ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia*
di Tommaso Greco
Sommario: 1. Il diritto tra arte e tecnologia - 2. Il diritto non “serve” - 3. Il diritto come tecnica - 4. La formazione del giurista e la tentazione dell’algoritmo.
1. Il diritto tra arte e tecnologia
Ho trovato stimolante e opportuno l’invito rivolto da Michela Passalacqua al Maestro Michelangelo Pistoletto per l’inaugurazione del corso di laurea, da lei presieduto, in “Diritto dell’innovazione per l’impresa e le istituzioni”. La presenza di un Maestro che ha saputo innovare i sentieri dell’arte aiuta infatti a mettere in chiaro da subito che un corso di laurea come quello che stiamo inaugurando non ha nulla di scontato, ma anzi ha bisogno più di altri di quella immaginazione che alla vita individuale e collettiva può venire solo dall’arte.
Non è quindi azzardato il prendere spunto dall’arte per ragionare sul ruolo del diritto nella società tecnologica. Essa produce effetti straordinari sull’animo umano e quindi anche sulla sensibilità giuridica che anima e motiva le nostre riflessioni, le nostre categorie, i nostri concetti. Spesso è proprio l’arte a farci capire meglio quale sia il nostro compito e a indicarci in maniera più chiara la direzione che dobbiamo prendere.
Il discorso potrebbe farsi lungo e quindi è bene interromperlo immediatamente; non prima però di aver citato almeno una prova di quanto ho appena affermato, muovendomi sul terreno proprio della presentazione di oggi, che è quello del rapporto tra diritto e innovazione (prevalentemente tecnologica, ma non solo). Sarebbe lo stesso il nostro atteggiamento nei confronti della tecnologia applicata all’umano senza quella straordinaria opera letteraria che è il Frankenstein di Mary Shelley, che ha dato la stura a mille riflessioni di carattere etico e filosofico, orientando i nostri sentimenti e quindi i nostri giudizi?
Forse dovremmo discutere più di quanto non facciamo di questo tema: di quanto l’arte serva al diritto anche in tempi nuovi e complessi, come il nostro. E il discorso si farebbe sommamente interessante. Perché non c’è solo il Law and Literature che ormai, e finalmente, sta ottenendo un ampio riconoscimento anche presso i giuristi ‘pratici’. C’è un più ampio Law and Humanities che fa tesoro dello sguardo proveniente da tutte le Arti[1], a cominciare da quella, più di altre tecnologicamente condizionata, che è il cinema (e mi pare giusto ricordare che Cinema e diritto si intitola un intervento pubblicato qualche anno fa da un illustre civilista pisano, Umberto Breccia, presentato ad apertura di un nostro ciclo di incontri[2]).
2. Il diritto non “serve”
Devo però affrettarmi a dire qualcosa sul rapporto tra diritto e innovazione, e più specificamente del rapporto tra diritto e tecnologia. Non c’è bisogno di dire che il tema è sterminato e che lo si potrebbe affrontare da diversi punti di vista. È chiaro che noi siamo qui perché ci poniamo tutti i problemi che lo sviluppo (tecnologico, ma non solo) pone al diritto e alla scienza giuridica: ce li poniamo, al punto da aver sentito il bisogno prima di creare un centro di ricerca su Diritto e Nuove Tecnologie, e poi di creare questo corso di laurea. Proprio per questo non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiarire che quel «diritto per l’impresa e le istituzioni» non può significare che siamo qui a insegnare un diritto ‘servile’ rispetto ai bisogni delle imprese e delle istituzioni. Se non altro perché sia le imprese sia le istituzioni non sono entità naturali rispetto alle quali il diritto può semplicemente mettersi al servizio; ma sono esse stesse frutto e prodotto del diritto. Senza il diritto, senza le sue regole, senza le sue architetture non sarebbe possibile né l’impresa né una qualsiasi forma di istituzione (tornerò su questo tema tra poco). Se sul piano delle istituzioni un’affermazione come questa appare evidente, essa va confermata soprattutto con riguardo all’impresa: un soggetto che vediamo spesso come una sorta di hobbesiano individuo naturale, slegato da qualsiasi relazione e soprattutto sottratto a qualsiasi legge che non sia quella della pura sopravvivenza a danno di tutto e di tutti. Come ha ben spiegato più volte Natalino Irti, senza struttura giuridica non c’è possibilità che si sviluppino le condizioni per lo sviluppo né del mercato né dei suoi protagonisti[3].
3. Il diritto come tecnica
Occorre essere coscienti che il diritto non è solo un sapere che, tra le altre cose, si occupa del mercato o della tecnologia facendone oggetto di regolazione. È esso stesso una tecnica: certo, non solo una tecnica (come forse voleva il più grande giurista del XX secolo, Hans Kelsen), ma anche una tecnica. Una tecnica che non solo permette di fare cose ben precise, ma che a volte si spinge fino a rendere possibili ‘realtà’ che non esisterebbero senza di essa. Non mi addentro nella complicata questione delle norme costitutive, e meno che mai nella affascinante riflessione di John Searle sull’ontologia sociale e sui cosiddetti “fatti istituzionali”[4], ma è abbastanza comprensibile anche ai profani che alcune delle ‘cose’ che nominiamo o facciamo, esistono solo perché è il diritto ad averle rese possibili: si pensi al matrimonio, ad esempio, o all’adozione, o al concetto di proprietà. Oppure si pensi a tutto ciò che ha a che fare con le istituzioni di ogni livello: qui niente esiste prima del diritto e senza il diritto. Ogni istituto e ogni istituzione ha una storia che non ci sarebbe mai stata senza l’immaginazione che sapienti giuristi seppero mettere in campo al momento opportuno. Da questo punto di vista, il diritto è certamente «arte fra altre arti». Come ha scritto Francesco Galgano, infatti, è arte «anche l’inventare figure giuridiche nuove, atte a innovare le forme della convivenza umana»[5].
Il diritto quindi come tecnica preziosa, ma anche, lo sappiamo bene, potenzialmente pericolosa: perché sono sempre le sue regole a rendere possibili o a legittimare cose che non necessariamente corrispondono al nostro senso della giustizia. Come deve comportarsi il diritto rispetto a ciò che la tecnica rende possibile con i suoi potenti mezzi? Deve limitarsi a fare da “regolatore del traffico”, oppure deve spingersi più in là, magari ponendo anche qualche divieto di accesso e di transito? Se uso la parola ‘traffico’ è proprio per evocare l’idea di individui che si muovono, ciascuno alla ricerca del proprio interesse, e che si trovano a incrociare il proprio cammino con quello di altri. Vogliamo che le traiettorie di questi cammini siano lasciati ad una più o meno spontanea ricerca di un “ordine”, o più probabilmente “disordine”, oppure vogliamo che essi siano, se non indirizzati verso uno scopo (lungi da noi ogni ipotesi paternalisticamente orientata) quanto meno impossibilitati a prendere alcune direzioni che riteniamo pericolose? A saperla interrogare, la storia — non solo quella con la S maiuscola, ma anche la storia della tecnologia — ci insegna che la libertà non è mai il semplice frutto dell’assenza di regole; anzi ci dice che là dove non si disponga di regole, si ha solo il dominio del più forte sul più debole[6]. La libertà non nasce né cresce in assenza di leggi, ma è il risultato di leggi giuste che la definiscono e la stabiliscono, garantendola per tutti.
Ci troviamo dunque, ancora una volta, davanti al dilemma che accompagna il diritto fin dalle sue origini. Oggi, come ieri e come sempre, infatti, esso deve — cioè: i suoi cultori devono — scegliere se stare dalla parte di chi domina, ed essere quindi strumento del forte che domina sul debole, oppure se approntare quelle soluzioni che stabiliscono una libertà comune entro la quale anche i deboli possano essere garantiti e non asserviti. Solo un diritto che “non serve”, ma che afferma la sua funzione critica nei confronti dei grandi poteri, può fare in modo che nel mondo non ci siano “servi” ma “liberi”. Il compito più proprio del diritto, quello che non lo riduce a puro strumento, è sempre quello di riconoscere, definire e limitare ogni nuovo potere che emerga dalla dinamica economica e sociale.
4. La formazione del giurista e la tentazione dell’algoritmo
Tutto ciò ci porta a ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, che il lavoro del giurista va sempre al di là di un compito meramente tecnico. È sempre bene ricordare che non c’è lavoro tecnico su questi temi: perché quando io mi metto al lavoro da “tecnico” su questioni generate dal progresso tecnologico, e che quasi sempre sono estremamente delicate sul piano etico (si pensi, per fare un solo esempio, alla maternità surrogata) col solo fatto di applicarmici e qualunque sia la mia idea su quel tema, sto mettendo in campo ben più che un sapere “tecnico”. Anzi, più penso di agire da tecnico, più legittimo la pratica di cui mi sto occupando.
Ecco perché bisogna avere piena contezza del compito che ci spetta e che ci aspetta: quello di formare un giurista creativo e costruttivo[7], perfettamente consapevole del suo ruolo, che non è quello di andare ad avvitare i bulloni che la tecnica, l’economia, le istituzioni ci mettono davanti. Il nostro compito è di formare un giurista critico, cosciente del ruolo che andrà a svolgere nella società del futuro, e dunque capace di esercitare pienamente e attivamente la funzione che gli compete e che la società stessa si aspetta che svolga.
Questo è tanto più vero in una realtà che assume connotati nuovissimi rispetto a quella precedente, e nella quale il diritto si trasforma profondamente proprio grazie alla tecnologia. Posso limitarmi, su questo argomento, a poco più di una battuta. Oggi si apre uno scenario nuovo nel quale il diritto è affascinato dall’algoritmo, e non per una fascinazione estrinseca o estemporanea, ma perché l’algoritmo sussurra al nostro orecchio che esso può risolvere il problema atavico del diritto stesso: quello dell’incertezza e dell’inefficacia. Un diritto che si applichi automaticamente, sulla base di uno schema binario come quello digitale, è il sogno nascosto di ogni utopia (o distopia) centrata sull’ordine giuridico. Non sto evocando lo ‘spettro’ più o meno futuristico del giudice telematico[8], sto parlando di cose che abbiamo sotto gli occhi e che fanno già ampiamente parte della nostra vita quotidiana. La telecamera posta a guardia di un varco ztl è incomparabilmente più efficace di un’intera truppa di vigili urbani. Ma se è chiaro cosa si guadagna, siamo altrettanto consapevoli di cosa si perde procedendo alla digitalizzazione del diritto? Possiamo ridurre tutte le questioni sociali che devono essere giuridicamente regolate allo schema “si/no”, “dentro/fuori”? Quanta capacità di giudizio e di discernimento — e quindi: quanta saggezza giuridica — perdiamo procedendo su questa strada?
C’è comunque un fatto di cui dobbiamo fare tesoro: sebbene non sappiamo fino a che punto il diritto possa automatizzare il suo funzionamento, sappiamo però che anche il diritto più meccanico non può fare a meno dell’uomo chiamato a dare le ‘istruzioni’ che gli servono per far funzionare i suoi meccanismi: di nuovo, cioè, a fissare limiti e a porre condizioni.
Occorre quindi avere molta immaginazione, di qui in avanti, per rendere possibili cose che oggi pensiamo impossibili e soprattutto per evitare che il diritto sia sopraffatto e travolto dalla forza dei nuovi poteri. Ma per farlo, bisogna studiare e prepararsi adeguatamente. Non è possibile rinnovare un paesaggio senza prima conoscerlo profondamente e senza avere piena consapevolezza del contributo che possiamo ricevere da quelle realtà che solo apparentemente sono estranee a quel paesaggio. Il diritto che deve confrontarsi con un mondo ipertecnologico ha bisogno di imparare anche dall’arte e dalla letteratura, così come ha bisogno di conoscere la tecnica che vuole regolare e, ovviamente, di padroneggiare la tradizione giuridica che gli fornisce gli strumenti essenziali per farlo. Se è vero, come ha detto il Maestro Pistoletto in una sua intervista, che «le cose rimangono impossibili finché non vengono pensate», occorre ribadire che il pensiero, anche quello più innovativo, non nasce dal nulla ma cresce in una tradizione che è capace di coltivarlo nella maniera migliore, e cioè con la maggiore apertura possibile anche a ciò che gli è (apparentemente) estraneo.
* Intervento alla cerimonia di inaugurazione del corso di laurea in Diritto dell’innovazione per l’impresa e le istituzioni, Palazzo della Sapienza, Pisa, 27 ottobre 2020.
[1] Ottima l’introduzione di P. Heritier, Humanities. Umanesimo e svolta affettiva, in A. Andronico, T. Greco, F. Macioce (a cura di), Dimensioni del diritto, Giappichelli, Torino 2019, pp. 441-468.
[2] U. Breccia, Cinema e diritto, in «ISLL. Italian Society for Law and Literature», 2/2010. Si veda però il recentissimo volume a cura di O. Roselli, Cinema e diritto. La comprensione della dimensione giuridica attraverso la cinematografia, Giappichelli, Torino 2020.
[3] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari 1998.
[4] Il testo da cui muovere per avvicinarsi a questa riflessione, fondamentale anche e soprattutto per i giuristi, è J. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006.
[5] F. Galgano, Il diritto e le altre arti. Una sfida alla divisione tra le culture, Editrice Compositori, Bologna 2009, p. 11-12.
[6] Idea tipica, questa, della tradizione repubblicana, sulla quale si veda l’ottima introduzione di M. Viroli, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999.
[7] Non posso che rimandare a un lavoro che andrebbe letto e meditato da quanti sono impegnati nella formazione giuridica: G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna 2018.
[8] In una letteratura che sta diventando sempre più ampia mi limito a segnalare: A. Garapon-J.Lassègue Justice digitale. Révolution graphique et rupture anthropologique, Puf, Paris 2018; C.V. Giabardo, Il Giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare), in «Giustizia Insieme», 9 luglio 2020 (www.giustiziainsieme.it).
Emergenza sanitaria e organizzazione degli uffici. Il ruolo dell’autogoverno
di Chiara Gallo
Mentre nel paese la situazione emergenziale legata alla pandemia assume dimensioni che destano sempre maggiore preoccupazione, agli occhi del legislatore il mondo giudiziario sembra essere un’isola felice dove è magicamente cessato ogni pericolo di contagio.
La lettura delle norme del 137\2020 (c.d. Decreto Ristori) in materia di giustizia rende evidente come l’assetto organizzativo emergenziale previsto soprattutto nel settore penale, sia inadeguato allo scopo per cui le norme sono state adottate, ovvero il contenimento del pericolo di contagi.
E non è un caso che la maggiore inadeguatezza riguardi le previsioni relative all’attività giudicante penale, settore al quale nessuno degli ispiratori della modifica normativa appartiene, che proseguirà senza alcun tipo di sospensione e quasi tutta in presenza, senza nessun intervento organizzativo di logistica o dotazione di mezzi che possa incidere sul flusso di presenze o quantomeno renderlo maggiormente controllabile.
