ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Spese di giudizio e poteri del giudice amministrativo: la condanna forfettaria.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo. – 2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese. – 3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati. – 4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato. – 5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo.
Le spese di giudizio, nella loro accezione più ampia, ricomprendono tutti quegli esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo di un processo. In base ad una ricostruzione funzionale elaborata dalla dottrina, i costi del processo amministrativo possono essere suddivisi in tre diverse categorie: i costi necessari (contributo unificato), quelli normali (per lo più costituiti dai compensi dei legali) e quelli eventuali (spese aggravate, sanzione pecuniaria, astreinte)[1].
Tali tipologie di spese assolvono a funzioni differenti: il contributo unificato serve a finanziare il funzionamento dei tribunali, i compensi agli avvocati servono a garantire il diritto di ciascuno a difendersi in giudizio, mentre le sanzioni per i comportamenti processuali illeciti o comunque abusivi servono a punire i responsabili degli stessi e ad evitare la reiterazione di tali condotte processuali.
A queste diverse funzioni corrispondono differenti regole per il loro riparto: il contributo unificato segue le regole della soccombenza e dell’anticipazione[2], i compensi spettanti ai difensori sono generalmente assoggettati alla regola della soccombenza[3], le c.d. spese aggravate e le sanzioni processuali, previste per le parti che si comportano in maniera illecita o comunque abusiva, richiedono una serie di requisiti specifici per la loro irrogazione[4].
La condanna alle spese, pertanto, può racchiudere al suo interno componenti molto diverse tra loro che non sono assoggettate ad un regime unitario, ma seguono regole differenti per la loro attribuzione a carico delle parti del processo[5].
Una componente quantitativamente molto rilevante della condanna alle spese è costituita dai compensi professionali degli avvocati che prendono parte al giudizio in qualità di rappresentanti delle parti costituite. Le regole per il loro riparto e i criteri da seguire per la loro quantificazione hanno da sempre ingenerato notevoli questioni interpretative che ad oggi non possono ritenersi sopite.
A tal proposito si possono enucleare nella prassi almeno due problematiche ricorrenti: la prima è costituita dalla resilienza del giudice amministrativo a condannare alle spese la parte soccombente, abusando del suo potere discrezionale di compensazione; la seconda è costituita dalla mancanza di aderenza delle liquidazioni giudiziali ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 per le prestazioni professionali forensi.
2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese.
Nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è stato da sempre ancorato al principio di soccombenza[6], ancor prima di mutuare la propria disciplina dal processo civile[7]. Inizialmente, però, tale principio è stato largamente eluso dalla neo-istituita Sezione IV del Consiglio di Stato, che aveva stabilito il principio secondo il quale la pubblica amministrazione che agisce in veste di autorità non può essere condannata alle spese[8].
Col passare degli anni tale irresponsabilità nei confronti delle amministrazioni (statali) si è progressivamente attenuata, ma tutte le pubbliche amministrazioni hanno conservato a lungo un regime di privilegio nei confronti della condanna alle spese. Infatti, il requisito dei “giusti motivi” ha permesso per molto tempo al giudice amministrativo di disporre la compensazione con ampia (e talora eccessiva) generosità nei confronti delle parti soccombenti, soprattutto qualora queste fossero delle pubbliche amministrazioni.
La regola della soccombenza è stata poi ripresa dalla successiva l. n. 1034/1971[9] e confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti[10]. L’art. 91, comma 1, c.p.c. prevede che, all’esito della definizione della controversia, vadano addebitate alla parte soccombente non solo le spese necessarie per lo svolgimento del processo, ma anche gli onorari per la difesa in giudizio e che entrambi gli importi debbano essere liquidati nella sentenza[11].
Quella della soccombenza, così come prevista dal nostro codice di procedura civile, non è una regola assoluta, ma può subire delle eccezioni. Il giudice, infatti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., può compensare (parzialmente o per intero) le spese tra le parti in caso di soccombenza reciproca e di accoglimento parziale della domanda ovvero nel caso di novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. L’art. 92 c.p.c., però, è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ne ha ridefinito sensibilmente i limiti, dichiarando l’illegittimità costituzionale del secondo comma nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa compensare le spese tra le parti (parzialmente o per intero) anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre quelle nominativamente indicate[12].
Nonostante questo pronunciamento della Consulta, si deve evidenziare che la coeva generosità del giudice amministrativo nel compensare le spese è un fenomeno tuttora estremamente attuale[13]. Infatti, il Consiglio di Stato ha più volte affermato che la decisione del giudice di compensare le spese costituisce una valutazione discrezionale insindacabile in sede di appello, a cui fanno eccezione solo le statuizioni che siano manifestamente irragionevoli, abnormi, illogiche ovvero le condanne a somme palesemente inadeguate[14]. Tale potere discrezionale talvolta si fonda non solo su motivazioni di ordine giuridico, ma anche su ragioni di equità e di convenienza[15].
Questo atteggiamento, in parte comprensibile a causa della maggiore aleatorietà delle controversie amministrative (che, generalizzando, sono di solito più complesse e incerte di quelle civili[16]), negli ultimi tempi si è notevolmente attenuato, ma tuttora si rinvengono di frequente sentenze che compensano le spese richiamandosi semplicemente ai generici “giusti motivi”[17].
Tale prassi, alla luce dell’attuale quadro normativo, non può essere condivisa, poiché rischia di comprimere il diritto della parte vittoriosa di essere interamente ristorata dei costi sostenuti per il suo legittimo diritto di agire e difendersi in giudizio[18]. La compensazione delle spese di lite dovrebbe sempre essere prevista entro i limiti tracciati dal combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c. come interpretato dalla Corte costituzionale e fornita di un’adeguata motivazione[19].
3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati.
Le regole del codice di procedura civile e del codice del processo amministrativo fino ad ora analizzate riguardano l’an della condanna alle spese, ossia i limiti entro i quali il giudice deve applicare o meno la regola della soccombenza e condannare chi ha perso a sopportare i costi della lite.
Per definire il quantum della soccombenza[20], invece, la succitata normativa non è sufficiente, dovendo essere integrata dalla disciplina prescritta dal d.m. n. 55/2014, il quale prevede i criteri e i parametri per la liquidazione dei compensi spettanti ai difensori per l’attività svolta in giudizio[21].
Il giudice, nel condannare la parte soccombente alla refusione delle spese legali del vincitore, dovrebbe calcolare i relativi importi applicando i parametri medi previsti nel citato decreto per ognuna delle cinque diverse fasi previste con riferimento alle controversie davanti al giudice amministrativo, ossia: la fase di studio della controversia, la fase introduttiva del giudizio, la fase istruttoria e/o di trattazione, la fase decisionale e la fase cautelare[22].
Nonostante le tabelle prescrivano degli importi fissi (valori medi) per ogni fase delle controversie aventi il medesimo valore, il giudice ha comunque alcuni strumenti attraverso i quali può graduare (in aumento e in diminuzione) il quantum della condanna. Infatti, il compenso dell’avvocato deve essere liquidato in maniera proporzionale all’attività svolta, tenendo conto di una serie di fattori che consentano di variare la liquidazione aumentando o diminuendo gli importi in percentuale rispetto ai valori medi previsti[23]. A tal fine, l’art. 4, d.m. n. 55/2014, consente al giudice sia di aumentare i valori (espressamente qualificati come) medi delle tabelle allegate al decreto di regola fino all’80%[24], sia di diminuire detti valori in ogni caso non oltre il 50% e non oltre il 70% per la fase istruttoria[25].
Pertanto, nonostante i parametri medi siano predeterminati, al giudice rimane comunque un’ampia discrezionalità in sede di liquidazione dei compensi. Nella prassi, però, tale discrezionalità non viene quasi mai esternata attraverso un’adeguata motivazione che dia conto dell’aderenza ai succitati parametri medi e alle variazioni rispetto agli stessi.
Nel processo amministrativo, normalmente, il quantum del rimborso viene stabilito forfettariamente dal giudice, anche perché, al contrario di quanto accade nel giudizio civile, i difensori solitamente non depositano la nota spese quando la causa passa in decisione[26].
Le spese legali liquidate, inoltre, oltre ad essere stabilite forfettariamente senza alcuna motivazione che permetta un collegamento ai parametri normativamente previsti, il più delle volte sono anche eccessivamente ridotte, ossia si pongono al di sotto della somma che dovrebbe essere liquidata avuto riguardo ai parametri minimi, ossia ai parametri medi previsti al netto delle possibili (massime) riduzioni da applicare.
4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato.
Il caso di specie riguarda la contestazione in appello di una sentenza del T.A.R. Lazio con la quale veniva liquidato, in favore dei difensori delle parti vittoriose, un importo ritenuto sproporzionato rispetto al valore medio dei parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[27].
Più precisamente, il giudice di primo grado, chiamato a decidere su quattro ricorsi aventi ad oggetto l’ottemperanza relativa al pagamento di somme a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo (ai sensi della c.d. legge Pinto[28]), previa loro riunione, li ha accolti, condannando il Ministero dell’economia e delle finanze resistente a corrispondere l’esigua somma complessiva di 400 euro (pari a 100 euro a favore di ogni ricorrente)[29].
I ricorrenti, pur se vittoriosi in primo grado, decidevano di appellare la sentenza del T.A.R. deducendo l’incongruità del quantum della condanna alle spese, essendo la stessa in palese contrasto con il combinato disposto degli artt. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. prevedenti la disciplina della condanna alle spese nel giudizio amministrativo e con le regole previste dal d.m. n. 55/2014 per la quantificazione compensi forensi.
L’adita Sezione IV del Consiglio di Stato ha accolto il proposto appello rideterminando la somma spettante in complessivi 2.000 euro per le spese dei quattro giudizi di primo grado (ossia 500 euro per ciascuna parte) compensando, però, le spese del giudizio d’appello.
La sentenza in commento, nel rideterminare il quantum della soccombenza statuita in primo grado, ricalca pedissequamente altre pronunce della Sezione IV del Consiglio di Stato con le quali, relativamente a giudizi di ottemperanza similari a quello considerato, è stata fissata una sorta di “soglia minima” (sempre pari a 500 euro) sotto la quale non sia ammissibile liquidare i compensi spettanti ai difensori[30].
Il Collegio, nell’iter argomentativo a supporto di questa decisione, preliminarmente ricorda che il giudice amministrativo gode di ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione[31], con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi[32]. Viene precisato però che, qualora il giudice amministrativo decida di disporre la condanna al pagamento delle spese (non compensando le stesse), esso deve “tenere conto” del d.m. n. 55/2014, non potendo la liquidazione delle spese essere “manifestamente sproporzionata” rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto.
Quindi, la sentenza, pur non statuendo esplicitamente il valore vincolante ed inderogabile dei parametri, prescrive che il giudice, nel liquidare i compensi spettanti ai legali, debba quantomeno tenerli in debita considerazione[33]. Ma nonostante tale corretta affermazione di principio, il Consiglio di Stato, nel rideterminare l’importo della condanna alle spese, invece di operare una liquidazione in aderenza ai parametri, decide a sua volta di adottare la diversa quantificazione forfettaria di 500 euro per ogni giudizio di primo grado, limitandosi a richiamare la consolidata giurisprudenza anzi citata della Sezione IV sul punto[34].
Una possibile spiegazione di questo scostamento è rinvenibile in quella giurisprudenza di una diversa Sezione del Consiglio di Stato (la Sezione III) che non ritiene di applicare ai giudizi in materia di ottemperanza i parametri previsti per i giudizi amministrativi davanti al T.A.R. (tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014) ma, piuttosto, quelli relativi alle procedure esecutive mobiliari (tabella n. 16 allegata al d.m. n. 55/2014)[35]. Ma di tale impostazione – di per sé fortemente opinabile – non vi è traccia nella sentenza in commento, che non aggancia la liquidazione delle spese a quei parametri di cui, poco prima, ha raccomandato l’osservanza.
5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
In linea generale, nei casi in cui il giudice amministrativo riesce a vincere la sua endemica tendenza a ricorrere alla compensazione delle spese di lite, spesso (per non dire sempre) la condanna è liquidata in misura forfettaria, di gran lunga in ribasso rispetto ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 e senza alcuna motivazione a riguardo; quasi mai, alla parte vittoriosa è liquidata una somma realmente satisfattiva che gli consenta di restare “indenne dalla lite”[36] dal punto di vista patrimoniale.
La sentenza in commento costituisce un chiaro esempio di queste due diverse criticità, ossia, l’abuso della compensazione con esclusivo riferimento alla sussistenza dei “giusti motivi” e la persistenza delle liquidazioni forfettarie non agganciate ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014. Tali problematiche convivono all’interno della medesima pronuncia poiché, da una parte, il giudice d’appello ridetermina forfettariamente il quantum della condanna alle spese di primo grado e, dall’altra, compensa le spese del giudizio d’appello adducendo la presenza dei “giusti motivi” di compensazione.
Con riferimento al potere di compensare le spese legali non si può che richiamarsi a quanto detto in precedenza. Pur trattandosi di un potere altamente discrezionale, esso deve essere esercitato entro il perimetro tracciato dall’art. 92 c.p.c. nella sua versione costituzionalmente orientata. Pertanto, il giudice che decida di compensare le spese al di fuori dei casi normativamente previsti, dovrà esplicitare quali sono le “altre gravi ed eccezionali motivazioni” che lo hanno determinato in tal senso, non potendo i generici “giusti motivi” costituire una causa legittima per non addossare le spese alla parte soccombente.
Con riferimento alla quantificazione della soccombenza, occorre rilevare come nella prassi, solitamente, chi vince si vede riconosciuta una somma molto inferiore rispetto a quella che poi dovrà corrispondere al suo difensore per l’attività svolta[37]. Il fulcro del problema risiede nel riconoscimento o meno di un’efficacia vincolante ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[38]. A tal proposito nella giurisprudenza amministrativa si sono formati due contrapposti orientamenti: quello che legittima il potere del giudice amministrativo di derogare a detti parametri[39] e quello che predica la necessità per il giudice di attenersi agli stessi[40].
La sentenza in commento sembra propendere per il rispetto dei succitati parametri. Infatti, pur non prevedendo esplicitamente l’inderogabilità dei parametri minimi, stabilisce che la liquidazione delle spese non possa essere «manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale». Pertanto, anche volendo aderire alla teoria della derogabilità dei parametri, il giudice che ritenga di non volerli rispettare dovrebbe quantomeno esplicitare i motivi eccezionali che lo hanno determinato ad effettuare tale scelta con riferimento alle circostanze del caso concreto.
Tale pronuncia, quindi, appare condivisibile nella misura in cui conferma la crescente consapevolezza del giudice amministrativo della necessità di adeguare il quantum delle condanne a degli importi realmente satisfattivi per la parte vittoriosa, in ottemperanza a quanto prescrive il d.m. n. 55/2014. Non lo è altrettanto, invece, né quando concede la compensazione delle spese in appello con la formula dei “giusti motivi”, né quando ridetermina le spese dovute in primo grado forfettariamente, in misura inferiore e senza alcun riferimento ai parametri previsti per i giudizi amministrativi.
