ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La proposta di regolamento sui «servizi digitali» dell’Unione europea: profili procedimentali (brevi note)
di Filippo D’Angelo
sommario: 1. L’ambito applicativo. - 2. La coamministrazione delle funzioni di vigilanza. - 3. La «cooperazione transfrontaliera tra coordinatori dei servizi digitali». 4. La «vigilanza rafforzata sulle piattaforme online di dimensioni molto grandi». - 5. Una riflessione conclusiva.
1. L’ambito applicativo.
Il 15 dicembre 2020 l’Unione europea ha pubblicato la proposta (n. 2020/0361) di regolamento sul «mercato unico dei servizi digitali». Dopo una lunga attesa il documento è intervenuto a colmare un vuoto legislativo non più procrastinabile e ha dettato «norme armonizzate sulla prestazione di servizi intermediari nel mercato interno»[1]. Questi i suoi obiettivi: «stabilire un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile»[2]; contrastare la diffusione di «contenuti illegali» in rete[3]; garantire la neutralità delle piattaforme telematiche[4]; tutelare i diritti fondamentali degli utenti[5].
La nuova normativa si applicherà a tutti i «servizi intermediari prestati a destinatari il cui luogo di stabilimento o di residenza si trova nell’Unione» (il riparto delle funzioni di vigilanza segue dunque un criterio territoriale)[6]; e riguarderà nello specifico i servizi di semplice trasporto (“mere conduit”), di memorizzazione temporanea (“caching”) e di memorizzazione su richiesta dell’utente (“hosting”)[7]. In quest’ultima categoria rientrano le «piattaforme online», come i social network o i mercati digitali[8], che possono assumere «dimensioni molto grandi» se «prestano i loro servizi a un numero medio mensile di destinatari attivi del servizio nell’Unione pari o superiore a 45 milioni», ossia al 10% della popolazione totale dell’Unione[9].
2. La coamministrazione delle funzioni di vigilanza.
L’esecuzione del nuovo regolamento è stata affidata a un «sistema comune» di autorità amministrative formato dalla Commissione, dai coordinatori nazionali dei servizi digitali e dal comitato che li riunisce[10]; in base al preciso disposto regolamentare essi «cooperano tra loro» secondo collaudati meccanismi di coamministrazione delle funzioni di vigilanza[11]. La proposta di regolamento ha assegnato alla Commissione e alle autorità nazionali rilevanti poteri istruttori (possono richiedere informazioni ai prestatori di servizi digitali; possono ispezionare i loro locali aziendali; possono sequestrare documenti; possono verbalizzare qualunque dichiarazione) e altrettanto incisivi poteri decisionali (possono ordinare la cessazione di comportamenti illeciti; possono imporre misure correttive e accettare impegni vincolanti; possono adottare misure cautelari; possono irrogare sanzioni pecuniarie e penalità di mora) da esercitare nel rispetto del principio del contraddittorio coi destinatari[12].
La vigilanza settoriale spetta in prima battuta alle autorità nazionali (secondo il menzionato criterio del luogo di stabilimento dell’impresa vigilata), anche se sono previsti specifici meccanismi di composizione con la Commissione. Le autorità pubbliche dell’Unione e degli Stati membri sono infatti collegate attraverso raccordi di natura procedimentale ed è qui che si può apprezzare più nitidamente l’intensità della loro collaborazione.
3. La «cooperazione transfrontaliera tra coordinatori dei servizi digitali».
Tanto accade, ad esempio, nella procedura di «cooperazione transfrontaliera tra coordinatori dei servizi digitali» che si svolge nel seguente modo.
Il procedimento è avviato da qualunque coordinatore nazionale dei servizi digitali che può chiedere al coordinatore competente per territorio di «valutare la questione e di adottare le misure di indagine e di esecuzione necessarie» qualora vi sia il sospetto che un prestatore di servizi intermediari abbia violato le norme del regolamento[13]. La richiesta è motivata in punto di fatto e diritto, ed è corredata delle prove necessarie[14]. Ricevuta l’istanza il coordinatore interpellato avvia l’indagine ed entro due mesi comunica la propria valutazione del caso e indica le eventuali misure adottate[15].
Laddove l’autorità proponente «non abbia ricevuto una risposta» alla propria richiesta nel termine previsto, oppure «non concordi con la valutazione del coordinatore dei servizi digitali» interpellato[16], può̀ deferire la questione alla Commissione che la esamina entro tre mesi. Se giunge a conclusioni diverse da quelle dell’autorità nazionale che ha condotto l’indagine la Commissione le può chiedere di «valutare ulteriormente la questione e di adottare le misure di indagine o di esecuzione necessarie» nei successivi due mesi[17].
Tuttavia il procedimento non termina qui: se l’indagine riguarda una «piattaforma online di grandi dimensioni» e il coordinatore dei servizi digitali competente non ha svolto il supplemento istruttorio richiesto dalla Commissione[18], quest’ultima può richiamare a sé il procedimento di vigilanza e da quel momento il «coordinatore dei servizi digitali del luogo di stabilimento interessato non è più̀ autorizzato ad adottare alcuna misura di indagine o di esecuzione in relazione alla pertinente condotta della piattaforma online di dimensioni molto grandi interessata»[19]. Egli può solo coadiuvare la Commissione, fornendole il fascicolo d’indagine con tutte le informazioni necessarie affinché questa possa adottare la decisione più appropriata nei confronti della piattaforma telematica vigilata[20].
4. La «vigilanza rafforzata sulle piattaforme online di dimensioni molto grandi».
Un procedimento in parte analogo si osserva per la «vigilanza rafforzata sulla piattaforme online di dimensioni molto grandi». In base alle disposizioni del nuovo regolamento quest’ultime sono soggette ad alcuni specifici oneri comportamentali come ad esempio: adottare misure cicliche di attenuazione dei rischi sistemici (ossia la manipolazione dei dati e la loro illegale divulgazione); sottoporsi ogni anno ad audit indipendenti; detenere un registro dei dati pubblicitari diffusi al pubblico; istituire un ufficio di contatto con le autorità di settore[21]. In caso di loro sospetta violazione la Commissione, il comitato dei coordinatori o almeno tre coordinatori nazionali dei servizi digitali possono interpellare il coordinatore competente per territorio e chiedergli di avviare un’indagine[22].
Aperto il procedimento l’autorità agente prende subito contatto con la piattaforma telematica vigilata e le può chiedere di elaborare prima un «piano di azione in cui precisi come intende far cessare o porre rimedio alla violazione»[23]; e poi di sottoporsi a un «audit indipendente supplementare che consenta di valutare l’efficacia di tali misure nel far cessare o porre rimedio alla violazione»[24]. Esauriti tali passaggi istruttori il coordinatore dei servizi digitali comunica alla Commissione, al comitato e alla piattaforma online se ritiene o meno che le misure intraprese abbiano rimediato alla violazione riscontrata; dopodiché egli «non è più̀ autorizzato ad adottare alcuna misura di indagine o di esecuzione»[25].
Il motivo è presto spiegato: qualora persista una violazione regolamentare spetta solo alla Commissione il potere di intervenire, al posto dell’autorità nazionale, nei confronti della piattaforma digitale con una decisione puntuale[26]. Si ripete allora lo stesso schema già visto nel precedente procedimento: la Commissione avvia un’indagine in autonomia (ma col supporto dell’autorità nazionale) e al termine adotta il provvedimento di vigilanza più adatto a reprimere la violazione.
5. Una riflessione conclusiva.
È sicuramente prematuro avanzare già da ora previsioni sull’impatto che avrà il nuovo regolamento sui servizi digitali dell’Unione all’indomani della sua entrata in vigore; un dato però appare di estremo valore e si deduce dalla struttura dei due procedimenti appena analizzati che forniscono interessanti spunti di riflessione.
Andando infatti oltre il profilo puramente esteriore rappresentato dalla contitolarità della funzione tipica dei casi di coamministrazione, emerge che in entrambi i procedimenti il legislatore dell’Unione ha posizionato una relazione organizzativa che esprime il momento culminante della collaborazione tra le autorità dell’Unione e degli Stati membri. I due procedimenti si caratterizzano, a ben vedere, per il potere della Commissione di sostituirsi al coordinatore nazionale dei servizi digitali nei casi tipicizzati dal regolamento; e in questo senso hanno (anche) valenza organizzativa.
La regolamentazione settoriale sui servizi digitali sembra dunque comprovare, ove ce ne fosse ancora bisogno, l’elevato potenziale scientifico che si annida nei «sistemi comuni» dell’Unione; e conferma l’utilità di studiare la disciplina del procedimento amministrativo non solo sul piano formale (la scansione in fasi) o sul piano sostanziale (l’esercizio del potere pubblico), ma anche nei suoi immanenti aspetti organizzativi: cioè dalla (poco esplorata) prospettiva delle relazioni organizzative procedimentali tra apparati pubblici.
[1] Art. 1, par. 1; come chiarisce il cons. n. 4 il regolamento introduce una «serie mirata di norme obbligatorie uniformi, efficaci e proporzionate a livello dell'Unione al fine di tutelare e migliorare il funzionamento del mercato interno. Il presente regolamento stabilisce le condizioni per lo sviluppo e l'espansione di servizi digitali innovativi nel mercato interno».
[2] Art. 1, par. 2, lett. b.
[3] Cioè «qualsiasi informazione che, di per sé o in relazione ad un'attività̀, tra cui la vendita di prodotti o la prestazione di servizi, non è conforme alle disposizioni normative dell'Unione o di uno Stato membro» (art. 2, lett. g).
[4] Cons. n. 20.
[5] Che ai sensi del cons. n. 41 sono: la libertà d’informazione e di espressione; il diritto alla riservatezza e alla vita privata; la libertà d’impresa; la tutela della proprietà intellettuale.
[6] Art. 1, par. 3.
[7] Art. 2, lett. f) che include nel concetto di «servizio intermediario»: un «servizio di semplice trasporto (“mere conduit”), consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire accesso a una rete di comunicazione; un servizio di memorizzazione temporanea (“caching”), consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite dal destinatario del servizio, che comporta la memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni al solo scopo di rendere più̀ efficiente il successivo inoltro delle informazioni ad altri destinatari su loro richiesta; un servizio di “hosting”, consistente nel memorizzare informazioni fornite da un destinatario del servizio su richiesta di quest'ultimo».
[8] Cons. n. 13.
[9] Art. 25, par.1.
[10] Cons. n. 45.
[11] Art. 38, par. 2.
[12] Art. 41, par. 1 e par. 2 (per quanto concerne le autorità di vigilanza nazionali); artt. 54-63 (per quanto riguarda la Commissione).
[13] Art. 45, par. 1.
[14] Art. 45, par. 2.
[15] Art. 45, par 3 e par. 4.
[16] Art. 45, par. 5 e par. 6.
[17] Art. 45, par. 7.
[18] Il presupposto previsto dall’art. 51, par. 1, lett. a) è che la piattaforma di grandi dimensioni «abbia violato una qualsiasi delle disposizioni del presente regolamento senza che il coordinatore dei servizi digitali del luogo di stabilimento abbia adottato alcuna misura di indagine o esecuzione a seguito della richiesta della Commissione di cui all'articolo 45, paragrafo 7, dalla scadenza del termine stabilito in tale richiesta».