Soprattutto con il nuovo decreto appare definitivamente archiviata l’esperienza che ha costituito una novità assoluta nel panorama legislativo, conseguente alla scelta di affidare ai dirigenti degli uffici giudiziari la modulazione del flusso degli affari sulla base delle esigenze connesse alla situazione emergenziale, collegando tali scelte organizzative all’operatività di norme processuali come quelle sulla decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza nei procedimenti civili e sui termini di prescrizione e di durata delle misure cautelari nel settore penale.
L’art. 83 comma VI del DL 18 del 17.3.2020 aveva previsto, per la c.d. fase 2, ossia quella successiva al periodo di sospensione ex lege di attività di udienza e termini processuali, un ruolo attivo dei dirigenti nel contrasto all’emergenza epidemiologica, ponendoli al centro dell’interlocuzione tra le autorità regionali locali e l’avvocatura e attribuendo loro il potere-dovere di adottare le misure organizzative necessarie a tal fine, “anche relative alla trattazione degli affari giudiziari” .
E tra le misure specificamente elencate nel comma 7 dell’art. 83, vi erano l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, la previsione del processo da remoto o cartolare delle udienze civili, la previsione di rinvio delle udienze dopo il 30.7.2020.
In materia penale il successivo comma 9 dell’art. 83 prevedeva che il corso della prescrizione, i termini di fase delle misure cautelari e il termine previsto per la decisione del Tribunale del Riesame rimanessero sospesi per il periodo in cui il procedimento veniva rinviato ai sensi della lettera g) del comma 7, ossia sulla base delle previsioni adottate dai dirigenti degli uffici.
Tale opzione legislativa era stata fortemente criticata, soprattutto dall’avvocatura, per il potere attribuito ai dirigenti di incidere negativamente sui diritti degli imputati, prolungando i termini di prescrizione dei reati e soprattutto quelli di durata delle misure cautelari, in assenza di criteri di legge per l’adozione dei provvedimenti di rinvio diversi dalle eccezioni indicate nel comma 3.
Ma al netto delle criticità sopra evidenziate tale scelta normativa ha, in concreto, inaugurato un percorso virtuoso attraverso il quale si sono ampliati gli spazi di intervento del circuito dell’autogoverno nell’organizzazione degli uffici, in un’ottica di gestione partecipata, finalizzata al raggiungimento di obiettivi di efficienza e qualità.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera del 26.3.2020, è tempestivamente intervenuto in via preventiva, attraverso linee guida destinate a rendere il più possibile omogenea l’organizzazione dell’attività giudiziaria demandata ai dirigenti dalla legislazione emergenziale, fornendo indicazioni assai dettagliate in merito alle modalità di svolgimento delle attività nei diversi settori e predisponendo anche format di protocolli per la trattazione delle udienze da remoto o cartolare, contenenti previsioni il più possibile rispettose del principio del contraddittorio e del diritto di difesa.
Le delibera su tali linee guida ha anche consentito, per la fase emergenziale, un utilizzo più flessibile degli strumenti atti a supplire alle assenze di magistrati e alle carenze di organico negli uffici, prevedendo la possibilità di ricorrere, con decreto immediatamente esecutivo del Presidente della Corte d’Appello o del Procuratore Generale, all’assegnazione di magistrati distrettuali e alle tabelle infradistrettuali, in deroga alle previsioni della circolare 108 del 2018, per la trattazione dei procedimenti indifferibili non gestibili tramite le assegnazioni interne.
Sebbene la delibera del CSM richiedesse la trasmissione alla Settima Commissione dei soli provvedimenti di carattere generale assunti ai sensi dell’art. 83, comma 7 lettere d) del D.L. 18/2020 (ovvero le linee guida vincolanti per la trattazione delle udienze) nonché di quelli di rinvio delle udienze - oltre che naturalmente delle variazioni tabellari temporanee limitate al periodo di emergenza ed i provvedimenti di applicazione, di supplenza e coassegnazione infradistrettuali - di fatto è accaduto che tutti i provvedimenti adottati dai dirigenti degli uffici, sia quelli strettamente tabellari, sia quelli di carattere logistico ed organizzativo degli uffici, intesi nella loro materialità, sono stati inseriti nel percorso di controllo dell’autogoverno e sono passati al vaglio dei Consigli Giudiziari e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Con ciò consentendo una ampia raccolta di dati ed informazioni, utile ad avere una visione completa dei singoli uffici giudiziari e del loro funzionamento ed effettuare una verifica delle diverse criticità.
Un ruolo attivo in questo percorso è stato svolto dai Consigli Giudiziari che, operando in composizione allargata ratione materiae e, dunque, in un confronto diretto con l’avvocatura locale hanno, in prima battuta, esaminato i provvedimenti adottati dai dirigenti dei diversi uffici dello stesso distretto, confrontandoli tra loro e potendo verificare le singole criticità o le difformità tra le diverse scelte non giustificate da differenti situazioni degli uffici.
E proprio in sede di autogoverno locale è stata delineata la possibilità di svolgere, nel periodo emergenziale, una funzione ricognitiva delle scelte organizzative, non limitata ai soli provvedimenti di natura tabellare, e riconducibile al potere di vigilanza sugli uffici attribuito ai Consigli Giudiziari dall’art. 15, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 25/2006 e richiamato dai regolamenti interni di tali organi.
In questa direzione si è mosso il Consiglio Giudiziario di Genova che, con delibera del 28.7.2020, ha formulato un quesito al CSM con cui chiedeva se rientrasse nelle funzioni proprie dell’organo locale effettuare una ricognizione delle scelte organizzative compiute dai dirigenti del distretto, durante la fase emergenziale, sia con riferimento ai provvedimenti incidenti sulla organizzazione delle udienze sia con riferimento a quelli relativi alla gestione delle aule, al fine di esaminarli e individuare eventuali criticità. E ciò sulla base del presupposto che tali provvedimenti, pur non avendo natura strettamente tabellare in quanto di competenza esclusiva del dirigente quale datore di lavoro, rientrano tra quelli che, a norma dell’art. 44 della circolare sulle tabelle (oggi art. 46) devono essere trasmessi al Consiglio Giudiziario.
Nella risposta al quesito il CSM ha fornito importanti chiarimenti sulla portata dei compiti di vigilanza attribuiti ai Consigli Giudiziari che sembrano preludere ad una nuova visione dell’attività di vigilanza. E’ stato ribadito, secondo quanto affermato nella risoluzione del primo luglio 2010 sul ruolo di vigilanza degli uffici svolto dai Consiglio Giudiziari, che l’attività di vigilanza è ritenuta funzionale “anche alla diffusione di buone prassi ed alla verifica periodica dell’andamento degli uffici giudiziari, in una prospettiva che non è più soltanto di mero controllo ma è, soprattutto, di promozione di modelli organizzativi efficienti “ e che “ai Consigli giudiziari spetta, oltre che la verifica in ordine ad eventuali disfunzioni verificatesi nei singoli uffici, anche l’attivazione di meccanismi idonei a prevenire situazioni di disservizio”.
Il CSM ha osservato che nella stessa risoluzione del 2010 si erano indicati, come possibile oggetto dell’attività di vigilanza, “sia la individuazione e la verifica di disfunzioni connesse all’attuazione del progetto e delle previsioni tabellari” sia la ricognizione “di segnalazioni relative a disfunzioni organizzative o dei servizi amministrativi”.
Sulla base di tali principi l’attività ricognitiva delineata nel quesito del Consiglio Giudiziario di Genova, è stata ritenuta attinente alla verifica dell’andamento degli uffici giudiziari, e rientrante nei compiti dell’organo locale con il limite, insito nell’art. 15 del DL.vo 25\2006, di non poter trasmodare in un controllo diretto sull’operato svolto dai singoli dirigenti degli uffici.
Il percorso così delineato partito dalla scelta del legislatore di coinvolgere i dirigenti degli uffici nella gestione dell’emergenza sanitaria ha, dunque, consentito di riprendere, anche attraverso casi ed esperienze concrete, una riflessione sulla gestione partecipata dell’attività degli uffici che, soprattutto in momenti di criticità, si rivela l’unica modalità per perseguire obiettivi strettamente connessi tra loro: quello di offrire un servizio di qualità, nel rispetto delle norme a tutela dei diritti, anche in una situazione di riduzione quantitativa del flusso degli affari e di difficoltà logistiche e quello di assicurare condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro a tutela degli stessi lavoratori e dell’utenza anche in un’ottica di salvaguardia del benessere psicofisico dei magistrati.
Le nuove diposizioni hanno, forse troppo ingenerosamente, interrotto questo percorso escludendo la magistratura dalle scelte organizzative nella rinnovata fase emergenziale.
Infatti gli artt. 23 e 24 del DL 137\2020, che ricalcano il contenuto di una proposta a doppia firma dell’organo rappresentativo delle Camere Penali e di un gruppo di Procuratori della Repubblica e che non prevedono alcuna ipotesi di sospensione dell’attività giudiziaria, pongono, soprattutto nel settore penale, limitazioni al “processo telematico” di tale portata da rendere tale modalità del tutto residuale e inidonea a ridurre l’afflusso di persone negli uffici giudiziari.
La tecnica legislativa prescelta è stata quella di formulare, al comma 5 dell’art. 23 una regola generale sull’utilizzo del processo da remoto per la trattazione delle udienze penali, disciplinandone minuziosamente le modalità esecutive, cui seguono una serie di eccezioni che di fatto svuotano la portata applicativa della regola. Sono, infatti, escluse dalle modalità da remoto le tipologie di udienze che costituiscono il fulcro dell’attività penale e che portano maggior afflusso di persone nei Tribunali, ossia le udienze nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti e le udienze in cui si procede alla discussione sia in fase dibattimentale sia in fase di giudizio abbreviato. L’esclusione si estende anche alle udienze preliminari e più in generale a quelle dibattimentali, salvo il consenso delle parti. Non fanno eccezione neppure le udienze con un numero di imputati tale da non rendere possibile il rispetto del distanziamento nelle aule.
L’attuale normativa lascia, dunque, uno spazio ristrettissimo per il processo da remoto nel settore penale limitandolo ad udienze (come quelle a seguito di opposizione all’archiviazione o di incidente di esecuzione) che, stante il numero e la tipologia, non pongono particolari problemi di afflusso di persone negli uffici giudiziari. A ciò si deve aggiungere che, in assenza di qualsivoglia indicazione sulle modalità di acquisizione del consenso sarà sostanzialmente impossibile, soprattutto per i processi già fissati, utilizzare il processo da remoto per le udienze preliminari o le udienze dibattimentali diverse da quelle istruttoria e di discussione.
Nessuno spazio è poi lasciato a forme di trattazione cartolare delle udienze nel settore penale, come invece era avvenuto nella vigenza della precedente normativa attraverso l’adozione di protocolli tra dirigenti degli uffici e rappresentanti dell’avvocatura per alcune tipologie di udienze camerali.
L’assenza di qualsivoglia spazio decisionale lasciato alla magistratura nell’organizzazione dell’attività giudiziaria nella fase attuale e la rinuncia al contributo, che solo chi lavora sul campo è in grado di apportare, soprattutto nella valutazione delle ricadute concrete di scelte normative così decisive per il prossimo futuro, appare una scelta poco comprensibile e distonica rispetto all’impostazione iniziale, che aveva visto innescarsi una positiva attivazione di tutte le forze in campo verso soluzioni razionali e condivise.
Ma questo non significa che l’esperienza vissuta non possa costituire la base per un rinnovato impegno, finalizzato, anche nell’auspicato ritorno a condizioni di normalità, a ricercare strumenti concreti per la realizzazione di benessere organizzativo coniugato ad un servizio di qualità che solo una forte partecipazione di tutti alle scelte organizzative può garantire.
La colpa medica: un work in progress[1]
di Francesco Palazzo
Sommario: 1. Premessa – 2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario – 3. Ambiguità ed incertezze legislative – 4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo” – 5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali – 6. Un buon risultato paralegislativo.
1. Premessa
Queste note hanno ad oggetto la recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di responsabilità penale del medico per gli eventi avversi – morte o lesioni – verificatisi nell’esercizio della sua professione. Intendiamo assumere quella complessa problematica ad esempio paradigmatico per mettere in luce come talvolta, per non dire spesso, la disciplina legislativa e il testo legale costituiscano solo il primo mattone dell’edificio normativo alla cui costruzione contribuisce in misura determinante l’opera della giurisprudenza. E quest’ultima sovente procede per tentativi ed aggiustamenti successivi, nel corso dei quali l’intervento del massimo organo di nomofilachia, la Corte di cassazione a Sezioni riunite, reca un contributo decisivo ma non sempre immediatamente risolutivo.
Il ruolo svolto dall’opera della giurisprudenza, che ormai pacificamente produce un vero e proprio “diritto giudiziario” parallelo quando non antagonistico a quello legislativo, implica una forte esigenza di prevedibilità della decisione giudiziaria che, però, si pone al centro di una contraddizione non facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, l’esigenza di prevedibilità costituisce il prodotto di una sorta di surrogazione per la quale alla tradizionale legalità della legge si surroga, appunto, la prevedibilità della decisione giudiziaria al fine di appagare, seppure per altra via, la stessa fondamentale istanza di garanzia consistente nella possibilità e libertà di autodeterminazione del cittadino dinanzi ai precetti comportamentali del diritto penale. Dall’altro lato, però, non è affatto facile assicurare realmente la prevedibilità della decisione giudiziaria proprio in ragione delle stesse caratteristiche del diritto giudiziario, che – come mostrerà limpidamente il nostro esempio – spesso rivela una grande mobilità e instabilità, suscitata anche dalle imperfezioni dei testi legislativi e comunque orientata all’individuazione della soluzione più confacente alle esigenze sostanziali della materia: insomma, è difficile che il diritto giudiziario non si formi attraverso una serie più o meno lunga e talvolta tortuosa di tentativi e aggiustamenti. E, sotto questo profilo, le soluzioni patrocinate di recente, ad esempio con la riforma dell’art. 618 c.p.p. sul giudizio di cassazione, pur apprezzabili per lo scopo di accentuare la prevedibilità del diritto giudiziario, possono per contro preoccupare proprio per il rischio di un eccessivo irrigidimento di quest’ultimo.