A tal proposito è lecito augurarsi un cambiamento delle abitudini sia da parte degli avvocati, che potrebbero (analogamente a quanto avviene nel processo civile) depositare note spese comprovanti l’attività svolta (senza temere che questo sia indizio della loro scarsa dimestichezza con il giudizio amministrativo agli occhi del Collegio), sia da parte dei giudici, che dovrebbero sempre più liquidare i compensi a carico della parte soccombente e in misura rispettosa dei parametri normativamente previsti.
* * *
[1] F.G. SCOCA, Il costo del processo tra misura di efficienza e ostacolo all’accesso, in Dir. proc. amm., n. 4/2014, p. 1432. In senso sostanzialmente analogo, ma con riferimento al processo civile, già F. CARNELUTTI, Istituzioni del diritto processuale italiano, I, Roma, 1956, p. 216, distingueva i costi generali (da intendersi come la frazione imputabile a ciascun processo delle spese generali dell’amministrazione della giustizia) da quelli particolari (da intendersi come le spese necessarie per i singoli atti del processo, comprendenti sia le spese vive che il compenso dovuto a difensori e consulenti tecnici).
[2] Sul regime giuridico del contributo unificato e sulla sua problematica onerosità si segnalano: A. CRISMANI, I procedimenti giurisdizionali eccessivamente onerosi, n. 12/2014, p. 2819 ss.; F. SAITTA, Effettività della tutela e costo del processo amministrativo in materia di appalti: la (discutibile) opinione dei giudici europei sul contributo unificato, in www.lexitalia.it, n. 10/2015; C. LAMBERTI, La corte di giustizia «salva» il contributo unificato e devolve al giudice l’«esonero» dal cumulo, in www.giustamm.it, n. 12/2015; F. MONCERI, Costi del processo amministrativo. Limiti alla imposizione del contributo unificato sui c.d. motivi aggiunti e tutela europea del diritto di difesa, in www.giustamm.it, n. 9/2016.
[3] Sul riparto delle spese legali nel processo amministrativo si segnalano: E. FOLLIERI, Condanna al pagamento delle spese di lite, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2013, p. 194 ss.; A. BARLETTA, La difesa in giudizio delle parti e la disciplina in materia di spese di lite, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, vol. II, p. 120 e ss.; M. MENGOZZI, Spese di giudizio, in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 359 e ss. al quale si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici sul tema (p. 359).
[4] Sulle spese aggravate e sulle sanzioni processuali si segnalano: M.A. SANDULLI, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in www.federalismi.it, n. 20/2012; N. PAOLANTONIO, Linee evolutive della figura dell’abuso processuale in diritto amministrativo, in www.giustamm.it, n. 10/2014; M. LIPARI, La nuova sanzione per “lite temeraria” nel decreto sviluppo e nel correttivo al codice del processo amministrativo: un istituto di dubbia utilità, 2011, in www.giustizia-amministrativa.it
[5] In tale contributo ci si soffermerà esclusivamente sulla ripetizione delle spese legali dovute per l’attività degli avvocati. Ci si limita ad evidenziare che l’art. 13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 112/2002 prescrive una disciplina particolare per il contributo unificato nel processo amministrativo, precisando che tale tributo è dovuto “in ogni caso” dalla parte soccombente, anche nell’ipotesi di compensazione delle spese. Esso, pertanto, non viene trattato alla stessa stregua delle spese legali. Altrettanto può dirsi in relazione alla responsabilità aggravata e alla sanzione per la temerarietà della lite che devono rispettare i requisiti previsti dall’art. 26 c.p.a. e dall’art. 96 c.p.c. per la loro applicazione.
[6] Secondo l’insegnamento di G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901, p. 243, «soccombente è colui contro il quale la dichiarazione del diritto, la pronuncia del giudice, avviene: sia il convenuto contro il quale la domanda è accolta; sia l’attore contro il quale la domanda è dichiarata senza fondamento». La soccombenza, conosciuta anche come la regola del c.d. victus victori (in base alla quale il rimborso delle spese, letteralmente “vitto”, spetta al vincitore) trova la sua ragion d’essere nella circostanza che la parte vittoriosa in giudizio deve ottenere il riconoscimento integrale del suo diritto e che, quindi, non deve subire un danno patrimoniale dipendente dall’esborso monetario per il fatto di essersi dovuta rivolgere a un giudice.
[7] La norma originaria era prescritta nell’art. 50 del Regolamento di procedura dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato, 17 ottobre 1889, n. 6516, secondo il quale: «le parti soccombenti sono condannate nelle spese». Successivamente, la regola della soccombenza è stata prevista in linea generale anche dall’art. 68 del r.d. n. 642/1907.
[8] Tale esclusione veniva motivata dal fatto che la pubblica amministrazione nel processo amministrativo non assumesse la veste e la qualità di parte e che stesse in giudizio solo per la tutela dell’interesse pubblico affidatole (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 8 gennaio 1891, in Giust. amm., 1891, I, p. 22 ss.). Sul tema si rinvia a: G. CHIOVENDA, La Pubblica Amministrazione e la condanna nelle spese davanti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, in Giust. amm., 1896, vol. IV, p. 84 ss.; F. CAMMEO, La condanna solidale nelle spese giudiziali dinanzi alle giurisdizioni di giustizia amministrativa, in Giur. it., 1911, vol. III, p. 6 ss.; R. MALINVERNO, La condanna alle spese nei giudizi amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1932, I, p. 509 ss.
[9] L’art. 26, comma 4, della l. n. 1034/1971 prevedeva che: «In ogni caso, la sentenza provvede sulle spese di giudizio. Si applicano a tale riguardo le norme del codice di procedura civile».
[10] L’art. 26, comma 1, c.p.a. prevede, poi, la possibilità per il giudice, anche d’ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata in presenza di “motivi manifestamente infondati”. Tale norma ricalca pedissequamente il dettato dell’art. 96, comma 3 c.p.c., salvo differenziarsene per due elementi di specialità: il presupposto della condanna (che viene individuato nella manifesta infondatezza dei motivi) e la sua quantificazione (che non può eccedere il doppio delle spese liquidate dal giudice). L’art. 26, comma 2 c.p.a., inoltre, prescrive una vera e propria sanzione per la parte che agisce o resiste temerariamente in giudizio, che può essere condannata, anche d’ufficio, al pagamento di una somma non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo.
[11] L’art. 91, comma 1, c.p.c., quando parla di “onorari di difesa” si riferisce esclusivamente ai compensi spettanti ai difensori per l’espletata attività giudiziaria, mentre quando parla di “spese giudiziali” si riferisce a tutti i restanti esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo del processo.
[12] Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, in Giur. cost., n. 2/2018, p. 703 ss. Per un commento a tale sentenza si rinvia a F. TEDIOLI, La Corte costituzionale estende il perimetro della compensazione delle spese giudiziali, in Studium Iuris, n. 10/2018, p. 1147 ss.
[13] In linea generale, infatti, nonostante l’attuale quadro normativo, sembra comunque piuttosto radicata nella giurisprudenza l’idea di un’ampia discrezionalità del giudice amministrativo in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei “giusti motivi” di compensazione. Esemplificativamente, a riguardo, si può citare tra le tante: Cons. St., Sez. III, 26 aprile 2019, n. 2689, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Per la pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria anche nell’attuale quadro normativo, il Tar ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. St., A.P., 24 maggio 2007, n. 8)».
[14] In tal senso ex multis si vedano le recenti: Cons. St., Sez. IV, 30 marzo 2020, n. 2167, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 28 febbraio 2020, n. 1454, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 17 febbraio 2020, n. 1204, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] In tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 1306, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. V, 23 giugno 2014, n. 3131, in Foro amm., n. 6/2014, p. 1741.
[16] In tal senso V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, p. 661, secondo il quale nel processo amministrativo sono «spesso estremamente incerte le posizioni della ragione e del torto».
[17] Secondo J. BERCELLI, Parti, difensori, spese, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 419: «Una così patente e costante elusione della legge da parte dei giudici amministrativi trova la sua giustificazione storica e logico giuridica nella circostanza (…) che il processo amministrativo è sì un processo di parti, ma non è mai stato e non è tuttora un processo di parti paritarie».
[18] In tal senso vedasi già G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, cit., p. 84.
[19] Secondo T.A.R. Lombardia (Milano), Sez. II, 10 gennaio 2020, n. 74, in www.giustizia-amministrativa.it, le altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni possono «individuarsi nella complessità delle questioni affrontate dal Collegio». In tale direzione si pone anche qualche recente sentenza del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. di St., Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 6995, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale la decisione di compensare le spese (anche alla luce della sentenza Corte Cost. n. 77/2018) è «una valutazione riservata all’organo giudicante e avente natura discrezionale, che il Legislatore ha però circondato di un onere motivazionale rinforzato, al fine di mantenere inalterato il rapporto di regola ad eccezione, esistente tra i principi di condanna del soccombente e compensazione delle spese».
[20] È bene chiarire che la quantificazione complessiva delle spese di giudizio è cosa diversa dalla quantificazione delle spese legali propriamente intese, che vengono liquidate a favore della parte vittoriosa per il pagamento della sua difesa tecnica in giudizio. La quantificazione totale delle spese, infatti, dipende dalla sommatoria di tutti gli elementi che compongono la condanna alle spese. Oltre agli onorari (rectius compensi) di difesa bisogna calcolare la ripetizione del contributo unificato anticipato dal ricorrente e le eventuali ulteriori somme che il soccombente sarà costretto a pagare a titolo di responsabilità ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 96 c.p.c. Per la quantificazione delle spese legali, invece, salva una possibile loro riduzione per la violazione dei doveri imposti ai sensi dell’art. 92, comma 1, c.p.c. (spese eccessive o superflue) e dell’art. 26, comma 1, c.p.a. (doveri di chiarezza e sinteticità), occorre riferirsi alle regole prescritte nel d.m. n. 55/2014.
[21] Il d.m. giustizia n. 55/2014 “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247” ha previsto un innovativo sistema di quantificazione delle prestazioni professionali degli avvocati, abolendo le precedenti tariffe forensi (onorari e diritti) e sostituendole con dei parametri per la liquidazione delle prestazioni da calcolarsi in relazione all’attività svolta e al valore della controversia. Tali parametri, inizialmente introdotti, in applicazione dell’art. 13, comma 6, l. n. 247/2012 (c.d. Legge dell’ordinamento forense), dal d.m. n. 140/2012, sono attualmente previsti dal d.m. n. 55/2014 come da ultimo modificato con il d.m. n. 37/2018.
[22] Sono previste due diverse tabelle rispettivamente per i giudizi innanzi al Tribunale amministrativo regionale (tabella n. 21) e per i giudizi innanzi al Consiglio di Stato (tabella n. 22). In entrambe le tabelle, per ognuna delle succitate fasi, sono previsti dei parametri (medi) diversi a seconda del valore della controversia.
[23] Più precisamente, l’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 prevede che: «Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti».
[24] Altri aumenti sono poi previsti in relazione all’esito della controversia: in caso di conciliazione giudiziale o di transazione, la liquidazione del compenso può essere aumentata fino a un quarto (art. 4, comma 6), mentre può essere concesso un aumento fino a un terzo del compenso quando le difese della parte vittoriosa sono state dichiarate manifestamente fondate (art. 4, comma 8). È previsto, inoltre, che il compenso possa essere aumentato del 30% rispetto al valore previsto quando gli atti, depositati con modalità telematiche, sono redatti «con tecniche informatiche idonee ad agevolare la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto» (art. 4, comma 1-bis). Il riferimento è relativo a quelli che vengono chiamati “collegamenti ipertestuali”, ossia i link che consentono, una volta realizzati all’interno dell’atto predisposto dal legale con il proprio software di videoscrittura, di poter visualizzare e consultare immediatamente, con un semplice click del mouse, il documento citato nell’atto e allegato nella “busta telematica”. È poi previsto che il compenso relativo alla fase introduttiva del giudizio è di regola aumentato sino al 50% quando sono proposti motivi aggiunti (art. 4, comma 10-bis). Inoltre, quando l’avvocato assiste più soggetti, tali importi possono essere ulteriormente aumentati in percentuali variabili a seconda del numero dei clienti assistiti (art. 4, comma 2).
[25] Art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 che è stato significativamente inciso dal d.m. n. 37/2018 che ha posto un limite al potere giurisdizionale di ridurre i compensi eliminando la locuzione “di regola” (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018) e precisando che la diminuzione non potrà andare “in ogni caso” oltre il 50% per cento e oltre il 70% per la fase istruttoria (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018). Il regolamento prevede poi anche due diversi casi in cui il compenso dovrebbe essere ridotto rispetto a tali valori per un comportamento non adeguato del difensore: viene previsto che costituisce elemento da valutare negativamente in sede di liquidazione del compenso l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli (art. 4, comma 7); e viene sancita la riduzione del 50% del compenso liquidabile al difensore nei casi di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., nonché nei casi di pronunce di inammissibilità, improcedibilità o improponibilità della domanda, ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione (art. 4, comma 9).
[26] In questi termini E. FOLLIERI, op. cit., p. 195. In tal senso vedasi ex multis Cons. St., Sez. V, 11 luglio 2017, n. 3407, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «costituisce prassi consolidata nella giurisprudenza amministrativa liquidare spese e onorari in misura forfetaria, senza analiticamente rifarsi agli elementi della tariffa professionale, in applicazione di dominanti criteri di equità, prassi alla quale si è adeguata anche quella degli avvocati di non allegare la nota degli onorari e delle spese con riferimento alle singole voci della tabella; in tale ottica i criteri di liquidazione vengono ricavati non tanto nel raffronto fra la tariffa professionale e il valore economico della causa, quanto piuttosto in circostanze eterogenee, peculiari per ogni giudizio, variabili di volta in volta, quali la maggiore o minore complessità delle questioni affrontate, l’applicazione di precetti giurisprudenziali consolidati, la natura della pretesa di cui si chiede l’affermazione e il comportamento tenuto dalle parti».
[27] La sentenza in commento è Cons. St., Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547, che ha annullato T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 19 settembre 2019, n. 11130, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Si tratta della l. n. 89/2001 recante “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”.
[29] Le spese sono state liquidate ai due difensori, dichiaratesi antistatari, nella misura di 200 euro ciascuno, dato che questi avevano proposto due ricorsi ciascuno (nell’interesse di altrettanti ricorrenti) che sono poi stati riuniti dal T.A.R. Lazio che li ha decisi con la citata sentenza n. 11130/2020.
[30] I precedenti conformi della Sezione IV che vengono richiamati sono: Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e n. 4434; Cons. St., Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8126; Cons. St., Sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7360, n. 7366 e n. 7380; Cons. St., Sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 6798; Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2019, n. 6682 e n. 6683; Cons. St., Sez. IV, 26 settembre 2019, n. 6446, 6448, n. 6449, n. 6450 e n. 6451; Cons. St., Sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6321; Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2019, n. 6260; tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[31] A tal proposito vengono citate diverse sentenze del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8, in www.giustizia-amministrativa.it. Inoltre, il Collegio richiama anche la nota sentenza Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, cit., con la quale sono stati estesi i poteri di compensazione del giudice amministrativo anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre a quelle nominativamente indicate dall’art. 92, comma 2, c.p.c.
[32] Tra le sentenze citate si segnalano le recenti sentenze “gemelle” Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4434, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] La sentenza prevede che il giudice amministrativo, nel liquidare i compensi, debba altresì considerare le caratteristiche dell’attività prestata, il valore dell’affare e gli altri criteri normativamente previsti dall’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014.
