candidatura di Meli. Nonostante le mie personali riserve (Meli, a differenza di Motisi, non aveva mai fatto il giudice istruttore) e per non provocare una scissione, dagli esiti imprevedibili, della corrente (che subito dopo si verificò infatti per l’uscita dalla stessa di Stefano Racheli; e lo stesso accadde in Unità per la Costituzione da cui si distaccarono Pietro Calogero e Vito D’Ambrosio che, unitamente a Racheli, diedero vita ad una nuova organizzazione associativa, ben presto trasformatasi in vera e propria nuova corrente) accettai le indicazioni della grande maggioranza del gruppo e quindi alla fine votai per Antonino Meli. Con il senno del poi, ho compreso – molto tempo dopo – che in terra di Sicilia (cosa che sicuramente non sarebbe stata in Piemonte) il non votare Falcone equivaleva, agli occhi di Cosa nostra, a delegittimarlo ed isolarlo, impedendogli di continuare ad essere quello che era stato come semplice giudice istruttore: tanto che Falcone – dopo un breve passaggio come Procuratore aggiunto alla Procura di Palermo, e dopo aver vanamente tentato di essere eletto al CSM : ma gli elettori della sua stessa corrente gli preferirono nettamente il consigliere Alfonso Amatucci, peraltro degnissima persona ed eccellente magistrato!- decise di “passare” al Ministero della giustizia, dove – con l’ostilità, per la verità anche con qualche valido motivo, della quasi totalità dei magistrati – riuscì, nel 1991, a far nascere la “sua creatura”, la Procura generale antimafia, cui comunque non sarebbe mai riuscito ad arrivare, sia per la sua prematura uccisione, sia perché in precedenza, in una votazione della Commissione Uffici Direttivi del CSM, gli era stato comunque preferito altro concorrente, e cioè Agostino Cordova.
5) Quale ruolo giocò il parametro dell’attitudine ovvero della specializzazione nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa nel giudizio di comparazione tra i magistrati che concorrevano alla direzione dell’ufficio istruzione (e) quanto il parametro dell’anzianità? Quali erano le regole della circolare dell’epoca sul conferimento degli incarichi direttivi, quale lo spazio rimesso alla discrezionalità del Consiglio?
Maddalena: Come ho detto rispondendo alle precedenti domande il ruolo decisivo lo giocò il criterio della maggiore anzianità. Ciò sicuramente rispondeva alle regole della circolare del CSM di quell’epoca, che tuttavia lasciava aperta qualche varco per delle eccezioni. E’ ovvio che poi anche la sussistenza, nel caso concreto, della eccezione che giustificasse l’abbandono della regola era rimessa alla valutazione soggettiva, molto discrezionale e poco ancorabile a parametri oggettivi, dei componenti del Consiglio.
6) Si assistette ad una votazione nella quale i componenti delle correnti non votarono in maniera compatta. Quale significato si sente di attribuire a questo fatto storico? Ebbero, in altri termini, un peso rilevante le convinzioni personali dei consiglieri o prevalsero motivazioni espressive comunque, nella diversità delle opinioni, della normale dialettica dell’esercizio dell’autogoverno della magistratura?
Maddalena: E’ vero che in quella occasione i componenti delle correnti non votarono in modo compatto. Ma non è stata quella l’unica volta. Ce ne sono state molte altre, prima e dopo. Ma vero è, invece, che, trattandosi di una votazione in una vicenda di eccezionale importanza “politica”, ciò ebbe conseguenze deflagranti, come la scissione di ben due correnti su tre e la formazione di una nuova corrente (poi, di fatto confluita, a distanza di anni, in quella unitaria di Area, di orientamento chiaramente “di sinistra”). Difficile dire quale peso abbiano avuto, nel voto, le convinzioni personali di ciascun componente del Consiglio e quelle espressive della normale dialettica dell’esercizio dell’autogoverno della magistratura. Certo è, a mio avviso, che il risultato finale rappresentò quello che era il sentimento diffuso all’interno del corpo magistratuale e cioè che andasse privilegiata la anzianità senza demeriti e che tendenzialmente questa regola non dovesse subire eccezioni di sorta, perché ogni eccezione poi provocava problemi insuperabili (o quasi).
7) Anche in quel caso si ventilò che l’adesione all’una o all’altra proposta avrebbe determinato uno scostamento dalla disciplina regolamentare. Allora come oggi si evocarono precedenti scelte per legittimare le rispettive posizioni. Cosa è cambiato negli anni successivi rispetto al tema delle scelte dei posti direttivi e semidirettivi?
Maddalena: Per la verità, come ho detto sopra, tutti coloro che ebbero ad intervenire nel dibattito (io non intervenni perché restai incerto fino all’ultimo) motivarono nel senso che la loro scelta meglio rispondeva alla disciplina regolamentare. E certamente si invocarono precedenti in un senso o nell’altro. Da allora le cose sono cambiate, ma, a mio avviso, in peggio. Nel senso che, se da un lato si è abbandonato del tutto il criticabile criterio della anzianità senza demerito, si è però andati alla ricerca di criteri oggettivi idonei a determinare il “merito” dei singoli concorrenti. Peraltro tali criteri si sono dimostrati molto velleitari e quasi impossibili in una materia in cui la “qualità” del lavoro (che è o dovrebbe essere l’elemento fondamentale) non si può determinare, se non in minima parte, sulla base di numeri, statistiche e cose del genere. Il che appesantisce ogni pratica di carte su carte, pareri su pareri, autorelazioni su autorelazioni (io le vieterei addirittura), statistiche di qua e di là, ma alla fine non rendono veramente il profilo di ciascun candidato: anche perché i giudizi di valore sono espressi da organi e persone diverse ognuna delle quali ha i suoi personali criteri di valutazione che differiscono da persona a persona. Per cui alla fine ci si rifugia nel confronto (e quindi, poi, nella “trattativa”) tra i componenti del Consiglio e i gruppi che costituiscono l’espressione dei vari orientamenti ideali, deontologici, professionali che ci sono (e sempre ci saranno) all’interno della magistratura. Difficile – anche se non del tutto impossibile – trovare rimedi e correttivi veramente efficaci.
L’istanza di discussione orale da remoto e la relativa opposizione. Prime applicazioni da parte del giudice amministrativo.