2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario
Il contenimento della responsabilità penale del medico per gli eventi avversi prodottisi nell’esercizio della sua attività è un’esigenza politico-giuridica che nasce dall’eccessivo ricorso da parte dei sanitari alla c.d. medicina difensiva. Com’è ben noto, la medicina difensiva è una pratica messa in atto, a sua volta, per contrastare gli eccessi con cui, in un recentissimo passato, la giustizia penale si muoveva a colpire presunti errori colpevoli dei sanitari e più in generale episodi di c.d. malasanità. Dinanzi all’innalzamento del c.d. “rischio penale” i medici si “cautelano” con due atteggiamenti difensivi. In senso attivo (medicina difensiva positiva), i medici tendono ad eccedere nel ricorso a mezzi diagnostici e interventi terapeutici, di cui non vi sia effettiva necessità o utilità curativa ma la cui prescrizione serve a cautelarsi contro un eventuale rimprovero di trascuratezza. Con la conseguenza però, non solo di gravare sui bilanci delle strutture sanitarie pubbliche, ma anche di intasarle producendo così ritardi e liste d’attesa pregiudizievoli per la salute dei cittadini. In senso passivo (medicina difensiva negativa), i medici tendono a “scaricare” su altri sanitari il paziente che possa essere a rischio, in modo da evitare l’attribuzione del possibile evento avverso: e anche ciò evidentemente, rallentando e complicando l’intervento terapeutico, può essere nocivo per la salute dei cittadini.
L’esigenza di contrastare la pratica della medicina difensiva è, dunque, reale; così come è reale l’esigenza di un più oculato e controllato esercizio dello strumento penale per contrastare i casi di effettiva malpractice medica. Per far fronte a queste indiscutibili esigenze si è preferito imboccare la via legislativa di prevedere espresse clausole di esclusione della punibilità del medico, invece di privilegiare la via giudiziaria di un uso più sorvegliato e accorto degli istituti e dei principi in materia di responsabilità colposa. Probabilmente, l’opzione a favore della via legislativa è stata motivata anche dello scopo di assicurare alla materia una maggiore certezza applicativa. Come vedremo, invece, è stato raggiunto l’effetto esattamente contrario, poiché l’incertezza ha contrassegnato non solo l’applicazione giurisprudenziale delle nuove norme, ma addirittura l’azione dello stesso legislatore che è intervenuto ben due volte in materia e a distanza di pochi anni, suscitando così anche aggiuntive incertezze di diritto intertemporale.
Può essere utile riprodurre i due testi legislativi con cui si è inteso circoscrivere la punibilità del medico. Il primo è costituito dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito in l. 8 novembre 2012, n. 189) (c.d. decreto Balduzzi) e dispone quanto segue: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Il secondo testo è costituito da un nuovo articolo del codice penale, l’art. 590 sexies, introdotto dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), che recita: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. ǀǀ Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi della legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto».
Senza poter scendere qui nell’analisi dettagliata delle due disposizioni, appare abbastanza chiara l’idea di fondo loro comune, e cioè l’esclusione della responsabilità nel presupposto dell’osservanza delle leges artis sufficientemente consolidate, provvedendo peraltro la legge Gelli-Bianco a costruire un complesso meccanismo pubblicistico di accreditamento e pubblicazione delle linee guida. In sostanza, il messaggio generico sotteso al duplice intervento legislativo è che il medico non può soggiacere all’incertezza (se non all’alea) della responsabilità penale una volta che egli abbia osservato le leges artis “codificate”.
3. Ambiguità ed incertezze legislative
Poste così le necessarie premesse del discorso, possiamo passare ora a delineare sinteticamente l’evoluzione della vicenda che c’interessa, non senza aver sottolineato che si tratta di questione grandemente rilevante. E ciò non solo perché attiene alla disciplina giuridica di un settore, quello medico appunto, che riguarda in sostanza l’intera popolazione e al quale – com’è naturale – siamo tutti molto sensibili. Ma anche perché la questione tocca uno dei sancta sanctorum del diritto penale contemporaneo qual è appunto quello della responsabilità colposa e dei suoi limiti.
La recente vicenda della disciplina penale della responsabilità medica è una vicenda anomala, quanto meno perché si presenta assai poco lineare. Come già si può notare dalla semplice lettura dei due testi legislativi, il legislatore è stato, da un lato, ben determinato nella sua decisione di intervenire per via legislativa contro indubbi eccessi giurisprudenziali, ma dall’altro lato si è rivelato incerto e quasi timoroso, tornando ben presto sui suoi passi per ridurre la portata dell’esclusione di punibilità. Per parte sua, la giurisprudenza, dopo un’iniziale accoglienza sostanzialmente ostile all’innovazione legislativa, e anche dopo molte oscillazioni in gran parte dovute all’imperfezione dei testi, sembra oggi convincersi sempre più della necessità di una delimitazione della responsabilità, consolidando – come vedremo – un orientamento che non esita a forzare il dato legislativo pur di dare coerenza alla disciplina.
Probabilmente l’anomalia di questa vicenda non è casuale. Al contrario, essa nasce forse da una certa qual contraddizione interna alla questione. Da un lato, in linea di principio, siamo quasi istintivamente portati a nutrire sospetto verso le cause speciali di esclusione della punibilità: esse, infatti, non solo creano necessariamente un vuoto di tutela nei confronti dei beni protetti, ma rischiano talvolta di rivelarsi dei privilegi. Insomma, per superare queste diffidenze occorre che le cause di non punibilità superino un vaglio di ragionevolezza (e costituzionalità) sia dal lato passivo dei beni tutelati sia da quello attivo dei soggetti esonerati. Dall’altro lato, però è anche vero, e qui sta l’apparente contraddizione, che nella peculiare materia dell’attività medica, la causa di non punibilità non si pone in antitesi con la tutela dei beni finali della vita e salute dei pazienti. Anzi, rispetto a tale tutela è perfettamente consentanea, visto e considerato che la pratica della medicina difensiva costituisce un ostacolo alla migliore tutela dei cittadini. E la causa di non punibilità nasce proprio per contrastare la pratica della medicina difensiva.
Anche per quanto riguarda il lato attivo dei soggetti esonerati, è improprio parlare di “privilegio” della classe medica, visto e considerato – come non ha mancato di sottolineare la giurisprudenza – che la delimitazione della loro responsabilità penale per colpa risponde ad un principio generale dell’ordinamento espresso dall’art. 2236 c.c. con riguardo a tutti i professionisti che si trovano ad operare su casi specialmente complessi, come sono sicuramente quelli oggetto di trattamento medico («Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»).
4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo”
In linea generalissima, la recente evoluzione sia dottrinale che giurisprudenziale della colpa penale ha messo in luce il carattere che si potrebbe dire “sincretistico” della colpa penale: alieno, cioè, da eccessive distinzioni e suddistinzioni concettuali. Questo processo storico-culturale è avvenuto mediante la forte valorizzazione della violazione delle regole cautelari quale nucleo essenziale della colpa, finendo così per mettere in ombra la dimesione psichica di questa davvero complessa forma di imputazione soggettiva del reato. A riprova di quanto andiamo dicendo basta rammentare come, in sede teorica, è diventata quasi recessiva la distinzione un tempo fondamentale tra colpa generica e colpa specifica; così come è addirittura quasi scomparsa dai manuali l’altra distinzione che tripartisce la colpa generica nelle tre specie della negligenza, dell’imprudenza e dell’imperizia. Al più, queste distinzioni sono utilizzate solo per differenziare, ove necessario, le diverse tipologie di regole cautelari violate. Ma ciò che resta essenziale è appunto l’individuazione di una regola che abbia natura realmente cautelare, della sfera del pericolo cui la regola intende far fronte, della corrispondenza tra evento avverso prodotto e sfera del pericolo considerato dalla regola, nonché infine della efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito.
Anche in sede applicativa il dominante sincretismo della colpa è ben visibile nella formulazione di molti capi d’imputazione che spesso affastellano nella contestazione colposa tutte le possibili forme di colpa delineate dall’art. 43 c.p. e che raramente è dato scindere ed individuare separatamente almeno in sede preliminare di formulazione dell’accusa. Può darsi che dietro questo diffusissimo modus procedendi vi sia anche una componente di sciatteria, ma non è affatto improbabile che ciò riveli anche una certa impraticabilità di quelle pur apparentemente lineari e tramandate distinzioni codicistiche.
Ebbene, le riforme del decreto Balduzzi e della legge Gelli-Bianco vanno in direzione esattamente opposta alla tendenza sincretistica che oggi caratterizza la colpa: esse distinguono implicitamente tra colpa generica e colpa specifica, isolano l’imperizia tra le varie forme di colpa generica, rilanciano la distinzione tra colpa grave e colpa lieve che per lungo tempo era stata abbandonata dalla giurisprudenza penale che la utilizzava solo in sede di commisurazione della pena a norma dell’art. 133 c.p. Orbene, questa frammentazione della colpa in varie distinzioni e suddistinzioni, divenuta rilevante a seguito delle riforme non più solo per graduare la responsabilità colposa ma ancor prima per affermarne l’esistenza, ha logicamente prodotto la conseguenza di aggravare notevolmente l’onere motivazionale del giudice, costringendolo a calare nell’accertamento probatorio del fatto una griglia di distinzioni ardue già da un punto di vista concettuale, come abbiamo visto. Esemplare in questo senso è, ad esempio, tra le più recenti, la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4892/2020, Scuderi: «una motivazione che tralasci di indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, di valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, o di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza, ma anche una motivazione in cui non sia appurato se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge».
Per cercare di orientarsi meglio sulle ragioni profonde di questo modo di procedere del legislatore che va in cerca di una delimitazione – per così dire verso il basso – della colpa penale in campo medico, può essere utile considerare quali opzioni si presentavano astrattamente possibili al riformatore. In linea di principio le vie percorribili erano due. La prima potrebbe esser detta quantitativa, facendo riferimento alla tradizionale distinzione tra colpa grave e colpa lieve per giungere ad espungere la seconda dall’area della rilevanza penale. La seconda potrebbe dirsi qualitativa, in quanto basata sulla distinzione – appunto qualitativa – tra le varie specie di colpa e le diverse tipologie di regole cautelari violate. E’ chiaro, poi, che i due criteri – quantitativo e qualitativo – possono essere anche fra loro commisti, ancorché l’ispirazione di fondo della soluzione rimanga riconducibile all’una o all’altra prospettiva.
Il criterio quantitativo, in virtù del quale la colpa lieve viene espunta dall’area di rilevanza penale, presenta pregi e difetti. Il suo maggior difetto è l’indeterminatezza derivante proprio dalla sua natura quantitativa. Ma è pur vero che questa indeterminatezza significa nello stesso tempo duttilità del criterio e sua capacità di adeguarsi al caso concreto, alle sue proteiformi manifestazioni nella realtà effettuale com’è appunto avviene specialmente in campo medico. I suoi pregi sono numerosi. Intanto si tratta di un criterio largamente conosciuto nella nostra tradizione giuridico-penale e consacrato dall’art. 2236 c.c. per quanto riguarda la responsabilità civile. Ma soprattutto corrisponde a quel carattere "sincretistico" della colpa che abbiamo già evidenziato e in ragione del quale la colpa risulta essere un giudizio complesso effettuato alla stregua di numerosi parametri. E qui arriviamo, in effetti, al pregio fondamentale del criterio quantitativo della colpa lieve, e cioè la possibilità – appunto “sincretistica” – che esso offre al giudice di avvalersi di più e diversi parametri congiuntamente: il giudizio di colpa lieve/grave deve infatti tener conto certamente delle “speciali difficoltà” del caso ma anche delle caratteristiche di contesto in cui è chiamato ad operare il medico (l’urgenza, le scarse risorse tecniche, ecc.) nonché delle condizioni personali dell’operatore (la stanchezza accumulata, il grado di esperienza maturata, ecc.), fino ad arrivare alla c.d. misura soggettiva della colpa intesa in termini di soggettiva e contingente esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari.
Ebbene, delle due riforme il decreto Balduzzi era chiaramente ispirato in modo prevalente al criterio quantitativo, visto che faceva riferimento espresso alla colpa lieve senza peraltro distinguere tra le varie specie di colpa. E, invero la giurisprudenza aveva conseguentemente ritenuto di poter configurare la colpa lieve anche al di là del perimetro segnato dall’imperizia, includendo anche la negligenza e l’imprudenza.
5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali
La legge Gelli-Bianco va invece in direzione decisamente opposta, optando per il criterio qualitativo e abbandonando la distinzione tra colpa grave/colpa lieve. La riforma s’impegna invero in una implicita ma evidente differenziazione delle tipologie di regole cautelari e leges artis rilevanti.
L’art. 590 sexies, comma 2, c.p. individua innanzitutto due tipologie di regole cautelari, o leges artis, la cui osservanza è condizione essenziale perché possa operare la causa di non punibilità. Recita infatti quella disposizione che «la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalla linee guida [come definite e pubblicate ai sensi della legge] ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Si può dunque dire che, affinché possa scattare la causa di non punibilità, debbono essere rispettate, in primo luogo, le regole generali relative all’inquadramento diagnostico-terapeutico del caso in questione (ad es. l’inquadramento della patologia oncologica in una certa specie di tumore per il quale i protocolli prevedono in generale un determinato trattamento): a questo tipo di regole fa riferimento la legge quando parla di “linee guida” (definite e pubblicate conformemente alle procedure previste dalla legge) ovvero di “buone pratiche clinico-assistenziali”. In secondo luogo, e a differenza di quanto invece disponeva – o meglio non disponeva – il decreto Balduzzi, la non punibilità è subordinata all’osservanza delle “regole di adeguamento” al caso concreto, che ben possono, e solitamente sono, anche in deroga a quelle generali d’inquadramento diagnostico-terapeutico (ad es. correttamente inquadrata la patologia oncologica, le particolari condizioni del paziente suggeriscono di allontanarsi dalle linee guida [o buone pratiche] del trattamento terapeutico previsto da queste ultime).
In presenza di un siffatto quadro normativo si pone subito un arduo problema interpretativo, anzi quello che fu ritenuto un vero e proprio rebus interpretativo ai limiti della insolubilità. Posto, infatti, che la causa di non punibilità presuppone l’osservanza delle leges artis d’inquadramento del caso nonché quelle di adeguamento alle sue specificità concrete, quale spazio residua per l’operatività della causa di non punibilità? Quest’ultima implica pur sempre che il comportamento del medico sia colposo, ma se al contempo la condizione per la sua applicazione è l’osservanza di ben due categorie fondamentali di regole cautelari, quali potranno essere le leges artis la cui inosservanza caratterizzerà il comportamento colposo rientrante nella fattispecie di non punibilità? Insomma, la formulazione dell’art. 590 sexies c.p. è tale per cui, almeno ad una prima lettura, l’ambito della non punibilità sembra coincidere con ipotesi originariamente non colpose: se così fosse realmente, la norma sarebbe del tutto inutile.
E’ stata la giurisprudenza ad impegnarsi nell’ardua opera d’individuazione della tipologia di quelle regole cautelari la cui inosservanza è suscettibile di dare corpo ad una colpa non punibile ai sensi dell’art. 590 sexies c.p. Questa tipologia di regole fu individuata nelle c.d. regole esecutive o di attuazione: esecutive o attuative delle regole d’inquadramento generale o di adeguamento al caso. Così, ad esempio, inquadrato esattamente il caso e programmato l’intervento terapeutico tenendo conto delle specifiche caratteristiche del paziente, il chirurgo erra nell’esecuzione dell’operazione (Cass. Sez. IV, n. 50078/2017, Cavazza: la causa di non punibilità è «operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse»).