[34] Nel caso di specie, però, detto importo, seppur rideterminato in aumento, non è comunque in linea con la somma che la parte vittoriosa avrebbe dovuto ottenere applicando i parametri minimi, prendendo come base di calcolo i parametri medi previsti dalla tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014.
[35] Vedasi a riguardo Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2016, n. 1247, in Foro amm., n. 3/2016, p. 560, secondo la quale il giudizio di ottemperanza, per i suoi contenuti derivati dal precedente giudizio e per la struttura processuale, presenta un grado di complessità molto inferiore e paragonabile alle procedure esecutive mobiliari, necessità per cui si dovrebbero applicare i (più bassi) parametri previsti dalla tabella n. 16.
[36] Per usare le parole di G. CHIOVENDA, op. cit., p. 244, «Io non ripeterò mai abbastanza che il diritto deve uscire indenne dalla lite, e che l’obbligo dell’indennità dee far capo a chi della lite fu causa».
[37] A tal proposito occorre fare una importante precisazione: quando parliamo della condanna alle spese legali, intendiamo la liquidazione delle spese di lite effettuata dal giudice a favore della parte vittoriosa, che è cosa ben diversa dal diritto al compenso professionale che l’avvocato matura nei confronti del suo cliente in virtù di un rapporto civilistico di natura obbligatoria. Infatti, benché tra la disciplina del compenso professionale dell’avvocato e quella inerente all’obbligo di rifusione delle spese tra le parti vi siano innegabili connessioni logiche e giuridiche, le stesse si pongono su due piani diametralmente diversi, essendo due obbligazioni distinte sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo. La disciplina relativa al compenso degli avvocati attiene ai rapporti che ciascuna parte del processo ha con il proprio legale ed ha ad oggetto un diritto di credito che origina da un contratto di mandato (ovvero un vincolo di carattere contrattuale) e la relativa regolamentazione va ricercata nelle norme del codice civile e nella legge professionale forense.
[38] Lo stesso concetto di “parametro” non è ontologicamente un qualcosa di rigido ed immodificabile, ma un’espressione ammantata di una valenza orientativa più che precettiva. È anche vero, però, che il d.m. n. 55/2014 prescrive dei limiti precisi entro i quali poter diminuire i parametri medi previsti per ogni tipologia di giudizio in relazione al valore della controversia.
[39] Vedasi ex multis: Cons. di St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014.
[40] Sebbene la giurisprudenza prevalente deponesse per la natura non vincolante dei parametri (in tal senso vedasi: Cons. St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014, p. 2284; Cons. St., Sez. IV, 29 dicembre 2014, 6381, in Foro amm., n. 12/2014, p. 3092), di recente la Corte di Cassazione con due ordinanze (Cass., civ., Sez. II, ord. 17 gennaio 2018 n. 1018, in Dir e giust., 18 gennaio 2018; e Cass. civ., Sez. II, ord. 31 agosto 2018 n. 21487, in Dir e giust., 5 settembre 2018) ha previsto il divieto per il giudice di liquidare il compenso professionale al di sotto dei parametri previsti. A supporto di tale seconda impostazione depone anche l’ultima modifica dell’art. 1, comma 4, d.m. n. 55/2014 ad opera dell’art. 1, comma 1, d.m. 37/2018 che ha previsto l’impossibilità di diminuire “in ogni caso” i valori dei parametri al di sotto del 50%.
Può la democrazia digitale sostituire la democrazia rappresentativa?*
di Franco Gallo
Sommario: 1. Il lento declino della democrazia rappresentativa – 2. Può esistere un’alternativa tra democrazia digitale e democrazia rappresentativa? – 3. I costi e i benefici della Rete e la difficoltà di una sua regolamentazione “planetaria” – 4. Alcune brevi non confortanti conclusioni.
1. Il lento declino della democrazia rappresentativa
1.1. I regimi democratici contemporanei sono da tempo entrati in una contraddittoria fase evolutiva, nella quale al formale mantenimento delle istituzioni della democrazia liberale fa riscontro sempre più una dissoluzione del più caratterizzante contenuto storico dell’intero paradigma democratico, e cioè l’opportunità per le masse di partecipare attivamente, con il voto e con la discussione, alla definizione delle priorità della vita pubblica[1].
Sul piano giuridico-costituzionale ciò pone delicati problemi in quanto induce anche a identificare la democrazia deliberativa e quella partecipativa, definite dalle Carte costituzionali europee, non più puntando esclusivamente sulla titolarità formale del potere e sulla (buona) qualità della fonte da cui discende la potestà normativa, ma a spostarla, a valle, sul modo di esercitarla. Il che ha portato alcuni maestri del diritto come P. Rescigno, N. Lipari, N. Irti, a parlare, seppur con diversi distinguo, della “giudizializzazione” della democrazia, intesa come passaggio di consistenti poteri normativi da organi politici a organi giudiziari, dal legislatore, divenuto incerto signore del diritto, alla fabbrica interpretativa diffusa, in cui la Carta costituzionale rappresenta l’essenziale cornice entro cui maturare consensi e dissensi e, insieme, lo strumento per superare i disaccordi e la potenziale conflittualità fra i principi di diritto costituzionale[2].
Si capisce quindi perché, in questa situazione, specie dopo l’avvento della rivoluzione informatica, si parli sempre meno di democrazia tout court e che – vista la debolezza del termine – la si aggettivi in funzione del tema che si intende trattare. La si definisce cosí, oltre che «rappresentativa», anche «liberale», «parlamentare» o «presidenziale», «elettorale», «sociale», «digitale», «formale» o «sostanziale», «diretta» o «indiretta», «bipolare» o «multipolare», «maggioritaria» o «proporzionale», «consensuale» o «conflittuale», «consociativa» o «competitiva», fino ad arrivare ad arricchire tale polisemia con ulteriori aggettivazioni di significato più strettamente politico: «plebiscitaria», «populista», addirittura «illiberale».
Il che ha portato inevitabilmente (non solo) la classe politica a domandarsi se eventuali iniezioni di democrazia diretta, fondate su referendum propositivi e su comunicazioni, informazioni e interventi diffusi via Internet, possano correggere in senso più partecipativo e in meglio l’attuale sistema. E ciò senza tener conto delle proposte “estreme”, che puntano addirittura al superamento totale della democrazia elettorale.
Tenterò di dar conto dell’obiettiva difficoltà di dare una risposta positiva a questa domanda in un contesto, come l’attuale, in cui lo strumento telematico, di cui deve necessariamente avvalersi la democrazia diretta digitale, appare difficilmente regolabile e controllabile a causa del suo carattere planetario ed è, quindi, soggetto ad abusi e manipolazioni da parte dei gestori e degli stessi utilizzatori. In tale contesto, una democrazia diretta che non sia complementare (o solo integrativa) di quella indiretta parlamentare, correrebbe il rischio di restare fuori dai paradigmi giuridici del moderno costituzionalismo.
1.2. Nell’era contemporanea per democrazia rappresentativa si intende un sistema in cui il popolo ha il potere di assumere, tramite rappresentanti, le decisioni pubbliche, ossia un sistema di delega che seleziona i rappresentanti dei cittadini attraverso le elezioni.
Una nozione cosí ristretta in termini di democrazia elettorale ha offerto, in un primo momento, argomenti per dimostrare la scarsa idoneità di un tale modello a rispondere alle istanze partecipative. Si è rilevato, infatti, che fondare l’essenza della democrazia solo sulle elezioni avrebbe l’effetto di ridurre l’esercizio della sovranità dei cittadini alla sola manifestazione di voto, e cioè al compimento di un atto della durata di pochi minuti, reiterato a distanza di anni. Cosí intesa, la democrazia rappresentativa tende, in effetti, ad essere solo una democrazia formale priva dei contenuti sostanziali che le dovrebbero dare significato, e cioè la reale partecipazione politica, l’accesso ai diritti di cittadinanza e la tutela dei diritti fondamentali e delle libertà individuali.
In Italia, almeno nel periodo che va dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, queste critiche si sono però attenuate soprattutto sul fronte della partecipazione sociale. Il passaggio, in quel periodo, dal parlamentarismo del primo Novecento – che era espressione di un governo oligarchico di notabili eletti a loro volta da notabili – alla democrazia dei partiti ha, infatti, consentito di recuperare importanti elementi partecipativi. In effetti, con l’avvento del suffragio universale la rappresentanza è stata espressa dai partiti in quanto organizzazioni di massa, dotate di entità strutturate, comunicanti in modo permanente con la società civile e, quindi, con gli elettori.
Il fatto è che questo sistema non ha retto e si è dissolto a partire dagli anni Novanta per ragioni ben note, comuni alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e meridionale, che non è il caso qui di ricordare. Gli storici e i politologi ci dicono che ora siamo in una situazione in cui i partiti di massa, lungi dallo svolgere la loro funzione di mediazione, si sono trasformati in oligarchie all’interno dello Stato e, molto spesso, in centri di potere autoreferenziali. Travolti da un’ondata di sfiducia, provocata anche da estesi fenomeni corruttivi, essi sono andati in crisi insieme alla prima Repubblica. E’ subentrata allora quella che Bernard Manin[3] ha chiamato «la democrazia del pubblico» (audience democracy), in cui i partiti lasciano ampio spazio alla personalizzazione e la comunicazione, in qualunque modo realizzata, prende sempre più il posto dell’organizzazione. In altri termini, i partiti si sono allontanati dalla società e, nel contempo, si sono per lo più convertiti in comitati elettorali al servizio di un capo, il quale sviluppa il rapporto con i cittadini e la società servendosi di sofisticate tecniche comunicative che negli ultimi anni si sono fondate soprattutto sulla Rete. Manin parla appunto, con riferimento ai Paesi membri dell’UE, di «democrazia del pubblico» perché lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio tra leader e opinione pubblica, a scapito della partecipazione sociale.
L’avvento della «democrazia del pubblico» non significa, però, che i partiti siano scomparsi. Significa solo che essi tendono a riorganizzarsi intorno al leader e, seppur indeboliti, operano ancora nei luoghi in cui si realizza formalmente la democrazia rappresentativa, e cioè nelle competizioni elettorali e in Parlamento[4]. La differenza principale rispetto al passato è che essi sono, anzitutto, al servizio di un leader o di un candidato[5].
E’ facile percepire che dietro questa svolta si nasconde il virus plebiscitario della scelta immediata e senza mediazioni, tipica della rappresentanza populista, ossia la tentazione di affidare i nostri destini ad un capo che fa promesse di salvezza.
Ciò non vuol dire che la partecipazione politica sia inevitabilmente andata in crisi insieme ai partiti di massa. Vuol dire, più semplicemente, che la partecipazione elettorale si è ridotta ed è stata sostituita da altre forme di partecipazione. Prova ne sono le esperienze di governance che stiamo da tempo vivendo in Italia come i “governi negoziati” e condivisi; governi, tutti, formati tra movimenti e partiti disomogenei e frutto di un’instabilità politica strutturale, cui si sono contrapposti – e tuttora si contrappongono sempre in Italia – movimenti di protesta e rivendicativi, segno di “orizzontalità democratica”, come il “popolo viola”, i girotondi spontanei, le manifestazioni all’insegna dello slogan “Se non ora quando?” e, proprio in questi anni, le “Sardine”, figlie della Rete e del tutto sganciate dalla realtà dei partiti.
2. Può esistere un’alternativa tra democrazia digitale e democrazia rappresentativa?
2.1. E’ nell’indicato contesto che la Rete si è imposta come il mezzo più rapido e continuativo di consultazione, informazione e contatto tra cittadini e quindi, almeno in astratto, come strumento apparente di maggiore partecipazione alla vita democratica.
Potenzialmente e teoricamente, i social network come Facebook, Twitter, Instagram e i blog canals potrebbero, dunque, aprire la via a forme di democrazia diretta deliberativa: quella che, nel gergo degli internauti, dovrebbe costituire la Democrazia 4.0. Ciò è tuttavia di difficile, se non impossibile, realizzazione. Il ricorso al canale telematico pone, infatti, numerose e complesse questioni che, se non risolte all’interno e nel contesto di una rinnovata democrazia rappresentativa, potrebbero pregiudicare il conseguimento dei vantaggi partecipativi.
La prima questione è di ordine politico e deriva dal fatto che l’avvento e la prevalenza della Rete possono avere – e finora hanno avuto – l’indesiderabile effetto di ingrandire, anziché ridurre, i difetti della «democrazia del pubblico». L’uso assiduo ed esteso di Internet a fini di propaganda politica da parte di singoli movimenti organizzati indebolisce, infatti, le identità collettive e, di conseguenza, moltiplica la personalizzazione anziché scoraggiarla, dando visibilità a figure dotate di particolari capacità di attrazione e comunicazione personale. Dietro a tutto ciò c’è evidentemente anche l’idea, propagandata da Beppe Grillo, di usare il diritto di voto solo per dire SI o NO a proposte che vengono da organi non eletti, ma sorteggiati. Tali proposte farebbero involvere il pubblico nel privato, che godrebbe, così, di uno spazio eccessivamente dilatato. Vietando al cittadino che vota di fare quello sforzo di riflessione che solo il discorso pubblico può consentire si avrebbe l’effetto, fortemente involutivo, dell’egemonia della società civile sulla politica.
La seconda questione è di ordine sociale e consegue al fatto che la Rete non sempre favorisce la discussione pubblica e la mediazione che dovrebbero svolgersi nella società civile o in Parlamento. Infatti, la creazione sul web di gruppi in base a legami di affinità tra “amici” e di ostilità contro “comuni nemici” avviene fuori dal tradizionale circuito politico, riduce la possibilità di incontro tra opposti schieramenti e quindi allarga, non sana, la frattura tra le comunità. Viene cosí favorita la tendenza a “schierarsi” sulla base di slogan. Internet spesso distrae e disperde. Basti pensare ai tanti portali che nascono ogni giorno. Dice bene il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas che “nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità sono come arcipelaghi dispersi: ciò che manca loro è il collante inclusivo, la forza di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono importanti”.
La terza questione è di ordine strettamente costituzionale ed è la più grave e la più difficile a risolversi. Infatti, la democrazia elettronica per sua natura non favorisce, anzi tende ad ostacolare, quei processi deliberativi ponderati e quella efficace interazione tra le parti politiche che sono l’essenza e, insieme, la ragione di ogni moderna democrazia parlamentare.
Mi spiego meglio. L’avvento della democrazia diretta digitale, in luogo di quella rappresentativa, imporrebbe l’abolizione di uno dei capisaldi del sistema costituzionale italiano: il divieto del mandato vincolante previsto dall’art. 67 della Costituzione con riferimento alla rappresentanza politica generale.
A prima vista, la soppressione di tale divieto sembrerebbe in astratto un sistema ideale, perché ha l’effetto di identificare puntualmente la volontà del rappresentante eletto con quella del rappresentato elettore. A meglio ragionare, però, ci si rende conto che la democrazia parlamentare è anche e soprattutto mediazione e ricerca del compromesso tra le forze politiche. E se la mediazione, come ci ha insegnato H. Kelsen[6], significa ascoltare nella formazione delle leggi le ragioni degli altri e, perciò, approfondire e rimeditare le proprie, è evidente che introdurre il mandato vincolante significherebbe perdere il luogo della sintesi e, dunque, sopprimere di fatto quel presidio della democrazia moderna, in qualunque forma declinata, che è il Parlamento.