La V sezione del Consiglio di Stato, con decreto 3 giugno 2020 n. 881 a firma del Presidente Barra Caracciolo, ha accolto l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa formulata dall’appellante. Il decreto non consente di comprendere quale fosse la giustificazione dell’opposizione, si segnala soltanto che il g.a. sembra aver valorizzato l’eccezionalità della discussione da remoto. Si legge infatti che “stante il contesto circostanziale e normativo speciale relativo allo svolgimento dell’udienza mediante modalità telematiche e fatta salva l’integrità del contraddittorio comunque pienamente garantita … la causa debba passare in decisione della causa senza la relativa discussione orale”.
Il TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, con decreto 5 giugno 2020 n. 102 a firma del Pres. Migliozzi, ha rigettato l’opposizione della ricorrente all’istanza di discussione orale da remoto, in quanto esclusivamente motivata sulla circostanza che le controparti (resistente-controinteressata) – avendo depositato una memoria difensiva ed essendo ancora pendenti i termini per replicare – difettassero dei presupposti per chiedere la discussione orale dell’istanza cautelare. Il g.a., invece, ha ritenuto che la piana e coordinata lettura delle disposizioni disciplinanti la trattazione collegiale delle domande cautelari escludesse che “la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio alla memoria depositata dalla parte avversaria comport[asse] la preclusione della discussione orale da remoto”, tanto più che lo stesso art. 55 c.p.a. al suo settimo comma dispone che i difensori “sono sentiti ove ne facciano richiesta e la trattazione collegiale si svolge oralmente e in modo sintetico”. In tale prospettiva il Presidente, nel precisare che “l’interesse a sentire le parti ex art. 73, secondo comma c.p.a appare in base al regime giuridico processuale descritto dalla normativa emergenziale … una opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione della istanza di sospensiva allo stato degli atti (senza cioè discussione)”, ha definito espressamente la discussione orale come “estrinsecazione del diritto di difesa assolutamente incomprimibile”. Nella specie, pertanto, il giudice, in ragione della natura della controversia, degli interessi in gioco e dello stato dei fatti, ha ritenuto “ammissibile oltre che consigliabile la discussione orale sia pure da remoto”.
Ancora, con il decreto 4 giugno 2020 n. 43, il Pres. Silvestri del TAR Molise ha respinto la richiesta di discussione orale da remoto avanzata dalla ricorrente, ritenendo superfluo consentire siffatta discussione al (solo) fine di valutare la relativa istanza di rinvio per termini a difesa, ferma la possibilità di riproporla per l’eventuale successiva udienza. Nella specie, avendo il controinteressato depositato (il 21 maggio 2020) ricorso incidentale e avendo conseguentemente il ricorrente chiesto termini a difesa con successiva memoria (25 maggio, reiterata il successivo 30 maggio 2020), il g.a. ha espressamente ritenuto che “al fine di valutare l’istanza di rinvio per termini a difesa, risulta superfluo, per l’udienza prossima, prevedere la discussione orale da remoto, ferma restando la possibilità di ripresentarla per l’eventuale udienza successiva”.In tale fattispecie, peraltro, il g.a., nel respingere la suddetta istanza, ha ritenuto di dover non considerare le ragioni addotte dalla resistente nell’opposizione all’istanza di discussione orale, giacché, sostanziandosi nell’assunto che “la causa [era] matura per la decisione sulla base di tutte le eccezioni formulate negli scritti difensivi, non necessitando la discussione orale”, esse erano inidonee a escludere l’opportunità della trattazione orale della controversia.
Infine, il Presidente della sezione di Reggio Calabria del TAR Calabria, con decreto 8 giugno 2020 n. 55, ha disposto la discussione orale della controversia – data la peculiarità e la complessità della fattispecie dedotta – sebbene la relativa istanza fosse stata presentata tardivamente dalla parte. In particolare, il giudice ha deciso in tal senso, (i) evidenziando nella specie una “oggettiva ragione di incertezza su questione di diritto ai sensi dell’art. 37 c.p.a., considerato che con il computo a ritroso il termine per il deposito dell’istanza veniva a scadere in un periodo sì successivo all’entrata in vigore del D.l. n. 28/2020, ma antecedente a quello fissato dallo stesso art. 4 (“A decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale ...”) e alla stessa data di adozione e pubblicazione delle Linee guida del Presidente del Consiglio di Stato e del Protocollo d’intesa con l’Avvocatura sulle udienze da remoto”; e (ii) chiarendo che “il potere presidenziale ufficioso, siccome previsto “anche in assenza di istanza di parte”, può ritenersi esercitabile sia ove manchi l’istanza di parte, “ma anche, e a fortiori, ove quest’ultima sia stata formulata oltre i termini di legge””, proprio al fine di temperare gli effetti preclusivi determinati dal decorso dei termini.(V.S.)
Le "collaborazioni" tra strutture pubbliche ed operatori privati nel campo biomedico e la necessaria osservanza dei principi dell'evidenza pubblica (nota a T.A.R Lombardia Milano, sez. I, 8 giugno 2020, n. 1006)
Saul Monzani
sommario: 1. La questione oggetto di ricorso e la verifica dei presupposti dell'azione. - 2. La specifica disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS). 3. La qualificazione giuridica della convenzione contestata in base al suo contenuto concreto e alla luce della normativa specifica. - 4. La sottoposizione ai principi generali dell'evidenza pubblica della convenzione contestata quale contratto pubblico attivo e/o quale concessione di beni pubblici.
1. La questione oggetto di ricorso e la verifica dei presupposti dell'azione.
Il T.A.R. Lombardia è stato chiamare a decidere sul ricorso presentato da un soggetto imprenditoriale operante nel campo delle tecnologie biomediche a livello diagnostico e terapeutico, nonchè della produzione e commercializzazione di apparecchiature medicali e di prodotti ottenuti mediante tecniche di ingegneria genetica, avverso una convenzione stipulata dal Policlinico San Matteo di Pavia con un altro operatore del medesimo settore, potenziale concorrente del primo, senza la previa effettuazione di alcuna procedura ad evidenza pubblica.
Tale convenzione, secondo la definizione stabilita dalle parti, ha avuto ad oggetto una collaborazione finalizzata alla valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2 da sviluppare sulla base di un prototipo fornito dall'operatore privato e successivamente da produrre da parte di quest'ultimo.