[19] Art. 51, par. 2.
[20] Art. 51, par. 3.
[21] Artt. 26-32.
[22] Art. 50, par. 1.
[23] Art. 50, par. 2.
[24] Art. 50, par. 3.
[25] Art. 50, par. 4.
[26] Art. 51, par. 1, lett. c).
Il punto su protezione dei dati personali, riservatezza e magistrati. Intervista di Paola Filippi a Giorgio Resta, professore ordinario di Diritto comparato presso l'Università di Roma Tre
1. Il d. lgs. n. 51 del 2018, emesso in esecuzione della direttiva UE 2016/680 sulla protezione dei dati personali, ha introdotto disposizioni in materia di tutela del trattamento dei dati personali di soggetti terzi acquisti in ambito penale.
Come si attua secondo la previsione normativa la tutela dei terzi? *
Il decreto ha introdotto, all’art. 14, 1° co., una norma assolutamente innovativa, che sancisce in capo a chiunque vi abbia interesse (dunque anche il terzo) il diritto di ottenere, con le forme particolarmente agili delle procedure di cui agli artt. 116 e 130 c.p.p., la rettifica, cancellazione o limitazione dei dati che lo riguardano, contenuti in atti giudiziari o indagini, anche in sede processuale. Si tratta di una tutela remediale importante, che valorizza anche in ambito giudiziario il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali (art. 8 Carta dei diritti UE) e segnatamente all’autodeterminazione informativa. A tacer d’altro, tale disposizione, se riferita a dati eccedenti contenuti nelle trascrizioni delle intercettazioni, potrebbe dare un contributo ad importante se non proprio a risolvere, quanto meno a inquadrare correttamente sul piano teorico e valoriale molti dei problemi suscitati dal fenomeno del trial by media.
2. Il Palamara gate, oltre a scoperchiare il vaso di pandora sulla lottizzazione delle nomine e degli incarichi conferiti dal Consiglio superiore della Magistratura, in ragione dell’enorme quantità di conversazioni contenute nel cellulare di Luca Palamara ha posto in luce, come tema accessorio da alcuni sottovalutato, la questione del trattamento dei dati personali di persone terze rispetto al procedimento penale. In che termini i dati sensibili relativi a terze persone possono essere diffusi? Quali sono gli strumenti che i terzi possono attivare?
La domanda che mi pone è importante anche perché non è legata esclusivamente alle vicende di attualità. Ricordo, ad esempio, che una delle pronunzie più interessanti sull’art. 8 CEDU della Corte europea dei diritti dell’uomo è quella resa nel 2003 nella controversia Craxi c. Italia (II), quando la Repubblica italiana fu condannata per la violazione dell’obbligo positivo di protezione del diritto al rispetto della vita privata, in quanto alcuni giornali, per negligenza nella custodia degli atti processuali, pubblicarono stralci delle intercettazioni telefoniche depositate nel processo a carico di Bettino Craxi. Alcune delle conversazioni pubblicate attenevano a telefonate di natura strettamente privata e confidenziale tra la consorte di Craxi ed altri soggetti, tra i quali Veronica Lario, e non potevano come tali essere divulgate in quanto non pertinenti rispetto alle esigenze di controllo pubblico sul processo e non conformi con il parametro – diremmo oggi – di “essenzialità dell’informazione rispetto a fatti di interesse pubblico” (art. 137, 3° co., d.lgs. 196/2003). Questo tema interseca oggi due profili e due plessi normativi diversi: il d.lgs. 51 del 2018 per quanto concerne l’utilizzo, in sede processuale penale dei dati personali acquisiti al procedimento e la circolazione extraprocessuale dei dati stessi, che soggiace invece al più articolato Regolamento generale sulla protezione dei dati, con la normativa interna di adeguamento (d.lgs. 196/2003). In linea generale, la circolazione extraprocessuale dei dati personali deve essere legittimata da uno specifico presupposto di liceità, che “copra” tanto il soggetto che ostende il dato (ad esempio il pubblico ministero ex art. 116, 2° co., cpp) quanto colui che lo riceve e che risponderà, poi, del successivo utilizzo. In ogni caso, anche se legittimato nell’an, il successivo trattamento dei dati deve rispondere ai criteri generali di proporzionalità, finalità (funzionalità allo scopo), minimizzazione e, nel caso di giornalismo, come dianzi ricordato, essenzialità dell’informazione. Ove ravvisino violazioni di legge, i terzi possono in prima battuta esercitare i propri diritti ex art. 15 e ss. Reg. UE 2016/679 nei confronti del titolare del trattamento (dunque chi, avendo ricevuto i dati, autonomamente li utilizzi) e, in caso di infruttuoso esperimento di tali richieste, rivolgersi al Garante o all’autorità giudiziaria (la quale può accordare anche una tutela di tipo risarcitorio).
3. Qual è lo spazio di discrezionalità del detentore dei dati in relazione alla richiesta di distruzione? Ci sono situazioni che ne giustificano la diffusione contro la volontà del terzo?
La richiesta di cancellazione dei dati (art. 17 Reg. 2016/679) è uno dei diritti suscettibili di esercizio da parte dell’interessato che ritenga che non sussistano più (o, peggio, non siano mai stati ravvisabili) i presupposti di liceità che legittimino (o legittimino ancora) la conservazione dei dati, ad esempio perché si è conclusa l’attività rispetto alla quale quel determinato trattamento dei dati era funzionale. La conservazione ulteriore può dunque essere possibile, in questi casi, unicamente qualora un altro presupposto di liceità (evidentemente diverso dal consenso) legittimi o, come nel caso degli obblighi di legge, imponga la conservazione. Si tratta generalmente di presupposti di liceità a valenza pubblicistica, che dunque giustificano questa compressione del diritto alla protezione dei dati, purchè proporzionale, per fini di interesse generale.
4. Cosa si intende per dati personali e quali sono le conseguenze della loro divulgazione?
Il concetto di dato personale adoperato dalle fonti europee e dalla disciplina italiana di adeguamento è amplissimo – esso è stato oggetto peraltro di una apposita Opinion illustrativa del Gruppo dei garanti europei previsto dalla Direttiva 95/46/CE – e comprende non soltanto i dati direttamente identificativi, ma anche quelli dai quali possa, pur indirettamente, desumersi l’identità del soggetto (si pensi, ad esempio, all’indirizzo IP, che la Corte di giustizia UE, qualche anno fa, ha ritenuto possa integrare la fattispecie del dato personale). Le conseguenze di un’indebita divulgazione di dati personali (per tali intendendosi appunto anche quelli per i quali possa comunque giungersi ad identificare, pur in via mediata, l’interessato) possono integrare livelli di gravità assai variabile: si passa dalla marginale lesività della diffusione di dati neutri alle implicazioni drammatiche che può avere, ad esempio, l’indebita pubblicazione di dati sensibili come quelli sulla salute, l’orientamento sessuale, il profilo genetico. Gravi sono anche le ipotesi di divulgazione indebita (se in violazione del parametro dell’essenzialità dell’informazione) delle conversazioni captate in sede investigativa che, spesso estrapolate dal contesto, lungi dal soddisfare esigenze informative reali, rischiano di alimentare mero voyeurismo, confondendo - come già osservato dall’ex Presidente dell’Autorità garante Antonello Soro- ciò che è di pubblico interesse con ciò che è di interesse del pubblico.
5. Come si bilancia l’interesse all’informazione con l’interesse alla riservatezza?
Non esiste una “golden rule” e la risposta a questa domanda va riferita a una determinata società, a uno specifico ordinamento giuridico, e a un ben preciso momento storico. L’esperienza del diritto comparato ci illustra una grande varietà di risposte sia sul piano sincronico (il bilanciamento USA pende, come noto, quasi del tutto dal lato dell’informazione, finendo per sacrificare quello stesso interesse alla privacy che vide la luce proprio grazie alla pena del celebre giudice Brandeis e dell’avvocato Warren nel lontano 1890) sia su quello diacronico (ancora l’esempio USA è emblematico, visto che attesta un radicale cambiamento di impostazione nel secondo dopoguerra, a seguito dellla nomina da parte di Roosevelt di giudici come Hugo Black, teorici della tutela assoluta del 1° Emendamento). Dunque, se guardiamo al nostro ordinamento, oggi, nel contesto del sistema multilivello europeo, dobbiamo desumerne che quanto meno in astratto l’interesse all’informazione è garantito sino al punto in cui operi in maniera sinergica con il rispetto dei diritti altrui, e in particolare il diritto al rispetto della dignità umana, con le sue ramificazioni in termini di riservatezza, identità, reputazione. In particolare conviene osservare come le regole deontologiche dei giornalisti (la cui violazione può legittimare un divieto del trattamento da parte del Garante ex art. 139, 4° co. d.lgs. 196/2003 e integra oggi gli estremi di illeciti amministrativi di natura parapenale, come ha correttamente osservato la giurisprudenza interna) contengono dei criteri, eterointegrativi del sistema normativo di tutela dei dati personali, determinanti al fine di coniugare privacy e informazione (art. 137 e 139 d.lgs. 196/2003). I principi-cardine, ribadisco ricordando le auree pagine di Stefano Rodotà, sono quelli dell’essenzialità dell’informazione e della tutela della dignità della persona (in particolare se in condizione di vulnerabilità, ad esempio per malattia o sottoposizione ad atti coercitivi). Questo, ovviamente, in linea di stretto diritto, anche se non possiamo nasconderci che il diritto, disgiunto da una diffusa cultura degli operatori dell’informazione ben poco può (basti confrontare il modo in cui l’informazione relativa ai processi viene resa in un paese come la Germania, dove ad esempio si anonimizzano regolarmente i dati dei soggetti sottoposti a procedimento penale sino a che non sia definito il primo grado, quanto meno là dove questi non siano titolari di funzioni pubbliche o celebrità, e in Italia, dove tuttora vige un vero e proprio far West informativo).
6. Il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Santalucia ha ricevuto da alcuni magistrati del Comitato direttivo centrale della Anm richiesta diretta ad ottenere le interlocuzioni dei probiviri dell’ANM con l’autorità giudiziaria, contenenti dati personali di magistrati terzi non iscritti all’associazione.
Quale era lo spazio di discrezionalità in capo al Presidente dell’ANM in ordine alla consegna delle parti contenenti dati personali di magistrati non più associati all’ANM, in relazione ai quali era stata formulata richiesta di distruzione? Quali le eventuali conseguenze in caso di violazione del diritto alla riservatezza?