2.2. Per quanto finora detto è, dunque, chiaro che nell’attuale contesto storico la democrazia rappresentativa non può essere sostituita, tout court, dalla democrazia diretta piena, ma tutt’al più solo rigenerata dal fattore tecnologico. La sua sopravvivenza è la necessaria conseguenza dell’intangibilità della funzione parlamentare quale regolata da tutte le Costituzioni dei paesi occidentali. Presuppone perciò, necessariamente, il recupero della mediazione, garantita sia dai partiti che da entità sociali differenti, quali i sindacati, i gruppi di interesse organizzati, le associazioni professionali e gli altri corpi intermedi.
I partiti dovrebbero però tornare ad essere associazioni di base, portavoce di gruppi più o meno stabili di cittadini, rette da comuni opzioni ideali ed in grado di promuovere, grazie alla vita associativa e con l’ausilio della Rete, l’impegno collettivo, la passione politica e la ridefinizione del rapporto tra formazione della conoscenza e decisione politica.
Non è una soluzione a portata di mano, anche perché richiederebbe, tra l’altro, il ripristino del finanziamento pubblico dei partiti e, comunque, l’imposizione ad essi di precise condizioni di trasparenza e di democrazia interna che attualmente non sono garantite. Non va però dimenticato che, come vuole l’art. 49 della Costituzione, i partiti, nonostante tutto, sono ancora gli unici strumenti per definire le politiche ed eleggere i rappresentanti. Così rigenerati, utilizzeranno la Rete e concorreranno con essa alla formazione dell’opinione pubblica e della cosiddetta cittadinanza digitale. L’importante è che non siano sovrastati o sostituiti dal web. La democrazia rappresentativa deve, insomma, essere integrata e migliorata, ma non soppiantata dalla democrazia digitale.
Che quest’ultima non sia in grado di sostituire del tutto la democrazia rappresentativa deriva del resto dal fatto, assorbente e più preoccupante, che le manifestazioni di volontà veicolate nel cyberspazio, strumento della democrazia digitale, si prestano con molta, troppa facilità ad abusi e manipolazioni, senza che, almeno nella presente fase storica, a queste si possa porre sicuro rimedio con interventi legislativi, amministrativi, giudiziari, globali, mirati e tempestivamente applicabili secondo un’accettabile paradigma costituzionale[7].
Vale la pena di soffermarsi, in via conclusiva, su questo ulteriore, grave, aspetto negativo.
3. I costi e i benefici della Rete e la difficoltà di una sua regolamentazione “planetaria”
3.1. Da quanto finora detto risulta, dunque, che la Rete può essere un bene, ma anche un male.
Può essere un bene, se è vista come un essenziale strumento di maggiore partecipazione che colmi parzialmente la lacuna prodotta dalla crisi dei partiti e ne aiuti la ripresa, come un mezzo di interconnessione planetaria tra gli essere umani, come un indispensabile veicolo del fondamentale diritto di informare e di essere informati, di istruire e di essere istruiti (si pensi alla diffusione delle università telematiche); come un ulteriore mezzo di controllo degli elettori sugli eletti; come, infine, una moltiplicazione della capacità di iniziativa dei cittadini. P. Rosanvallon[8] parla al riguardo di funzioni che danno corpo alla “controdemocrazia”, vale a dire il vigilare, l’impedire e il giudicare.
Può essere, però, anche un male e i suddetti benefici potrebbero annullarsi se essa non ha una sua disciplina soprattutto a livello di garanzie costituzionali; se resta in mano ad un’aristocrazia del web, ad una élite capace di gestirla senza controllo pubblico e, quindi, di determinare i comportamenti altrui e minare la sicurezza sui procedimenti e sul voto[9], se - come denunciano P. Klugman e M. Hanson[10] – esso erode il potere dello Stato di regolamentare il materiale calunnioso, pornografico, razzista, sessista o omofobo e le attività dei gruppi politici estremisti.
Dipenderanno dai governi, dai governati e dalle autorità internazionali dotate di influenza e di potere normativo l’uso accorto che si farà della strumentazione digitale e l’individuazione delle modalità della sua integrazione nella vigente democrazia costituzionale rappresentativa. Non è un compito facile, dato il carattere planetario, difficilmente regolabile e controllabile, dello strumento telematico. Non sarà, cioè, facile costruire, nel breve e medio termine, un sistema normativo, nazionale ed internazionale, secondo un paradigma costituzionale pluralista, che tuteli il diritto di accesso alla Rete e, nello stesso tempo, ponga limiti ai possibili abusi e manipolazioni di essa da parte sia dei gestori che degli utilizzatori. L’obiettivo che con tale disciplina si dovrebbe raggiungere dovrebbe essere quello di preservare l’essenza della democrazia rappresentativa, liberando le persone e gli Stati dai possibili abusi del sistema informatico, garantendo il diritto fondamentale di informazione, evitando possibili strumentalizzazioni del flusso di informazioni da parte di terzi, rendendo attendibili quelle diffuse senza controllo; assicurando, insomma, a livello costituzionale la sicurezza delle stesse persone e degli stessi Stati.
E’ evidente che, indicando tale obiettivo, prendo nettamente posizione contro quelle correnti di pensiero che sottovalutano questi problemi e disconoscono la necessità di costruire gradualmente una siffatta disciplina, ritenendo prevalente l’assoluta libertà di navigare rispetto alla tutela dei diritti costituzionali all’informazione e a essere informati. Secondo i sostenitori di tali tesi[11], la regolamentazione della Rete dovrebbe essere solo il frutto delle stesse dinamiche sociali ed economiche prodotte dalla società civile, dalle quali dovrebbero emergere «costituzioni civili» che prevalgono come fonte normativa sui tradizionali poteri politici e costituzionali. Tali forme di autoregolamentazione dovrebbero, in particolare, superare la logica politica degli Stati per imporre nella sostanza, anche qui, il dominio dei regimi privati globali, vale a dire di quel diritto prodotto esclusivamente dall’economia globalizzata, e cioè dagli stessi portatori degli interessi settoriali del mercato.
Sono d’accordo al riguardo con Stefano Rodotà[12] nel ritenere inaccettabili queste prese di posizione, perché affidano alle multinazionali informatiche il futuro dei diritti politici, civili e sociali nel mondo virtuale del cyberspazio. Farebbero correre il rischio di concentrare i poteri e le risorse nelle loro mani e in quelle degli Stati dominanti, che avrebbero cosí il vantaggio di utilizzare Internet solo per i propri interessi.
Giustamente Rodotà non si stancava di avvertire che queste tesi portano inevitabilmente ad una sorta di “medioevalismo istituzionale” e rivelano l’incapacità di elaborare categorie interpretative atte a far fronte ai problemi del presente. Sarebbe come lasciare la tutela dei diritti in Rete solo all’iniziativa dei soggetti privati, i quali, in assenza di altre iniziative, appariranno come le uniche istituzioni capaci di intervenire. E sarebbe come accettare – aggiungerei io – una privatizzazione del governo di Internet senza che altri attori – per primo, il Parlamento – ai livelli piú diversi possano dialogare e mettere a punto regole comuni.
Per evitare questi risultati non resta, quindi, che prendere atto che viviamo in un’epoca tecnologica in cui manca ancora una disciplina super partes che garantisca con pienezza, senza discriminazioni e a livello planetario, i diritti fondamentali di informazione dei cittadini e le libertà degli utenti. Ed occorre anche prendere atto che la questione della democrazia di Internet può essere invece risolta solo costituzionalizzando la Rete nel senso di porre tali diritti fondamentali e tali libertà al centro del potere informatico degli Stati e delle organizzazioni di Stati. Il che – lo ripeto – dovrebbe avvenire non affidandosi alle regole spontanee del mercato, ma regolando tali diritti e tali libertà con le norme, sia costituzionali, sia statali che sovranazionali, proprie della democrazia indiretta rappresentativa.
È un’impresa ardua, essendosi in questi ultimi anni appannata nel mondo la fede nelle istituzioni e nella loro capacità di plasmare il futuro e di indirizzare la vita quotidiana. Ma non vedo, allo stato, altra via da seguire.
4. Alcune brevi non confortanti conclusioni
Va ribadito in via conclusiva che finchè non si introdurrà una soddisfacente regolamentazione del cyberspazio su base transnazionale, transgenerazionale e non ideologica, difficilmente la Rete potrà costituire un sicuro spazio di libertà e, perciò, un valido strumento della democrazia diretta, rafforzativo di quella parlamentare rappresentativa. Essa si presterà, anzi, sempre più a manipolazioni e distorsioni comunicative funzionali anche a politiche di controllo sociale. Non è, infatti, sostenibile una situazione, come l’attuale, in cui tre o quattro aziende private, nonché alcune potenze mondiali, controllano lo spazio di dialogo tra i cittadini, decidono quali voci hanno più visibilità e quali vengono nascoste. E ciò vale, nonostante sussista la buona volontà di apprestare un’idonea regolamentazione da parte di numerosi Stati, organizzazioni internazionali e la stessa UE e nonostante vi sia un costante aumento di atti di autodisciplina e di auto-educazione conseguenti alle disaffezioni e diffidenze alimentate dai numerosi scandali[13].
Per ora, prevale purtroppo l’algocrazia, che mina la democrazia rappresentativa e costringe a muoversi tra fake news e giustizia privata esercitata dalle grandi piattaforme, tra trojan e processi sempre più mediatici, tra politica on-line e discriminazione degli algoritmi. Come dice Lawrence Lessig[14], «il cyberspazio lasciato a sè stesso – e per il momento, purtroppo, lo è – difficilmente potrà mantenere le promesse di libertà e di maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Potrebbe anzi divenire un perfetto strumento di controllo».
* Questo scritto riprende e sviluppa alcune considerazioni svolte dall’Autore in un più ampio contributo intitolato Democrazia 4.0. La Costituzione, i cittadini e la partecipazione, pubblicato sulla Rivista AIC, 1, 2020.
[1] C. CROUCH, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2009.
[2] Sul punto, v. in particolare M. VOGLIOTTI, voce “Legalità”, in Annali VI, Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, 2013; nonchè U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Italia e in Europa, University Press, Firenze, 2010 e M. BARBERIS, Stato costituzionale. Sul nuovo costituzionalismo, Mucchi, Modena, 2012.
[3] B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, il Mulino, Bologna, 2010.
[4] Cfr. S. STAIANO, Rappresentanza, in Rivista AIC, 3, 2017, p. 18.
[5] Con riguardo al recente passato, basta pensare, in Italia, ai partiti di Di Pietro e di Berlusconi e, ora, alla Lega di Salvini e al Movimento5Stelle di Beppe Grillo.
[6] H. KELSEN, Il primato del Parlamento, Giuffrè, Milano, 1982.
[7] Ciò senza tener conto dell’ulteriore circostanza, peraltro temporanea, della sussistenza, allo stato, del c.d. digital divide, e cioè del divario tecnologico fra le diverse generazioni e i diversi contesti economici e sociali; divide che, almeno nel presente momento, non consente alla Rete di estendersi con la dovuta uniformità e generalità.
[8] P. ROSANVALLON, Controdemocrazia. La politica nell'era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2017.
[9] Cfr. F. PALLANTE, Contro la democrazia diretta, Einaudi, Torino, 2020.
[10] P. KLUGMAN e M. HANSON, Ingenious. The unintended consequences of human innovation, Harvard University Press, Cambridge, 2020, p. 218 ss..
[11] V., soprattutto, G. TEUBNER, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando, Roma, 2005.
[12] S. RODOTA’, Una Costituzione per Internet, in Politica del diritto, ilMulino, 2010.
[13] Dei primi, timidi segnali positivi in tale senso provengono dal Regolamento UE 2016/79 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, concernente la protezione delle persone fisiche nella materia specifica del trattamento e della libera circolazione dei dati personali. Tale Regolamento – in applicazione nei singoli Paesi dell’UE dal 25 maggio 2018 – è sicuramente un buon punto di partenza dell’attività di contrasto del controllo monopolistico sulla “attenzione” e sulla comunicazione tra le persone. Non entra però – e non può comunque validamente entrare – nel merito di quelle manipolazioni create influenzando il comportamento degli utenti attraverso gli algoritmi provenienti da sedi incontrollabili, fonte e transito di comunicazioni telematiche.
[14] L. LESSIG, Introduction, in Free Software, Free Society. The Selected Essays of Richard M. Stallman, University Press, Boston, 2002.
Ci sei ma non ti vedo…. Il posto delle donne nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Valentina Cardinali
Sommario: 1. Il Piano, il suo iter e il valore economico della “questione di genere” - 2. Dove sono le donne nel documento preparatorio italiano - 3. Una errata interpretazione ed un paio di trappole - 4. Alcune proposte.
1. Il Piano, il suo iter e il valore economico della “questione di genere”
La Commissione europea il 17 settembre scorso ha presentato gli orientamenti per i Piani di ripresa e resilienza (PNRR) che gli Stati membri dovranno presentare per accedere al Recovery Fund - Dispositivo per la ripresa e la resilienza - all’interno del Programma NextGenerationEU: si tratta nello specifico di complessivi 672,5 miliardi di euro, 360 miliardi di euro dei quali in prestiti e 312,5 miliardi in sussidi, che per l’Italia sono stimati in 127,6 miliardi di euro in prestiti e 63,8 miliardi in sovvenzioni [1]. Il termine per la presentazione dei PNRR nazionali è il 30 aprile 2021, ma gli Stati membri sono incoraggiati a presentare i loro progetti preliminari a partire dal 15 ottobre 2020. Attualmente, il Governo italiano ha trasmesso alle Camere la proposta di Linee guida per la definizione del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[2]. Al termine di questo vaglio, il Governo elaborerà lo schema di PNRR e dei relativi progetti di investimento e riforma, secondo il modello predisposto dalla Commissione europea e si avvierà l’iter di richiesta.
Tra i vari vincoli di contesto a cui questo processo è soggetto, va ricordato anche che il Parlamento Europeo ha varato una risoluzione a commento di Next Generation EU e del quadro finanziario pluriennale[3] in cui, al paragrafo 16, richiede che gli Stati membri adottino: a) Gender Mainstreaming, b) Gender Budgeting e c) Gender Impact Assessment. Ossia nell’ordine: a) l’integrazione della prospettiva di genere in tutte le attività e in tutte le politiche: dal processo di elaborazione, all’attuazione, includendo anche la stesura delle norme, le decisioni di spesa, la valutazione e il monitoraggio; b) l’applicazione del principio di gender mainstreaming nella procedura di bilancio - dal momento che i bilanci non sono neutrali, ma hanno un impatto diverso su donne e uomini - con la finalità di strutturare le entrate e le uscite in ottica di uguaglianza tra i sessi; c) la sistematica valutazione degli impatti effettivi e potenziali delle decisioni prese su destinatari uomini e donne a partire dalla fase ex ante, in modo da ovviare a eventuali squilibri prima dell'approvazione della proposta stessa. Questa attività, raccomandata dall’Ue sin dal 2002, non è mai stata messa a sistema nell’attività di policy making italiana.
Stante questo scenario, pertanto, appare centrale, a questo stadio del processo, esaminare la proposta di Linee guida trasmessa al Parlamento proprio in ottica di gender impact assessment.