Preliminarmente, i giudici amministrativi lombardi hanno accertato la sussistenza di legittimazione ed interesse ad agire in capo al ricorrente, in quanto “operatore economico dello specifico settore" che, come tale, è da ritenersi abilitato a contestare in sede giurisdizionale un affidamento diretto suscettibile, anche solo in astratto, di apportare un beneficio ad un soggetto concorrente apprezzabile in termini di utilità economica e di vantaggio competitivo.
Ciò posto, la sentenza ora in commento è passata ad individuare i riferimenti normativi entro cui si situa la convenzione contestata e poi ad esaminare il contenuto della stessa, al fine di qualificarla da un punto di vista giuridico, con le relative conseguenze in tema di procedura di selezione del contraente da osservarsi.
2. La specifica disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS).
Nella parte centrale della sentenza in commento si è trattato sostanzialmente di inquadrare da un punto di vista giuridico la convenzione contestata, tenendo conto della natura pubblica di uno dei soggetti contraenti e della specifica disciplina ad esso applicabile.
Lo specifico quadro normativo di riferimento entro cui si colloca la questione in esame è dato dal disposto di cui al d.lgs. 16 ottobre 2003, n. 288, recante "Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico” (IRCCS), stante l'appartenenza dell'amministrazione resistente a tale categoria, sia pure sotto forma di fondazione, rispetto alla quale è comunque indubitabile la “natura pubblica”, ai sensi dell'art. 2, comma 1, del testo normativo predetto.
Una prima ipotesi valutata, sulla base delle argomentazioni presentate dalle parti resistente e controinteressata, è consistita nella considerazione dell'accordo in questione come finalizzato alla (mera) valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov 2, allo scopo di ottenere la marcatura CE e, ove possibile, l’FDA clearance (autorizzazione per il mercato statunitense). In tal caso, l'atto oggetto di giudizio sarebbe da iscriversi nella fattispecie degli accordi di collaborazione scientifica, rientranti nelle funzioni istituzionali di assistenza e ricerca proprie degli IRCCS e disciplinati dall'art. 8 comma 5, del citato d.lgs. n. 288/2003.
L'altra ipotesi considerata è quella per cui, come ritenuto dal ricorrente, si sia trattato di un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, con il quale la fondazione resistente, a fronte del pagamento di un compenso variamente articolato, ha messo a disposizione di un operatore economico la propria capacità tecnica e scientifica al fine di giungere all’elaborazione di nuovi prodotti da commercializzare, sulla base di un mero prototipo presentato dal predetto operatore.
Dal punto di vista della procedura di selezione o individuazione del contraente applicabile, sussiste una certa differenza, perlomeno da un punto di vista normativo letterale.
Infatti, per quanto riguarda gli accordi di collaborazione scientifica, l'art. 8 predetto, dettato in vista di una possibile produzione industriale dei risultati della ricerca, consente la formazione di accordi anche con soggetti privati, ponendo taluni vincoli (la trasparenza dei flussi finanziari e la rendicontazione, nonchè la destinazione dei proventi economici al finanziamento delle attività istituzionali della struttura pubblica), ma non prevedendo alcunchè in ordine alle modalità di individuazione della controparte contrattuale.
Per inciso, i giudici amministrativi lombardi hanno ritenuto che pure siffatti accordi, integrando “veri e propri contratti con uno specifico contenuto economico e patrimoniale e con obbligazioni a carico di entrambe le parti, sono, in linea di principio, soggetti al rispetto dei principi interni ed eurounitari in materia di contratti pubblici”.
Il successivo art. 9 del d.lgs. citato, invece, riconosce la possibilità da parte degli IRCCS di svolgere anche attività diverse da quelle strettamente istituzionali, ovvero attività di natura “strumentale”, rispetto alle quali è ammessa la stipulazione di accordi e convenzioni o la costituzione di consorzi e società di persone o di capitali con soggetti pubblici e privati, ma con l'espressa previsione per cui questi ultimi devono essere “scelti nel rispetto della normativa nazionale e comunitaria”.
Ebbene, i giudici amministrativi lombardi, con la sentenza in commento, sono pervenuti ad escludere il carattere di accordo di mera collaborazione scientifica della convenzione oggetto del giudizio, riconducendola alla diversa fattispecie delle attività “strumentali” e a tale conclusione essi sono pervenuti attraverso una minuziosa analisi del testo convenzionale, condotta alla luce dei criteri ermeneutici di cui agli art. 1362 e 1363 del Codice civile, ovvero indagando la reale intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole utilizzate, valutando il loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione dell’accordo, nonché interpretando ciascuna clausola del contratto tenendo conto del senso che risulta dal complesso dell’atto.
3. La qualificazione giuridica della convenzione contestata in base al suo contenuto concreto e alla luce della normativa specifica.
Come appena rilevato, nella sentenza in commento si è proceduto a qualificare da un punto di vista giuridico, nonchè tenendo conto della specifica qualificazione dell'amministrazione coinvolta, la convenzione contestata, svolgendo una dettagliata analisi del suo contenuto interpretato secondo i criteri civilistici anzidetti, ovvero in concreto e nel suo complesso.
Ebbene, svolgendo siffatta operazione ermeneutica si è giunti ad accertare “la complessità e la molteplicità delle diverse attività dedotte nell’accordo, che non è diretto alla semplice validazione di un prodotto finito, ma si articola nello sviluppo di un prototipo fornito dalla società, sulla base di una valutazione analitica e clinica, cui potrà seguire un ulteriore studio clinico per determinare le prestazioni diagnostiche conseguibili mediante un kit molecolare da sviluppare e, quindi, non ancora ultimato”, in una prospettiva di ottimizzazione delle prestazioni dei prodotti ai fini della loro immissione sul mercato da parte dell'operatore privato.