La ricostruzione giurisprudenziale dell’art. 590 sexies c.p. è senz’altro meritoria poiché conferisce un senso alla disposizione, ma certamente ne delinea – ed è già molto dato il suo tenore letterale – un campo applicativo ad un tempo eccessivamente limitato e potenzialmente troppo largo. Eccessivamente limitato perché la categoria delle norme esecutive o attuative è davvero particolarissima e molto residuale, e sembra inoltre essere stata individuata pensando prevalentemente al settore della chirurgia; troppo largo perché anche nell’esecuzione materiale del trattamento possono manifestarsi comportamenti colposi di estrema gravità (come, ad es., quello del chirurgo che commetta un grossolano errore esecutivo).
In secondo luogo, la legge Gelli-Bianco introduce un ulteriore forte limite alla non punibilità, assente nel decreto Balduzzi. A tenore del nuovo art. 590 sexies c.p. la causa di non punibilità è limitata alla sola colpa per imperizia. E con ciò le difficoltà interpretative si accentuano ulteriormente. E’ probabile che la ragione sostanziale di questa limitazione stia nella convinzione del legislatore che, mentre la negligenza e imprudenza esprimono due atteggiamenti soggettivi di indifferenza se non di ostilità nei confronti dei beni giuridici, l’imperizia è invece un difetto cognitivo o esecutivo, un errore, come tale meritevole di essere trattato con maggiore benevolenza nel campo medico caratterizzato da incertezza.
Pur essendoci del vero in questa convinzione, ciò nondimeno non per questo la disposizione cessa di essere di difficoltosa interpretazione e di produrre l’effetto di una sorta di sterilizzazione delle sue potenzialità applicative. La dottrina già da tempo aveva messo in luce la scarsa autonomia concettuale dell’imperizia in generale: come semplice difetto delle conoscenze e delle abilità necessarie, l’imperizia non è in grado di dare compiuta consistenza alla colpa e al rimprovero che essa implica. Oggi, poi, è intervenuta nella specifica materia della responsabilità medica un’importantissima sentenza della Cassazione che ha fatto chiarezza sulla natura dell’imperizia. Si tratta della sentenza della Quarta sezione n. 15258/2020, nella quale sono stati chiariti due aspetti fondamentali. Innanzitutto, si è messo bene in luce come l’imperizia s’identifichi in sostanza con l’errore professionale come tale non necessariamente colpevole («si deve rimarcare che dopo aver accertato la violazione della regola cautelare, occorre accertare che quella violazione sia stata colposa; in questo secondo step deve darsi massimo spazio alla realtà dell’autore fisico e alle condizioni concrete nelle quali si è materializzato il fatto»). L’imperizia sta in sostanza ad indicare l’oggettivo scostamento del comportamento dalle regole cautelari caratteristiche delle attività tecnico-professionali, nelle quali le regole cautelari implicano l’osservanza delle leges artis, la cui violazione dà luogo appunto ad imperizia. In secondo luogo, si è affermato esattamente che l’errore professionale, cioè il comportamento imperito, trasmoda in colpa solo quando l’incapacità di adeguarsi alle leges artis tecnico-professionale sia accompagnata da un atteggiamento colpevole di negligenza o imprudenza. Questo significa che anche nella colpa per imperizia refluiscono componenti negligenti o imprudenti («in linea di massima, l’agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, si presta ad esser valutato primariamente in termini di perizia/imperizia; per definizione le attività professionali richiedono l’uso di perizia, cioè il rispetto delle regole che disciplinano il modo in cui quelle attività devono essere compiute per raggiungere lo scopo per il quale sono previste; ciò non esclude che l’evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza»). Con la conseguenza, dunque, che, mentre il richiamo effettuato dall’art. 590 sexies c.p. all’imperizia deriva dal fatto che esso concerne un’attività tecnico-professionale come quella medica, la presenza di negligenza o imprudenza nel comportamento non può per ciò solo escluderlo dall’ambito applicativo della fattispecie di non punibilità.
A questo punto, dopo aver visto come la giurisprudenza ha chiarito i requisiti della fattispecie di non punibilità costituiti dall’osservanza delle regole d’inquadramento e di adeguamento e dalla imperizia, nell’itinerario interpretativo dell’art. 590 sexies c.p. s’inserisce l’ultimo passaggio logico compiuto dalle Sezioni Unite con la notissima sentenza n. 8770/2018, Mariotti. Diciamo subito che con questa pronuncia viene recuperato il limite della colpa grave, in modo da escluderla dall’ambito applicativo della fattispecie, nonostante che l’art. 590 sexies c.p. nulla dica espressamente al riguardo. Sembra qui riaffiorare quella certa qual diffidenza verso la non punibilità, di cui abbiamo detto all’inizio, dovuta al timore di un eccessivo indebolimento della tutela. E in effetti è ben possibile che un errore terapeutico sia dovuto a negligenza o imprudenza anche molto gravi e dunque intollerabili, ancorché esso si radichi nell’inosservanza di regole “semplicemente” esecutive o attuative. Addirittura, l’indebolimento della tutela potrebbe far sorgere dubbi di costituzionalità, qualora si riveli così macroscopico da apparire ingiustificato e pertanto irragionevole.
Dunque le Sezioni Unite avvertono il bisogno, per “salvare” la causa di non punibilità, di ricorrere ad una sua interpretazione conforme a Costituzione, consistente nel reinserimento del limite della colpa grave nella fattispecie. Un’operazione ermeneutica, questa, tanto apprezzabile negli intenti e nelle conseguenze quanto opinabile per il percorso argomentativo prescelto (ma, forse, obbligato?).
Lasciamo stare qui le riserve che sono state espresse autorevolmente e in via generale nei confronti dell’interpretazione conforme in quanto tale, tacciata di favorire forzature del testo legislativo proprio in quanto orientata a ottenere un determinato risultato ermeneutico prefigurato in partenza, piuttosto che fungere da metodo euristico dell’esito interpretativo. Seppure ci sia del vero in questi rilievi critici, rimane indubitabile che, se ben praticata, l’interpretazione conforme a Costituzione è un veicolo prezioso per far circolare direttamente nel tessuto normativo dell’ordinamento i valori costituzionali.
Come è ben noto, l’invalicabile confine che trova l’interpretazione conforme è il significato linguistico del testo legale. Nel senso che, pur nell’intento di armonizzare la disposizione legale con la Costituzione, non è possibile per l’interprete attribuire ad essa un significato che sia incompatibile con quello linguistico del testo. Orbene, la sentenza Mariotti, inserendo il limite della colpa grave nel testo dell’art. 590 sexies c.p., ritiene di stare entro i confini dell’interpretazione conforme in quanto avrebbe operato non già contra legem bensì praeter legem. E, da un certo punto di vista, ciò non è inesatto, in quanto l’operazione interpretativa si risolve non già nel sostituire un elemento di fattispecie con altro ma nell’aggiungere – oltre il disposto normativo – un elemento non previsto, sul quale il testo è dunque silente. Vero ciò, è altrettanto indubitabile però che l’operazione si rivela fortemente manipolativa del testo e davvero ai confini dell’interpretazione conforme consentita. In effetti, quando si parla di quest’ultima, normalmente ci si riferisce al carattere polisemico di una disposizione legislativa e alla conseguente scelta dell’interprete che, tra i plurimi significati dell’espressione linguistica, sceglie quello conforme (o maggiormente conforme) a Costituzione: in questo senso il significato della disposizione non viene tradito poiché il giudice, con la sua scelta, rimane pur sempre all’interno del campo semantico sotteso alla disposizione.
Nel nostro caso, invece, è avvenuto qualcosa di diverso. La Corte di cassazione, infatti, non ha scelto tra i possibili significati dell’espressione linguistica, ma ha inserito ex novo nella struttura linguistica della fattispecie un elemento non previsto espressamente, e cioè quello della colpa lieve. Così operando, fra l’altro, una scelta destinata a ridondare a svantaggio del reo, perché limitante l’ambito applicativo della causa di non punibilità.
6. Un buon risultato paralegislativo
Nonostante la forzatura presente nel percorso argomentativo della sentenza Mariotti, tuttavia è difficile disconoscere il pregio dei risultati così conseguiti, tali da delineare un assetto normativo di grande interesse per la colpa medica. Non si tratta solo di aver delimitato la sfera della non punibilità in modo più coerente con la tradizione del nostro ordinamento e con le sostanziali esigenze di tutela. Con questo pronunciamento, soprattutto se letto insieme alla successiva e già ricordata sentenza n. 15258/2020, la Cassazione ha compiuto un’importante operazione di rivitalizzazione della colpa grave, cioè del criterio quantitativo, quale discrimine della responsabilità colposa del medico.
In effetti, la clausola della colpa grave, facendo pernio sull’intensità del rimprovero colposo nel suo insieme, è innanzitutto capace di “mangiarsi” per così dire quel limite dell’imperizia, la cui ragion d’essere – come abbiamo visto – è molto opinabile. In secondo luogo, e soprattutto, la clausola della colpa grave è potenzialmente idonea a travolgere anche il limite costituito dalla tipologia di regole cautelari di cui è richiesta l’osservanza dall’art. 590 sexies c.p.: le regole d’inquadramento diagnostico-terapeutico e quelle di adeguamento al caso concreto. Infatti, una volta che faccia ingresso il criterio selettivo dell’intensità del rimprovero colposo nel suo complesso, non ha più senso limitare la non punibilità alla sola inosservanza delle regole esecutive ed attuative. Un rimprovero trascurabile è ben concepibile senza dubbio anche nell’inosservanza delle regole d’inquadramento o di adeguamento: tutto dipende, come al solito, dalle caratteristiche del caso. Ma c’è di più. Nell’ipotesi in cui il caso sia talmente nuovo o speciale per cui non esistano linee guida o buone pratiche, a stretto rigore la causa di non punibilità non potrebbe essere mai applicabile per mancanza di un suo requisito. Orbene, si tratta di un risultato incongruo, essendo evidente che un’esigenza di eventuale non punibilità è molto più probabile in una siffatta, davvero difficilissima, situazione, anziché in quella in cui l’errore terapeutico abbia riguardato la solitamente più semplice fase dell’esecuzione o attuazione dell’intervento.
In definitiva, la soluzione “quantitativa” della colpa grave si rivela suscettibile di una più ampia e ragionevole sfera di applicazione rispetto allo schema di non punibilità un po’ arzigogolato delineato dalla legge Gelli-Bianco. Rimane aperto il problema se questa dilatazione del campo di applicazione attraverso la colpa grave come rievocata dalla sentenza Mariotti, possa operare già de lege lata oppure se abbia bisogno di una nuova e più adeguata – ma anche più semplice – formulazione legislativa. In effetti, estendere la causa di non punibilità oltre i requisiti espressamente indicati dall’art. 590 sexies c.p. (alle ipotesi di inesistenza di leges artis consolidate) ovvero contro di essi (alle ipotesi di colpa lieve nell’inosservanza delle leges artis), apparirebbe una nuova forzatura del testo, anche se ispirata a conferire ad esso una sostanza valoriale e una ragionevolezza ben maggiori di quelle esibite dal testo vigente. Indubbiamente, potrebbe essere forte la tentazione per la giurisprudenza che ha fatto trenta (con la sentenza Mariotti) di fare anche trentuno ampliando alle ipotesi non previste: e questa volta per di più in senso favorevole al reo.
E’ chiaro, inoltre, che la delimitazione della punibilità alla colpa grave potrebbe egregiamente prestarsi a risolvere la stragrande maggioranza dei casi originati dall’emergenza pandemica del coronavirus, senza avventurarsi nella difficile forgiatura legislativa di un apposito “scudo” ritagliato sulla contingenza sanitaria. Indubbiamente, però, se una più o meno confessata sfiducia nella magistratura (soprattutto del pubblico ministero) unita alla lunghezza dei processi dovessero far optare per una disposizione di “sbarramento” capace di bloccare sul nascere l’azione penale, allora bisognerebbe pensare ad una vera e propria causa di non punibilità di problematico confezionamento. Essa, infatti, dovrebbe essere congegnata prescindendo da quell’accertamento di fatto pur sempre indispensabile per graduare la colpa, e puntando su un dato obiettivo per così dire “esterno” alla tipicità del fatto colposo (la sua ‘concomitanza’ con l’epidemia?) ictu oculi riconoscibile dal pubblico ministero al momento dell’acquisizione della notitia criminis. Ma il rischio sarebbe allora quello di fare d’ogni erba un fascio, coprendo con la causa di non punibilità anche eventuali fatti gravemente colpevoli sol perché commessi nella contingenza epidemica.
Infine, a parte ciò, sembra proprio che la clausola della colpa grave possa aprire interessanti prospettive di politica penale per il futuro. Intanto, potrebbe proseguire quel processo che pare essere già in atto nella giurisprudenza, di affrancamento della colpa grave dall’art. 2236 c.c., o per meglio dire di suo progressivo superamento: i parametri di accertamento della colpa grave/lieve potrebbero del tutto ragionevolmente ed opportunamente andare oltre quello della “speciale complessità” del caso per comprendere anche quelli relativi al contesto obiettivo, alle condizioni personali del soggetto, alla misura soggettiva della rimproverabilità.
Inoltre, è lecito pensare che un futuro sviluppo dei confini tra responsabilità civile e penale possa andare nel senso di fare della colpa grave il confine generale tra illecito civile e illecito penale, al di là dunque del campo della responsabilità del medico e forse anche al di là del campo della responsabilità del professionista. Così facendo sarebbe data reale attuazione al principio fondamentale che vuole l’intervento penale quale ultima ratio della tutela dei beni.
La conclusione finale che si può trarre da questo nostro excursus sulla colpa medica è che si tratta probabilmente di un campo ancora in divenire. Ma soprattutto un campo in cui la disciplina giuridica, sebbene sospinta da interventi legislativi espressivi di esigenze reali ma formulati in modo spesso infelice, è stata forgiata dalle mani della giurisprudenza non raramente in direzione diversa da quella presa dal legislatore. Un processo, questo che vede sinergicamente operanti diritto legale e diritto giudiziario, che si è svolto senza scandalo e forse con soddisfazione diffusa.
[1] Il lavoro è destinato agli Scritti in onore del prof. Antonio Fiorella
Il baratto amministrativo tra partecipazione e detassazione locale
di Alice Cauduro
Il contributo intende offrire un’analisi dell’istituto del baratto amministrativo che, a partire dall’individuazione della sua finalità e della centralità dell’elemento della partecipazione cittadina, evidenzi in particolare i caratteri e le criticità della previsione della detassazione locale quale controprestazione dell’attività svolta.
Sommario: 1. Il baratto amministrativo e la sua finalità - 2. La centralità della partecipazione cittadina - 3. I caratteri della detassazione locale - 4. Prassi amministrativa e questioni aperte: spunti conclusivi.