Punto di partenza: il senso e il progetto di utilizzo del Recovery Fund. Nel momento in cui, in quanto Italia, si richiede la più grande quota di risorse finanziare mai messe a disposizione in tempi di crisi, con il vincolo ai Piani, sancito dalla Ue, di creazione di occupazione e di investimento nello sviluppo e nella coesione sociale, NON può NON essere tenuta in adeguata considerazione la più grande disuguaglianza esistente nel mercato del lavoro e nella sfera economica e sociale: quella tra uomini e donne. Una distorsione che incide nettamente sul Pil nazionale e porta con sé inefficienza produttiva, aumento delle disuguaglianze - anche intergenerazionali - e incidenza sulla fecondità e gli assetti demografici. Le analisi di dettaglio e gli scenari sono ormai tristemente noti. Ricordiamo solo in sintesi che nel nostro Paese abbiamo un tasso di occupazione femminile stabilmente al di sotto del 49% da oltre 30 anni (che diventa 33% al Sud), con più di 20 punti percentuali di distanza dagli uomini e con un differenziale salariale medio tra loro del 22%. Abbiamo una donna su 6 che lascia il lavoro a seguito della maternità e 35.000 dimissioni volontarie di donne con figli da 0 a 3 anni, solo nel 2019. Donne che, in cambio dell’abbandono del posto del lavoro, possono accedere alla Naspi e quindi a un sostegno familiare, ma pagato personalmente, barattandolo con il proprio reddito, le proprie competenze e la prospettiva di sviluppo professionale. Il complesso dei contratti a termine e dei lavori precari che rischiano di non essere rinnovati sono in maggioranza delle donne, anche in quei settori che in questo frangente sono più a rischio da un punto di vista economico (es: servizi, turismo, ristorazione) o sanitario (es: sanità). E il futuro non presenta scenari incoraggianti. L’emergenza pandemica ha profondamente inciso anche sulle strutture familiari, in cui si consolida il ruolo della donna come principale care giver e aumenta la quota di rischio di abbandono del lavoro, esito frequente di scelte familiari, in cui l’uomo, culturalmente male breadwinner e col reddito mediamente più alto, torna di più e prima della donna al lavoro fuori casa.
Tutto questo scenario di scarso e mancato impiego delle donne non può essere certo più etichettato come “una questione di parte”, ma è un reale problema economico di tutto un paese che si prende il lusso di lasciare in stand by la metà della sua forza produttiva. E per comprenderlo non serve sensibilità di genere o cultura femminista. Basta una semplice calcolatrice.
Per le profonde implicazioni economiche sociali e demografiche, ci aspettiamo, quindi, che un Piano nazionale tenga in adeguato conto il fatto che non ci potrà essere alcuna strategia futura di ripresa fino a che la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro non sarà una priorità del Paese. Non a parole, perché nessun tema come questo presenta una dose di etichette politically correct (chi avrebbe mai il coraggio di sostenere che innalzare l’occupazione femminile non sia un tema importante?), ma nella composizione delle voci di spesa del budget che sarà allegato al Piano, nella definizione e scelta dei progetti su cui puntare.
2. Dove sono le donne nel documento preparatorio italiano
E veniamo al punto due. Capire se in questa proposta ci sia – e in caso affermativo quale sia – il posto assegnato alla questione di genere come delineata nel paragrafo precedente; se tale allocazione, anche in termini strategici, sia corretta ancor prima che esaustiva; se le misure proposte siano adeguate alla risoluzione del problema.
Sotto questo aspetto il quadro si fa più complesso e richiede un’attenzione particolare a ciò che il testo dice e ciò che invece… non dice.
Il PNRR individua come prioritarie 4 “sfide”, a cui concorrono 6 “missioni” (obiettivi). Le sfide sono: 1 il miglioramento della resilienza e della capacità di ripresa dell'Italia, 2. la riduzione dell'impatto sociale ed economico della crisi; 3. il sostegno alla transizione verde e digitale, 4. l’aumento del potenziale di crescita dell’economia e la creazione di occupazione. Le 6 missioni indicate del PNRR, invece, rappresentano le aree di intervento in cui agire per vincere le sfide: 1. Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per la mobilità; 4. Istruzione, formazione, ricerca e cultura; 5. Equità sociale, di genere e territoriale; 6. Salute. E queste sei missioni, una volta confezionato il Piano, saranno a loro volta suddivise in cluster o insiemi di progetti omogenei selezionati per spendere il Recovery Fund.
Per come abbiamo definito la questione di genere sinora, il tema copre di certo 3 sfide su 4, ma non viene esplicitato in nessuna di queste. Ove, invece, il genere trova espressione nominale è nella missione 5 “Equità sociale, di genere e territoriale”, quindi nell’alveo degli ambiti tematici su cui intervenire per risolvere le sfide. Ma né l’accezione adottata né la collocazione tematica risultano adeguate alla portata del problema. Mi spiego. La voce “equità di genere” (forse traduzione per assonanza di quello che l’Ue chiama “gender equality”, ossia uguaglianza/parità di genere) non è una novità, era infatti già presente nel lavoro finale del cd. Comitato Colao, ma mentre in quella sede rappresentava uno dei tre driver di cambiamento, e quindi aveva una valenza strategica evidente, nelle attuali Linee guida al PNRR è solo uno dei 6 strumenti di cambiamento, tra l’altro accostato ad altre variabili generaliste come “sociale” e “territoriale”, ma annoverato comunque nell’area dello “svantaggio ”. Oltre al declassamento nel PNRR, tuttavia, l’aspetto più rilevante è che la questione di genere esplicitata in termini di “equità” non appare centrata. Adottando questa categoria giuridica, infatti, si mette in luce l’aspetto delle disparità tra i generi, si chiama in campo una contrapposizione da risolvere per “equità” e quindi per obiettivi di giustizia sociale. E’ un aspetto assolutamente legittimo ed è una delle ottiche con cui si guarda al tema, ma non è e non può essere la chiave con cui si costruisce una strategia di rilancio economico del Paese e la si mette a budget. Affrontare il tema dell’occupazione femminile non è solo “cosa buona e giusta”, ma cosa “imprescindibile e necessaria”.
Veniamo ora alla descrizione specifica della missione 5, Equità sociale, di genere e territoriale. Si legge nel documento di Linee guida: “Il Governo punta ad adottare un ampio spettro di interventi quali: misure fiscali (Piano per la Famiglia-Family Act raccordato con la riforma dell'IRPEF), politiche attive del lavoro e politiche di coesione territoriale e sociale (attuazione del Piano Sud 2030, della Strategia Nazionale delle Aree Interne e rigenerazione e riqualificazione dei contesti urbani e borghi rurali. Un ruolo importante sarà rivestito dalle politiche di formazione dei lavoratori e dei cittadini inoccupati, volte all’acquisizione di nuove competenze, e dalla promozione del lifelong-learning. Con riguardo, in particolare, alla parità di genere, un'attenzione particolare sarà riservata all'empowerment femminile (in termini di formazione, occupabilità ed autoimprenditorialità), anche con progetti volti a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di categorie fragili e ad incentivare le capacità imprenditoriali femminili”.
3. Una errata interpretazione ed un paio di trappole.
Per promuovere quindi il “riequilibrio” tra donne e uomini, il Piano espressamente prevede misure fiscali e azioni di empowerment. Nulla da obiettare nel dettaglio delle singole misure ma quello che non è convincente è il ragionamento a monte. Per risolvere il problema di inserire metà della popolazione attiva nel mercato del lavoro – e in questo caso di parla di donne - si pensa alle “misure speciali”: leva fiscale, incentivi ecc. Questa è l’ennesima conferma del fatto che nei confronti della questione di genere la via ordinaria non funziona. Perché il lavoro delle donne deve essere “conveniente?” Come se si trattasse di ragionare di un gruppo di competenze e professionalità per sua natura svantaggiato e strutturalmente tale. E’ evidente che un gap di genere di 20 punti nell’occupazione in 30 anni e più è la spia di un sistema che non funziona, che ha introiettato dinamiche discriminatorie che fanno differenza tra la scelta di un uomo e di una donna. E sempre non a caso, l’osservatorio sulle discriminazioni delle Consigliere di parità riporta costantemente le difficoltà che riscontrano le donne, a parità di competenze, nell’accesso al lavoro e ai percorsi di carriera, sia in presenza di un carico familiare, sia nell’ipotesi e nella probabilità di averne nel medio termine. E quindi questo ci porta a immaginare che la soluzione debba probabilmente ricercarsi non nelle condizioni esterne, ma all’interno della struttura del mercato del lavoro. Anche attraverso azioni positive, di rottura di questa costruzione, talmente sedimentata nel tempo al punto da sembrare “neutra”, normale. Quando di normale non c’è nulla. Perdere punti di Pil per questa “normalità” è una grave responsabilità politica.
E veniamo quindi alle trappole. Il Piano afferma che “un'attenzione particolare sarà riservata all'empowerment femminile (in termini di formazione, occupabilità ed autoimprenditorialità), anche con progetti volti a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di categorie fragili e ad incentivare le capacità imprenditoriali femminili”. Dov’è la trappola? Anche questa volta, come accaduto già in passato, all’interno di intere filiere di programmazione europea la questione dell’occupazione femminile viene risolta con la strada dell’empowerment, ossia “rafforzamento del sé”. Dopo almeno 40 anni di programmazione europea, con scarsi risultati sull’incremento dei tassi di occupazione, con il crollo delle fecondità e con una crisi economica ed una recessione alle spalle, con un'altra crisi alle porte, la considerazione non può avere più il sapore del brand anni ’90.
Ancora una volta appare sbagliata la diagnosi… e la prospettiva. Il problema dell’occupazione femminile non è imputabile alla poca consapevolezza, capacità o determinazione delle donne. Se lo è in alcuni casi, non può esserlo per metà della popolazione lungo 30 anni, senza variare mai. Il problema, quindi, non è delle donne, che “non sanno” o “non sanno fare abbastanza” prendendo a riferimento un modello maschile, ma il problema è della struttura del mercato e del sistema delle opportunità. Sono ancora tanti e troppi i vincoli strutturali nella cultura organizzativa e nel sistema di incontro di domanda ed offerta che non possono essere ricondotte ad una “responsabilità” di come sono o cosa fanno le donne. Questa visione dell’empowerment induce, come conseguenza, nel Piano, a trovare la soluzione in: a) aumento della formazione (quando le donne sono già le utenti prevalenti della formazione, anche qualificata e specializzata, al punto che diventa spesso un viatico per il fenomeno della overeducation); b) occupabilità, cioè necessità di adeguarle al mercato e renderle appetibili (quando stagioni di incentivi hanno dimostrato che non è il libero mercato che alloca le migliori e le più “adatte” – e prova ne è che spesso le migliori e le più adatte vengono invece valorizzate all’estero. E come abbiamo detto prima, il sistema di accesso presenta una cultura organizzativa discriminatoria; c) autoimprenditorialità. Ecco, il cerchio si chiude ideologicamente su questo tema. Una volta definite le donne gruppo sociale strutturalmente svantaggiato, responsabile della propria condizione, privo di empowerment, cosa si propone loro? La soluzione più difficile in assoluto, cioè mettersi in proprio. Per accedere alla quale, secondo questa filosofia, basta empowerment, ossia grinta e formazione. Gli anni ’90 sono passati da tempo e un’attenzione alla valutazione della storia dell’imprenditoria femminile avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Ma forse col PNRR 2020 siamo ancora nei tempi per poter recuperare.
4. Alcune proposte
Partiamo dal nominare il grande assente tra le sfide per il post Covid: ossia le infrastrutture sociali, lo sviluppo di quella necessaria rete di servizi di sostegno al lavoro non retribuito, svolto prevalentemente dalle donne e che mediamente consente il funzionamento generale del sistema sociale. Lavoro che ha permesso di assorbire una parte dei contraccolpi del lockdown (chiusura delle scuole, della ristorazione, servizi di cura, ecc.) ma che ha aumentato in modo sproporzionato il carico totale di lavoro delle donne, consentendo, come confermano tutte le recenti indagini, agli uomini di tornare di più e prima al lavoro. L’investimento nel tema delle infrastrutture sociale è fondamentale per dare la svolta al Paese e ai suoi indicatori di debolezza comparativa, ancora prima del digitale e della rivoluzione verde. Altrimenti si rischia di saltare dalla tradizione alla innovazione, dimenticandosi di cosa può far muovere il tutto. E questo ci porta a confermare l’esistenza di un’incidenza di genere enorme nel periodo di emergenza Covid, ma anche questa poco visibile, forse anche perché nei vari comitati e task force attivati in questi mesi la presenza delle donne è minima, se non assente.
Pertanto, considerando che:
1) l’innalzamento del tasso di occupazione generale è richiesto dalla Ue come vincolo all’utilizzo dei Fondi;
2) che condizione di ammissibilità delle proposte nazionali è l’adeguamento al rispetto delle raccomandazioni fornite ai singoli Stati membri (nel 2019 era esplicita la richiesta di innalzamento della occupazione femminile e nel 2020 si conferma in chiave più generalista)
3) che la stima dell‘impatto positivo dei Fondi sull’occupazione aggiuntiva è un criterio di valutazione “positivo” dei progetti ammissibili a finanziamento,
appare necessario uscire dall’ottica del gruppo specifico. Non è perché le donne non siano nominate in un paragrafo specifico sull’occupazione femminile che questo Piano non serva allo scopo. Bisogna potenziare e mettere in pratica l’affermazione contenuta nella Linee guida trasmesse al Parlamento che “si terrà conto in ogni parte del piano dell’equità di genere” – pur con i caveat espressi sulla traduzione. Tuttavia, lasciata senza specifiche, resta nel novero delle affermazioni di principio. Ma la procedura di valutazione di impatto di genere (come richiedeva già il Piano Colao) esiste e si può applicare, così come si può applicare il gender mainstreaming sin dalla fase di progettazione. Come? La sfida è individuare ed esplicitare per ogni obiettivo – missione la ricaduta di genere, anche – e soprattutto – laddove il genere non sia contemplato nella declaratoria. Per ogni missione / obiettivo indicare modalità e impatto stimato della ricaduta positiva su occupazione e inclusione socio economica delle donne. Digitalizzazione, rivoluzione verde, istruzione, cultura, equità sono tutti ambiti in cui la ricaduta di genere va prevista, esplicitata e programmata - operazione possibile e già concretizzabile da subito.
Anche in assenza di una cultura politica avvezza al gender assessment credo che con 127,6 miliardi di euro in prestiti e 63,8 miliardi in sovvenzioni tutto ciò sia assolutamente possibile.
[1] http://www.politicheeuropee.gov.it/.
[2]http://www.politicheeuropee.gov.it/. Cfr. Le politiche di settore nel quadro europeo Elementi per l’attività di indirizzo parlamentare in vista del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, Centro studi Senato 22 settembre 2020
[3] Risoluzione del Parlamento europeo del 23 luglio 2020 sulle conclusioni della riunione straordinaria del Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020 (2020/2732(RSP)
La Corte di Cassazione chiarisce a chi spetti l’onere di promuovere la mediazione a seguito di un decreto ingiuntivo
di Mauro Mocci
Sommario: 1. La vicenda - 2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conseguenze.