Ai fini predetti, si è tenuto conto delle seguenti circostanze:
- la durata dell’accordo è fissata in dieci anni e a tale periodo è commisurata una quota consistente del compenso previsto in favore del Policlinico (il che farebbe escludere un'attività limitata alla semplice testazione di un prodotto finito, facendo verosimilmente riferimento ad un prodotto ancora da sviluppare);
- il contratto ha carattere evidentemente sinallagmatico: infatti il Policlinico si obbliga a tenere a disposizione della parte privata le sue strutture, le sue conoscenze scientifiche, la sua tecnologia, il suo know how, il suo personale a fronte del riconoscimento un compenso variamente determinato (tra cui una royalty, che non avrebbe giustificazione in caso di mera attività di validazione da parte dell'ente pubblico, pari all'1% sul prezzo netto praticato per la vendita di ciascun Kit Sierologico al cliente finale eseguita dall'operatore privato, con un minimo dì curo ventimila per anno nel corso dei dieci anni di durata dell’obbligazione);
- è prevista una minuziosa disciplina di esonero da responsabilità del soggetto privato per eventuali danni a terzi o al personale del Policlinico, anche per mancata remunerazione delle prestazioni rese (tale disciplina assume senso, secondo la sentenza in commento, solo presupponendo che l’accordo non abbia oggetto l’ordinaria attività di testazione di prodotti, per cui il personale opererebbe secondo le consuete mansioni e in base all'ordinario regime di responsabilità, ma prestazioni diverse ed ulteriori, a fronte delle quali può sorgere un problema di esposizione a rischio da parte di terzi e del personale);
- l’accordo disciplina in modo dettagliato la spettanza della “proprietà esclusiva” in capo al soggetto privato, al quale viene riservata la proprietà di invenzioni suscettibili di brevetto con l'impegno del soggetto pubblico a rinunciare a qualsiasi diritto e pretesa per qualsivoglia titolo o ragione, anche in caso di risoluzione o caducazione dell’accordo stesso (sul punto, si è osservato che se l’accordo avesse ad oggetto solo la testazione di un prodotto finito, autonomamente elaborato in via definitiva dall'operatore privato, la disciplina indicata sarebbe priva di giustificazione, perché il prodotto stesso sarebbe già necessariamente di proprietà esclusiva del medesimo, senza necessità di un’esplicita riserva in suo favore).
Ne consegue, in definitiva, che secondo la sentenza in commento la convenzione contestata non è riconducibile alla fattispecie degli accordi di mera collaborazione scientifica di cui all'art. 5, comma 8, del d.lgs. n. 288/2003, nell'ambito dei quali il soggetto pubblico è sì legittimato ad avvalersi di altri soggetti per industrializzare i risultati della sua ricerca scientifica, svolta come attività istituzionale, senza però porre la sua struttura e le sue capacità a disposizione di un particolare soggetto privato al fine di consentirgli di conseguire risultati scientifici che resteranno nell’esclusiva disponibilità del medesimo, anche per ciò che attiene alla proprietà e alla titolarità dei brevetti.
Viceversa, sempre in base alla pronuncia in considerazione, il rapporto instaurato dal Policlinico con il soggetto privato, pur non potendosi ritenere sottratto alla capacità negoziale del primo, tuttavia non rientra nell'attività istituzionale del medesimo, bensì in quella strumentale, con la conseguente, certa, necessità di selezionare il partner privato, ai sensi di quanto prescritto testualmente dall'art. 9 del d.lgs. citato, nel rispetto della normativa nazionale ed eurounitaria.
4. La sottoposizione ai principi generali dell'evidenza pubblica della convenzione contestata quale contratto pubblico attivo e/o quale concessione di beni pubblici.
La necessità, da parte di un soggetto avente natura pubblica, di selezionare il soggetto partner di un rapporto come quello in esame con una procedura quantomeno informata ai principi generali in tema di contratti pubblici è stata individuata, nella sentenza ora in commento, anche alla luce di una riflessione di portata più generale, che prescinde dall'applicazione della specifica normativa dettata per i soggetti qualificabili come Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.
La predetta riflessione è consistita nel fatto che l'accordo in questione si è tradotto in un contratto attivo, “in forza del quale è l’amministrazione ad obbligarsi ad eseguire una serie di prestazioni in favore di un soggetto privato in cambio di un compenso variamente articolato”. In particolare, si è osservato, dal punto di vista ora in esame, che a tale fine l'amministrazione resistente ha messo a disposizione dell'operatore privato “una specifica e composita utilità, dotata di valore economico e propria del Policlinico, consistente in un insieme di beni mobili, materiali e immateriali, quali conoscenze scientifiche e pratiche, tecnologie, laboratori, professionalità, personale, mezzi e strumenti; utilità, che nella sua variegata composizione, integra un complesso aziendale”.
In tale ottica, occorre considerare che i contratti attivi delle pubbliche amministrazioni, per espressa previsione di cui all'art. 4 del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 s.m.i., pur essendo esclusi dall'applicazione del Codice stesso, rimangono tuttavia subordinati al rispetto dei principi di “economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”. In giurisprudenza si trova conferma sul punto, di recente, in T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 6 febbraio 2019, n. 88.
Inoltre, occorre pure considerare che sono tuttora vigenti le disposizioni del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, il quale, all'art. 3, prevede che i contratti dai quali derivi un'entrata per le pubbliche amministrazioni debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni l'amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata. Analogamente dispone anche l'art. 37, comma 1, del r.d. 23 maggio 1924. n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato).
Alla medesima conclusione, poi, si è pervenuti anche per altra, ulteriore, via. Infatti, partendo sempre dal presupposto per cui le fondazioni Irccs costituiscono enti pubblici, si è osservato che tale qualificazione comporta la sottoposizione dei beni di cui esse sono titolari, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 830, comma 2 e 828, comma 2, del Codice civile, al regime del patrimonio indisponibile, per cui tali beni non possono essere sottratti alla loro destinazione di pubblico servizio se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. Si tratta, nel caso concreto, degli strumenti, apparecchiature, laboratori, materiali impiegati, conoscenze scientifiche, tecnologie, professionalità di cui l’ente dispone e che deve riservare al raggiungimento dei suoi scopi istituzionali.
Ciò non toglie, osserva la sentenza in commento, che i beni del patrimonio indisponibile possano anche essere destinati ad un uso “particolare”, purchè coerente con la loro funzione istituzionale, ma tale ipotesi presuppone l’utilizzo degli strumenti previsti dalla legge ed, in particolare, la costituzione di un rapporto concessorio, caratterizzato dalla sottoposizione alla disciplina pubblicistica per quanto riguarda i profili che attengono tanto alla gestione dei beni e all’individuazione della loro concreta destinazione, con i relativi limiti, quanto alla procedura di individuazione della controparte in favore della quale i beni vengono messi a disposizione. Diversamente, come si è ritenuto essere accaduto nel caso in commento, si finisce per impegnare risorse pubbliche, materiali ed immateriali, con modalità illegittime, sottraendole, così, alla loro destinazione indisponibile, con i conseguenti profili di responsabilità contabile che ne possono scaturire in capo ai responsabili della struttura pubblica.