Quello della circolazione endoassociativa dei dati personali (degli associati e, soprattutto, dei terzi) è un tema delicatissimo, in quanto esige un bilanciamento tra la riservatezza individuale, libertà dell’associazione e libertà (degli associati) nell’associazione. Su di esso, in termini generali, meritano di essere tuttora attentamente meditate le pagine profonde, colte ed equilibrate di Pietro Rescigno. Complessità ulteriori sorgono qualora oggetto della circolazione endoassociativa siano dati acquisiti da procedimenti penali, di natura sensibile o giudiziaria e qualora il fine del trattamento sia l’esercizio dell’azione disciplinare, da parte degli organi competenti secondo le norme statutarie. In casi come quello in esame, le regole auree da seguire sono quelle della proporzionalità (da declinarsi in forme più stringenti in relazione ai dati sensibili), della funzionalità dell’ostensione all’esercizio dei compiti specificamente attribuiti dallo statuto a un determinato organo associativo e, in ogni caso, della minimizzazione, che comporta l’oscuramento di ogni dato personale ultroneo rispetto alle esigenze perseguite. Trasponendo questi principi al caso concreto che mi ha proposto, direi che si debba valutare: a) se la richiesta di ostensione fosse in sé legittima in quanto necessaria all’esercizio di specifiche competenze statutariamente attribuite al Comitato direttivo centrale e, se rispetto ai magistrati non più associati, potesse ancora ipotizzarsi la persistenza di poteri associativi (con una sorta di ultrattività che, tuttavia, mi parrebbe a prima vista quantomeno dubbia); b) il perimetro dell’ostensione e, dunque, quali dati ostendere e come, espungendo ogni dato ultroneo, tanto più se di natura sensibile o giudiziaria; c) calibrare l’esigenza addotta dai membri del Comitato direttivo centrale con la legittima aspettativa di riservatezza vantata dall’ex associato e rivendicata con l’apposita istanza di distruzione.
Non si tratta di valutazioni agevoli, ma assai importanti, non foss’altro perché un’eventuale indebita ostensione, da parte dell’associazione, di dati personali può integrare, a tacer d’altro, un illecito amministrativo “pesante”, per il quale sono previste sanzioni fino a 20 milioni di euro.
* in tema di protezione di dati personali La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi di Federica Resta e Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina internaConservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna
L’uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020)
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. I precedenti delle Sezioni Unite su detenzione per uso di gruppo e coltivazione per uso personale - 2. La coltivazione di gruppo: a) la forma domestica di produttività ridottissima – 2.b) le dimensioni minime della coltivazione - c) la destinazione all’uso personale
1. I precedenti delle Sezioni Unite su detenzione per uso di gruppo e coltivazione per uso personale
La sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020, depositata il 16 dicembre 2020, è fra le prime che applicano nel merito la recente pronuncia della Corte di Cassazione, n. 12348/20 - imputato Caruso[1] - depositata in data 16.04.2020.
Innovando la giurisprudenza relativa alla coltivazione di marijuana (che per oltre trent’anni aveva ritenuto ogni forma di coltivazione penalmente illecita, anche se univocamente destinata all’uso personale[2]), la sentenza “Caruso” ha affermato che il reato non sussiste se la coltivazione è di modeste quantità (indicando alcuni indici per qualificarla in tal modo) e il consumatore finale è il coltivatore[3]; se ne evince quindi che se invece la finalità è quella di cedere a terzi la marijuana ottenuta, la coltivazione rimane reato. La penale irrilevanza della modesta coltivazione per uso personale esclude altresì (a differenza della detenzione per uso personale) la rilevanza amministrativa ex art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, dato che “tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione”[4] .
Va premesso che qualche anno prima, Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013, (dep. 10/06/2013) aveva ribadito che, nonostante i mutamenti legislativi, la detenzione di modeste quantità non costituisce reato, se destinata all’uso personale. La sentenza afferma che la detenzione rimane punita se finalizzata alla cessione; tuttavia è scriminata se l’acquisto avviene per conto di un gruppo che, prima dell’acquisto, programma di consumare direttamente (specificando gli indici del c.d. consumo di gruppo)[5].
La disciplina che deriva dai principi delle due sentenze delle SS.UU. è che la coltivazione di modeste dimensioni è penalmente irrilevante, se il consumatore finale è il solo coltivatore; è reato ai sensi dell’art. 73 T.U. n. 309/1990 invece se di grandi dimensioni o se la finalità è quella di cedere a terzi. La detenzione anche di modeste quantità è punita se finalizzata alla cessione; ma è depenalizzata se destinata all’uso personale, e ciò anche quando l’acquisto avviene per conto di un gruppo che, prima dell’acquisto, programma di consumare direttamente.
Rimane perciò aperta la questione relativa alla fattispecie della coltivazione di gruppo per uso personale: è irrilevante penalmente anche coltivare (in concorso) marijuana per farne uso di gruppo? O il fatto che il consumo non sia individuale da parte di un unico coltivatore fa permanere l’illiceità? La sentenza Caruso non affronta questo caso, né specifica come si determina la terzietà rispetto alla coltivazione. È questo invece l’oggetto rilevante della sentenza del Tribunale di Brescia[6].
Sintetizzando il fatto esaminato, le forze dell’ordine avevano rinvenuto una piantagione composta da n. 9 piante di cannabis indica, dell'altezza tra 1.20 e 2,10 mt, del peso complessivo di 919 grammi, con principio attivo in percentuale del 3,5% e in assoluto di 32,2 grammi di D9-THC. Gli operanti avevano effettuato, nell'immediatezza, una perquisizione personale degli imputati all'esito della quale avevano rinvenuto 3,9 grammi di sostanza stupefacente del tipo hashish, occultata nel marsupio di uno, e due pezzi di sostanza stupefacente del tipo hashish, rispettivamente del peso di grammi 0,9 e 3,7, nell’abitazione di un altro.
Non vi è dubbio che la detenzione dell’hashish rientrasse fra quelle ad uso personale, e infatti la sentenza assolve perché il fatto non costituisce reato. Interessa invece la decisione relativa alla coltivazione della marijuana, affrontata sul solco della sentenza Caruso indagando sulla offensività in concreto, per giungere ad assolvere gli imputati perché il fatto non sussiste.
2. La coltivazione di gruppo: a) la forma domestica di produttività ridottissima
Le SS.UU. “Caruso” esaminano l’orientamento sino ad allora prevalente per il quale la coltivazione, a differenza della detenzione, è comunque reato in quanto attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti; ma lo superano affermando che “tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti.”[7]. E forniscono, a titolo esemplificativo, alcuni indici: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante.
Nella sentenza “Caruso” si precisa che la coltivazione scriminata deve essere una “coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica… destinata in via esclusiva all’uso personale”. E’ compito del giudice di merito perciò accertare in fatto, utilizzando gli indici forniti, i due elementi costitutivi: le caratteristiche della coltivazione (così da poterla qualificare come “domestica”) e la destinazione esclusiva all’uso personale.
La sentenza annotata, per valutare la forma domestica, procede esattamente nel modo richiesto dalle Sezioni Unite, evidenziando in primo luogo come “l’attività di coltivazione sia avvenuta personalmente da parte degli imputati, su un terreno nella disponibilità personale di uno di loro, con tecniche approssimative (basti pensare che una parte delle sementi è stata piantata nel terreno ed una parte in una cisterna di plastica), con governo manuale e “rudimentale” eseguito tramite attrezzi certamente non “imprenditoriali” (due taniche d’acqua, una vanga ed un tridente di piccole dimensioni)”. Ciò consente perciò agevolmente al giudice di merito di qualificare la coltivazione come domestica, di produttività ridottissima.
2.b) le dimensioni minime della coltivazione
Quanto esposto evidenzia una residua diversità fra la detenzione di gruppo e la coltivazione di gruppo. Infatti la sentenza “Caruso”, come si visto, nella sua accezione letterale, non scrimina tutte le coltivazioni “destinate all’uso personale”, ma solo quelle “di minime dimensioni svolte in forma domestica”: quindi rimangono punibili le coltivazioni di dimensioni non minime, anche se a uso personale[8]. Diversamente, rispetto alla detenzione per uso personale, secondo la sentenza n. 25401/13 il quantitativo è solo un indice della destinazione.
Per quantificare le minime dimensioni, è possibile ragionare in analogia fra gli istituti della particolare tenuità e della destinazione a uso personale, ritenendo, alla luce della giurisprudenza che ha preso in esame il dato quantitativo, che un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione (da parte di un singolo) secondo i principi della sentenza Caruso[9].
Rimane però un’ultima questione: se la coltivazione è di gruppo, nel determinare le “minime dimensioni”, il dato quantitativo va considerato nella sua unicità, o va diviso per il numero dei coltivatori?
La sentenza annotata propende per la seconda soluzione: “Lo scarso numero di piante, che la sentenza delle Sezioni Unite indica quale indice sintomatico della destinazione ad uso personale evoca subito il problema del numero delle piante stesse. La casistica sul numero delle piante considerate dalla giurisprudenza è assai vasta e variabile; tuttavia si può ragionevolmente concludere che, in materia di coltivazione, un numero di piante non superiore a dieci può essere considerato minimo, o scarso, per cui nel caso che qui occupa anche rapportato al numero pro capite esso si attesta a tre piante per imputato”.
2. c) la destinazione all’uso personale
Il secondo requisito appare di meno facile determinazione, dato che letteralmente la dizione della Suprema Corte nella sentenza “Caruso” sembra escludere qualsiasi cessione: la sostanza coltivata deve essere destinata in via esclusiva all’uso personale.
Occorre però riprendere il concetto di uso personale elaborato da SS.UU. n. 25401/13, nella quale si afferma, in relazione alla detenzione, che “in altre parole, poiché la disposizione non parla di uso individuale e non limita la caratteristica denotativa della condotta detentiva all’autore singolo, il sintagma “uso non esclusivamente personale” non è concettualmente incompatibile con il consumo di gruppo, anche nella forma specifica del mandato ad acquistare. La locuzione può pertanto essere legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga detenuta da una singola persona sia destinata ad un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata.”
E’ quindi possibile interpretare la normativa applicabile al caso concreto alla luce di una combinata applicazione dei principi sanciti dalle due SS.UU., nel senso di accertare se, visto che la sentenza “Caruso” parla di “coltivazione … destinata in via esclusiva all’uso personale”, anche la coltivazione possa essere scriminata quando avviene nella forma specifica del mandato a coltivare per ottenere una sostanza destinata a un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo, per conto e su mandato dei quali è stata coltivata.
La sentenza di merito in commento pratica proprio questo metodo: “Peraltro, con specifico riferimento agli imputati, può anche parlarsi di “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”, ricorrendo nel caso concreto gli indici richiesti dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi a seguito delle più volte citate SS.UU. Caruso, ossia che i coltivatori o una parte di essi siano fra gli assuntori del prodotto finito, con la volontà manifestata fin dall’inizio da parte degli stessi di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.”
La sentenza - e va sottolineato - tiene in conto anche un altro indice della destinazione all’uso personale, che può essere compreso fra quelli che la Suprema Corte richiama genericamente come “mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”: cioè le condizioni sociali e famigliari degli imputati. Si tratta, si rileva, “di soggetti molto giovani, tutti incensurati, ben inseriti dal punto di vista sociale con impieghi lavorativi ovvero titolari di diplomi di studi superiori ed in taluni casi con studi universitari in corso”; per cui non è provato e non è probabile che traggano reddito da attività di spaccio.
In definitiva: se l’attività di coltivazione posta in essere dagli imputati è di minime dimensioni, è svolta in forma domestica con utilizzo di rudimentali tecniche, con scarso numero di piante e modesto quantitativo di prodotto ricavabile; se è attività destinata in via esclusiva all’uso personale dei coltivatori, data la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti; accertato questo, secondo le condividibili conclusioni della sentenza annotata, anche nel caso di pluralità di soggetti coinvolti nell’attività di coltivazione essi devono essere assolti perché il fatto non sussiste.