1. La vicenda
A fronte di un pagamento azionato mediante decreto ingiuntivo, i clienti di una Banca proposero rituale opposizione, sul presupposto che l’Istituto di credito avesse applicato interessi usurari. Una volta concessa la provvisoria esecuzione parziale, il giudice assegnò termine per la presentazione della domanda di mediazione, secondo l’art. 5 comma 1° D.Lgs. n.28 del 4 marzo 2010, che per l’appunto prevede - fra le ipotesi di mediazione obbligatoria - anche i rapporti bancari. Nessuna delle parti provvide a tale incombente, sicché il Tribunale, trattandosi di una condizione di procedibilità della domanda giudiziale (diversamente dalle cause agrarie, ove la mediazione obbligatoria funge da condizione di proponibilità), dichiarò l’improcedibilità dell’opposizione e l’esecutorietà del provvedimento monitorio. La Corte d’Appello territoriale dichiarò, a sua volta, inammissibile il gravame, ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter, ed i soccombenti ricorsero avanti la Suprema Corte, sulla scorta di un unico complesso motivo.
2. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite
Con ordinanza interlocutoria del 12 luglio 2019 n. 18741, la Terza Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sulla questione dirimente dell’individuazione della parte tenuta a promuovere il procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. In tal senso, il collegio ha recepito il motivo di impugnazione, volto ad investire la Corte in ordine al contrasto sussistente in dottrina e nella giurisprudenza di merito fra due posizioni radicalmente differenti.
Nel silenzio della norma processuale di riferimento, l’indirizzo in allora dominante - di cui capofila in giurisprudenza è stata Cass. Sez. III 3 dicembre 2015 n. 24629[1] - ha ritenuto che, essendo l’opponente il soggetto interessato alla proposizione del giudizio di cognizione, su di lui dovesse ricadere l’onere di promuovere la procedura di mediazione. E’ interessante, in proposito, quanto afferma l’ordinanza della Suprema Corte Sez. 6-1 n. 23003 del 16 settembre 2019: “essendo il tentativo obbligatorio di mediazione strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio (in tal senso, relativamente alla procedura conciliativa obbligatoria di cui all'oggi abrogato art. 412-bis c.p.c., Corte Cost. n. 376/2000), grava sulla parte che promuove un simile giudizio l'onere di assolvere tale condizione di procedibilità…..nel procedimento monitorio un processo fondato sul contraddittorio, ossia il giudizio di cognizione ordinaria, consegue solo all'eventuale opposizione dell'ingiunto: pertanto, spetta a quest'ultimo - e sempre a condizione che sia domandata la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo o la sospensione della stessa - l'esperimento nei termini del tentativo obbligatorio di mediazione, essendo nel suo interesse definire alternativamente il giudizio... da ciò logicamente consegue che, in caso di mancato assolvimento di tale condizione di procedibilità, sarà la sua azione (proposta sotto forma di opposizione) a rimanere travolta dalla declaratoria di improcedibilità...dunque, la "logica del contraddittorio" viene adeguatamente garantita proprio assicurando al destinatario della ingiunzione la possibilità di definire in via extragiudiziaria la controversia nella fase del giudizio di merito instaurato a seguito di opposizione (la cui proposizione è soggetta a termine perentorio che, in difetto di espressa norma di legge, non viene ad essere sospeso dalla proposizione della istanza di mediazione divenendo definitivo ed irrevocabile il decreto di condanna in caso di omessa attivazione dell' opponente)”.
Quest’orientamento è stato seguito dalla maggioranza dei giudici di merito e da una parte (minoritaria invero) della dottrina[2].
La gran parte degli autori ed anche alcuni giudici di merito[3] hanno invece evidenziato la condizione dell’opposto nel giudizio monitorio, quale attore in senso sostanziale, e la circostanza che la mediazione obbligatoria viene imposta dal legislatore non all’atto della proposizione del ricorso, ma nella fase a cognizione ordinaria (art. 5 comma 4° D.Lgs. n. 28/2010). In altri termini, l’opposizione conseguirebbe il risultato di ripristinare la disciplina normale dei procedimenti di cognizione, introdotti attraverso l’atto di citazione, che obbliga chi agisce in giudizio – nelle materie specificamente previste dal D.Lgs. in parola – a promuovere la relativa procedura. Da ciò la conclusione che dovrebbe spettare appunto alla parte opposta l’iniziativa della mediazione.
Il persistente contrasto giurisprudenziale fra le predette opinioni ha dunque motivato l’ordinanza di rimessione da parte della terza sezione civile, la quale ha altresì affermato di non reputare condivisibile un’ulteriore tesi, per così dire “a metà strada”, secondo la quale l’onere di attivarsi per il procedimento mediatorio muterebbe a seconda dell’intervenuta concessione o no della provvisoria esecuzione. Nel primo caso graverebbe sull’opponente, nell’altro sull’opposto, legando così la mediazione all’interesse concreto, ma momentaneo, della parte in causa. Si tratta di una soluzione, com’è evidente, non in linea con il principio generale della certezza del sistema, che regola a priori la mediazione sulla scorta della domanda, di cui costituisce condizione di procedibilità.
3. L’inquadramento normativo
L’art. 5 comma 1°-bis recita: “Chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione” ovvero altro meccanismo di risoluzione stragiudiziale specificamente dettato per materie particolari. “L'esperimento del procedimento di mediazione – prosegue la norma - è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all' articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.”
Con riguardo alla specifica materia monitoria, il 4° comma lett. a) del predetto articolo aggiunge che il comma 1-bis non si applica “nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.
In altri termini, per dirimere il potenziale conflitto fra due discipline, volte entrambe ad ottenere l’effetto finale di abbassare il carico processuale – l’una attraverso un intento deflattivo alla fonte (mediante la composizione stragiudiziale), l’altra attraverso un procedimento acceleratorio – ma la cui interferenza avrebbe potuto condurre ad un’eterogenesi del risultato, il legislatore ha inserito il momento della mediazione obbligatoria, una volta esaurita la fase sommaria del procedimento d’ingiunzione.
4. La decisione e le motivazioni
Con la sentenza n. 19596, depositata il 18 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo"[4].
Il contenuto decisorio della sentenza muove dall’analisi delle argomentazioni portate dai due orientamenti a sostegno delle rispettive tesi - l’una legata fondamentalmente alla valorizzazione dell’interesse dell’opponente all’instaurazione di un giudizio ordinario, per evitare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, l’altra volta a rimarcare il ruolo sostanziale dell’opposto e le conseguenze processuali meno radicali che deriverebbero dalla caducazione del provvedimento (con la possibilità di ripresentarlo o di proporre comunque un’azione ordinaria) - e perviene alla conclusione di dover mettere un punto fermo, al fine di ricomporre la spaccatura fra i giudici di merito giacché “l’effetto di prevedibilità delle decisioni giudiziarie si va affermando come un valore prezioso da preservare, anche in termini di analisi economica del diritto”. In tal modo, la Corte ha adempiuto alla sua funzione nomofilattica, regolando ed uniformando l’interpretazione giurisprudenziale del diritto (art. 65 Ord. Giud).
Innanzi tutto, sotto un profilo sistematico, le Sezioni Unite affermano che una lettura delle norme di cui al D. Lgs. n. 28/2010 (in particolare gli artt. 4 comma 2°, 5 comma 1°-bis e 5 comma 6°) coordinata con i principi generali in tema di azione darebbe univocamente conto del fatto che l’onere di intraprendere la mediazione incomba sul creditore opposto (attore in senso sostanziale).
Altro argomento determinante viene rinvenuto nella struttura del procedimento monitorio, in cui la mediazione è collocata dal legislatore in esito alla fase sommaria, dopo la decisione sulla provvisoria esecuzione. In proposito, è pur vero che l’art. 5 comma 4 lett. a) preclude la mediazione “fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”, ma, in realtà, il momento nel quale si perfeziona il contraddittorio corrisponde alla notifica dell’atto di citazione in opposizione, allorquando “il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito” (art. 645 comma 2° c.p.c.). La fase della concessione o del diniego della provvisoria esecuzione è in realtà eventuale, giacché l’intimante potrebbe astenersi dal chiederla: si tratta dunque di una scelta pratica, dettata essenzialmente dalla constatazione che, usualmente, la domanda di concessione (in mancanza di una provvisoria esecuzione anticipata) viene formulata in sede di prima udienza: tuttavia, com’è evidente, i termini della questione non vengono spostati.
Le Sezioni Unite svolgono altresì un fondamentale richiamo alle differenti conseguenze che deriverebbero dall’inerzia delle parti e dalla successiva pronunzia di improcedibilità. In questo senso, onerare senza successo l’opponente significherebbe determinare il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, mentre porre l’iniziativa a carico dell’opposto condurrebbe alla revoca del provvedimento monitorio, il che non precluderebbe una sua riproposizione o l’inizio di un’azione di cognizione ordinaria. E d’altronde - prosegue la Corte - neppure è logico, agli effetti sanzionatori, equiparare la posizione dell’intimato che accetta l’ingiunzione a quella dell’intimato che, invece, reagisce, promuovendo il procedimento di opposizione (l’unico riconosciutogli dalla legge).
Ultima, ma evidentemente non ultima per importanza, l’argomentazione legata alla giurisprudenza costituzionale, secondo cui le forme di accesso alla giurisdizione condizionate al previo adempimento di oneri sono legittime purché ricorrano certi limiti e comunque sono illegittime le norme che collegano al mancato previo esperimento di rimedi amministrativi la conseguenza della decadenza dall’azione giudiziaria. A tale riguardo, la sentenza nota correttamente come la procedura di mediazione, pur essendo espressione di una finalità deflattiva (coerente col principio costituzionale della ragionevole durata del processo) è però recessiva nel contrasto con la garanzia del diritto di difesa. In realtà, l’aporia è solo apparente, giacché si tratta di stabilire la parte sulla quale gravi l’onere di intraprendere la mediazione e non di mettere in gioco i due valori.
5. Le conseguenze
Le conseguenze della sentenza n. 19596 del 2020 sono suscettibili di ripercuotersi su un numero elevato di processi, considerato che il decreto ingiuntivo è lo strumento correntemente utilizzato in tutte le ipotesi di credito per somme liquide e che, come già detto, la mediazione è obbligatoria in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari (art. 5 comma 1-bis D. Lgs. n. 98/2010)[5]. Per il futuro la strada è segnata.
Si tratta invece di esaminare la sorte dei giudizi ancora in corso, a seguito della pronunzia de qua, giacché quelli esauritisi con il passaggio in giudicato o con la revoca del provvedimento – ovviamente per il mancato esperimento della mediazione - non sono più soggetti a modifiche.
Ma anche laddove, in tesi, il tentativo di conciliazione fosse già stato espletato dall’opponente, o di propria iniziativa o su impulso d’ufficio, sarebbe illogico far retrocedere il processo alla fase antecedente. Residuano allora – nella “fascia intermedia” di concreta applicazione del dictum della Suprema Corte – le ipotesi in cui il giudice “rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa” oppure “quando la mediazione non è stata esperita”(art. 1-bis D.Lgs. n. 28/2010): in entrambi i casi, occorre fissare la prima udienza dopo la scadenza del termine di decadenza per il deposito del verbale (art, 6) ed, ove il tentativo non sia stato intrapreso, concedere “contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”. In particolare, spetterà a parte opposta attivarsi tutte le volte che controparte abbia iniziato il procedimento, senza però portarlo a termine, ovvero nessuno abbia preso l’iniziativa.
Potrebbe però essere intervenuta la decadenza ed, a questo proposito, occorre chiedersi se ricorra l'affidamento qualificato in un consolidato indirizzo interpretativo di norme processuali, come tale meritevole di tutela con il "prospective overruling", il quale, come insegna la Suprema Corte (Sez. Un. 12 febbraio 2019 n. 4135)[6], può essere riconosciuto solo in presenza di stabili approdi interpretativi della Cassazione, eventualmente a Sezioni Unite, i quali soltanto assumono il valore di "communis opinio" tra gli operatori del diritto, se connotati dai caratteri di costanza e ripetizione.
Nella specie, il mutamento del precedente orientamento giurisprudenziale, che si fondava su Cass. n. 24629/2015 e sulle successive Cass. n. 25611/2016 e Cass. n. 23003/2019, e che dunque poteva dirsi ragionevolmente stabile, potrebbe rendere appunto applicabili i principi in materia di "overruling".
A tale proposito, la giurisprudenza ha riconosciuto il principio dell’effettività dei mezzi di azione e difesa a tutela della parte che abbia fatto incolpevole affidamento sull'interpretazione corrente al momento del comportamento rivelatosi, "ex post", difforme dalla corretta regola processuale[7]. Pertanto, sulla scorta di tale opinione, dovrebbe reputarsi accoglibile la domanda di parte opposta, volta a promuovere la mediazione, pur dopo la scadenza del termine per il deposito del verbale e pur sempre entro la data fissata dal giudice per la prosecuzione del giudizio.
[1] Tale sentenza è stata pubblicata e variamente commentata. Si pùò leggere in Riv. dir. proc., 2016, 4-5, 1283, con nota di G. BALENA, Opposizione a decreto ingiuntivo e mediazione obbligatoria; in Guida dir., 2016, 3, 12, con nota di M. MARINARO, Una diversa soluzione accrescerebbe l’onere della parte creditrice; in Foro it., 2016, I, 1319, con note di M. BRUNIALTI e D. DALFINO, Opposizione a decreto ingiuntivo e mancato esperimento della mediazione obbligatoria. Mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: quando la Cassazione non è persuasiva; in Giur. it. , 2016, 1, 71, con nota di E. BENIGNI, Mediazione ed opposizione a decreto ingiuntivo: onerato dell’avviso è l’opponente.
[2] In giurisprudenza, anche Cass, 16 settembre 2019 n. 23003, inedita; Trib. Verona, 28 settembre 2017 in Foro it., 2018, I, 328; Trib. Vasto, 30 maggio 2016, ivi, 2016, I, 3649; Trib. Milano, 9 dicembre 2015, in Società, 2016, 1151; Trib. Nola, 24 febbraio 2015 e Trib. Firenze 30 ottobre 2014, in Giur. it., 2015, 1123. In dottrina cfr. G. TRISORIO LIUZZI, in Giusto proc. civ., 2016, 111; E. BENIGNI, Incombe sull’opponente ex art. 645 c.p.c. l’onere di proporre l’istanza di mediazione, in Giur. it. 2015, 1125.
[3] In dottrina si possono ricordare C. MANDRIOLI - A. CARRATTA, Diritto Processuale Civile, XXVII ed, Torino 2019, III, 43; G. BALENA, Mediazione obbligatoria, op. cit.; A. TEDOLDI, Mediazione obbligatoria e opposizione a decreto ingiuntivo, in Giur. it, 2012, 12, 2621. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Ferrara, 7 gennaio 2015, in Foro it. 2015, I, 3732, Trib. Firenze 17 gennaio 2016, in Società, 2016, 1148.
[4] Fra i primi commenti, in senso favorevole G. SPINA, Le Sezioni Unite su mediazione e opposizione a decreto ingiuntivo: prime osservazioni tra prevedibilità delle decisioni e overruling, in Nuova proc. civ. 4, 2020; contrario G. D’ELIA, E’ a carico del creditore-opposto l’onere di promuovere la procedura di mediazione obbligatoria, in Il Caso, 2020, 2.