1. Il baratto amministrativo e la sua finalità.
L’istituto del baratto amministrativo trova un primo riferimento normativo nel c. d. decreto Sblocca Italia quale misura di agevolazione della partecipazione cittadina alla riqualificazione del territorio[1]. In quella disciplina emergeva, oltre alla finalità di promozione della cura degli spazi urbani attraverso la partecipazione dei privati cittadini - singoli o associati - all’amministrazione pubblica territoriale, anche la propensione del legislatore ad immaginare un modello di partecipazione cittadina collegato alla detassazione locale, attraverso la previsione della riduzione o esenzione dei tributi come controprestazione dell’attività svolta dal privato. La disciplina è stata poi ripresa dal nuovo Codice dei contratti pubblici che ha rubricato “baratto amministrativo”[2] una norma collocata - non senza suscitare perplessità[3] - tra gli istituti di partenariato pubblico-privato (PPP) utilizzabili anche dagli enti territoriali, quali contratti a titolo oneroso[4]. Secondo i principi di sussidiarietà orizzontale e solidarietà (art. 118 co. 4 e art. 2 Cost.)[5], sia la norma dello Sblocca Italia sia quella del Codice dei contratti pubblici si riferiscono all’esercizio delle attività normalmente svolte dalla PA nell’ambito delle sue funzioni, ma il baratto amministrativo del nuovo Codice dei contratti pubblici si differenzia dalla misura di agevolazione prevista dallo Sblocca Italia sotto diversi profili[6]: anzitutto perché estende il modello di amministrazione condivisa a tutti gli enti territoriali, non solo ai Comuni, i quali possono oggi “definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale” sulla base dei progetti presentati[7]; inoltre, anche l’ambito applicativo oggettivo risulta più ampio poiché, oltre “alla pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade”, si contempla anche l’ipotesi della “loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati”[8], con una formulazione più articolata della precedente “valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano”[9]. L’istituto del baratto amministrativo può essere interpretato anche attraverso l’analisi delle fonti normative e delle prassi amministrative sulle attività di rigenerazione degli spazi urbani[10] e si presta ad essere utilizzato soprattutto nelle pratiche di gestione dei c. d. beni comuni[11]; opera secondo il modello consensuale di amministrazione pubblica condivisa, quale modello alternativo alla pianificazione unilaterale della PA per specifiche tipologie di interventi di governo del territorio urbano [12]; è richiamato assieme agli interventi di sussidiarietà orizzontale, tra le “figure di minor rilievo economico, ma di sicuro impatto sociale […] quali forme di partenariato sociale”[13]; è inserito tra gli istituti di partenariato pubblico-privato a carattere “sociale”, assieme agli interventi in sussidiarietà orizzontale e alla cessione di immobili in cambio di opere, oltre alle sponsorizzazioni delle aree verdi urbane[14]. Si è di recente chiarito che l’ente territoriale, oltre a deliberare un regolamento che disciplini l’applicazione dell’istituto, deve motivare la scelta di utilizzarlo, dimostrando la convenienza anche economica; “la prestazione offerta dal cittadino, infatti, non solo deve corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali agevolate, ma la relativa delibera assunta dall’ente pubblico territoriale deve altresì motivare la decisione di avvalersi dell’istituto del baratto sulla base di una attenta valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la convenienza, anche economica, della scelta effettuata”[15]. Si noti inoltre che i contorni e i contenuti dei contratti di partenariato sociale di cui all’art. 190 troveranno definizione anzitutto nelle discipline delle delibere degli enti territoriali, senza le quali l’amministrazione non può accordarsi col privato, ma già alcuni modelli di patti di collaborazione, definiti sulla base di regolamenti comunali, hanno ad oggetto attività riconducibili anche al baratto amministrativo[16].
2.La centralità della partecipazione cittadina.
Nei richiamati modelli di valorizzazione del territorio assume un ruolo centrale la partecipazione dei cittadini da leggersi anzitutto attraverso la nota considerazione che “la partecipazione indica e realizza il «prender parte», ad un processo di decisione, di soggetti diversi da quelli ai quali un ordinamento attribuisce istituzionalmente la competenza a provvedere e che ordina (organizza) stabilmente per questo scopo”[17]. Ancora attuale è anche l’approccio metodologico della fine degli anni Settanta nello studio su partecipazione e organizzazione[18], come anche l’idea che la partecipazione non sia solo “un valore in sé, in quanto rappresenta un’apertura in senso democratico dell’ordinamento”, ma anche “un concetto funzionale ai vari contesti generali in cui trova riconoscimento, da considerare pertanto in modo relazionistico”[19]. La partecipazione nel baratto amministrativo pare così caratterizzare una modalità di gestione di “aree e beni immobili inutilizzati” secondo il modello partecipativo inteso come elemento identificativo della gestione dei beni comuni. La partecipazione promossa dall’amministrazione si riferisce in particolare alla comunità che percepisce il degrado o disuso dei beni[20], sicché l’elemento della partecipazione amministrativa dei cittadini è elemento caratterizzante del baratto amministrativo; una partecipazione che non avviene solo su iniziativa dell’amministrazione, ma della stessa comunità. La dimensione solidaristica che connoterebbe l’attività del cittadino o dell’associazione di cittadini non assorbe ed esaurisce l’operatività dei principi di eguaglianza (sostanziale), di trasparenza, pubblicità e imparzialità della PA, e tuttavia sul punto si può osservare che la norma non chiarisce i criteri di selezione del privato cittadino, singolo o organizzato,[21] risultando così imprecisato in che termini sia garantito il rispetto dei suddetti principi, attraverso quale atto ed in quale fase della scelta dell’amministrazione. La stessa normativa e prassi dell’amministrazione condivisa fa espresso riferimento al rispetto della pubblicità e della trasparenza; si riconosce, infatti, che la trasparenza è lo “strumento principale per assicurare l’imparzialità nei rapporti con i/le Cittadini/e e la verificabilità da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati delle azioni svolte e dei risultati ottenuti” [22].
3. I caratteri della detassazione locale.
La previsione dell’esenzione o riduzione dei tributi locali ha suscitato più di un interrogativo. Di recente è stata offerta un’interpretazione del baratto amministrativo rispettosa dei principi tributari e contabili delle amministrazioni locali limitando la possibilità dell’esenzione e riduzione dei tributi ai debiti pregressi ed escludendo che tale controprestazione possa intendersi come datio in solutum; si è chiarito infatti che l’esenzione dei tributi può avvenire solo ad integrale realizzazione dell’opera o del servizio[23]. Anche il giudice contabile è di questo avviso e, al quesito se il baratto amministrativo si applichi ai debiti pregressi, ha affermato che non è “ammissibile la possibilità di consentire che l’adempimento di tributi locali, anche di esercizi finanziari passati confluiti nella massa dei residui attivi dell’ente medesimo, possa avvenire attraverso una sorta di datio in solutum ex art. 1197 c.c. da parte del cittadino debitore che, invece di effettuare il pagamento del tributo dovuto, ponga in essere una delle attività previste dalla norma e relative alla cura e/o valorizzazione del territorio comunale. […] tale ipotesi non solo non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della norma, in quanto difetterebbe il requisito dell’inerenza tra agevolazione tributaria e tipologia di attività svolta dai soggetti amministrati (elementi che peraltro devono essere preventivamente individuati nell’atto regolamentare del Comune), ma potrebbe determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di bilancio, considerato che i debiti tributari del cittadino sono iscritti tra i residui attivi dell’ente”[24]. Sempre il giudice contabile ha affrontato anche i seguenti quesiti: a) nel caso in cui gli interventi siano invece collegati a riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività svolta, quale sia il corretto e legittimo inquadramento giuridico, fiscale e assicurativo delle prestazioni rese in compensazione. In particolare, se gli interventi resi dai cittadini, singoli o associati, qualora inquadrati come prestazioni occasionali di servizio o di lavoro, siano da ricomprendere nell'ambito delle spese del personale; b) se l’istituto del ‘baratto amministrativo’ sia applicabile anche nel caso in cui debitore di tributi comunali sia un'impresa”[25]. In tale occasione si è affermato che “la prestazione offerta dal cittadino […] non solo deve corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali agevolate, ma la relativa delibera assunta dall’ente pubblico territoriale deve altresì motivare la decisione di avvalersi dell’istituto del baratto sulla base di un’attenta valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la convenienza, anche economica, della scelta effettuata”[26]; pertanto l’ente territoriale, oltre che deliberare un regolamento che disciplini l’applicazione dell’istituto, deve motivare la scelta di utilizzarlo, dimostrando la convenienza anche economica[27]. Sull’inquadramento giuridico delle prestazioni rese in compensazione e l’esclusione dell’applicabilità alle imprese si è stabilito che “la prestazione lavorativa rientrante nel computo delle spese di personale non può che essere quella resa nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego legalmente instaurato nei modi e nelle forme previste dalla legge” e che la norma non si può applicare alle imprese, considerato il “rischio dell’elusione delle regole di evidenza pubblica e dell’obbligo del confronto concorrenziale”[28]. Se l’istituto tende a promuovere la collaborazione del cittadino, singolo o associato, alle attività di prestazione dell’amministrazione pubblica, quali la manutenzione e rigenerazione di spazi urbani[29], nella prospettiva della valorizzazione della partecipazione cittadina, si può in astratto comprendere anche la previsione della corrispondenza delle riduzioni o esenzioni dei tributi al tipo di “attività svolta dal privato o dall’associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della prestazione dei cittadini alla stessa” (art. 190). Sulle criticità di natura fiscale è stato investito a più riprese il giudice contabile, anzitutto sulla questione se e a quali condizioni i Comuni possano consentire “l’adempimento dei debiti relativi ad entrate comunali corrispondenti a residui attivi di bilancio, mediante l’effettuazione di un’attività sostitutiva del pagamento riconducibile ad una delle attività sussidiarie contemplate dall’art. 24 d. l. 133/2014”[30]. Veniva infatti chiesto come interpretare ed applicare correttamente la norma senza incorrere nella violazione della disciplina della contabilità pubblica e nella responsabilità per danno erariale; il giudice contabile ha richiamato così i principi e le condizioni di applicazione dell’esenzione o riduzione del tributo locale: il rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 c. 4 Cost.), del principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria - derogabile solo in forza di disposizione di legge, corollario dei principi costituzionali di cui agli artt. 23, 53, 97 Cost. -, nonché del principio di eguaglianza nei rapporti tributari. Tra le condizioni per applicare l’esenzione o la riduzione di tributi locali sono state così individuate: la necessaria approvazione di una deliberazione dell’ente territoriale, la fissazione nell’atto deliberativo comunale dei criteri e condizioni della presentazione dei progetti da parte dei cittadini, la stretta inerenza tra esenzione/riduzione del tributo e attività che i cittadini possono realizzare, infine un’esenzione limitata e definita nel tempo.
4. Prassi amministrativa e questioni aperte: spunti conclusivi.
Alcune suggestioni e spunti conclusivi emergono dall’analisi della normativa sui beni comuni, come ad esempio da una recente legge regionale sulla promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni”[31], dove si stabilisce che il patto di collaborazione[32] possa “prevedere l’attribuzione di vantaggi economici o altre forme di sostegno, qualora abbia ad oggetto attività e interventi di cura, di rigenerazione, di valorizzazione e di gestione condivisa di beni comuni […] di particolare interesse pubblico e per i quali i cittadini attivi sono in grado di mobilitare risorse adeguate, valorizzando le esperienze che operano in specifici contesti territoriali e di disagio sociale”[33]. Si segnala, inoltre, la previsione della “garanzia, da parte dell’amministrazione, dell’autonomia civica e della massima conoscibilità delle opportunità di collaborazione, delle proposte pervenute, delle forme di sostegno assegnate, delle decisioni assunte, dei risultati ottenuti e delle valutazioni effettuate”[34], nel rispetto del principio di imparzialità e trasparenza nella scelta del privato cittadino. Sebbene la prassi amministrativa - in generale sui modelli di amministrazione condivisa - faccia espresso riferimento al rispetto della pubblicità e della trasparenza, non è chiaro come questi principi trovino effettività nell’applicazione del baratto amministrativo. È interessante notare che tra le deliberazioni di approvazione del regolamento per l’applicazione del baratto amministrativo si rinvengono motivazioni che individuano tra i vantaggi dell’istituto: la tutela del “diritto di ogni persona di preservare le risorse economiche per i bisogni primari, soprattutto laddove situazioni contingenti di emergenza portano a diventare evasori non colpevoli”; la valorizzazione della “ dignità e [de]le capacità personali di ogni individuo che, mettendo la propria attività al servizio della comunità, ne trae effetti positivi sul piano psicologico e sviluppa il senso di appartenenza alla collettività”; la garanzia del “dovere di ciascuno di concorrere alla spesa pubblica attraverso lo svolgimento di attività di interesse generale in luogo del pagamento dei tributi” e la possibilità di consentire “al Comune di integrare le proprie attività per sopperire alle carenze di risorse ed elevare il livello di decoro urbano e di cura del bene pubblico”[35]. Oppure si afferma che è “obiettivo dell’Amministrazione, nella linea di azione e motivazione della norma cui si fa riferimento, tutelare il diritto di ciascun nucleo familiare di preservare le risorse economiche per i bisogni primari, volendo al tempo stesso garantire il rispetto delle regole nel pagamento dei tributi”; concludendo che “in tale prospettiva è opportuno individuare nel baratto amministrativo per morosità incolpevoli un’idonea modalità per conciliare l’obbligo di pagamento dei debiti con le effettive disponibilità economiche del soggetto o del suo nucleo familiare, nella salvaguardia degli interessi e dei bisogni della collettività”[36]. Tali motivazioni e applicazioni (in particolare il c. d. baratto amministrativo per morosità incolpevoli) suscitano alcune perplessità, anzitutto dove tendono ad assegnare al baratto amministrativo una finalità diversa da quella individuata dal legislatore nella partecipazione cittadina alla valorizzazione delle aree e dei beni immobili inutilizzati; così interpretato l’elemento della controprestazione, individuato nella detassazione locale, finirebbe per essere uno strumento di politica fiscale, solo apparentemente ricollegabile e riconducibile al principio solidaristico, rischiando di produrre diseguaglianze sostanziali e di fornire una giustificazione politica alle riduzioni del finanziamento dei servizi pubblici locali. La finalità del tributo è peraltro come noto, individuabile nel finanziamento indistinto della spesa pubblica, non collegabile perciò allo svolgimento di determinate e specifiche attività personali prestate volontariamente. Sicché si comprende come siffatta interpretazione dell’istituto, offerta dalla prassi amministrativa richiamata, sia poco compatibile, oltre che con il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, corollario dei principi costituzionali di cui agli artt. 23, 53, 97 Cost., anche con il principio di eguaglianza nei rapporti tributari. Occorre perciò ricordare i limiti applicativi del baratto amministrativo individuati dal giudice contabile nel divieto: di eludere regole cogenti di evidenza pubblica, di aggirare vincoli di finanza pubblica, di acquisire beni o servizi in violazione di precisi e puntuali divieti stabiliti dalla normativa finanziaria[37]. Come chiarito, le questioni che paiono più attuali e che emergono dall’analisi della prassi attengono anzitutto alla trasparenza e pubblicità nella selezione dei progetti, all’individuazione prioritaria delle attività, nonché nella corrispondenza con il tributo compensato. Alcuni dubbi suscita inoltre l’assenza della previsione di forme di controllo da parte dell’amministrazione per valutare la corretta esecuzione del contratto e delle conseguenze sulla detassazione che deve avere l’eventuale inadempimento accertato; non è chiaro, infatti, se la conseguenza debba o possa essere la ridefinizione del calcolo della riduzione del tributo. Appare, inoltre, poco comprensibile anche la formulazione finale della norma, dove si stabilisce che le “riduzioni o esenzioni di tributi” oltre a poter corrispondere “al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione” possano essere individuate senza un collegamento con l’attività svolta se “comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa”. Si condividono, inoltre, le osservazioni svolte nell’analisi delle analogie e differenze tra patti di collaborazione e baratto amministrativo dove si segnala che “se è vero che i Regolamenti sui beni comuni prevedono la possibilità per l’amministrazione di concedere alcuni benefici ai cittadini attivi, come appunto l’esenzione da determinati tributi, tuttavia questi vantaggi sono attribuiti per agevolare il migliore perseguimento dei fini previsti dal patto (per esempio, esenzioni dal pagamento dei tributi relativi al bene comune attribuito ai cittadini). Invece, nel baratto amministrativo lo sgravio dei tributi rappresenta una vera e propria contropartita personale per le attività di cura, sicché in questi casi la motivazione che anima i cittadini potrebbe essere anche di tipo puramente egoistico”[38].