Ne deriva, in definitiva, l'inquadramento del rapporto in questione come concessione di beni pubblici la quale, come tale, è sottoposta al rispetto dei principi di trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento quanto alla selezione del concessionario (in tal senso, di recente, si v. Anche Cons. St., sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874; Cons. St., sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3377, rese in tema di concessioni demaniali marittime).
Del resto, i predetti principi eurounitari, emergenti dal Trattato e dalla giurisprudenza della Corte UE, si devono applicare ogni qual volta un’amministrazione, intesa in senso lato, offra sul mercato un bene o un’utilità, o un complesso di beni e utilità, nella sua esclusiva disponibilità, che si traducano in un’occasione di guadagno per gli operatori economici, anche sotto forma di vantaggio competitivo sul mercato di riferimento, e che, pertanto, devono essere assegnati sulla base di procedure competitive (così, Corte di Giustizia, ordinanza 3 dicembre 2001, in C-59/00; Corte di Giustizia, sentenza 7 dicembre 2000, in C-324/98; nel nostro ordinamento si v., in tal senso, Cons. St., sez. VI, 31 gennaio 2017, n. 394, per cui un “bene demaniale economicamente contendibile che può essere affidato in concessione ai privati, a scopi imprenditoriali, solo all'esito di una procedura comparativa ad evidenza pubblica”; Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2016, n. 889, secondo il quale, analogamente, la sottoposizione delle concessioni di beni pubblici ai principi di evidenza pubblica “trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con essa si fornisca un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato”).
Pertanto, sulla base (anche) delle argomentazioni poc'anzi illustrate, i giudici amministrativi lombardi hanno concluso che “I principi comunitari non possono essere elusi attraverso l’utilizzo di moduli convenzionali che, al di fuori del necessario confronto competitivo e della necessaria apertura al mercato, abbiano l’effetto di attribuire ad un operatore determinato una particolare utilità, formata da un complesso di beni sottoposto a vincolo di indisponibilità”.
I due piatti della bilancia: la necessità del bilanciamento tra libertà di culto e tutela del territorio
(Nota a T.A.R. Toscana, Sez. I, 1 giugno 2020, n. 663)
di Roberto Leonardi
1. L’Associazione Culturale Islamica di Pisa è proprietaria di un’area, nel medesimo comune, destinata dal Regolamento urbanistico a servizi religiosi per il culto e le attività culturali e sociali e presenta, all’amministrazione comunale, la richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un complesso edilizio costituito da un edificio per il culto e un centro culturale.
Su tale istanza si era espressa, con parere favorevole, ma con prescrizioni paesaggistiche e archeologiche, la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Pisa e Livorno, prescrizioni che venivano recepite dall’Associazione ricorrente con una nuova soluzione progettuale.
Tuttavia, l’amministrazione comunale, ai sensi dell’art. 10 bis, l. n. 241/1990, comunicava all’Associazione l’esistenza di motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza. Tra questi motivi veniva contestato all’Associazione il mancato rispetto delle prescrizioni della locale Soprintendenza, venendo così meno i presupposti necessari per procedere con l’istruttoria finalizzata al rilascio del permesso di costruire. A rendere ancora più complesso il caso in esame viene indicata dal comune di Pisa alla ricorrente l’esistenza di un diniego di autorizzazione paesaggistica da parte del Collegio del Paesaggio del medesimo comune e, altresì, un atto di annullamento in autotutela del parere favorevole espresso in precedenza dalla Soprintendenza “per un errore materiale tale da provocare un vizio logico dell’atto”. L’amministrazione comunale dispone, così, il diniego di permesso di costruire che viene impugnato dall’Associazione Culturale Islamica di Pisa.
A seguito di nuove elezioni amministrative, con un atto di indirizzo della nuova giunta, il comune dava l’avvio ad una variante urbanistica, relativa all’area di proprietà dell’Associazione islamica, destinata a spazi pubblici e non più alle attrezzature religiose e ai luoghi di culto. In un secondo momento, con una seconda delibera di giunta, il comune di Pisa abbandonava il progetto della variazione dello strumento urbanistico appena citato e inseriva la variante della destinazione d’uso dell’area della ricorrente nell’ambito della più complessa variante finalizzata alla riqualificazione dello stadio della città. A seguito di questo nuovo atto di indirizzo della giunta, l’area dell’Associazione culturale islamica veniva destinata a parcheggi pubblici e a verde pubblico, con conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Da qui seguono le doglianze, con motivi aggiunti al ricorso principale avverso il diniego di permesso di costruire, dell’Associazione culturale che ha visto modificare, con una delibera di giunta, la destinazione urbanistica dell’area di cui era proprietaria, da area destinata a servizi religiosi per il culto e le attività culturali e sociali ad area destinata, invece, a verde pubblico e parcheggi.
I giudici toscani, partendo dai motivi aggiunti, ritengono fondata l’impugnazione della delibera comunale sulla variante urbanistica per i motivi che si approfondiranno in seguito. Così, in riferimento all’originaria impugnazione del diniego di permesso di costruire, viene ritenuta fondata perché basato sull’annullamento d’ufficio della Soprintendenza del parere favorevole in precedenza espresso. In realtà, se l’amministrazione comunale non aveva l’obbligo di accogliere l’istanza del ricorrente in presenza di un atto in autotutela, allo stesso tempo non poteva negare il permesso di costruire all’Associazione in mancanza di un parere espresso negativo da parte della Soprintendenza, la quale, inoltre, aveva indicato alla ricorrente la necessità di presentare un nuovo progetto, con delle motivazioni che i giudici toscani hanno ritenuto palesemente insufficienti.