[1] Sentenza commentata su questa Rivista in: Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite - prima parte e seconda parte- , di Lorenzo Miazzi, pubblicato il 23 e 24 aprile 2020.
[2] “La detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore …. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”: Corte costituzionale, sentenza n. 360 del 1995. A questi principi si adeguò per lungo tempo la giurisprudenza prevalente della Cassazione, mentre una minoritaria continuò a cercare percorsi interpretativi diversi per escludere la rilevanza penale.
[3] Nella sentenza si afferma che "il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore".
[4] Punto 6: “Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell'art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale.
[5] Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013 Ud. (dep. 10/06/2013 ) Rv. 255258
Anche all'esito delle modifiche apportate dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nell'ipotesi di acquisto congiunto, che in quella di mandato all'acquisto collettivo ad uno dei consumatori, non è penalmente rilevante, ma integra l'illecito amministrativo sanzionato dall'art. 75 stesso d.P.R., a condizione che: a) l'acquirente sia uno degli assuntori; b) l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all'acquisto.
[6] Sentenza commentata anche in Stefano Paloschi, Coltivazione "di gruppo" ed uso personale, sul sito: https://www.studiopaloschi.it/post/coltivazione-di-gruppo-ed-uso-personale
[7] Punto 4.2
[8] Punto 4.2: “A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale.”
[9] Si rinvia a “Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite” di Lorenzo Miazzi (parte seconda)” , in questa Rivista, paragrafo 10.
La pazza gioia: il “cinema folle”, la società civile e il diritto penale
di Antonella Massaro
Sommario: 1. Dal neorealismo alla commedia all’italiana: le indissolubili pietre di paragone del cinema italiano. – 2. La pazza gioia: storia di Beatrice e Donatella. – 3. Cinema e disagio psichiatrico 3.1. Il ruolo delle immagini cinematografiche nel processo di “definitivo superamento” degli OPG. – 4. Il superamento degli OPG e l’approdo alle REMS. – 5. Cura e custodia nel letto di Procuste dalla misura di sicurezza detentiva. – 6. I rapporti tra le REMS e i “luoghi contigui”: a) il carcere. – 6.1. b) la rete dei servizi per la salute mentale. – 7. Le luci del cinema come antidoto al buio dell’indifferenza.
1. Dal neorealismo alla commedia all’italiana: le indissolubili pietre di paragone del cinema italiano
È innegabile che il cinema italiano abbia toccato una delle sue vette più elevate con la poetica, l’estetica e l’etica del neorealismo, divenuto l’immancabile pietra di paragone alla quale, implicitamente o esplicitamente, si ricorre per valutare il grado di purezza della filmografia successiva a quel periodo aureo. Il neorealismo, insomma, è una sorta di “gigante addormentato”, pronto a risvegliarsi non appena si porti la camera all’esterno, puntando l’obiettivo su situazioni di emarginazione socio-economica a fini di denuncia politica, magari rinunciando all’attore professionista e inserendo qualche inflessione dialettale[1]. A ciò si aggiunga che il neorealismo rappresenta uno spartiacque tra un “prima”, rappresentato essenzialmente dal cinema fascista, insieme consolatorio, affabulatorio e propagandistico, e un “dopo”, caratterizzato dall’infrangersi impietoso di quella speranza utopica che aveva alimentato l’illusione di “poter cambiare il mondo”[2].
In quel “dopo”, costretto alla trasformazione, ma incapace di arrendersi a un distacco definitivo dalla matrice neorealista, si trovano spesso collocati tanto il neorealismo rosa quanto la commedia all’italiana. Entrambi contribuiscono a definire una linea di transizione che dalla “poetica dei rifiuti” muove verso la strategia del consenso: il dramma e l’impegno lasciano il posto ai toni leggeri e allo stereotipo, spesso cedendo alle lusinghe di un bozzettismo assai prossimo al “qualunquismo”[3].
Nella critica più recente, tuttavia, non solo si è assistito alla valorizzazione di film “rosa” come Due soldi di speranza di Renato Castellani o Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini che, pur con lo sguardo rivolto al botteghino, avrebbero contribuito alla (ri)fondazione di quella identità nazionale che i bombardamenti e la guerra civile avevano rischiato di seppellire[4], ma la “commedia all’italiana” ha progressivamente assunto la consistenza di affidabile lasciapassare per una valutazione positiva e addirittura lusinghiera, da parte tanto del pubblico quanto della critica. L’impressione, altrimenti detto, è quella per cui la commedia all’italiana sia divenuta un metro di giudizio evocato, quasi quanto quello del neorealismo, per conferire una patente di virtuosità a quelle pellicole capaci di far sorridere e, con uguale intensità, di commuovere. I soliti ignoti di Mario Monicelli o Il sorpasso di Dino Risi, solo per restare agli esempi più noti, introducono la morte all’interno di una commedia e, attraverso l’epica dell’antieroe o (addirittura) dell’inetto, stringono l’obiettivo sul vuoto aperto da una modernizzazione rapida e frenetica, che lascia il singolo smarrito e privo di punti di riferimento.
La commedia all’italiana inaugura anche un nuovo modo di “fare cinema”, fondato più sul comune lavoro di bottega che su quello delle singole individualità, in un clima di ottimistica e condivisa partecipazione creativa[5]. A un gruppo di registi che operano secondo modelli espressivi comuni (Monicelli, Risi, Comencini, Germi, Scola) si accompagna una serie di attori che presto divengono iconici (Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni), ma soprattutto emerge in maniera sempre più riconoscibile la penna di alcuni sceneggiatori che segnerà un’epoca, a partire da quella di Age e Scarpelli. Molti “scrittori di cinema” provengono dalle riviste umoristiche, come il Marc’Aurelio, e imparano l’arte di mettere a punto un andamento narrativo “a orologeria”, con attenzione prioritaria all’uso della parola e alle battute fulminanti. «L’autore della sceneggiatura», scrive Age, «è come il guardiano del faro: tutti vedono il faro ma nessuno vede a lui»[6], finché qualcosa cambia: e la commedia all’italiana, forse, ha rappresentato un motore importante di questo cambiamento.
Con la commedia all’italiana il film diviene un “prodotto” dal confezionamento sempre più riconoscibile, capace di ottenere importati successi al botteghino e, al tempo stesso, di fotografare i vizi e le virtù di una generazione intera: dagli “italiani brava gente” ai “mostri” individualisti ed arrampicatori sociali, eterodiretti dalla trionfante società dei costumi[7], costretti alle regole di un gioco che, tuttavia, quasi mai li vede vincitori. L’intreccio non include necessariamente il lieto fine, conducendo spesso a una vera e propria sconfitta del personaggio. La comicità finisce per divenire umorismo (nel senso pirandelliano del termine), offrendo l’occasione per riflettere su quell’uomo qualunque in cui, in fondo, non è poi così difficile riconoscersi e immedesimarsi[8].
Molti di coloro che osservano il cinema italiano senza la competenza tecnica del cineasta, ma con le sole lenti messe a disposizione dal “sapere laico”, avranno certamente intravisto i tratti distintivi della commedia all’italiana in molti film di Carlo Verdone, a partire da Compagni di scuola: un racconto corale, il fallimento di una generazione, il finale amaro che, come la morte di Sora Lella in Bianco, rosso e verdone in quella cabina elettorale in cui avrebbe voluto votare comunista, bagna di lacrime i sorrisi dispensati da scene e da battute rimaste scolpite nell’immaginario collettivo.
1.1. Paolo Virzì come erede della commedia all’italiana?
Anche per il cinema di Paolo Virzì “viene facile” il riferimento ad alcuni schemi della commedia all’italiana. In Tutta la vita davanti lo spettacolare call center diretto da un’impeccabile Sabrina Ferilli, al quale Isabella Ragonese approda dopo la sua laurea in Filosofia cum laude, diviene una finestra sul precariato nel mondo del lavoro: è il racconto della instabilità emotiva e sociale di un’intera generazione di “figli”, chiamati a fare i conti con gli errori di quei “padri” già impietosamente tratteggiati in Ferie d’agosto e che “si evolveranno” con Il capitale umano. Se in alcuni dei suoi film più riusciti, a partire da La prima cosa bella, l’ottica intimista sembrerebbe quella prevalente, con La pazza gioia riemerge, in maniera più evidente, la tensione sociale e “corale” di Paolo Virzì.
L’accostamento tra Virzì e la commedia all’italiana, del resto, non risponde al mero gusto di rispolverare a tutti i costi i fasti di un passato che ha reso monumentale il cinema italiano nella scena internazionale, ma emerge in maniera esplicita dalla biografia artistica del regista e sceneggiatore livornese: l’incontro con Furio Scarpelli durante gli anni di formazione al Centro Sperimentale di cinematografia è un dettaglio che, certo, non può passare inosservato. Il cinema che piace e interessa a Virzì, insomma, non è quello che stordisce lo spettatore con mirabolanti movimenti di macchina «come un dolly sulla verdura o il primo piano di un carciofo» ma quello che punta tutto su una solida sceneggiatura e sulla direzione degli attori “giusti”. La commedia all’italiana, precisa Virzì, «è una stagione del cinema italiano che adoro, soprattutto per lo spirito che la caratterizza: rendere popolari le cose più alte e complesse. Mi piace lo spirito non fanatico, antieroico di quel film»[9], come, verrebbe da aggiungere, quello interpretato dalle due protagoniste de La pazza gioia.
2. La pazza gioia: storia di Beatrice e Donatella
La pazza gioia, presentato al Festival di Cannes del 2016, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, è scritto da Paolo Virzì insieme a Francesca Archibugi, sciogliendo per l’occasione il tradizionale sodalizio di penna con Francesco Bruni. Il trionfo ai Nastri d’argento e ai David di Donatello è un (meritato) tributo alla regia, alla sceneggiatura, nonché alle due attrici protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti.
Villa Biondi, in Toscana, è una struttura residenziale psichiatrica che ospita donne con disturbi mentali, anche quelle che hanno commesso reati e per le quali è stata disposta una misura di sicurezza. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi) appartiene al mondo dell’alta borghesia: un marito avvocato che ha difeso il Silvio Berlusconi vittima dell’accanimento della magistratura italiana, dei genitori tanto ricchi quanto distanti, un ostinato attaccamento al bon ton e al lusso ostentati. Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti) la bella vita non l’ha mai conosciuta: diventata mamma troppo presto, senza dei genitori capaci di offrirle dei modelli di riferimento, porta sul suo corpo i segni di un passato carico di sofferenza. Quando Beatrice e Donatella si incontrano a Villa Biondi i loro destini sembrano fatti per incrociarsi e sovrapporsi: iniziano insieme una corsa, inebriata e inebriante, verso l’illusione della libertà, avviando un percorso circolare in cui il punto di partenza coincide con quello di arrivo, ma che inciderà profondamente sulla percezione di sé e degli altri.
Anche se, a tratti, sembrerebbe trovarsi di fronte alle cadenze tipiche del viaggio on the road e anche se la scena iconica della fuga a bordo di una Lancia Appia rosso fuoco potrebbe evocare immediatamente le atmosfere di Thelma e Louise, il gusto della “citazione a tutti i costi” parrebbe piuttosto condurre, con tute le dovute cautele, alla coppia d’oro Gassman-Trintignant de Il sorpasso: due caratteri diversi, l’uno esuberante e vulcanico l’altro silente e a tratti incredulo, che da speculari si scoprono complementari, duettando mirabilmente secondo un copione in cui la sceneggiatura attenta e calibrata rappresenta uno dei tratti più riconoscibili.