Emergono in conclusione perplessità sulla scelta del legislatore di individuare nella detassazione dei tributi locali la controprestazione dell’attività. Si può aggiungere che la fortuna dell’istituto dipenderà quindi dalla sua una corretta interpretazione e applicazione, capace di valorizzare la finalità partecipativa e le potenzialità dell’istituto senza violare i principi dell’azione amministrativa e della finanza pubblica locale, e senza sacrificare il ruolo pubblico nella garanzia delle prestazioni di servizio pubblico locale.
[1] L’art. 24, d. l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. con mod. nella Legge 11 novembre 2014, n. 164 recante misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio stabiliva che “i Comuni possono definire i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade ed in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi i Comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L’esenzione è concessa per un periodo limitato, per specifici tributi e per attività individuate dai Comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere”.
[2] Art. 190 (Baratto amministrativo) D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50: “Gli enti territoriali possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale, sulla base di progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione ad un preciso ambito territoriale. I contratti possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati. In relazione alla tipologia degli interventi, gli enti territoriali individuano riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un'ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa.”
[3] Si vedano P. Novaro, art. 190, in Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, diretto da A. Carullo, G. Iudica, terza ed., Padova, 2018, 1354 ss.; A. Crismani, Art. 190, in Codice dei contratti pubblici commentato, (a cura di) L. Perfetti, II ed., p. 1546. Sulle peculiarità del baratto amministrativo rispetto agli altri istituti di PPP si rinvia a M. Renna, V.M. Sessa, art. 190, in Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, (a cura di) G.M. Esposito, vol. secondo, p. 2237. Sulla collocazione dell’istituto si veda inoltre R. De Nictolis, Il baratto amministrativo (o partenariato sociale), su www.giustizia-amministrativa.it. Per inquadrare l’istituto nel suo rapporto con le altre norme del nuovo Codice dei contratti pubblici si veda il Trattato sui contratti pubblici, (diretto da) R. De Nictolis, M.A. Sandulli, Milano, 2019, specie i contributi contenuti nel vol. I, Fonti e principi, ambito, programmazione e progettazione.
[4] Emerge in tutti gli istituti di PPP lo stretto collegamento con “l’interesse locale” (art. 189), la “finalità di interesse generale”, il “valore sociale” della partecipazione amministrativa (art. 190) e le “funzioni di pubblico interesse” (art. 191).
[5] Per una valorizzazione della sussidiarietà orizzontale nell’analisi del modello dell’amministrazione condivisa si veda G. Arena, Cittadini attivi, Roma Bari, 2011, p. 69, specie dove sottolinea che l’alleanza pubblico privato nel perseguimento dell’interesse generale è volta alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale (art. 3 co. 2 Cost.). Sulla sussidiarietà orizzontale nelle attività di rigenerazione degli spazi urbani si rinvia a L. Muzi, L’amministrazione condivisa dei beni comuni urbani: il ruolo dei privati nell’ottica del principio di sussidiarietà orizzontale, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, p. 117. Sul tema si veda R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti di libertà e doveri di solidarietà, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 839, dove osserva che “la disciplina sul “baratto amministrativo” ha introdotto un accordo – denominato “partenariato sociale” – tra cittadini e amministrazione pubblica per la cura e la gestione di alcuni beni di uso collettivo (d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, art. 190), che può essere intesa come norma d’attuazione dei doveri di solidarietà sociale di ogni cittadino e della sua capacità d’autorganizzazione in forma di sussidiarietà orizzontale (artt. 2 e 118 u.c. Cost.)”. Sugli spazi comuni urbani, sussidiarietà, gruppi intermedi e prospettive di solidarietà, si rinvia a M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 3 ss. Parla di “triangolazione necessaria” tra sussidiarietà, beni comuni e solidarietà, anche in riferimento ai beni comuni urbani, G. Micciarelli, Il triangolo necessario: sussidiarietà, beni comuni e solidarietà, in Diritto e futuro dell’Europa. Contributi per gli workshop del XXXI Congresso della Società Italiana di Filosofia del Diritto (Bergamo, 13-15 settembre 2018), 2020, p. 327 ss.
[6] Sul rapporto tra l’art. 24, d. l. n. 133/2014, conv. con mod. in l. n. 164/2014 e l’art. 190 d. lgs. n. 50/2016 e sui problemi applicativi derivanti dalla vigenza di entrambe le norme si rinvia a S. Villamena, “Baratto amministrativo”: prime osservazioni, in Riv. Giur. Edil., fasc. 4, p. 379 ss.
[7]“L’accenno alla deliberazione degli enti territoriali – che debbono prevedere criteri e condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale – richiama quanto disposto dalla legge generale sul procedimento amministrativo in Italia (l. 7 agosto 1990, n. 241, art. 12) e dai principi costituzionali (art. 97, Cost.), dai quali si ricava che l’assegnazione di qualsiasi vantaggio è sottoposta ai principi di trasparenza, imparzialità e non discriminazione, i medesimi principi che sono alla base della disciplina europea sugli appalti e concessioni pubbliche”, R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti e doveri di solidarietà, in E. Michelazzo, R. Albanese, Manuale di diritto dei beni comuni urbani, Torino, p. 277. Il saggio, poi ripreso e modificato, era apparso su Dir. Amm., fasc. 4/2018.
[8] Art. 190 D. Lgs. n. 50/2016.
[9] Art. 24 d. l. n. 133/2014, conv. con mod. in l. n. 164/2014. Sulla nozione di territorio urbano si veda B. Graziosi, Il problema degli standard urbanistici “differenziati” e gli interventi di rigenerazione urbana nel territorio urbanizzato, in Riv. Giur. Edil., 1 dicembre 2018, fasc. 6, p. 529 dove afferma che “si tratta del “perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità e i lotti interclusi”. Sul recupero e la rigenerazione urbana nell’esperienza comparata si rinvia a G. Guzzardo, La regolazione multilivello del consumo del suolo e del riuso dell’abitato, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario., fasc. 1, 1 febbario 2018, p. 118 ss.
[10] Sul tema: AA. VV., La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, a cura di F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, 2018. In specie sulla rigenerazione dei beni e spazi urbani si veda F. Giglioni, La rigenerazione dei beni urbani di fonte comunale in particolare confronto con la funzione di gestione del territorio, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, cit., p. 225.
[11] Sui beni comuni, sui quali si è formata copiosissima letteratura, si rinvia qui per tutti, senza alcuna pretesa di esaustività, a: E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, 2006 e S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, ed. 1990, p. 469 ss.; Id., Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012.
[12] T.A.R., Napoli, sez. I, 9 gennaio 2019, n. 125 ha tuttavia chiarito espressamente che il privato non può “sostituirsi alla amministrazione senza il consenso di quest’ultima”, nel caso di specie sulla possibilità dello smaltimento dei rifiuti alternativo a quello comunale che “non può essere frutto di un’iniziativa privata”. Si rinvia sul punto a M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 787 ss., dove afferma che “è diffusa la considerazione del fallimento dello stesso tradizionale sistema della pianificazione, in ragione della sua unilateralità, della inadeguatezza dell’iniziativa ma anche delle risorse finanziarie pubbliche, della mancata realizzazione di interventi da parte dei privati, ove non condivisi”.
[13] In questi termini Cons. Stat., 1 aprile 2016, parere n. 855 sullo Schema di decreto legislativo recante il “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”. Nel parere si afferma anche che “il Consiglio di Stato raccomanda al Governo di valutare con cautela l’opportunità di prevedere in termini generali che le pubbliche amministrazioni possano ricorrere a ppp atipici, rimettendo tutti i livelli di progettazione al partner privato. Siffatta possibilità, se consentita senza puntuali confini, rischia di tradire uno dei principi ispiratori della riforma, quello della separazione tra chi progetta e chi realizza le opere”. Secondo alcuni “il termine ‘baratto’ amministrativo svilisce l’orientamento del bene comune degli interventi proposti dal privato all’Amministrazione, connotando in termini riduttivi la portata di questa collaborazione”, cit. M. Renna, V.M. Sessa, Art. 190, in Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, (a cura di) G.M. Esposito, vol. II, Milano, 2017, p. 2232.
[14] “Restano ferme le disposizioni recate dall’articolo 43, commi 1, 2, e 3 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, in materia di valorizzazione e incremento del patrimonio delle aree verdi urbane”, art. 189, co. 6 Codice contratti pubblici.
[15] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto, deliberazione n. 313/2016.
[16] Si segnalano, qui, ad esempio, il patto di collaborazione “Questa aiuola non fa più pietà”, tra il Comune di Trento e Anffas Trentino Onlus e il patto di collaborazione per la realizzazione di attività e di interventi manutentivi nell’area verde, tra il Comune di Siena e il “Comitato Siena 2 – Cittadini attivi e Associazioni per i Beni Comuni” Associazione Onlus.
[17] M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, fasc. 1, p. 226. Si è detto che “nella dottrina pubblicistica italiana l’uso del termine partecipazione sembra ancora più complesso: non ha solo una funzione descrittiva di comportamenti reali né ha solo una funzione valutativa; esiste anche un’accezione che si potrebbe definire impropriamente «dogmatica»: il termine viene riferito agli istituti giuridici per accertare se essi possano o meno essere classificati come fenomeni dell’idea di partecipazione”, così F. Levi, Partecipazione e organizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 4/ 1977, p. 1623. Il legislatore degli anni Settanta in una legge finalizzata espressamente a “promuovere la partecipazione popolare alla gestione amministrativa delle comunità locali” (Legge 8 aprile 1976, n. 278, art. 1), la definiva come “estrinsecazione del principio di partecipazione”, così E. Casetta, La partecipazione dei cittadini alla funzione amministrativa nell’attuale ordinamento dello Stato Italiano, in La partecipazione popolare alla funzione amministrativa e l’ordinamento dei consigli circoscrizionali comunali, in Atti del XXII Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Varenna, 23-25 settembre 1976, Milano, 1977. Già nel 1980 si osservava “la sempre più diffusa consapevolezza dell’insufficienza «democratica» della democrazia «costituita», «organizzata», e la avvertita necessità di contrastare l’inesorabile processo verso la centralizzazione delle grandi scelte, anzitutto di quelle economiche, e verso la connessa progressiva burocratizzazione e tecnicizzazione degli apparati (in primo luogo degli apparati pubblici), tentando di reintrodurre, nella macchina collettiva, l’uomo nella sua singolarità o nelle aggregazioni sociali immediate; da un’altra, la ricerca di strumenti di compensazione della insufficienza delle tutele giurisdizionali nei confronti di quegli apparati [...]”, così M. Nigro, Il nodo della partecipazione, cit., pp. 225-226.
[18] F. Levi, in op. cit., p. 1977: “Conviene quindi chiedersi in primo luogo quali contenuti vengano attribuiti al concetto di partecipazione; in secondo luogo quali valori sottostiano al concetto di partecipazione; in terzo luogo come sia corretto intendere la partecipazione; in quarto luogo come il nostro sistema giuridico consideri la partecipazione; infine quali giudizi di valore e quali previsioni nel futuro si possano tentare”, p. 1626
[19] Cit., M. P. Chiti, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977, p. 39.
[20] Sull’iniziativa del privato in riferimento ad immobili degradati o in disuso si rinvia a M. Roversi Monaco, Il Comune, amministratore del patrimonio edilizio inutilizzato, in Riv. Giur. Edil., fasc. 5, 2016, p. 541 ss dove sottolinea che “non solo i privati vengono coinvolti su iniziativa dall'amministrazione, ma spesso accade il contrario, anche perché chi avverte l’esigenza di interventi di questo tipo è la comunità che vive a contatto con i beni in disuso o in stato di degrado: questo è dunque un caso esemplare di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale”.
[21] Sul punto si rinvia a R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti di libertà e doveri di solidarietà, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 839.
[22] Sul punto è interessante l’analisi delle delibere comunali; ad esempio, l’art. 3, lett. b), Principi generali Delibera n. 34 del 9 ottobre 2018 del Consiglio comunale di Trevignano Romano, Città metropolitana di Roma Capitale: “l’Amministrazione garantisce la massima conoscibilità delle opportunità di collaborazione, delle proposte pervenute, delle forme di sostegno assegnate, delle decisioni assunte, dei risultati ottenuti e delle valutazioni effettuate. Riconosce nella trasparenza lo strumento principale per assicurare l’imparzialità nei rapporti con i/le Cittadini/e e la verificabilità da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati delle azioni svolte e dei risultati ottenuti”. Il regolamento citato distingue tra patti di collaborazione semplici e patti di collaborazione complessi. La necessità della massima diffusione e pubblicità delle forme di collaborazione è espressamente richiamata anche nell’oggetto e nelle finalità della recente legislazione regionale sopra richiamata. La Regione “promuove l’amministrazione condivisa dei beni comuni, mediante forme di collaborazione tra l'amministrazione regionale e gli enti locali e i cittadini attivi, finalizzate alla cura, alla rigenerazione e alla gestione condivisa degli stessi, dandone massima diffusione e pubblicità”, art. 1 Legge regionale Lazio del 26 giugno 2019.