2. Con la sentenza del Tar Toscana, Sez. I, 1 giugno 2020, n. 663, si ripropone un tema oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale ormai noto, sul quale si è espressa una copiosa giurisprudenza, sia amministrativa, sia costituzionale[1]. Il tema della localizzazione degli edifici di culto[2] ha acquisito nel tempo una crescente rilevanza anche dal punto di vista giuridico, accompagnata da una complessità della sua disciplina. La tematica, infatti, come ben emerge dalla pronuncia in commento, incide sostanzialmente sui diritti di uguaglianza, sulla tutela delle differenti identità ideologiche, culturali e religiose dei singoli e dei gruppi, garantiti dalla Costituzione, la quale con l’art. 8 ha introdotto nel nostro ordinamento l’idea di pluralismo[3], destinato a garantire le diverse identità religiose, mentre, allo stesso tempo, l’art. 19 Cost. ha sancito il diritto di professare liberamente la propria fede e di esercitarne, in pubblico o in privato, il culto[4]. La disponibilità di edifici e di luoghi di culto da adibire alla celebrazione dei riti è, quindi, un elemento necessario per assicurare effettivamente non solo al singolo, ma anche alle comunità di praticanti, il libero esercizio del loro credo. Allo stesso tempo, la disciplina per la costruzione di questi edifici, nell’esercizio delle competenze sul governo del territorio, è un compito al quale l’amministrazione non può sottrarsi, nell’esercizio di una discrezionalità che dovrà sempre ponderare tutti gli interessi coinvolti dall’azione amministrativa.
Opportunamente, il Tar Toscana ricostruisce, preliminarmente, il quadro normativo costituzionale ed europeo in tema di libertà di culto[5], per dare così un fondamento costituzionale alle proprie argomentazioni sul caso in esame. Il riferimento è, innanzi tutto, all’art. 8 Cost., che secondo il Tar Toscana si pone a tutela dell’Associazione ricorrente come portatrice di un interesse alla realizzazione di un edificio di culto, l’unico nel comune di Pisa, destinato a soddisfare le esigenze di praticare la religione islamica, considerata sempre dal giudice toscano, una delle religioni più diffuse al mondo e negli ultimi decenni ampiamente praticata anche in Italia. La libertà religiosa è, poi, garantita dall’art. 19 Cost., come diritto inviolabile tutelato dalla Costituzione “al massimo grado”[6]. Una garanzia costituzionale che, secondo una ormai pacifica giurisprudenza costituzionale, definisce la laicità dello Stato “non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità”[7]. Pertanto, l’esercizio pubblico e comunitario del culto deve essere assicurato a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza[8]. In questo quadro costituzionale[9], il libero esercizio del culto diventa un aspetto essenziale della libertà di religione e, secondo una recente sentenza della Corte costituzionale, la libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla esercitare concretamente[10]. Di conseguenza si pone un duplice dovere a carico delle amministrazioni cui spetta gestire l’uso del territorio. Tale dovere implica, da una parte, che le amministrazioni competenti prevedano spazi pubblici adeguati per l’esercizio delle attività religiose e, allo stesso tempo, è necessario che le medesime amministrazioni non introducano ingiustificati ostacoli all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non vengano discriminate le confessioni religiose nell’accedere agli spazi pubblici. Inoltre, nel prevedere degli spazi pubblici per l’esercizio delle attività culto, le regioni e i comuni devono necessariamente tenere conto della presenza nel territorio di riferimento delle diverse confessioni, dal momento che il divieto di discriminazione “non vuol dire che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una e dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”[11]. Nel regolare, quindi, l’edilizia di culto, inserita nella disciplina del più ampio governo del territorio, le regioni e i comuni, nel rispetto delle rispettive competenze, possono perseguire finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere contemplata anche l’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato dei centri abitati e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico, comprendendo in tale obiettivo anche i servizi religiosi. In questo quadro, “la regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure”[12].
Inoltre, in ragione del fondamento costituzionale della libertà di culto, diritto fondamentale dell’individuo espressamente tutelato dalla Costituzione, la stessa disciplina urbanistica-edilizia, in riferimento alle attrezzature religiose, deve provvedere all’esigenza della necessaria previsione di luoghi di culto, con la conseguenza che la tutela dell’assetto del territorio non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture per fini di culto. Da qui la considerazione del giudice di prime cure, con la sentenza in commento, nella quale, ritenendo fondate le doglianze dell’Associazione islamica ricorrente, si afferma che “che quanto deliberato dal Comune resistente frappone un rilevante ostacolo all’esercizio della libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. In altri termini, il comune di Pisa ha la potestà di modificare la disciplina urbanistica del territorio, ma nell’esercizio della sua discrezionalità deve ponderare tutti gli interessi coinvolti dall’azione amministrativa e tra questi interessi, nel caso di specie, vi è quello della libertà di culto. Più nello specifico, se è vero che la delibera di giunta non impedisce l’esplicazione del diritto di culto della comunità islamica, allo stesso tempo, per una scelta dell’amministrazione toscana, un’area acquistata destinata al culto diventa, in un secondo memento, destinata ad uso parcheggi e verde pubblico, privando di qualunque utilità tutta l’attività dell’associazione svolta fino alla delibera di giunta, dall’acquisto dell’area alla progettazione dell’edificio di culto da costruire. In questo modo, l’amministrazione metterebbe in gravi difficoltà l’Associazione islamica “costretta a ricominciare da capo tutta la procedura, addirittura cercando di acquistare uno dei terreni su cui costruire l’edificio di culto”. Sarebbe così demandata all’amministrazione pubblica una discrezionalità che esorbita le esigenze proprie della disciplina urbanistica[13], e che si traduce in un controllo pubblico totale a maglie strette, a partire dal decidere, se operare una pianificazione e, in caso positivo, fino a predeterminare i tempi, i luoghi la distribuzione tra le varie confessioni religiose dei luoghi di culto, al di fuori della quale non rimane spazio neppure per la realizzazione di modeste sale di preghiera, in aree urbanisticamente idonee, ad iniziativa privata. L’esercizio di tale potere da parte dell’amministrazione comunale, i cui confini risultano troppo estesi, genera una compressione dell’esercizio al libero culto non giustificata da esigenze di ordine pubblico e buon costume, le sole a poter consentire un sacrificio del diritto alla libertà religiosa di cui all’art. 19 Cost., ponendosi in chiaro contrasto con quest’ultimo e con gli artt. 2 e 3 Cost..