La morte, che tanto ne Il sorpasso quanto in Thelma e Louise irrompe nel finale, è presente anche ne La pazza gioia, ma in modo diverso: è una morte che si ferma un attimo prima di aver portato a termine il suo compito (nel tentato omicidio-suicidio che, a un certo punto, interrompe la vita di Donatella, ma anche nell’incidente stradale nell’ultima parte del film), è quel confine tra libertà e costrizione, tra “normalità” e malattia, lungo il quale si sviluppa tutta la storia; è quella sensazione che, tuttavia, si dissolve nel sorriso finale, carico di speranza, delle due protagoniste.
3. Cinema e disagio psichiatrico
«Ma siete matte?», tuona una passante quando Beatrice e Donatella abbandonano quella macchina con troppo poca benzina per assecondare le loro pretese di libertà. «Eh…secondo alcune perizie sembrerebbe di sì!», risponde Beatrice con la surreale lucidità che appartiene al suo linguaggio e al suo ragionamento.
Proprio il tema affrontato da La pazza gioia colloca il film in una posizione indubbiamente peculiare, specie prendendo in considerazione il panorama offerto dal cinema italiano.
La malattia mentale, soprattutto quando si trova a incrociare il contesto del manicomio civile e del manicomio giudiziario, approda tardi e (tutto sommato) raramente sul grande schermo, anche se in maniera spesso incisiva.
Umberto Veronesi, evidenziando che il sempre crescente numero di film dedicati al tema dell’eutanasia misurasse il grado di emozione e condivisione dei dibattiti al riguardo, ricordava il ruolo fondamentale che titoli come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Figli di un Dio minore, Rain Man e Forrest Gump hanno svolto per la dignità e la libertà di persone con disabilità fisiche o psichiche[10]. In Qualcuno volò sul nido del cuculo, in effetti, il tema del trattamento della malattia mentale è l’oggetto centrale della storia, mentre in altri film lo stesso si trova inserito nella cornice di contesti narrativi indubbiamente più ampi: in questa seconda “categoria” potrebbero collocarsi anche pellicole come Ragazze interrotte, Changeling o Mommy, solo per riportare alcuni esempi tratti dalla filmografia americana ed europea di maggiore successo.
Quanto al cinema italiano, la delicata transizione (medica e culturale) traghettata dal pensiero di Franco Basaglia è stata raccontata con delicata incisività da Marco Tullio Giordana ne La meglio gioventù, in cui le storie di Giorgia (Jasmine Trinca), Nicola (Luigi Lo Cascio) e Matteo (Alessio Boni) si annodano anche attorno alle istanze che, nel 1978, hanno condotto alla chiusura dei manicomi civili.
Possono citarsi poi, per il loro tentativo di “guardare in faccia” la realtà manicominale, la Pecora nera di Ascanio Celestini e Si può fare di Giulio Manfredonia: se il primo è intimista, introspettivo e, in fondo, disperato, il secondo è corale, a tratti ammiccante ed essenzialmente fiducioso, raccontando le possibilità di inserimento nel mondo del lavoro attraverso l’esperienza delle cooperative sociali.
La gamma di registri con i quali sceneggiatori e registi possono rapportarsi al tema del trattamento del disagio psichico, in effetti, è particolarmente variegata e proprio ne La pazza gioia sembra conoscere un felice tentativo di sintesi. Il film di Virzì, che inserisce le vicende (anche) delle protagoniste nella cornice dell’“internamento giudiziario”, è ambientato nel 2014, quando il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari disposti dal legislatore italiano non era ancora giunto a compimento. Lo spettro dell’internamento in OPG aleggia costante sul percorso che scandisce la fuga delle protagoniste, fino a quando Donatella, dopo aver incassato l’ennesimo abbandono di un padre in giacca di paillettes, non riuscirà ad evitare un nuovo ricovero, in una delle sequenze più “giuridicamente toccanti” del film. La pazza gioia, in effetti, che pure non ha nulla di quella pedanteria esplicativa in cui talvolta indulge il legal drama di marca statunitense e al quale, per la verità, la tradizione italiana parrebbe generalmente refrattaria, tratteggia efficacemente i tasselli del mosaico che descrive i complessi rapporti tra il disagio psichico, la società civile e il diritto penale.
3.1. Il ruolo delle immagini cinematografiche nel processo di “definitivo superamento” degli OPG
Sono trascorsi dieci anni da quando il decreto legge n. 211 del 2011, convertito dalla legge n. 9 del 2012, proclamava solennemente il “definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”[11], avviando quel processo di riforma completato poi, sul piano legislativo, dal decreto legge n. 52 del 2014, convertito dalla legge n. 81 del 2014.
Gli ospedali psichiatrici, sopravvissuti all’epoca Basaglia e passati indenni attraverso il cambio di etichetta che tentava di allontanare lo spettro del “manicomio”, sia pur solo “giudiziario”, divengono all’improvviso “emergenza”, alla quale rimediare con urgenza attraverso un doppio decreto legge.
Le ragioni che hanno condotto all’esplosione, apparentemente improvvisa e repentina, di una realtà che da tempo si era incancrenita nelle maglie dell’esecuzione penale, sono molteplici ed eterogenei. Alla composizione della proverbiale “goccia che ha fatto traboccare” il vaso, tuttavia, ha contribuito in maniera significativa anche il cinema, questa volta non di finzione ma di tipo documentaristico.
Quando la Commissione parlamentare presieduta dal Senatore Ignazio Marino compie le sue ispezioni a sorpresa nei sei OPG allora presenti sul territorio nazionale (Castiglione delle Stiviere, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto)[12], il regista Francesco Cordio lascia che l’occhio della sua macchina da presa registri quello su cui solo lo sguardo di pochi si era fino a quel momento poggiato. Le immagini, raccolte nel documentario Lo Stato della follia, raccontano di pareti con l’intonaco cadente, di letti di metallo arrugginiti, dell’odore acre di residui organici capace di oltrepassare la barriera dallo schermo. Quelle immagini arrivano anche sui canali delle televisioni nazionali. Non si è trattato, forse, di qualcosa di paragonabile a I giardini di Abele, l’inchiesta con cui Sergio Zavoli e le telecamere della RAI entravano nel manicomio di Gorizia diretto da Franco Basaglia. Certamente, però, quelle immagini hanno lasciato il segno. Bisogna aver visto, avvertiva Piero Calamandrei in riferimento alla questione carceraria: anche perché, quando si è visto, è più difficile, moralmente e giuridicamente, continuare a voltare lo sguardo.
Le immagini in questione, pare doveroso sottolinearlo, non hanno mancato di suscitare critiche o perplessità tra gli operatori delle strutture-lager messe sotto accusa. Si lamentava, in particolare, una situazione di autentico abbandono istituzionale e un’assoluta carenza dei fondi alla materiale alla gestione di strutture tanto complesse. Deve tuttavia precisarsi che, se i sopralluoghi condotti dalla Commissione Marino hanno suscitato un indubbio clamore, già il Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva segnalato delle criticità, relative in particolare all’OPG di Aversa, dalle quali si intuiva chiaramente che il vaso stava per traboccare[13].
4. Il superamento degli OPG e l’approdo alle REMS
La questione OPG, tra l’altro negli stessi anni in cui l’Italia si trovava a fare i conti con la sentenza Torreggiani della Corte EDU[14], balza improvvisamente ai vertici dell’agenda politico-legislativa, dando luogo, come anticipato, a una riforma articolata in due fasi.
La legge n. 9 del 2012 non incide sulla misura dell’ospedale psichiatrico giudiziario così come prevista dal codice penale né apporta modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario: l’ospedale psichiatrico giudiziario resta inserito nel catalogo delle misure di sicurezza previste dall’ordinamento, senza neppure la premura di veder adeguata la propria denominazione formale attraverso un mero restyling rispondente a esigenze di eufemismo legislativo.
La svolta annunciata dal legislatore del 2012 ha dunque essenzialmente ad oggetto le concrete modalità di esecuzione del ricovero in OPG, a fronte di una condizione epidermicamente intollerabile della quasi totalità delle sei strutture allora presenti sul territorio nazionale. Il “cuore pulsante” della novella consiste infatti nella chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari già esistenti e nella loro sostituzione con le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Il “superamento” non sconfina nell’“abolizione”: la storia della psichiatria, specie nei suoi rapporti con l’ordinamento giuridico, continua a essere raccontata come storia dell’abitare[15], con tutte le conseguenti difficoltà di identificare una struttura chiusa che sostituisca l’ospedale psichiatrico giudiziario senza riprodurne i difetti.
Il fatto che la misura di sicurezza del ricovero in OPG resti vigente non significa certo che l’intervento legislativo si sia risolto fin dall’inizio in un “nulla di fatto”. Il legislatore «“fa” qualcosa di culturalmente importante: addita una situazione inaccettabile, verso la quale prende posizione nei termini di un “mai più”, “mai più così”»[16]. Il recupero delle condizioni minime di dignità imposte dall’ordinamento giuridico e, prima ancora, dalla condizione di esseri umani[17], nonché il superamento di quella dimensione di “non luogo” in cui rischiavano di inabissarsi gli OPG[18] rappresenta il presupposto logicamente e giuridicamente preliminare di ogni intervento ulteriore che aspiri alla consistenza di autentica “riforma”.
I due principi cui si ispirano le nuove residenze sono quelli della territorializzazione e della sanitarizzazione[19]. Secondo il principio di territorializzazione, le REMS sono destinate ad accogliere, di regola, internati-pazienti provenienti dal territorio regionale di ubicazione delle stesse: l’ambito territoriale costituisce la sede privilegiata per assicurare la cura e la potenziale riabilitazione dei soggetti affetti da disturbi mentali, vista la possibilità di creare una virtuosa sinergia tra i diversi servizi sanitari, tra questi e i servizi sociali e tra le istituzioni e la compagine sociale. Quanto alla sanitarizzazione, “mettendo a sistema” l’esempio virtuoso dell’ex OPG di Castiglione delle Stiviere, si prevede che le REMS svolgono «funzioni terapeutico-riabilitative e socio riabilitative»: la loro «gestione interna […] è di esclusiva competenza sanitaria» e «la responsabilità della gestione all’interno della struttura è assunta da un medico dirigente psichiatra» (Allegato A del decreto del Mistero della Salute 1 ottobre 2012).
Si stabilisce altresì un numero massimo di internati, pari a venti, che ciascuna REMS può ospitare.
Il successivo intervento realizzato con la n. 81 del 2014 ha fatto di certo registrare più rilevanti modifiche di carattere sistemico che, incidendo in maniera significativa sul ricovero in OPG, hanno cercato di correggere le distorsioni più evidenti e intollerabili mostrate dalla prassi, senza tuttavia approdare alla radicale messa in discussione della misura.