[23] Cons. Stat., 1 aprile 2016, parere n. 855.
[24] Corte conti, sez. reg. controllo, Emilia-Romagna, deliberazione n. 27/2016 su quesito presentato dal Comune di Bologna.
[25] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto, deliberazione n. 313/2016, su quesiti presentati dal Comune di Comune di Lonigo.
[26] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto deliberazione n. 313/2016.
[27]Corte conti, sez. reg. controllo Veneto deliberazione n. 313/2016. Sulla motivazione e la legittimazione del potere si rinvia a A.R. Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, Milano, 1987 e, poi, a G. Corso, Motivazione degli atti amministrativi e legittimazione del potere negli scritti di Antonio Romano Tassone, in Dir. Amm., fasc. 3, p. 563 ss., specie in riferimento alla questione del “come motivare” e alla diversa lettura della funzione attribuita alla motivazione (che per A.R. Tassone sarebbe strumento di controllo del potere, mentre per G. Corso si fonderebbe sul principio liberale piuttosto che su quello democratico). Sulla motivazione, specie in rapporto alla discrezionalità tecnica si rinvia a A. Cioffi, Motivazione del provvedimento, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, pp. 218 ss., e, ivi richiamato, sulla discrezionalità tecnica, P. Lazzara, voce Discrezionalità tecnica, in Dig. disc. pubbl., Agg., IV. Torino 2010.
[28] L’art. 179 (Disciplina comune applicabile) stabilisce che “Alle procedure di affidamento di cui alla presente parte si applicano le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI, in quanto compatibili”. Sul punto si veda il saggio di R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti e doveri di solidarietà, in Manuale di diritto dei beni comuni urbani, cit., p. 279, dove osserva che “La gara s’impone ogni qualvolta vi sia una contesa tra produttori (mercato) diretta a selezionare un’esclusiva di produzione a favore di chi vi abbia un interesse economico (regole di concorrenza). Non così ove si tratti di un’attività solidale, poiché, se vi è cooperazione nella soddisfazione dei bisogni sociali, si nega ogni esclusiva ed è normale che il prestatore ottenga al più un contributo a copertura dei costi di produzione”.
[29] Sul governo del territorio urbano e la rigenerazione degli spazi urbani si vedano: M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, 3; F. Giglioni, La rigenerazione dei beni urbani di fonte comunale in particolare confronto con la funzione di gestione del territorio, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, p. 209.
[30] Corte Conti, sez. reg. controllo Emilia-Romagna, deliberazione n. 27/2016.
[31] Legge regionale del Lazio, 26 giugno 2019.
[32] Art. 8 legge regione Lazio. Sulle differenze e analogie tra patto di collaborazione e baratto amministrativo si rinvia al Manuale di diritto dei beni comuni urbani, cit., p. 119.
[33] Art. 8 co. 1 Legge regionale 26 giugno 2019. La normativa richiamata appare interessante sia per le molteplici definizioni offerte, sia per la previsione della procedura di adozione di un “regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni e linee guida per l’adozione da parte degli enti locali dei rispettivi regolamenti”.
[34] Art. 6 co. 1 lett. b.
[35] Delibera del Comune di Todi (n. 4/2019), recante approvazione del regolamento per l’applicazione del baratto amministrativo.
[36] Delibera del Comune di Vobarno (n. 145/2016) - applicazione dell’art. 24 del d. l. 12.09.2014, n. 133 c. d. “baratto amministrativo” convertito in legge n. 164 del 11.11.2014 – approvazione criteri e condizioni.
[37] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto, deliberazione n. 313/2016. L’art. 179 (Disciplina comune applicabile) stabilisce che “Alle procedure di affidamento di cui alla presente parte si applicano le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI, in quanto compatibili".
[38] E. Michelazzo, R. Albanese, Manuale di diritto dei beni comuni urbani, cit., p. 120.
Verso quale riforma della magistratura onoraria? di Giulio Nicola Nardo
Sommario: 1. Premessa - 2. Ufficio del processo e Ufficio del Giudice - 3. Necessità di una disciplina del rapporto di lavoro - 4. Ipotesi di riforma dell’organico della magistratura onoraria.
1. Premessa
Da tempo si assiste ad una serie di tentativi di interventi normativi di sistemazione organica dei ruoli della magistratura c.d. onoraria che dovrebbero inserirsi nell’ottica di una riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario e del sistema di funzionamento dell’ufficio del Giudice.
Ciò induce chi scrive a brevi riflessioni, volutamente non tecniche, ma decisamente orientate ad unirsi al gruppo - sempre più numeroso - di chi è per nulla soddisfatto dell’“anima” che emerge dai vari testi di legge che circolano e che sono già alle prime letture dei legiferanti.
Per vero, all’occhio di un attento lettore dei testi che, dalla c.d. legge Orlando arrivano ai recenti testi di legge depositati - da ultimo quello delle senatrici di maggioranza Valente ed Evangelista - si evidenzia un legislatore (consapevolmente?) miope che naviga quasi a vista e senza una precisa rotta che abbia quale orizzonte un organico disegno riformatore, così fornendo una definitiva risposta non tanto e non solo ai magistrati onorari – che nessuno, tanto meno a seguito dell’intervento della Corte di giustizia europea del 2020 [1] si può più permettere di non qualificare come lavoratori - ma a chi della Giustizia si serve, ossia a tutti coloro che chiedono l’intervento del giudice per la tutela giurisdizionale dei propri diritti.
Ed allora una seria e scrupolosa riforma della giustizia, e con essa della esatta regolamentazione del ruolo anche della magistratura onoraria dovrebbe, da un lato, essere pensata ed attuata nel rispetto della tutela dei diritti dei medesimi quali lavoratori, con ogni connessa guarentigia previdenziale ed assistenziale; dall’altro, non ammettendo ulteriori ritardi o, ancora peggio, interventi disomogenei di chirurgia nell’organico dei ruoli della magistratura nei quali, a giusto titolo, vanno collocati i giudici onorari, che nel corso degli anni hanno dato dimostrazione di competenza, indipendenza e terzietà, in ossequio ai principi costituzionali di cui all’art. 111 Cost.
Se così è, come è evidente che sia, l’utente finale, ossia il consumatore (sia consentito il termine assolutamente atecnico, ma efficace) del servizio giustizia ha il diritto di porsi alcune domande alle quali il legislatore deve fornire risposte chiare e non ambigue, come invece avviene a causa di una legislazione fortemente tecnocratica elaborata nelle sconosciute e ombrose stanze ministeriali; ovvero ancora, come si evince dalla lettura del recente testo normativo all’esame della Commissione Giustizia del Senato, fornendo risposte di scarsa lungimiranza caratterizzate da evidente precarietà, assolutamente non idonee a licenziare una legge che segni il punto di arrivo di un sistema di organizzazione della giustizia moderno e davvero efficiente.
2. Ufficio del processo e Ufficio del Giudice
Vi è, allora da chiedersi: il legislatore ha veramente interesse ad una compiuta regolamentazione del rapporto di lavoro - da intendersi quale diritto al lavoro, e non (nell’accezione zaloniana) del “posto fisso” - e, più in generale, a dare adeguata soluzione alla incresciosa precarietà di una categoria alla quale ha comunque da anni delegato l’esercizio del potere giurisdizionale e che, per vero, viene esercitato con uguale dignità dei giudici togati? Oppure è intenzionato ad intervenire con il sistema del “tagli e cuci”, dunque rattoppando alla meno peggio – pur rappresentandolo magari come il meglio possibile - tale situazione? Non è questa la occasione per dare una compiuta regolamentazione a quello che si potrebbe chiamare Ufficio monocratico del Giudice di pace nel quale far confluire anche gli attuali giudici onorari?
Le domande alle quali il legislatore è chiamato a dare risposta organica e omogenea sono dunque varie e tra esse, ritengo fondamentale, la seguente: i magistrati onorari sono (ancora) magistrati o il legislatore vuole declassarli a collaboratori del giudice togato? La prima risposta che forniscono i testi normativi in esame, è tutta protesa nella direzione di non riconoscere più ai medesimi alcuna funzione giurisdizionale autonoma, per come fatto fino ad ora, ma di relegarli – quindi degradandoli quasi a mo’ di bocciatura – verso funzioni secondarie esecutive e sfruttando così una vera e propria “forza lavoro” (ci si scusa per il termine ma si precisa che lo si utilizza nel senso più nobile e vero, ossia che i magistrati onorari sono una Forza lavoro ormai imprescindibile per il (seppur ancora non efficiente) funzionamento del sistema giudiziario). Al contrario, una disciplina che abbia quale fine l’efficienza del processo e dunque una legislazione per il processo e non contro il processo[2] deve confermare la piena titolarità delle funzioni giurisdizionali dei giudici onorari, intervenendo sulla distribuzione della competenza ratione materiae e, in subordine, per valore, elevando e non, come si legge ora nei testi in esame, abbassando la soglia della competenza per valore.
Dunque la vera risposta, senza alcuna pretesa di completezza, dovrebbe essere quella di mantenere la piena titolarità in capo ai magistrati onorari di una serie di materie, specificamente individuate e peraltro da sempre dagli stessi trattate anche a volte in via esclusiva, nell’ottica di un loro accorpamento nell’istituendo Ufficio monocratico di Pace, che tratterebbe una serie di cause rispetto alle quali viene mantenuta una competenza per materia (si pensi alle cause già di competenza del giudice di pace, alle quali potrebbero essere assegnate altre cause da individuare), ed altre in ragione del valore delle medesime, da quantificarsi in misura non inferiore ad almeno centomila euro.
Nell’ottica, poi, di una completa riorganizzazione della magistratura onoraria nell’Ufficio del giudice monocratico di pace (o “minore”, o come lo si vorrà battezzare, visto che, tale progetto era già parte della legge delega n.57/2016 art. 1 comma 1 lett a), non va dimenticato che vi sono Ddl[3] attualmente depositati in commissione giustizia Senato che prevedono espressamente un accorpamento dei magistrati onorari con i giudici di pace: in tal modo si potrebbe concretamente assicurare un adeguato funzionamento di un servizio giustizia, per così dire “minore” (inteso non in ragione della tipologia dei diritti in sé, ma per il loro riflesso sulla collettività in generale). Infatti, si creerebbe così un “Ufficio del giudice di pace” ben strutturato che unisca le ormai consolidate competenze dei magistrati laici (di pace e onorari), con piena dignità giurisdizionale degli stessi e sgravio per il Tribunale. Si valorizzerebbe l’ufficio del giudice minore (laico) monocratico di prima istanza per la tutela giurisdizionale di diritti (non lo si dimentichi) in modo ben strutturato nel territorio nazionale.
Non sarebbe forse più efficiente questa collocazione dei ruoli della magistratura monocratica laica, piuttosto che collocare i non più giovani – nel senso però di più esperti – magistrati onorari nell’ufficio del processo o nell’ufficio di collaborazione del procuratore così come ad oggi strutturato, diretto dal solo magistrato togato? Non sarebbe più corretto qualificarli come giudici monocratici laici piuttosto che inquadrarli quasi come stagisti, ossia quella nota categoria (che storicamente riguarda i giovani laureati) grigia e assolutamente precaria di chi viene collocato in un qualsiasi ufficio con poche competenze, con incerto futuro e soprattutto con un non definito ruolo, se non quello di ricerca e di collaborazione con il titolare, con assoluta confusione riguardo ai rapporti (gerarchici?) tra gli stessi?
In conclusione, la riforma della già recente ed ahimè fallimentare “riforma Orlando”, che attualmente emerge dai testi normativi al vaglio della Commissione giustizia del Senato, non soddisfa nessuno, perché non funziona e non darà adeguate risposte. Non modifica affatto, in particolare, il fantomatico ufficio del processo, o meglio l’ufficio del Giudice, il quale meriterebbe per esempio una struttura che preveda sempre presente - per davvero - un assistente di cancelleria, un segretario, un tecnico informatico e almeno due uditori giudiziari che in un lasso di tirocinio che non dovrebbe essere inferiore a due anni, prima di una loro assegnazione autonoma ad un nuovo ufficio di cui diventeranno titolari, assicurino al giudice quel supporto nella ricerca e nello studio dell’oggetto della controversia, (essendo in ciò maggiormente proiettati in ragione dei più recenti e freschi studi) e nella prima stesura di una minuta.
Occorre, pertanto, una riforma organica della magistratura onoraria che tenga conto della vita reale nei tribunali e del ruolo concretamente svolto dalla stessa.
3. Necessità di una disciplina del rapporto di lavoro
I magistrati onorari sono lavoratori e come tali il loro rapporto di lavoro merita una compiuta regolamentazione?
Il presente quesito, per vero, ha già tracciata la sua risposta dalla recente pronuncia della Corte di giustizia dell’unione europea[4], nuovamente adita, recentemente dal Tar Emilia-Romagna[5] e dal Tribunale di Vicenza[6]. Il primo, in particolare, chiede oltre all’accertamento dello status giuridico di pubblico dipendente, del magistrato onorario, nell’ambito del Ministero della Giustizia, “la ricostruzione della posizione giuridica, economica, assistenziale e previdenziale, in riferimento oltre che alle direttive 1999/70 e 2003/88 anche alle direttive n. 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale (clausola 4) e n. 2000/78/CE (art. 1, 2 comma 2 lett. a) in tema di parità di trattamento, oltre che agli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Il TAR ritiene, inoltre, necessario da parte della Corte Europea, un più approfondito esame delle funzioni concretamente esercitate dal giudice di pace nell’ambito dell’ordinamento nazionale, sussistendo altrimenti il rischio pressoché certo di determinare un margine di apprezzamento eccessivamente ampio da parte del giudice nazionale in uno con l’elusione dell’effetto utile delle direttive evidenziate. Considera, infine, l’esigenza fondamentale che “la nozione di lavoratore non possa essere interpretata in modo da variare a seconda degli ordinamenti nazionali” (punto 88) e che siano evitate disparità di trattamento (non solo come detto con i magistrati c.d. togati ma anche con l’intera categoria dei lavoratori dipendenti pubblici) non giustificate da “ragioni oggettive” ai sensi della clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale.
È evidente, pertanto, come gli organi giurisdizionali, aditi, (Corte di Giustizia dell’unione europea, TAR e Tribunale lavoro), si siano già orientati in modo inequivocabile verso quel riconoscimento che oggi, a noi studiosi del diritto, appare improcrastinabile. Ecco proprio sulla base di tale dettato, che ha in sé il conforto della autorevolezza della pronuncia, ma ancor prima dalla primaria collocazione all’art. 1 della nostra Costituzione italiana del diritto al lavoro, occorre che il legislatore non continui a perseverare in modo diabolico immaginando una regolamentazione del rapporto di lavoro dei magistrati onorari a “macchia di leopardo”, ossia non riconoscendo i diritti di base di qualsiasi lavoratore (previdenza, assistenza, retribuzione adeguata) e, aggravando la stessa con previsione di svolgimento del lavoro entro un “monte ore”, che, peraltro, mal si concilia con lo svolgimento della funzione giurisdizionale.