Emerge, così, in tutta la sua complessità e in modo sempre più forte, la tensione tra il bisogno materiale, da parte di molteplici confessioni religiose, di luoghi da destinare al culto (da realizzare o da utilizzare) e le esigenze di controllo del territorio comunale. Da qui segue il difficile, ma necessario, bilanciamento tra il diritto costituzionale a un edificio di culto, quale dimensione autonoma della libertà religiosa, e il potere pubblico di pianificazione urbanistica. La libertà religiosa ha, infatti, un’incomprimibile doppia anima: non solo quella metafisica, di contatto con la dimensione divina, ma anche quella fisica, urbanistico-edilizia, in cui un certo bene immobile, ad esempio una moschea come nel caso di specie, costituisce esso stesso il ponte tra le due anime. Proprio la dimensione fisica della libertà religiosa la pone in contatto con le scelte delle Amministrazioni locali e genera un autonomo diritto e contestuale problematica costituzionale. Tuttavia, come sottolineato in modo condivisibile in dottrina[14], non si tratta certamente di un diritto costituzionale pieno, che si risolverebbe in un obbligo per le Amministrazioni comunali di soddisfare qualsiasi pretesa di spazio, ma di un interesse legittimo costituzionale a vedere acquisiti e valutati dall’Amministrazione comunale i bisogni materiali delle persone (cittadini o stranieri), che vogliono praticare il proprio culto, qualunque esso sia. Ciò che conta sono proprio le persone prima che i gruppi confessionali organizzati. Nel contenuto minimo essenziale del diritto costituzionale ad un edificio di culto, infatti, deve stare una deistituzionalizzazione della rappresentanza degli interessi. In modo più semplice, ciò che l’Amministrazione comunale deve acquisire sono gli interessi omogenei delle persone. In questa logica il momento fondamentale in cui si misura l’effettività di questo diritto costituzionale non è il momento pianificatorio altamente discrezionale, ma quello prepianificatorio e ancor prima quello della disciplina da parte dei legislatori regionali degli istituti di emersione degli interessi religiosi omogenei[15]. Soltanto la regolazione di ciò che sta prima dell’atto di pianificazione urbanistica, espressione di ampia discrezionalità politica, può operare come limitazione del potere e dell’arbitrio discriminatorio[16]. La previsione di istituti partecipativi prepianificatori pare lo strumento per l’acquisizione dei bisogni sociali ad un luogo di culto, di trasparenza sulla selezione dei bisogni da soddisfare e di quelli da sacrificare, nonché il presupposto per il perfezionamento di accordi pubblici tra i Comuni e le formazioni sociali a connotazione religiosa[17], sia quando queste abbiano la proprietà o la disponibilità del terreno su cui realizzare l’edificio di culto, sia quando non vi sia neppure la disponibilità e si prospetti verso il Comune una pretesa ancora più intensa[18].
Proprio la penuria di territorio occupabile, soprattutto nei centri storici, e i flussi migratori, sempre più massicci, rendono costituzionalmente necessaria quindi la previsione non tanto di inchieste pubbliche o l’attivazione di referendum locali consultivi, ma la regolazione di istituti caratterizzati dai profili propri del giusto procedimento amministrativo, attivati a seguito di avvisi pubblici di manifestazione di interesse, scanditi nei termini e fondati su criteri selettivi trasparenti e non formalistici. Pertanto, la matrice de-istituzionalizzata del diritto costituzionale ad un edificio di culto impone, a monte, al legislatore regionale di non fondare le proprie scelte sul criterio quantitativo, ossia sul criterio maggiormente legittimante il perpetuarsi di esclusioni sociali delle minoranze confessionali.
Se si ammette tale criterio, sono di dubbia legittimità molte leggi regionali vigenti, tese a privilegiare, in una logica quantitativa e istituzionalista, i bisogni religiosi di spazi urbani della maggioranza o di confessioni già fortemente radicate e diffuse. Sono necessarie, di contro, nuove discipline di procedimenti di valutazione e di selezione delle istanze sociali, tese alla formazione degli accordi a monte dell’atto di pianificazione, nella logica della urbanistica consensuale, fondata sulla buona pratica dell’ascolto, quindi di un modello in cui un accordo possa predeterminare la localizzazione degli edifici di culto e la ripartizione dello spazio urbano. Questa auspicabile nuova legislazione, tesa a generare trasparenza sulla edilizia di culto, diventerebbe l’unico strumento effettivo e preventivo, in questo ambito, per il controllo del territorio e per la sicurezza urbana. I legislatori regionali dovrebbero occuparsi della legislazione sull’edilizia di culto, ponendo un problema di governo del territorio in cui i Comuni non possono essere lasciati nella solitudine delle loro competenze, da cui spesso segue la mancata attuazione e garanzia del diritto di libertà religiosa per una ineffettività strutturale di esso e una irreparabile tutela per via giudiziaria[19].
[1] Per ampi riferimenti giurisprudenziali, sia consentito rinviare a R. Leonardi, L’edilizia di culto tra libertà religiosa e tutela del territorio: il caso Lombardia, in Nuove autonomie, 2019, 3, 509.
[2] Sull’edilizia di culto, in generale, v. F. Zanchini di Castiglionchio, voce Edifici di culto, in Enc. Giur., XII, Roma, 1990; V. Tozzi, voce Edifici di culto e legislazione urbanistica, in Digesto IV - Disc. Pubbl., V, Torino, 1990, 285 ss.; G. Casuscelli, Edifici ed edilizia di culto. Problemi generali, I, Milano, 1979; Id., Fonti di produzione e competenze legislative in tema di edilizia di culto: annotazioni problematiche, in Nuove prospettive per la legislazione ecclesiastica, Milano, 1981, 1187 ss.; M. Miele, Edilizia di culto tra discrezionalità ‘politica’ e ‘amministrativa’, in Dir. eccl., 1995, 1995, II, 363; A. Roccella, L’edilizia di culto islamica: contro la tirannia della maggioranza, in Urb. app., 2014, 3, 345; L. D’Andrea, Eguale libertà ed interesse alle intese delle confessioni religiose: brevi note a margine della sentenza costituzionale n. 346/2002, in Quad. dir. pol. Eccl., 2003, 3, 667 ss.; G.P. Parolin, Edilizia di culto e legislazione regionale nella giurisprudenza costituzionale: dalla sentenza 195/1993 alla sentenza 346/2002, in Giur. it., 2003, 351.
Da ultimo, sul tema, si rinvia a A. Travi, Libertà di culto e pubblici poteri: l’edilizia di culto oggi, in Riv. giur. urb., 2018, 1, 12 ss.; A. Roccella, Problemi attuali dell’edilizia di culto, ivi, 22 ss.; A. Ambrosi, Edilizia di culto e potestà legislativa regionale, ivi, 35.
[3] V. Corte cost. 12 aprile 1989, n. 203, in Dir. eccl., 1989, II, 293, in cui si è affermato che compete allo Stato garantire “la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
[4] V. Corte cost. 24 novembre 1958, n. 59, in www.cortecostituzionale.it, in cui si è osservato che “la formula di tale articolo non potrebbe, in tutti i suoi termini, essere più ampia, nel senso di comprendere tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi e oratori e la nomina dei relativi ministri”.