[5] E’ interessante osservare come notevoli problemi di diritto intertemporale si pongano tutte le volte che la questione abbia a che vedere con un decreto ingiuntivo. Si potrebbe fare l’esempio di Cass. Sez. Un. n. 19246 del 9 settembre 2010, relativa alla dimidiazione dei termini di costituzione dell’opponente, in Giust. civ., 2011, 9, 1, 2101, con nota di F. Cordopatri.
[6] Pubblicata in Foro it., 2019, 5, I, 1639, con nota di V. CAPASSO, Di overrulings invocati a sproposito e di effetti collaterali del mai debellato sindacato diffuso di costituzionalità.
[7] Cfr. Cass. 26 ottobre 2011 n. 22282, in Riv. giur. trib., 2012, 6, 502, con nota di G.M. Cipolla; Cass. 27 dicembre 2011 n. 28967, in Nuova giur. civ., 2012, 5, 1, 412, con nota di C. Viale; Sez. Un. 11 luglio 2011 n.15144, in Foro it. 2011, 12, I, 3343, con nota di R. Caponi. Più di recente, Cass. 29 marzo 2018 n. 7833, Cass. 14 marzo 2018 n. 6159, inedite. Per un approfondimento sull’applicabilità dell’overruling cfr. G. SPINA op. cit. § 5.
La natura della cessione di cubatura e dei diritti edificatori al vaglio delle Sezioni Unite
di Ginevra Iacobelli
Alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è stato chiesto di chiarire la natura della cessione di cubatura, e ancor prima, la natura dei diritti edificatori. La richiesta muove, in entrambi i casi, da questioni di diritto tributario. Se la previsione della trascrizione dei diritti edificatori ha, infatti, sopito il dibattito civilistico sulla natura di tali diritti, ancora numerosi dubbi residuano, in merito ad essa, in materia fiscale.
Sommario: 1. Ius aedificandi e diritto di proprietà - 2. Cessione di cubatura e diritti edificatori a confronto - 3.La questione sulla natura giuridica della cessione di cubatura (Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 19152 del 2020) - 4.La questione sulla natura giuridica dei diritti edificatori (Cass. Civ., sez. V, ord. n. 26016 del 2019).
1. Ius aedificandi e diritto di proprietà
La natura dello ius aedificandi è da sempre al centro di dibattito dottrinale e giurisprudenziale. Alimentata anche da alcuni interventi legislativi, la questione ruota attorno ai rapporti tra diritto del proprietario ed esigenze della pianificazione urbanistica.
Il diritto di edificare è oggetto del potere di pianificazione dell’amministrazione e per il suo concreto esercizio è necessario il rilascio del titolo abilitativo edilizio da parte della stessa: gli strumenti urbanistici comunali – p.r.g. e piani attuativi – delineano i modi e i limiti di godimento della proprietà edilizia sotto il profilo delle condizioni di esercitabilità di tale diritto.
L’intreccio tra diritto di proprietà e poteri amministrativi, allora, alimenta questioni sulla natura giuridica del diritto di edificare e sulla sua scorporabilità dal diritto di proprietà.
Storicamente, lo ius aedificandi è stato considerato come diritto dominicale, insito nel diritto di proprietà. In tal senso, la legge urbanistica fondamentale (L. 1150/1942) assoggettava l’esercizio del diritto di costruire al rilascio della “licenza edilizia”, provvedimento amministrativo autorizzatorio che consentiva alla parte istante di esercitare un diritto di cui già possedeva la titolarità.
La Corte Costituzionale - chiamata a porre un freno alla reiterazione di vincoli di inedificabilità - con la storica sentenza n. 6 del 1966, ha avallato la concezione tradizionale che qualificava il diritto di edificare quale facoltà connaturale al diritto di proprietà dei suoli, definendo il cd. “contenuto minimo del diritto di proprietà”.
Tuttavia, a lungo la dottrina, propensa a qualificare il diritto come facoltà “concessa” dall’autorità pubblica, ha auspicato un intervento innovativo da parte del legislatore. Basti pensare che Sandulli propose di considerare “la facoltà di costruire non più connaturata al diritto di proprietà, bensì come l’effetto di una concessione pubblica da accompagnare con l’imposizione di un tributo”.
Si evidenzia, più chiaramente, che i suoli non potevano considerarsi naturalmente edificabili, ma, piuttosto, sarebbe stato il potere pubblico ad imprimere tale destinazione.
Su questa scia fu adottata la Legge Bucalossi (L. 10/77), destinata ad alimentare il dibattito sulla natura giuridica dello ius aedificandi.
Essa, infatti, configurava il diritto di edificare come facoltà estranea al diritto di proprietà, “concessa” dalla pubblica amministrazione, titolare del diritto in forza del potere di pianificazione ad essa attribuito. In linea con quanto affermato, veniva modificato il nomen juris e si escludeva il riferimento alla licenza edilizia in favore di quello alla “concessione edilizia”.
Si assiste al passaggio da un sistema fondato su un provvedimento autorizzatorio - finalizzato a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto preesistente di cui l’istante è già titolare - ad un sistema incardinato sul rilascio di un provvedimento di natura concessoria, attributivo di un diritto “nuovo”, prima inesistente nel patrimonio giuridico del richiedente. In tal senso, il provvedimento concessorio era inteso a titolo oneroso, in armonia con il principio per cui il richiedente chiede di utilizzare un bene di interesse pubblico.
Attraverso tale modifica legislativa, tutti i fondi acquisivano la medesima natura e l’indennizzo da corrispondere in caso di esproprio era commisurato, per tutti, al valore agricolo medio del terreno, senza distinzione tra fondi edificali e fondi agricolo.
In aggiunta, lo sganciamento del diritto di edificare dalla proprietà risolveva l’annoso problema della reiterazione dei vincoli di inedificabilità, non ponendo, questi, più alcuna lesione del diritto di proprietà.
La Corte Costituzionale, con la nota pronuncia n. 5 del 1980, ha, però, smentito le innovazioni legislative richiamate, confermando l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà e dichiarando la concessione ad edificare quale provvedimento autorizzatorio, non attributivo di nuovi diritti, ma che “presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza”.
A completamento, la Corte chiariva che se è “indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l'edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando (mediante programmi pluriennali di attuazione previsti dall'art. 13 della legge n. 10 del 1977) della edificazione”, tuttavia, con riguardo alle aree destinate – secondo gli strumenti urbanistici - alla edilizia residenziale privata, il proprietario delle stesse “ha il diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell'area ed è irrevocabile, fatti salvi casi di decadenza previsti dalla legge (art. 4 legge n. 10 del 1977)”; “da ciò deriva che il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Taluna dottrina, nell’immediato, ha letto nella decisione richiamata una soluzione limitata a garantire tutela al privato avverso i numerosi provvedimenti di esproprio, ma ha sottolineato il ruolo della pubblica autorità alla quale “si demanda ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando della edificazione” che svuota, in parte, il diritto del proprietario del suolo.
La questione, in vero mai sopita, è ritornata in luce con lo svilupparsi dei cd. “trasferimenti di volumetria”, definizione sotto cui possono ricondursi fenomeni eterogenei e molto differenti tra loro, che vanno dalla cessione di cubatura tra fondi contigui od omogenei, alle redistribuzioni fondiarie che si attuano nei piani perequativi, fino ai trasferimenti di diritti edificatori sotto la forma di crediti compensativi e premiali.
2. Cessione di cubatura e diritti edificatori a confronto
In urbanistica, per cubatura si intende la volumetria edificabile di un suolo, in conformità a quanto previsto dagli strumenti di pianificazione.
I vincoli relativi all’edificazione di un’area sono indicati dagli standard edilizi, limiti inderogabili all’edificabilità, introdotti per la prima volta dalla legge Ponte del’67 e finalizzati ad un razionale sfruttamento edilizio del suolo che garantisca e tuteli la salute dei cittadini e la salvaguardia del territorio, nel rispetto della nostra carta costituzionale. Lo standard edilizio è, nel dettaglio, indice di densità edilizia, ricavato dal rapporto tra superficie utilizzabile e volumetria (i.e. cubatura) che una costruzione può assumere.
Per superare i limiti inderogabili alla cubatura realizzabile si sono sviluppate, nella prassi, modalità di “micropianificazione ad iniziativa privata” (in tal senso Gambaro) con cui il proprietario di un’area edificabile trasferisce, in tutto o in parte, al proprietario di una zona finitima, la potenzialità edificatoria del proprio terreno o la cubatura del proprio suolo. Il proprietario dell’area, cessionario, potrà cosi incrementare la volumetria edificatoria del proprio terreno, ottenendo dal Comune un permesso di costruire di volume maggiore, comprensivo anche di quello ceduto.
Si evidenzia, del resto, che la possibilità di cedere la cubatura non è osteggiata dalla pianificazione, già realizzata a monte dall’amministrazione. Gli standard edilizi, infatti, individuano indici edilizi per “zone” e non per singole aree: ciò permette la circolazione della volumetria, nella stessa zona, senza la modifica dell’indice edilizio già definito.
La cessione è considerata ammissibile poiché il trasferimento della volumetria rispetta i limiti della pianificazione urbanistica; è irrilevante, a tal fine, che la potenzialità edificatoria di una determinata zona del PRG sia utilizzata da un solo soggetto in un punto definito, oppure da più soggetti pro quota.
Più chiaramente, la maggiorazione di volumetria a favore del cessionario della cubatura trova bilanciamento nella riduzione della volumetria del cedente, senza che ciò comporti alcuna modifica del rapporto di densità abitativa (stabilito dagli standard edilizi).
La divisione del terreno in zone, però, è oggi superata dalla ricerca di soluzioni volte a favorire la compresenza di strumenti che meglio permettano la realizzazione dei diritti della collettività.
La questione muove dalle nuove tecniche di pianificazione urbanistica che abbandonano lo schema classico delle zonizzazioni e si esprimono attraverso gli strumenti della perequazione, della compensazione e dell’incentivazione, oggetto di ampi dibattiti dottrinari, nonché di incerte e contrastanti decisioni da parte della giurisprudenza di merito.
La perequazione, nel dettaglio, consiste nell’attribuire anche ad aree qualificate dal piano come non edificabili una cubatura potenziale da realizzare altrove, cioè su aree qualificate come edificabili. È una tecnica urbanistica tendente all’uguale distribuzione dei valori e degli oneri della trasformazione urbanistica del territorio tra tutti i proprietari interessati. Ed infatti, la c.d. zonizzazione - con la distinzione tra aree edificabili e non edificabili - porta inevitabilmente a sperequazioni tra i diversi proprietari.
La compensazione rappresenta uno strumento che svolge una piena funzione di ristoro rispetto alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’imposizione dei vincoli stessi o rispetto agli oneri sostenuti per il facere sopportato, mirando a ridurne gli effetti sfavorevoli e negativi.
Scopo della compensazione è quello di consentire alle amministrazioni comunali di espropriare le aree soggette a vincolo urbanistico, senza l’esborso di un indennizzo.
Si tratta, in buona sostanza, di una soluzione alternativa all’espropriazione, in quanto, in presenza di un vincolo preordinato all’esproprio, il proprietario dell’area vincolata cede la medesima al comune in cambio della disponibilità di una cubatura su di un’altra area.
La stessa Corte costituzionale, del resto, ha riconosciuto la legittimità della compensazione urbanistica in alternativa all’indennizzo espropriativo monetario, previa cessione del bene, attraverso l’attribuzione di quote di edificabilità o di recupero di cubature in altre aree (C. Cost. 179/99).
Le incentivazioni, infine, sono strumenti applicativi della cd. “premialità urbanistica”. Quest’ultima consiste nell’attribuzione di un diritto edificatorio aggiuntivo, rispetto a quello previsto in via ordinaria dagli strumenti urbanistici, come premio per il raggiungimento di determinati obiettivi pubblici.
In maggior sintesi, i diritti edificatori perequativi vengono assegnati direttamente in seguito alla formazione del piano e sono commerciabili nel momento stesso in cui questo viene approvato ed il terreno - oggetto di trasferimento alla P.A. - viene dotato di una propria volumetria realizzabile, tuttavia, solo sulle aree di concentrazione; i diritti compensativi sono attribuiti, invece, in seguito alla cessione all’Amministrazione comunale del fondo sorgente e non hanno limiti spaziali; i diritti incentivanti o premiali sono, infine, attribuiti in seguito all’intervento di riqualificazione urbanistica e/o ambientale.
Dal ricorso a queste nuove forme di pianificazione territoriale è evidente come possano scaturire altrettanto nuove situazioni giuridiche soggettive a favore dei soggetti coinvolti nelle operazioni perequative, compensative o incentivanti e che dette situazioni possano essere soggette ad ulteriore circolazione nell'ambito di un vero e proprio 'mercato volumetrico' attraverso le fasi del distacco dalle proprietà originarie (cd. 'decollo' dal fondo 'sorgente'), del successivo 'volo' (e quindi del 'transito' della capacità edificatoria connessa a quelle situazioni, anche a favore di soggetti non necessariamente proprietari di alcun lotto) e infine dell’atterraggio della potenzialità edificatoria su di un fondo diverso da quello di originario 'decollo', detto 'accipiente', e che si estingue al momento del rilascio del permesso di costruire.
Così chiarito, è possibile evidenziare le differenze tra i due istituti richiamati: nella cessione di cubatura è fortemente accentuato il carattere della realità poiché il “decollo” e “l’atterraggio” del diritto riguardano aree ben identificate, anche se non necessariamente confinanti, ma comunque contigue o radicate nella stessa zona. Invece, nel trasferimento dei diritti edificatori il medesimo carattere è attenuato, in quanto è possibile la negoziazione di questi diritti persino a prescindere dalla presenza di un’area cedente e di un’area cessionaria. Più chiaramente, il trasferimento si può realizzare quando il diritto è “in volo”, a prescindere dal decollo e l’atterraggio, traendo origine da qui l’espressione, largamente usata, di “crediti edilizi”.
La linea di discontinuità della circolazione dei diritti previsti dai modelli di pianificazione urbanistica rispetto alla cessione di cubatura si coglie proprio nella capacità circolatoria dei primi, svincolata dall’attuale proprietà di un fondo edificabile, là dove elemento qualificante della cessione di cubatura è la sussistenza e l’individuazione di due fondi, “cedente” e “cessionario”, posti all’interno della medesima zona urbanistica o aventi almeno la stessa destinazione.
La cessione di cubatura, allora, è stata definita correttamente figura diversa dai diritti edificatori, quasi “prodromo” della categoria generale di tali diritti.
3. La questione sulla natura giuridica della cessione di cubatura (Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 19152 del 2020)
Da sempre sono state sollevate forti perplessità sulla natura della cessione di cubatura (o di volumetria).
La cessione di cubatura è un negozio in virtù del quale il proprietario di una determinata area edificabile non sfrutta per sé la cubatura realizzabile sul proprio terreno, ma la cede - totalmente o parzialmente - ad altro soggetto, di solito proprietario di un fondo finitimo, affinché quest’ultimo possa servirsi della volumetria ulteriore acquisita per ottenere dal Comune il permesso di costruire per una volumetria complessiva maggiorata rispetto a quella prevista per il fondo di sua proprietà.
Il trasferimento si articola in due momenti: il primo, privatistico, tra due privati (cedente e cessionario); il secondo, pubblicistico, che attribuisce in capo alla pubblica amministrazione il rilascio del permesso di costruire per una volumetria maggiorata.