Ma davvero si può immaginare, e ancora peggio sopportare, che un legislatore assegni ai magistrati onorari – finanche collocandoli nell’ufficio del processo – un limite di orario di lavoro con previsione cadenzata di giorni settimanali propri di un part-time meramente esecutivo e di svolgimento di mansioni di mera segretaria di secondaria funzione? E’questa la migliore collocazione dei magistrati onorari nei ruoli della magistratura per assicurare il più efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale che intende assicurare all’utente il nostro legislatore? O è - come è evidente - un malcelato tentativo di rattoppare all’italiana un rapporto di lavoro che diventerà sempre più ibrido e sciatto, sia sotto l’ottica giuslavoristica che di organizzazione del sistema giudiziario?
L’impressione è che il legislatore di turno opti consapevolmente per la seconda soluzione, tuttavia prospettandola come l’unica possibile in ragione del solito compromesso [per vero, al ribasso] tra le forze politiche le quali nemmeno di fronte alla generale domanda di una legislazione sulla Questione Giustizia che unisca - piuttosto che dividere - le varie anime politiche del governo e dell’opposizione, trova la soluzione più apprezzabile: quello che emerge è che in tal modo all’indomani del battesimo dell’ennesima legge di riforma della giustizia, salutata (da chi poi?) come la compiuta riforma della magistratura onoraria, i più attenti e scrupolosi interpreti e commentatori della legge, e più in generale gli operatori della giustizia, avvocati e parti, oltre che, indubbiamente la magistratura togata[7] più attenta e sensibile al buon funzionamento della giustizia – peraltro cristallizzata anche in pronunce della Cassazione [8] - che abbia avuto modo di apprezzare la fondamentale presenza dei magistrati onorari nello svolgimento della funzione e in termini più pratici nello smaltimento dei fascicoli infiniti giacenti nei tribunali, inevitabilmente qualificheranno come inutile, improduttiva e da riformare nuovamente, siccome evidentemente lacunosa (anche) nella parte riguardante il mancato riconoscimento dei diritti previdenziali ed assistenziali dei medesimi, e inevitabilmente proiettata verso censure di incostituzionalità.
A ciò va ad aggiungersi che l’attuale situazione determinata dalla pandemia, mal si concilia con la previsione del testo di maggioranza a firma delle senatrici relatrici Valente e Evangelista - ora all’esame della Commissione giustizia del Senato - posto che nel testo in questione rimane ancora la mancata previsione di qualsivoglia forma previdenziale ed assistenziale nonché il riconoscimento di una vera retribuzione da corrispondere anche in caso di assenza per malattia o altro così come riconosciuto a qualsiasi lavoratore. E allora, sorge spontaneo chiedersi dove sia lo Stato italiano per quei magistrati onorari risultati positivi al Covid-19 e privi, per volontà anche politica di qualsivoglia tutela assistenziale e sanitaria.
A ciò si aggiunga che con la legge n. 77 del 17 luglio 2020 di conversione del c.d. decreto legge Rilancio del 19 maggio 2020 n. 34, è stato prorogato il periodo emergenziale al 31 ottobre 2020 e modificato l ’ art. 83 comma 7 lett. h), riconoscendo al giudice la possibilità di disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti "siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni". E’ chiaro che tale attività non più qualificata come udienza proprio dal legislatore, forse frettoloso, forse inesperto o forse incomprensibilmente contrario alla categoria di cui si discute, non potrà essere svolta dal magistrato onorario in quanto non consentirà la corresponsione della prevista indennità a cottimo. Tale inopportuna modifica legislativa, ha obbligato ad oggi i magistrati onorari ad accettare il rischio di contagio, peraltro assai elevato nell’attuale periodo di recrudescenza della pandemia, continuando a tenere udienza in presenza, coinvolgendo nel rischio gli avvocati e le parti processuali. E’ chiaro che il legislatore non possa chiedere a qualcuno di prestare la propria attività lavorativa gratuitamente, né è ammissibile che dei lavoratori, che svolgono funzioni giurisdizionali, debbano mettere a repentaglio la propria salute e quella di chi è costretto a partecipare alle udienze in presenza, a causa di un'improvvida disposizione normativa. Essa peraltro, appare assolutamente discriminatoria rispetto ai magistrati ordinari i quali possono, infatti, svolgere le udienze cartolari da remoto, mentre ai giudici onorari viene chiesto “lo sforzo” di presenziare in udienza: evidente è dunque la inaccettabile disparità di trattamento oltre che tra i giudici – ordinari ed onorari – più in generale della gestione delle fasi del processo, a seconda se questo si svolga davanti al giudice onorario o togato.
Ciò anche nella previsione - a causa della detta pandemia la cui durata nessuno è in grado di collocare in un preciso e definitivo termine e che comunque ha già modificato l’ordinario svolgimento del processo civile - che, verosimilmente, il futuro ormai prossimo o probabile del processo civile sia quello della prevalenza della trattazione scritta piuttosto che in presenza, certamente limitata a quelle fasi in cui ciò sia possibile (esclusa all’evidenza, l’assunzione delle prove testimoniali, o le ipotesi in cui le parti o il giudice richiedano lo svolgimento della udienza in presenza per discussione).
4. Ipotesi di riforma dell’organico della magistratura onoraria
A conclusione della presente riflessione ci si permette di fornire qualche proposta di riforma nel tentativo di dare un contribuito per una più organica riforma maggiormente orientata verso una complessiva e più ottimale strutturazione della Magistratura onoraria.
Credo che in questo momento in cui da più parti si cerca di sensibilizzare il legislatore verso una adeguata regolamentazione dei giudici onorari, si possa cogliere l’occasione per giungere ad una disciplina che appunto preveda:
a) riconoscimento dei magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017 quali magistrati appartenenti ad un Ufficio del Giudice c.d. minore, monocratico, attraverso una legislazione che ne preveda il loro inserimento a seguito di concorso per titoli e colloquio, con un numero di posti a concorso pari al numero dei magistrati onorari già in servizio;
b) inserimento dei magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017, nell’Ufficio del Giudice pace, creando dunque un Ufficio monocratico minore di primo grado, con un considerevole aumento della pianta organica di tale Ufficio che nel tempo ha dato prova di adeguato funzionamento e con un miglioramento anche qualitativo, attesa la competenza e l’esperienza maturata dai giudici onorari;
c) attribuzione di specifica competenza per materia al nuovo Ufficio e determinazione della competenza per valore almeno fino a 100mila euro;
d) regolamentazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno - e non più a tempo determinato - di tutti i magistrati appartenenti al costituendo Ufficio del giudice monocratico minore con previsione di stipendio adeguato, e previsione di tutti i diritti previdenziali ed assistenziali propri di un dipendente della pubblica amministrazione appartenente al ruolo della Magistratura;
e) mantenimento all’interno del Consiglio superiore della Magistratura di una Sezione specifica e con la istituzione di una Commissione che si occupi della carriera del Giudice monocratico minore, relativamente ad ipotesi di responsabilità disciplinare, dell’obbligo di formazione ed aggiornamento professionale;
f) cancellazione da albi professionali e divieto di partecipazione a attività politiche o sindacali, se non previa collocazione in aspettativa o fuori ruolo dall’ organico della magistratura, con conseguente ricongiunzione e ricostruzione della posizione previdenziale del magistrato onorario rispetto al pregresso esercizio della funzione a carico dello Stato;
g) digitalizzazione del sistema operativo della Giustizia per la più efficiente gestione dei processi e dei servizi ausiliari di cancelleria, attingendo dai finanziamenti europei.
Queste, ben inteso, sono solo ipotesi di proposte che certo potrebbero avere una forte ricaduta in termini anche economici per lo Stato, ma ciò non può e non deve essere un freno anche in considerazione di alcuni aspetti specifici. Si valuti, infatti, la possibilità per ogni singolo magistrato onorario, anche alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia dell’unione europea, di ricorrere giudizialmente contro lo Stato Italiano per il riconoscimento dei diritti maturati in riferimento alla propria dichiarata posizione di lavoratore subordinato. Si pensi allo tsunami giudiziario che ne deriverà. Si pensi a quanto lo Stato italiano pagherà in termini di risarcimento dei danni, differenze retributive, ferie non pagate, previdenza non corrisposta e quant’altro collegato, per 5300 magistrati onorari attualmente in servizio. Buona parte di tali ricorsi sono già al vaglio del Giudice nazionale, altri stanno per essere depositati.
Chi pagherà tali ingenti somme a cui lo Stato italiano potrebbe essere condannato? La risposta è fin troppo evidente, e per nulla accettabile: il cittadino!
Tutto ciò potrebbe essere ancora evitato grazie ad una riforma organica della magistratura onoraria maggiormente equa.
La proposta formulata ha in sé una visione più organica della riforma della magistratura onoraria e da questa potrebbe prendersi lo spunto per una complessiva regolamentazione di tale categoria: credo che le sintetiche indicazioni esposte possano esser ancor meglio valorizzate e fatte proprie dal legislatore, con una disciplina che sarebbe più completa ed efficace così favorendo un’efficiente organizzazione della Giustizia.
In conclusione ritengo che l’ipotesi di una un’unitaria collocazione dei magistrati onorari nell’ufficio del Giudice di pace (che potrebbe definirsi Giudice monocratico minore) e, come detto, con previsione di un ben definito perimetro di competenza per materia e valore, da un lato, strutturerebbe meglio l’Ufficio del Giudice di pace, e dall’altro, “libererebbe” il giudice togato da competenze (per materia e valore) riguardanti cause di impatto socio-economico più contenuto e minore, ma che, statisticamente, sono più frequenti e certamente non meno importanti e meritevoli di adeguata tutela giurisdizionale in tempi più rapidi, che il costituendo Ufficio potrebbe meglio assicurare.
Ma la amara conclusione è che così come viene prospettata, allo stato attuale, dal testo di legge di maggioranza all’esame della Commissione giustizia del Senato, questa è una riforma del ruolo della Magistratura onoraria che nessuno di Noi si attende, e che nessuno merita.
Ma, di fronte ad un legislatore che è, all’evidenza, un navigatore a vista, viene solo da concludere che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
[1] Al riguardo è fondamentale il dictum assolutamente innovativo della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, di cui si dirà meglio alla nota n. 5.
[2] Come efficacemente ha scritto, SCARSELLI, La riforma della magistratura onoraria: un ddl che mira ad altri obiettivi e va interamente ripensato, in Quest. Giust. on line, dal 13 luglio 2015.
[3] Si veda Ddl n. 1582 a firma del senatore Balboni e Ddl n. 1516 a firma del senatore Iwobi.
[4] Cosi Corte di giustizia europea del 16 luglio 2020 [causa C-658/18], secondo cui un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di lavoratore ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. La Corte ha, inoltre, specificato che “…la nozione di lavoratore a tempo determinato contenuta in tale disposizione può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
[5] Tar Emilia-Romagna ord. n. 644 del 2020.
[6] Trib. Vicenza, ordinanza del 29.10.2019 [R.G. 1028/2017], per il quale:” “La figura del magistrato onorario, originariamente concepita, come si è illustrato, come di mero supporto al magistrato togato, si è profondamente evoluta negli anni, per sopperire ad esigenze concrete connesse alla carenza di organico nei Tribunali. Attualmente i GOT trattano circa un terzo dei dibattimenti monocratici in Tribunale e delle udienze civili, avendo la titolarità di ruoli propri ed emettendo un numero elevato di provvedimenti che contribuiscono sensibilmente all’innalzamento della produttività. Essi, inoltre, integrano il collegio nei casi di necessità, fornendo un apporto spesso indispensabile per la trattazione effettiva dei processi collegiali (come risulta dalla circolare CSM 19.01.2016).
[7] Ci si riferisce al documento firmato dai Presidenti dei Tribunali sottoscritto in data 21 febbraio 2020. “attualmente i giudici onorari di tribunale, secondo le previsioni tabellari, sia nel settore civile che in quello penale gestiscono ruoli autonomi, trattando milioni di cause che diversamente si riverserebbero sui giudici ordinari, dando un contributo importante allo smaltimento degli affari”. Concludono, quindi, “invitando le Autorità in indirizzo a perseguire ogni possibile iniziativa legislativa che: consenta, riformando l’attuale previsione normativa dell’UpP, il mantenimento delle attuali funzioni giudiziarie in capo ai giudici onorari in servizio, con possibilità di gestire ruoli autonomi, secondo le previsioni tabellari predisposte dai capi degli Uffici, in base alle specifiche esigenze degli stessi, nel contesto della unicità di categoria tra gdp (giudici di pace) e got (giudici onorari di tribunale); abroghi ogni limitazione all’impiego dei magistrati onorari nei collegi civili e penali, oggi prevista dall’art.12 e dall’art.13 d.lgs.116 del 2017 con riferimento al complessivo carico di lavoro degli uffici giudiziari o alle vacanze di organico; elimini il rigido limite (attualmente previsto nel d.lgs.n.116/2017) dei due/tre impegni settimanali, che appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti, e preveda un consequenziale adeguamento economico.
Ma si veda, anche l’A.N.M., in data 6 aprile 2019, che non ha mancato di osservare come “destano perplessità e preoccupazione le proposte avanzate dal ministero in merito ai limiti temporanei di impiego della magistratura onoraria requirente e giudicante. La proposta presentata, infatti, limita tale impiego in tre impegni settimanali, stabilendo la corrispondente retribuzione. Tuttavia, tale rigido limite appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti per l’indisponibilità di magistrati onorari impiegabili con limitazioni così anguste ed inadeguate. L’ANM rivolge un appello al Ministro della Giustizia affinché, in sede di redazione dell’articolato normativo, ampli l’oggetto delle materie delegabili in coerenza con quanto già stabilito e aumenti la soglia limite prevista per l’impiego settimanale dei magistrati onorari, prevedendo il corrispondente incremento retributivo, onde prevenire il blocco della trattazione di numerosissimi procedimenti e l’impossibilità di celebrare le udienze che conseguirebbero all’entrata in vigore della riforma così come prospettata”. Ancora, si segnala che “da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo alla giurisdizione, in assenza di un’adeguata tutela previdenziale ed assistenziale” (Associazione Nazionale Magistrati, documento GEC del 22 aprile 2017), e il loro impiego “costituisce una misura apprezzabile nell’ottica di un’efficiente amministrazione della giustizia ex artt. 97 e 111 Cost.”.
[8] (Cass. 4 dicembre 2017, n. 28937, secondo cui “i giudici onorari – sia in qualità di giudici monocratici che di componenti di un collegio – possono decidere ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, come si evince dall’art. 106 Cost.”)
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