Anzitutto, il legislatore appone un termine di durata massima alle misure di sicurezza detentive (anche se provvisorie), all’evidente scopo di porre un argine al dilagante fenomeno dei c.d. ergastoli bianchi. Tra le varie soluzioni astrattamente ipotizzabili[20], si è scelto di fissare il termine massimo di durata della misura di sicurezza in corrispondenza della pena edittale massima prevista per il reato commesso: a questo fine deve farsi applicazione dei criteri contenuti dall’art. 278 c.p.p., previsti per la determinazione della pena agli effetti delle misure cautelari. Per esplicita previsione dello stesso art. 1, comma 1-quater, inoltre, il termine massimo di durata non è riferibile ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo, per i quali di conseguenza la misura di sicurezza detentiva continua a mantenere una potenziale durata massima illimitata.
Al di là delle perplessità derivanti dall’applicazione della nuova disciplina[21], sembra difficilmente contestabile che una così significativa modifica abbia intaccato in maniera visibile le “generali” basi sistematiche sulle quali si fonda il doppio binario, giungendo a mettere in discussione la stessa distinzione tra misure di sicurezza e pene detentive. Il profilo «più eversivo» contenuto nella proposta della Scuola positiva diretta all’introduzione di misure di difesa sociale era rappresentato proprio dall’indeterminatezza del limite massimo di durata, divenuta poi carattere strutturalmente e inscindibilmente connesso alla funzione loro riconosciuta[22]. Se, dunque, viene meno la necessaria corrispondenza tra l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva e la (perdurante) pericolosità sociale del soggetto e se la durata massima della misura resta in definitiva rapportata non alla pericolosità in concreto, ma alla gravità del reato commesso, il dualismo tra responsabilità individuale-pena e pericolosità sociale-misura di sicurezza fatica a delinearsi con sufficiente coerenza, tanto sul piano teorico quanto su quello strutturale[23]. Senza contare che in questo modo le misure di sicurezza detentive divengono (è il caso di dirlo) lo schizofrenico crocevia di due prospettive per certi aspetti speculari: la prospettiva prognostica della pericolosità sociale, che, guardando al futuro e all’autore del fatto, individua il presupposto di applicazione della misura, cui si sovrappone la prospettiva diagnostica della gravità del reato, che, guardando al passato e al fatto commesso, segna il limite ultimo di applicazione della misura stessa.
La l. n. 81 del 2014, poi, introduce una limitazione della base del giudizio relativo all’accertamento della pericolosità sociale. L’art. 1, comma 1, lett. b) del d.l. n. 52 del 2014 prevede anzitutto che, ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario e della casa di cura e custodia, l’accertamento della pericolosità debba essere «effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’art. 133, secondo comma, numero 4, del codice penale, cioè delle “condizioni di vita individuale familiare e sociale del reo”», con la successiva precisazione per cui «non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali».
Anche in questo caso gli scopi avuti di mira dal legislatore si prestano a un’individuazione piuttosto agevole: si tratta di evitare da un lato che l’indigenza, il disagio familiare e sociale e, più in generale, condizioni di marginalità e di abbandono assumano un ruolo determinante nella formulazione del giudizio di pericolosità sociale[24] e, dall’altro lato, che l’internamento possa dipendere da eventuali disfunzioni organizzative, quali l’impossibilità di assegnare il soggetto interessato ai Dipartimenti di salute mentale.
Fin da subito, tuttavia, si è denunciato il rischio di una poco auspicabile e anacronistica “pericolosità sociale decontestualizzata”. A fronte della faticosa affermazione della pericolosità sociale intesa in un’accezione “situazionale”, che, lungi dall’arrestarsi a considerare il soggetto come monade individuale, lo inserisca nell’ambiente di riferimento, la restrizione della base del giudizio attuata per via legislativa invertirebbe la virtuosa tendenza volta a valorizzare, accanto al profilo psicologico e psichiatrico dell’infermo, il contesto sociale e familiare nel quale lo stesso si trova inserito e dal quale è inevitabilmente condizionato[25]. Sullo sfondo parrebbe dunque profilarsi, analogamente a quanto si registra sul piano dell’imputabilità, il ritorno a una visione “neopositivista” e a una nozione biologica di pericolosità sociale, fondata integralmente sulle risultanze psichiatriche[26].
Il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato questione di legittimità costituzionale in riferimento al «dimidiato» accertamento della pericolosità sociale imposto per via legislativa nei confronti dei soggetti non imputabile o semimputabili[27], ma la Corte costituzionale, pronunciatasi con la sentenza n. 186 del 2015, ha dichiarato infondata la questione, muovendo da una più radicale messa in discussione del presupposto interpretativo accolto dal giudice a quo. Il Giudice delle Leggi ha precisato che l’intervento legislativo, lungi dal riguardare la generale nozione di pericolosità sociale dei (soli) soggetti non imputabili o semimputabili, avrebbe perseguito il più limitato scopo di specificare il principio di extrema ratio delle misure detentive, riservando il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e di custodia «ai soli casi in cui sono le condizioni mentali della persona a renderle necessarie» e limitando, unicamente a questi fini, i criteri di scelta a disposizione del giudice. La disposizione censurata, detto altrimenti, «non ha modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme di mente o seminferme di mente, la nozione di pericolosità sociale, ma si è limitata ad incidere sui criteri di scelta tra le diverse misure di sicurezza e sulle condizioni per l’applicazione di quelle detentive»[28].
Il risultato sembrerebbe quello di un sistema bifasico, scandito da un doppio giudizio prognostico, secondo un modello che, pur richiamando alla mente quello che presiede all’applicazione delle misure cautelari, si caratterizza per evidenti elementi di peculiarità. Al primo giudizio, “a base totale”, resterebbe affidato l’accertamento della pericolosità sociale del soggetto imputabile o semimputabile. Qualora questa fase si concludesse con una prognosi di pericolosità, interverrebbe il secondo giudizio, “a base parziale”, finalizzato alla scelta della misura applicabile. Il presupposto è quello per cui anche il secondo accertamento, pur privato di alcune componenti, confermi la condizione di soggetto socialmente pericoloso: dal primo giudizio relativo all’an della pericolosità si passa al secondo giudizio relativo al quantum della stessa, trattandosi unicamente di verificare se il soggetto sia “così tanto pericoloso” da giustificare il ricorso alla misura di sicurezza detentiva[29].
5. Cura e custodia nel letto di Procuste dalla misura di sicurezza detentiva
Il ricovero in OPG mostra certamente una natura peculiare: è una misura di sicurezza, disposta per soggetti socialmente pericolosi, che però ha un contenuto terapeutico nei confronti di quelli che, prima di tutto, devono essere considerati dei “pazienti”.
«Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali», si legge nella sentenza n. 253 del 2003 della Corte costituzionale, «si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile».
La dialettica tra cura e custodia dell’infermo di mente autore di reato, tuttavia, si delinea secondo cadenze non sempre scontate: si tratta di due componenti strutturali della misura, le quali paiono però costrette in una sorta di letto di Procuste che rischia di snaturare la natura di entrambe, imponendo loro una convivenza per certi aspetti innaturale.
Il cammino che ha condotto alla transizione (non terminologica ma) sostanziale dall’internamento al ricovero, del resto, si è rivelato lungo e faticoso. Non è un caso che la c.d. legge Basaglia non abbia intaccato il sistema dei manicomi giudiziari e non è un caso che i mutamenti più significativi della misura del ricovero in OPG siano derivati da pronunce della Corte costituzionale che hanno individuato la cura come finalità irrinunciabile della misura.
L’istituzione delle REMS segna appunto una tappa ulteriore, stavolta legislativa, dell’iter che, attraverso l’esplicita sanitarizzazione della misura, intende enfatizzare il polo della cura rispetto a quello della custodia. Il colpo di penna del legislatore, tuttavia, non può cancellare il fatto che il ricovero viene disposto non nei confronti di infermi di mente (senza specificazione alcuna), ma nei confronti di soggetti che a causa dell’infermità hanno commesso un reato e che risultano socialmente pericolosi.
Sui nodi che sembrano restino in parte irrisolti sul versante della sicurezza delle REMS possono individuarsi almeno due aspetti.
Anzitutto, la riforma degli OPG non sembra aver valorizzato quella distinzione tra ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e ricovero in casa di cura e di custodia che, prevista originariamente dal codice Rocco proprio allo scopo di differenziare i soggetti sulla base del diverso grado di pericolosità, si è andata progressivamente perdendo a livello applicativo. Nella legge di riforma “ospedale psichiatrico giudiziario e casa di cura e custodia”, anzi, è un’espressione trattata come un’endiadi.
Quanto alla gestione sanitaria delle REMS, è noto come le “reazioni” da parte dei medici psichiatri siano state particolarmente eterogenee. Può solo osservarsi, in una prospettiva prevalentemente (e forse ciecamente) giuridica che, se l’estromissione delle nuove Residenze dal circuito penitenziario milita evidentemente a favore di un’enfatizzazione della “cura” rispetto alla “custodia”, lo psichiatra cui è affidata la direzione della struttura potrebbe veder notevolmente ampliati i contorni di quella posizione di garanzia che già di per sé, in maniera quasi strutturale, si presta a distorsioni “onnivore”, capaci di fagocitare anche le migliori intenzioni del legislatore[30]. Il rischio di regredire alla figura di uno psichiatra-custode simile a quello che operava nel contesto pre Basaglia è forse eccessivo: resta, indubbiamente, l’esigenza di gestire la ripartizione degli “obblighi di sicurezza” dalla cui violazione può derivare una responsabilità penale, specie di quella per omesso impedimento dell’evento.
6. I rapporti tra le REMS e i “luoghi contigui”: a) il carcere
La pazza gioia, come in parte anticipato, riesce a mettere a fuoco un aspetto che, già chiaramente evidente nel precedente assetto degli OPG, diviene ancor più nitido nell’attuale “fase REMS”. Le REMS, lungi dal rappresentare monadi isolate, si inseriscono in un sistema complesso, attraversato da una serie di interazioni reciproche che, se non perfettamente “funzionanti”, rischiano di compromettere la tenuta dell’intero sistema.
Il primo “luogo contiguo” da prendere in considerazione è rappresentato dal carcere.
La premessa dalla quale muovere, sebbene apparentemente scontata, merita di essere ribadita in maniera esplicita: la questione psichiatrica è anche una questione carceraria e, anzi, rappresenta una delle emergenze ravvisabili all’interno delle strutture penitenziarie che solo a fatica riesce a superare il recinto, a volte angusto, del dibattito riservato agli “addetti ai lavori”. Basterebbe osservare, del resto, non solo che il carcere funziona da potente generatore e/o amplificatore di disagio psichiatrico, ma anche che l’infermità mentale, secondo il sistema delineato dal codice penale nella “lettura” offerta dalla giurisprudenza[31], non è di per sé incompatibile con la capacità di intendere e di volere.
A queste considerazioni di carattere generale, poi, si aggiungono più nello specifico i rapporti tra l’esecuzione della pena e quella della misura di sicurezza, specie nell’assetto delineato dalla riforma degli OPG.
Sono almeno due gli aspetti che possono evidenziarsi, relativi, rispettivamente, alle c.d. liste d’attesa in carcere e al trattamento dell’infermità psichica sopravvenuta.