In estrema sintesi, l'efficacia del negozio traslativo è subordinata al rilascio del permesso di costruire cd. maggiorato: ciò ha creato numerosi dubbi in ordine alla ricostruzione della natura giuridica.
Volendo provare a sintetizzare le numerose tesi prospettate nel corso del tempo è possibile distinguere tra gli orientamenti “a base negoziale”, che valorizzano l’autonomia negoziale, e quelli “a base amministrativa”, caratterizzati dalla centralità del provvedimento amministrativo.
Nell’ambito degli orientamenti a base amministrativa si distinguono due filoni: in forza del primo (tesi del negozio ad effetti obbligatori), la cessione di cubatura integrerebbe un procedimento a formazione progressiva il cui fulcro si individua nel provvedimento con il quale il Comune rilascia il permesso di costruire cd. “maggiorato”.
Il trasferimento di cubatura sarebbe determinato, dunque, da un provvedimento discrezionale, non vincolato all'assetto negoziale configurato dalle parti, ed emanato in esito a una valutazione dei molteplici e rilevanti interessi pubblici.
Così facendo, si nega un ruolo principale all’autonomia privata nella vicenda complessiva e si inquadra l’accordo nella tipologia dei contratti ad effetti obbligatori.
La critica maggiore mossa all’orientamento de quo è la scarsa tutela degli interessi delle parti: il negozio di cessione di cubatura, ad effetti meramente obbligatori, non avrebbe potuto essere trascritto e, quindi, non sarebbe risultato opponibile ai terzi.
Diversamente, la giurisprudenza amministrativa, ha prospettato la tesi dell’autosufficienza del provvedimento amministrativo: in base a tale impostazione, per la cessione di cubatura, da un proprietario ad un altro, non sarebbe necessario un atto negoziale privato diretto alla creazione di un vincolo giuridico tra le parti, in quanto tale cessione si realizzerebbe per mezzo del solo provvedimento amministrativo, avente effetto tra le parti e verso i terzi.
L’adesione del cedente potrebbe essere espressa in vari modi: da un atto di rinuncia, ad una dichiarazione. Si superava così il problema dell’opponibilità ai terzi, a danno, però, della sicurezza dei traffici.
Un orientamento opposto valorizza, invece, il rilievo negoziale della cessione.
All’interno della teoria a base negoziale, poi, si rilevano diversi tentativi di soluzione.
Una teoria inquadra il negozio di cessione di cubatura nell’ambito del diritto di superficie (atipico). Si afferma che così come può costituirsi il diritto di superficie mediante l’alienazione separata di un immobile già esistente, lo stesso può accadere con l’alienazione separata di una costruzione non ancora edificata
La tesi, tuttavia, non convince dal momento che il cessionario del diritto di cubatura non acquisisce un diritto di edificare su cosa altrui - così come avviene nel caso del diritto di superficie - ma incrementa la facoltà di esercizio del diritto su una cosa che è ed era propria.
È inoltre da escludere la creazione di un diritto reale atipico per il principio di tipicità e tassatività dei diritti reali.
Un’ulteriore ricostruzione considera la cessione di volumetria come un vincolo unilaterale nei confronti della P.A.: mediante il c.d. “atto di asservimento”, infatti, il proprietario di un fondo si impegna a non richiedere il permesso di costruire per edificare sul fondo medesimo; a tale rinuncia deve far seguito il rilascio ad altro soggetto di un permesso di costruire per una volumetria superiore a quella relativa al suo terreno. Si discorre, in tal senso, di rinuncia abdicativa
Si obietta, tuttavia, che la rinuncia non sarebbe stata opponibile ai terzi; non potrebbe configurarsi una rinuncia in senso tecnico: se, infatti, è concepibile la rinuncia ad un diritto soggettivo, non lo è la rinuncia ad una delle facoltà in esse ricomprese, dal momento che le facoltà costituenti il contenuto del diritto di proprietà non possono estinguersi se non con l’estinzione del diritto. Inoltre, è difficile spiegare come, con la semplice rinunzia, proprio il cessionario abbia "acquistato" la cubatura.
Al fine di superare gli inconvenienti derivanti dalla mancata opponibilità del negozio di cessione di cubatura sono state elaborate, sempre nell’ambito delle teorie “a base negoziale”, altre tesi che ricostruiscono la cessione di volumetria ora alla stregua di un negozio costitutivo di servitù di non edificare, ora alla stregua di un negozio di destinazione, ora come negozio traslativo di un diritto reale.
Il più noto è sicuramente il riferimento alla servitù di non edificare, che da una parte permetterebbe il rispetto del principio di tipicità dei diritti reali, dall’altra la possibilità di procedere con pubblicità immobiliare per rendere il trasferimento opponibile ai terzi.
In particolare, nell’ipotesi in cui il cedente spogli integralmente della capacità edificatoria il fondo servente, in modo tale che non possa esser più realizzato alcun manufatto, lo schema legale sarà quello della servitù di non edificare; qualora, piuttosto, le parti intendano realizzare un “parziale” trasferimento della cubatura, il meccanismo tipico di riferimento potrà essere quello della servitus altius non tollendi, in modo tale che il cedente possa utilizzare egli stesso sul proprio lotto un manufatto che impieghi la residua cubatura oppure possa cederla a terzi; la servitù resterebbe in ogni caso soggetta alla condizione risolutiva (condicio iuris) rappresentata dal rifiuto del permesso di costruire maggiorato da parte del Comune in favore del proprietario del fondo dominante.
Si obietta, però, che il ricorso al meccanismo legale delle servitù non aedificandi o altius non tollendi offrirebbe una spiegazione chiara alla nascita del vincolo sul fondo appartenente al cedente, ma non permetterebbe di comprendere come si verifica tecnicamente il corrispondente incremento della volumetria in capo al cessionario. Inoltre, si è osservato come, per quanto atipico possa essere il contenuto della servitù, esso sia pur sempre collegato ad una utilitas che, nel caso di specie, potrebbe configurarsi, però, solo a seguito del rilascio del provvedimento amministrativo concessorio.
La questione, in materia di diritto civile, riguardava prevalentemente la trascrivibilità del diritto ed è, pertanto, in parte stata sopita dall’introduzione dell’art. 2643 n. 2 bis c.c. che rende trascrivibili “i contratti che costituiscono, trasferiscono, o modificano i diritti edificatori comunque denominati…”.
Tuttavia, la natura giuridica della cessione di cubatura è ancora discussa nell’ambito del diritto tributario e non è un caso che la rimessione sia sorta in ambito tributario.
Nel dettaglio, la questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite muove dalla necessità di definire l’imposta di registro in relazione ad un atto di cessione di cubatura.
Le disposizioni tributarie, infatti, sottopongono ad aliquota diversa i contratti onerosi traslativi di diritti reali ed i contratti obbligatori. Nel dettaglio, l’art. 1, Tariffa Parte I del D.P.R. 131/86 stabilisce che “gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e gli atti traslativi o costitutivi di diritti reali di godimento, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi, i provvedimenti di espropriazione per pubblica utilità e i trasferimenti coattivi, sono assoggettati ad aliquota fissa pari all’8%”. Diversamente, ai sensi dell’art. 9, gli atti aventi contenuto patrimoniale sono assoggettati al pagamento dell’imposta dovuta con applicazione dell’aliquota del 3%.
La sezione rimettente ripercorre le teorie richiamate e individua, ai fini fiscali, un orientamento che definisce la cessione di cubatura quale diritto reale o diritto assimilabile ad un diritto reale e assoggetta l’atto ad imposta di registro con aliquota fissa all’8% e un orientamento opposto che qualifica la natura dell’atto di cessione come meramente obbligatoria con applicazione dell’aliquota del 3%. A questi orientamenti si affianca, poi, un terzo che attribuisce alla cessione di cubatura natura poliedrica, rilevando di volta in volta le diverse normative riguardanti i singoli tributi.
L’adesione ad una teoria, piuttosto che ad un’altra, ha allora evidenti ricadute sul piano fiscale e ciò richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
4. La questione sulla natura giuridica dei diritti edificatori (Cass. Civ., sez. V, ord. n. 26016 del 2019)
L’art. 2643, co.1, n. 2 bis, c.c. si propone, per stessa dichiarazione del legislatore, di “garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori”.
Sul piano della circolazione, le vicende traslative dei titoli volumetrici in assenza di fondi contigui o, comunque, ben determinati, sollevano diversi profili critici e, ancora una volta, hanno dato adito a dibattito quanto alla natura giuridica di tali diritti.
Taluni, richiamando la disciplina legislativa, hanno fatto derivare da questa previsione la realità del diritto, salvo poi dover verificare se si tratti di diritti “in re propria” o “in re aliena”.
Si obietta correttamente, però, che la mera collocazione del nuovo n. 2-bis nell’alveo dell’art. 2643 c.c. non possa costituire prova e fondamento della realità di tali diritti, in quanto l’ordinamento conosce ipotesi di trascrizione di contratti sicuramente con efficacia obbligatoria o dubbiosamente reale (si veda, a titolo esemplificativo, le ipotesi di cui ai nn. 8 e 12 del medesimo art. 2643 c.c., come pure quella del contratto preliminare ex art. 2645-bis c.c.).
Inoltre, a tale tesi si è replicato che i diritti in questione non sarebbero riconducibili nei diritti reali tipici, non potendo neppure inquadrarsi nella categoria delle servitù in quanto, una volta sorto, il diritto edificatorio (e la volumetria edificabile che lo stesso rappresenta), perde ogni collegamento con l’immobile di partenza, potendo lo stesso circolare ed essere negoziato in maniera autonoma.
I dubbi sulla natura reale hanno spinto a qualificare il diritto come un “bene”, in sé apprezzabile sul piano economico e giuridico: si qualifica il diritto edificatorio come bene immateriale (di origine immobiliare) similmente a quanto si era fatto per le “quote latte” (che spettano al conduttore dell'azienda agricola, ma possono essere alienate separatamente dall’azione) o per il “diritto al riempimento del vitigno” (alienabile a favore di altri viticoltori).
Altra dottrina, esaltando il ruolo della pubblica amministrazione che conclude il procedimento, evoca il concetto di “chance edificatoria” richiamando una situazione di interesse legittimo pretensivo in capo al titolare del diritto edificatorio poiché è necessaria un’attività adesiva dell’amministrazione per l’esercizio di tale diritto.
La negoziazione della chance, allora, realizzerebbe la circolazione di un’aspettativa di diritto.
Tale teoria, tuttavia, è stata criticata osservando che non si tratta sic et simpliciter di un diritto di natura obbligatoria, poiché presenta evidenti profili di realità in quanto, da un lato, il titolare di detto diritto non può che essere il proprietario di un immobile interessato da una perequazione, incentivazione o compensazione e, dall’altro lato, il diritto edificatorio per la sua realizzazione presuppone la titolarità di un immobile nel quale riversare la “quantità volumetrica” spettante.
Tutte le teorie riportate sono richiamate dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite da parte della sezione tributaria al fine di chiarire “se un’area, prima edificabile e poi assoggettata con legge regionale ad un vincolo di inedificabilità assoluta, sia da considerare edificabile ai fini ICI ove inserita in un programma di cd. compensazione urbanistica adottato dal Comune, ancorché il procedimento compensatorio non si sia ancora concluso, non essendo stata specificamente individuata ed assegnata al proprietario la cd. area “di atterraggio”, ossia l’area sulla quale deve essere trasferita l’edificabilità già cessata sull’area cd. “di decollo.
L’ICI (imposta comunale sugli immobili) è stata sostituita dall’IMU (imposta municipale sugli immobili), tradizionalmente riservata gli enti locali. La questione ha ad oggetto l’ICI, ratione temporis, ma rileva ugualmente ai fini dell’imposizione dell’IMU (attualmente vigente).
Ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. 504/92 presupposto dell’ICI è il possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l’attività d’impresa. L’art. 36, co.2, D.L. 223/2006, convertito in L. 248/2006 ha stabilito che “un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo”.
Tirando le fila, il reticolo di norme richiamato prevede il pagamento di un’imposta anche per terreni edificabili, di qui l’esigenza di chiarire se l’imposta è dovuta anche in fase di “volo” del diritto edificatorio. La risoluzione della questione passa evidentemente – ancora una volta - per l’esatta individuazione della natura del diritto: ove si qualificasse il diritto di edificare come obbligatorio difetterebbe, infatti, il presupposto dell’edificabilità dell’area previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 perchè il diritto in questione non sarebbe una qualità intrinseca dell’area stessa, bensì un diritto obbligatorio spettante al suo proprietario
L’ordinanza di rimessione pare propendere per la natura obbligatoria dei diritti edificatori. L’estensore afferma, in tal senso, che “se, come sembra preferibile, si qualifica tale diritto come di natura obbligatoria (quantomeno con riferimento al “credito compensativo” promesso al proprietario con lo strumento della compensazione urbanistica), ancorché con profili di realità, difetterebbe il presupposto dell’edificabilità dell’area previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 perché il diritto in questione non sarebbe una qualità intrinseca dell’area stessa, bensì un diritto obbligatorio spettante al suo proprietario.
Analoga conclusione ove si accedesse alla configurazione dei crediti edilizi in termini di “frutto” del bene, come pure è stato prospettato, laddove il frutto sarebbe la capacità edificatoria espressa dal bene stesso ma da quest’ultimo destinata a staccarsi”.
Infatti, è vero che il diritto edificatorio necessariamente “decolla” da un fondo e, infine, “atterra” su un altro fondo, nel quale viene materialmente sfruttato, ma è altresì vero che la volumetria può restare per lungo tempo “in volo”, completamente staccata sia dal fondo di decollo (che la genera) sia da quello di atterraggio (che è destinato a riceverla), potendo nel frattempo essere liberamente ceduta a fronte di un prezzo: insomma, si tratta di un diritto che non presenta quei caratteri di immediatezza e di inerenza che connotano qualsiasi diritto reale.
Per la sezione rimettente per tutto il tempo del “volo”, dunque, il proprietario o il titolare di altro diritto reale non ha il possesso di alcuna area fabbricabile sita nel territorio comunale, ma resta titolare e possessore di un area gravata da un vincolo di inedificabilità assoluta, nella specie in virtù della pianificazione paesaggistica regionale (strumento sovraordinato al piano urbanistico comunale), e vanta una mera aspettativa di divenire titolare di altra area edificabile, sita altrove, ma della quale non conosce neppure gli estremi catastali, in quanto ancora non specificamente individuata e, conseguentemente, non ne ha neppure il possesso. In conclusione, secondo l’ordinanza di rimessione, non appaiono sussistere i due presupposti richiesti dalla normativa ICI per l’applicazione dell’imposta: non sembra, infatti, ravvisabile né il presupposto oggettivo, costituito dal possesso di un’area fabbricabile ancorché solo potenzialmente), e neppure il presupposto soggettivo, ossia la proprietà o la titolarità di altro diritto reale su un’area fabbricabile.
“La mera promessa di assegnazione di un’area edificabile in compensazione di quella di partenza, infatti, non appare idonea a conferire alcun diritto al privato, ma solo una legittima aspettativa, soggetta a una ampia discrezionalità dell’Amministrazione ed incerta nell’an, nel modus e nel tempus”.
Il rilievo della questione richiede l’intervento delle Sezioni Unite.
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