Cfr. TAR Lazio, Roma, 9 agosto 2016, n. 9267, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “la costruzione dell’edificio di culto risponde ad una esigenza costituzionalmente tutelata che trova copertura anche a livello della normativa di origine concordataria e in particolare dell’art. 5, c. 3, dell’Accordo del 1984 tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede (la cui ratifica ed esecuzione è stata disposta con la l. n. 121/1985)”.
[5] In un quadro europeo, la sentenza del TAR Toscana in commento richiama l’art. 10 (intitolato libertà di pensiero, di coscienza e di religione) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ai sensi del quale “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.
Deve essere anche richiamato l’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, intitolato “libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, ai sensi del quale:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.
[6] In questi termini, Corte cost. 10 marzo 2016, n. 52, in Giur. cost., 2016, 2, 537.
[7] Così, Corte cost. 7 aprile 2017, n. 67, in Giur. cost., 2017, 662.
Il principio di laicità non è definito né direttamente chiarito in alcuna norma, ma è stato enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 203/1989, la quale afferma che “il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
[8] Così, Corte cost. 24 marzo 2016, n. 63, in Foro amm., 2016, 3, 544.
[9] Il quadro costituzionale, in tema di libertà di culto, ha trovato applicazione nella normativa sia statale, sia regionale, al fine di garantire la previsione di adeguati spazi per gli edifici di culto.
In base alle leggi 29 settembre 1967, n. 847 e 28 gennaio 1977, n. 10 e al d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, sugli standard urbanistici, le aree per le attrezzature di interesse comune religiose devono obbligatoriamente essere previste in sede di pianificazione urbanistica, mentre per l’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 gli edifici di culto costituiscono opere di urbanizzazione secondaria.
A livello regionale, molte regioni hanno approvato norme a tutela delle attrezzature religiose, con un trattamento differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al fine di agevolarne la realizzazione. A mero titolo esemplificativo, L.R. Lombardia, n. 12/2005, artt. 70-73; L.R. Liguria, n. 4/1985, Disciplina urbanistica dei servizi religiosi; L.R. Piemonte, n. 15/1989, Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature religiose; L.R Campania, n. 9/1990, Riserva di standard urbanistici per attrezzature religiose.
[10] Corte cost., 22 ottobre – 5 dicembre 2019, n. 254, in Riv. giur. edil., 2020, 1, I, 3.
[11] In questi termini, Corte cost., n. 254/2019, cit..
Sull’evenienza che l’obbligo di garantire alla popolazione la possibilità di esercitare le pratiche del culto mediante le attrezzature specifiche non si traduca in automatico accoglimento di tutte le richieste formulate v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 9 marzo 2018, n. 686; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16 aprile 2015, n. 943; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 gennaio 2015, n. 146; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 8 novembre 2013, n. 2485, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Così, Corte cost. n. 67/2017, cit..
[13] La disciplina urbanistica trova infatti la sua essenza nella necessità di assicurare uno sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico. In questo senso, Corte cost. n. 63/2016 e n. 67/2017, cit..
[14] In questi termini, v. N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, in www.federalismi.it, 2015.
[15] Si veda, sul tema, anche M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. amm., 2018, 4, 787.
[16] Per una riflessione sul rapporto tra potere discrezionale della p.a. e diritti inviolabili, v. L.R. Perfetti, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società, in Dir. amm., 2013, 309 ss.; D. Florenzano, D. Borgonovo Re, F. Cortese, Diritti inviolabili, doveri di solidarietà e principio di eguaglianza, Torino, II ed. 2015; C. Celone, Il valore dell'equità nell'amministrazione pubblica, in Dir. e proc. amm., 2017, 651.
[17] In riferimento al diritto di libertà religiosa, lo strumento dell’intesa è stato analizzato dalla Corte costituzionale laddove ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle leggi delle Regioni Abruzzo e Lombardia che prevedevano l’erogazione di contributi finanziari per l’edilizia di culto esclusivamente alla chiesa Cattolica e alle confessioni i cui rapporti con lo Stato erano regolati sulla base di intese. La Corte ha precisato che l’ente pubblico può differenziare il trattamento economico delle diverse confessioni religiose, a seconda della loro presenza organizzata sul territorio del comune, ma non può costituire motivo di discriminazione il fatto che una confessione religiosa non abbia concluso con lo Stato un’intesa. Tale differenziazione violerebbe il principio della parità di trattamento e della eguale libertà di culto, art. 8 Cost., e recherebbe pregiudizio all’esercizio in concreto del diritto fondamentale e inviolabile a professare la propria fede religiosa, stabilito dall’art. 19 Cost.. Pertanto, la stipulazione di un’intesa costituisce una mera facoltà e non un obbligo, mentre per tutte le confessioni religiose, senza distinzioni, vale il principio di eguale libertà difronte alla legge”. Corte cost., 16 luglio 2002, n. 346 , in Riv. giur. edil., 2002, I, 1197.
In dottrina, sul punto, e favorevole con l’orientamento della Corte costituzionale, v. S. Lariccia, Nuove tecniche dei pubblici poteri per ostacolare l’esercizio dei diritti di libertà delle minoranze religiose in Italia, in La questione della tolleranza e le confessioni religiose, Napoli, 1999, 97.
[18] In questi termini si era già espresso Cons. Stato, Sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8298, in Riv. giur. edil., 2011, 1, 226, in cui, dopo aver evidenziato che le cause in materia di edificazione degli edifici di culto sono rimaste per molto tempo confinate nell’ambito della corretta applicazione della normativa urbanistica, si afferma che “è compito degli enti territoriali provvedere a che sia consentito a tutte le confessioni religiose di poter liberamente esplicare la loro attività, anche individuando aree idonee ad accogliere i fedeli”. Aggiungendo, poi, che i comuni “non possono sottrarsi dal dare ascolto alle eventuali richieste in questo senso che mirino a dare un contenuto sostanziale effettivo al loro diritto del libero esercizio, garantito a livello costituzionale, e non solo nel momento attuativo, ma anche nella precedente fase di pianificazione delle modalità di utilizzo del territorio”.
[19] In questi termini, v. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di, E. Vitale, Bari, 2001, passim; N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, cit..
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