1) Liste d’attesa in carcere. Il numero limitato di posti delle REMS, fissato per via, era finalizzato a risolvere il problema del sovraffollamento. Le perplessità iniziali in riferimento al requisito in questione sembrano confermate dal progressivo diffondersi del fenomeno, certamente poco ortodosso ed altrettanto evidentemente extra legem, delle c.d. liste d’attesa: alcuni soggetti, pur destinati al ricovero nelle REMS, si trovano temporaneamente ristretti in carcere per carenza di disponibilità nelle strutture di riferimento, richiedendo agli istituti di pena una difficoltosa predisposizione di “estemporanee” articolazioni psichiatriche.
Il DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), nella circ. 5 dicembre 2018, osservava come il passaggio dagli OPG alle REMS avesse prodotto una serie di criticità, a partire proprio dal considerevole numero di soggetti con patologie psichiatriche ristretti in carcere in lista d’attesa.
Il campanello d’allarme sta risuonando chiaramente anche per effetto di alcuni significativi interventi della Corte EDU.
Il 7 aprile 2020 la Corte di Strasburgo ha emesso un provvedimento cautelare ex art. 39 del Regolamento della Corte in favore di un paziente psichiatrico detenuto nel carcere di Rebibbia, ordinando al Governo italiano di provvedere al suo immediato trasferimento presso una struttura idonea. Analogo provvedimento è stato adottato nei confronti dello Stato italiano il 21 gennaio 2021, in riferimento a un paziente psichiatrico detenuto nel carcere di Regina Coeli.
Si tratta di una tipologia di pronunce, è il caso di precisarlo, cui la Corte EDU ricorre molto raramente e non è escluso che rappresentino solo il prologo per l’accoglimento di ricorsi che potrebbero mettere il nostro ordinamento di fronte all’esigenza di un intervento tempestivo e strutturale.
2) Infermità psichica sopravvenuta. I vecchi OPG erano destinati a ospitare anche soggetti con infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, creando di fatto delle problematiche “navette” tra carcere e OPG.
Le nuove REMS, invece, si vedono attribuite delle competenze “più limitate” e, più precisamente, non sono destinate ad accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti in un momento successivo rispetto all’inizio dell’esecuzione della pena. Muovendo da queste premesse la Corte costituzionale, con la sentenza n. 99 del 2019, ha esteso, per questi soggetti, la detenzione domiciliare c.d. umanitaria (prevista dall’art. 47-ter, comma 1-ter ord. penit.), in modo da offrire loro un’alternativa al carcere che, nel sistema attuale, risulterebbe del tutto preclusa[32].
In questo modo, per esplicita ammissione dei giudici di Palazzo della Consulta, si sarebbe rimediato a un’inerzia del legislatore in materia di infermità psichica divenuta ormai intollerabile: il rischio, tuttavia, resta pur sempre quello legato alla strutturale inadeguatezza della detenzione domiciliare a fornire una risposta adeguata a queste esigenza di tutela, posto che si tratta della misura alternativa in cui, in maniera più evidente, l’anima custodiale tende a prevalere su quella lato sensu risocializzante[33].
6.1. b) la rete dei servizi per la salute mentale
Dopo la riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari, il rischio più evidente è parso quello per cui le porte degli OPG si aprissero a fronte di un tessuto socio-sanitario rimasto sostanzialmente inalterato rispetto al passato, anche in considerazione del vivido ricordo di come il mancato adeguamento delle strutture di assistenza psichiatrica abbia rappresentato uno degli elementi di maggiore rallentamento della svolta legislativa del 1978[34]. «La legge Basaglia», avverte il dottor Del Vecchio (Giorgio Colangeli) in Si può fare, «chiude i manicomi, libera i matti. Così, se le famiglie se li riprendono, impazziscono anche loro. E se non se li riprendono, questi che fanno? […] Nessuno lo sa […] La pazzia non guarisce per legge».
Sarebbe stato del resto fuorviante ritenere che la causa delle innumerevoli proroghe dei ricoveri in OPG andasse identificata in una sorta di vocazione liberticida della Magistratura di sorveglianza: il problema era, piuttosto, quello di una cronicizzata carenza sul versante del contesto territoriale di accoglienza che rappresenta anche uno dei principali fattori di fallimento della misura della libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche[35].
Uno strutturale intervento “fuori dalle porte dell’OPG” varrebbe anche a ridimensionare l’intollerabile paradosso per cui in certi casi l’ospedale psichiatrico giudiziario, «luogo di scarico di malati disturbanti» e privi di una rete sociale in grado di accoglierli e sostenerli[36], rappresenti in fondo il male minore, posto che la commissione di un reato diviene l’unica via in grado di assicurare una presa in carico duratura di determinati soggetti e, magari, di condurre a un successo del trattamento nei loro confronti[37].
L’obiettivo, altrimenti detto, dovrebbe essere di valorizzare quel principio di extrema ratio delle misure di sicurezza detentive che, esplicitato dalla Corte costituzionale prima[38] e dal legislatore poi[39], si inserisce nell’ottica più generale della progressività delle misure di sicurezza complessivamente intese.
Ai fini di un effettivo gradualismo progressivo delle misure di sicurezza personali diviene fondamentale il consolidarsi del ruolo affidato a strutture residenziali come la Villa Biondi descritta dal film di Virzì, chiamate a svolgere quel ruolo di raccordo, tanto complesso quanto indispensabile, tra “dentro” e “fuori”, contribuendo (almeno) ad attenuare la difficile convivenza tra l’anima della cura e quella della custodia[40].
7. Le luci del cinema come antidoto al buio dell’indifferenza
Resta sempre valido il monito condensato dal disilluso insegnamento per cui “non sempre basta aprire le porte per liberare i prigionieri”[41], ma si rende necessario delineare di fronte agli occhi di quei prigionieri, ristretti come gli altri ma rispetto ad altri ancor più fragili, dei sentieri chiaramente tracciati e sufficientemente riconoscibili.
Al di là della complessità giuridica della questione, l’impressione è che il trattamento della malattia mentale, anche al di fuori del circuito penale, resti ancora un tema scomodo, per certi aspetti “imbarazzante”, rispetto al quale la “soluzione” più semplice è quella di lasciar cadere l’ombra del silenzio che, per i più, nemmeno corre il rischio di divenire assordante.
Il cinema, per definizione, accende le luci. Quelle stesse luci che con il documentario di Francesco Cordio hanno amplificato un grido di dolore per troppo tempo soffocato dall’indifferenza e con il film di Virzì hanno costretto il grande pubblico a guardare oltre il silenzio.
Ben venga, quindi, il “cinema folle”, capace di accendere le luci e, in questo modo, di rischiare, “normalizzandola”, la discussione su questioni che, ancor prima che giuridiche, sono sociali, culturali e politiche. Perché «il buio fa paura. E si può morire per la paura del buio» (La pecora nera).
[1] Così S. Parigi, nella illuminante premessa di Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, 2014, 7.
[2] La stretta relazione tra la situazione socio-politica degli anni Sessanta e la cinematografia italiana postbellica è evidenziata da L. Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, 2002, 31 ss.
[3] Amplius, S. Parigi, Neorealismo, cit., 244-245.
[4] In particolare A. Martini, Identità nascoste: “Pane, amore e fantasia”, “Pane, amore e gelosia”, in Luigi Comencini. Il cinema e i film, a cura di A. Aprà, Marsilio, 2007, 54 ss.
[5] G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano (1905-200), Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, 226.
[6] Age, Scriviamo un film. Manuale di sceneggiatura, Il Saggiatore, 2014, 10.
[7] Pressoché testualmente G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, cit., 226.
[8] Molte delle riflessioni sulla commedia all’italiana cui si è fatto riferimento nel testo rappresentano una sintesi, magari imperfetta, delle considerazioni svolte dalla Professoressa Stefania Parigi durante le sue lezioni di Cinema italiano, tenute negli ultimi anni presso il DAMS dell’Università degli Studi “Roma Tre”.
[9] I virgolettati riportati nel testo sono tratti dalla pagina dedicata a Paolo Virzì sul sito www.filmdoc.it.
[10] U. Veronesi, Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia, Mondadori, 2011, 23.
[11] Sulla valenza linguistica della scelta operata dal legislatore si soffermano ampiamente C. Mazzucato, G. Varraso, Chiudere o…aprire? Il “superamento” degli OPG tra istanze di riforma e perenni tentazioni di “cambiare tutto per non cambiare niente”, in Riv. it. med. leg., 2013, 1340 ss.
[12] Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale istituita con deliberazione del Senato del 30 luglio 2008, Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, in www.senato.it.
[13] Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, relativo alle visite effettuate dal 14 al 16 settembre 2008 e pubblicato il 20 aprile 2010, in www.cpt.coe.int.
[14] Corte EDU, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013 (ric. nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10).
[15] P. Dell’Acqua, S. D’Autilia, Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie, in Riv. it. med. leg., 2013, 1355.
[16] C. Mazzucato, G. Varraso, Chiudere o…aprire?, cit., 1343.
[17] S. Moccia, Il volto attuale del sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1095 stigmatizza la «insopportabile dimensione antiumana degli ospedali psichiatrici giudiziari».
[18] M. Pelissero, relazione al Convegno Malattia psichiatrica e pericolosità sociale: tra sistema penale e servizi sanitari, organizzato dall’Università di Pisa e tenutosi il 16 e 17 ottobre 2020 (registrazione è disponibile al link ).
[19] L’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, più esattamente, individua i seguenti criteri: «a) esclusiva gestione sanitaria all'interno delle strutture; b) attività perimetrale di sicurezza e di vigilanza esterna, ove necessario in relazione alle condizioni dei soggetti interessati, da svolgere nel limite delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente; c) destinazione delle strutture ai soggetti provenienti, di norma, dal territorio regionale di ubicazione delle medesime».
[20] M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga e prove maldestre di riforma della disciplina delle misure di sicurezza, in Dir. pen. proc., 2014, 927-928 ss.
[21] G.L. Gatta, Aprite le porte agli internati! Un ulteriore passo verso il superamento degli OPG e una svolta epocale nella disciplina delle misure di sicurezza detentive: stabilito un termine di durata massima (applicabile anche alle misure di sicurezza in corso, a noi sembra), in Dir. pen. cont., 6 giugno 2014; M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga, cit., 927 ss.; A. Laurito, Le REMS e la sfida del nuovo modello terapeutico-riabilitativo nel trattamento del folle reo, in La tutela della salute nei luoghi di detenzione. Un’indagine di diritto penale intorno a carcere, REMS e CPR, a cura di A. Massaro, Roma TrE-Press, 2017, 258 ss.
[22] M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario, cit., 194.
[23] G. L. Gatta, Aprite le porte agli internati!, cit. Contra A. Pugiotto, Dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, cit., § 9.
[24] Cfr. G. Dodaro, Nuova pericolosità sociale e promozione dei diritti fondamentali della persona malata di mente, in Dir. pen. proc., 2015, 615 ss.
[25] M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga, cit., 922; F. Fiorentin, Al vaglio di costituzionalità i parametri di accertamento della pericolosità sociale dei mentally ill offenders, in Arch. pen. online, 2014, 3, 5-6; I. Merzagora, Pericolosi per come si è: la (auspicata) chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e la (discutibile) pericolosità sociale come intesa dal decreto legge n. 53 del 31 marzo 2014, in Riv. it. med. leg., 2015, 360 ss.
[26] M. Pelissero, Ospedali psichiatrici giudiziari in proroga, cit., 923-924.
[27] Trib. sorv. Messina, 16 luglio 2014, in Dir. pen. cont., con nota di R. Bianchetti, Sollevata questione di legittimità costituzionale in merito ai nuovi criteri di accertamento della pericolosità sociale del seminfermo di mente.
[28] Corte cost., 23 luglio 2015, n. 186, punto 4.2. del Considerato in diritto, in Arch. pen. online, con nota di A. Massaro, Pericolosità sociale e misure di sicurezza detentive nel processo di “definitivo superamento” degli ospedali psichiatrici giudiziari: la lettura della Corte costituzionale con la sentenza n. 186 del 2015. V. anche A. Laurito, Pericolosità sociale e misure di sicurezza detentive per infermi di mente al vaglio della giurisprudenza: profili critici della l. n. 81/2014, in Riv. it. med. leg., 2017, 508 ss.
[29] V. sul punto Cass., sez. IV pen., 18 novembre 2015, n. 49469.
[30] Tra i più recenti C. Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra: nuovi spunti, diverse prospettive, timide aperture, in Dir. pen. proc., 2017, 370 ss.; L. Brizi, Dallo psichiatra “medico-terapeuta” allo psichiatra “medico-direttore”: forme e modelli di responsabilità penale nel nuovo volto delle REMS, in La tutela della salute, cit., 301 ss.
[31] Il riferimento è soprattutto a Cass., Sez. un. pen., 8 marzo 2005, n. 9163, Raso, in Dir. pen. proc., 2005, 837 ss., con ampia nota di M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite, alla quale si rinvia per le necessarie precisazioni e indicazioni.
[32] Corte cost., 14 aprile 2019, n. 99, su cui, per tutti, M. Bortolato, La sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale: la pari dignità del malato psichico in carcere, in Cass. pen., 9/2019, 3152 ss.
[33] Cfr. la relazione di G. Lattanzi al Convegno Malattia psichiatrica e pericolosità sociale: tra sistema penale e servizi sanitari, organizzato dall’Università di Pisa e tenutosi il 16 e 17 ottobre 2020 (registrazione è disponibile al link ), il quale evidenzia i profili di possibile criticità derivanti dalla “scissione esecutiva” determinatasi dopo l’intervento della Corte costituzionale.
[34] In argomento, per tutti, M. T. Collica, Verso la chiusura degli O.p.g.: una svolta (ancora) solo annunciata?, in Leg. pen., 2014, 274 ss.
[35] N. Mazzamuto, Relazione al Convegno SEAC 2012, in www.conams.it.
[36] P. Dell’Acqua, S. D’Autilia, Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie, cit., 1363.
[37] U. Fornari, Trattato di psichiatria forense5, Utet, Torino, 2013, 77.
[38] Il riferimento è, in particolare, a Corte cost., 2 luglio 2003, n. 253 e Corte cost., 17 novembre 2004, n. 367, su cui, per tutti, F. Della Casa, La Corte costituzionale corregge l’automatismo del ricovero provvisorio nella struttura manicomiale promuovendo la libertà vigilata al rango di alternativa, in Giur. cost., 2004, 3398 ss.
[39] Art. 1, co. 1, lett. b), d.l. n. 52 del 2014.
[40] V., tra gli altri, G. Fossa, E. Zanelli, A. Verde, Il malato di mente autore di reato nelle strutture residenziali: una ricerca in una comunità terapeutica, in Rass. it. crimin., 2/2012, 88 ss. e, per le perduranti capacità di raccordo tra “dentro” e “fuori”, E. Zanalda, M. Clerici, L. Lorettu, B. Carpiniello, Salute mentale in carcere. La Società italiana di psichiatria risponde al Cnb: “Va preso atto che la chiusura degli Opg non ha risolto tutti i problemi”, in Quot. san., 3 aprile 2019.
[41] Si rinvia ancora a R. Castiglione, Il ritorno del Mariolino ovvero dell’insostituibile funzione del manicomio criminale, in Rass. penit. e crimin., 1986, spec. 105 ss. L’Autore ripercorre le fasi storico-giuridiche dell’istituzione manicomiale attraverso le vicende di Mario C., oligofrenico rinchiuso in manicomio fin dall’età di sei anni, che arriva a sentirsi rifiutato anche da quell’istituzione totale che, paradossalmente, rappresentava l’unico rimedio alla sua condizione di alienato. A questo punto «le azioni del Mario, per fortuna, assumono sempre più spesso un carattere di reato. “Per fortuna”, poiché questo offre un valido appiglio per allontanare il Mario, cacciandolo in Manicomio criminale. Con questo non intendo fare né ironia, né del cinismo. […] Qual è oggi l’unica istituzione – senza considerare i suoi indiscutibili aspetti negativi – in grado di contenere un “deviante-psichicamente disturbato-reo”? L’ospedale psichiatrico giudiziario».
La sedia mancata di Ursula von der Leyen.
di Maria Teresa Covatta
Sommario: 1. La storia - 2. Il messaggio - 3. La Convenzione di Istanbul - 4.Il sofa-gate - 5.Le reazioni
1. La storia
L’episodio è ormai noto a tutti, passato e ripassato dai media in ogni forma, stigmatizzato sui social in ogni modo, dalle considerazioni di politici ed opinion makers al “vignettismo” dell’Internet, che ha mostrato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che va all’incontro con il presidente turco Erdogan a braccetto con il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel portandosi al braccio una sedia pieghevole; o seduta, perplessa, davanti a due trogloditi con tanto di clava in mano.
La vicenda, pietra dello scandalo, brevemente è questa. Il 7 aprile il presidente del Consiglio Europeo e la presidente della Commissione Europea vengono ricevuti dal presidente turco. Mentre il primo ospite viene fatto accomodare in una poltrona posta accanto al padrone di casa, la seconda troverà posto, dopo lunghi attimi di incredula incertezza, in un divanetto laterale, piuttosto distanziata dagli altri due.
La cerimonia così orchestrata non ha mancato di suscitare immediatamente critiche e polemiche. Si è parlato di sgarbo istituzionale, di protocolli diplomatici violati o quanto meno di applicazione volutamente rigida e formale del protocollo sulla disposizione dei posti . Infine, di prassi consolidate infrante , ricordando quanto successo nel 2015 allorchè gli ospiti di Erdogan , nello stesso ruolo istituzionale, erano Tusk e Junker e le poltrone ai lati del presidente turco erano due.
2.Il messaggio
Non è mancato chi ha interpretato il gesto come squisitamente politico. In relazione alla politica interna, si è detto, l’affronto alla von der Leyen rientra perfettamente nello schema di un autocrate in difficoltà, isolato a livello internazionale e con problemi interni che ha un bisogno disperato di affermare la sua autorità e di riconquistare la falange dei conservatori interni; a livello internazionale un messaggio politico diretto verso, o meglio contro, l’Unione Europea.
Certo è che comunque, anche a leggerla così, salta agli occhi all’evidenza che chi ne fatto le spese è stata una donna che, quale presidente della Commissione Europea non aveva mancato di stigmatizzare, solo pochi giorni prima, il recente annuncio di Erdogan di aver avviato la procedura di recesso dalla convenzione di Istanbul con un messaggio di significante censura seppur diplomaticamente confezionato in termini istituzionali; e che per di più aveva aggiunto l’invito al presidente turco di tornare sui suoi passi in nome dei diritti umani e della civiltà.
3.La Convenzione di Istanbul
E’ ben noto cosa abbia rappresentato la Convenzione di Istanbul del 2011, finalmente un vincolo giuridico per gli Stati aderenti all’attuazione ed al rispetto di comuni disposizioni volte alla prevenzione della violenza di genere, alla repressione della violenza domestica, alla protezione delle vittime, alla punizione dei colpevoli. Un testo che ha prospettato, finalmente, una possibile visione diversa dello stupro e del femminicidio, inquadrati, accogliendo le istanze della società civile e delle istituzioni impegnate nella lotta per i diritti umani, non più come delitti isolati, frutto di colpi di testa o di amore tradito, ma come aspetti strutturali della violenza di genere.
Di qui lo shock del 21 marzo seguito all’annuncio della decisione di Erdogan di recedere dalla Convenzione. Una decisione che ha riportato la Turchia, già tra i firmatari originari dell’Accordo e primo Paese ad averlo ratificato, indietro di anni luce, segnando l’arretramento di un percorso di uguaglianza e del cammino per il superamento del soffitto di cristallo di cui Ursula von der Leyen, donna a capo di una delle massime autorità europee, ben può considerarsi un simbolo .
4.Il sofa-gate
Tornando quindi al sofagate, quale che sia stato l’intento politico interno o internazionale o il messaggio dato all’Unione, certo è che l’umiliazione inflitta alla von der Leyen proviene da un presidente che aveva appena promesso ai conservatori del suo Paese di “ridare dignità alla donna” riportandola nella famiglia, quale unico luogo in cui è giusto e morale che stia , come moglie e come madre, unici ruoli che le possono essere riconosciuti .
E dunque , ancor di più in questo contesto, l’umiliazione inflitta alla donna Ursula vor der Leyen, nonché presidente della Commissione Europea , dal presidente di un Paese in cui le libertà, tra cui quella delle donne, sono progressivamente e drammaticamente peggiorate, è inaccettabile per tutte le donne e gli uomini che rifuggono l’oscurantismo, si definiscono civili e rifiutano di tornare indietro sulla strada del rispetto dei diritti umani
5.Le reazioni
Infatti queste donne e questi uomini hanno reagito, ciascuno a proprio modo, ma comunque in modo forte. Hanno protestato associazioni femministe , parlamentari dell’Unione Europea, uomini e donne di governo, opinionisti. Si è parlato di “machismo protocollare”, di “bullismo politico”, è stata simbolicamente esposta una sedia vuota nell’aula del nostro Parlamento su iniziativa condivisa di una deputata italiana. Ma la censura più tagliente e più ufficiale, che ha causato una protesta diplomatica altrettanto ufficiale da parte della Turchia, con la convocazione dell’Ambasciatore italiano, è stata che “con questi dittatori,chiamiamoli per quello che sono, di cui si ha bisogno, bisogna essere franchi nell’espressione della propria diversità di vedute e di visione della società”.
Reazioni forti e decise che contrastano con il comportamento del presidente del Consiglio Europeo, il belga Charles Michel. Criticato, anzi criticatissimo, per la sua inerte acquiescenza , egli stesso ha parlato, poi, di “immagine disastrosa” e di offesa a tutte le donne. Eppure è andata così.
Certo,si è detto, spezzando una lancia in suo favore,un negoziato è un negoziato, la sfida dell’incontro era forte, i risultati attesi,sotto tanti profili, erano importanti, la mission era quella di ricucire o almeno ammorbidire i rapporti con la Turchia, riavvicinando l’Europa ad un Paese che si sta progressivamente allontanando dai valori europei e dalla democrazia
Possono essere considerate giustificazioni? Personalmente credo di no, anche in un’ottica pragmatica di costi benefici.
Comunque effettivamente è andata così e non ci resta che fantasticare su tutte possibili reazioni diverse che avrebbero dato a questa vicenda un’immagine migliore degli uomini “civili”, pur di fronte ad un dittatore di cui si ha bisogno.
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