ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Fissazione e applicazione delle regole del gioco in materia condominiale: la ripartizione “errata” delle spese comuni come chiave di riscrittura dell’invalidità delle delibere assembleari (nota a Cass., sez. un., n. 9839 dep. il 14/04/2021)
di Francesco Taglialavoro
Invalidità delle delibere assembleari che ripartiscono le spese comuni in violazione dei criteri legali o convenzionali: l’annullabilità “residuale” alla luce della certezza dei rapporti giuridici in ambito condominiale.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso - 3. Tre sentenza in una - 4. La nullità dell’ordinanza resa fuori udienza non comunicata (art. 176, comma 2, c.p.c.; 156, comma 3, c.p.c.) - 5. Il sindacato di validità della delibera assembleare nel giudizio di opposizione al conseguente decreto ingiuntivo stessa - 6. Nullità o annullabilità delle delibere assembleari - 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
È possibile sindacare la validità della delibera assembleare nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso in conseguenza della stessa? È nulla o annullabile la delibera che ripartisca le spese comuni in violazione dei criteri legali o convenzionali? Qual è il criterio generale per distinguere tra nullità e annullabilità delle delibere rese in ambito condominiale?
Muovendo dal particolare, le Sezioni unite riscrivono il sistema delle invalidità in ambito condominiale, offrendo all’interprete un nuovo criterio per distinguere tra nullità e annullabilità.
2. Il caso
L’assemblea condominiale delibera l’esecuzione di lavori di rifacimento e impermeabilizzazione del lastrico solare, imputando al proprietario esclusivo 1/3 della spesa complessiva.
Il decreto ingiuntivo, emesso sulla base di quella deliberazione, viene opposto, sostenendo, in via preliminare, la nullità del giudizio di primo grado per mancata comunicazione dell’ordinanza con la quale era stata fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni; nel merito, la nullità della delibera per violazione dei criteri previsti dall’art. 1126 c.c. (l’opponente deduce di avere la proprietà ma non l’uso esclusivo del lastrico solare).
Sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello respingono le domande, sul presupposto che la questione relativa alla validità della deliberazione non possa trovare ingresso nell’ambito del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo.
Con ordinanza interlocutoria n. 24476/19, la seconda sezione civile della Suprema Corte rileva un contrasto giurisprudenziale sulla natura dell’invalidità delle deliberazioni assembleari e sulla estensione dell’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione degli oneri condominiali.
Per comporre il contrasto e per esprimersi su una questione di massima di particolare importanza, viene quindi richiesta la pronuncia a Sezioni unite.
3. Tre sentenza in una
La sentenza annotata appare suddivisa in tre sezioni tra loro quasi autosufficienti.
Anzitutto viene trattato il profilo, logicamente preliminare, della nullità del giudizio per mancata comunicazione di una ordinanza pronunciata fuori udienza.
In seconda battuta, la Suprema Corte delinea il perimetro del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso sulla base di una delibera assembleare.
Infine, viene operata una riscrittura delle cause di nullità e annullabilità delle delibere rese in ambito condominiale, sovvertendo il precedente criterio discretivo enucleato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 4806/05.
Tutti i profili analizzati rivestono indubbia rilevanza pratica: si tenterà, dunque, una ragionata sintesi delle soluzioni proposte, col fine di orientare l’interprete in un territorio complesso la cui mappa viene, per di più, costantemente ridisegnata.
4. La nullità dell’ordinanza resa fuori udienza non comunicata (art. 176, comma 2, c.p.c.; 156, comma 3, c.p.c.)
Nella prima parte della decisione, le Sezioni unite analizzano il preliminare profilo della nullità dell’intero giudizio per mancata comunicazione dell’ordinanza – resa fuori udienza – con cui veniva fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni.
Ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c.: “le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi; quelle pronunciate fuori dell'udienza sono comunicate a cura del cancelliere entro i tre giorni successive”.
Secondo le Sezioni unite la mancata comunicazione dell’ordinanza può, in linea di principio, comportarne la nullità: ai sensi dell’art. 159, comma 1, c.p.c., tale radicale forma di invalidità importerebbe quella degli atti successivi dipendenti, sentenza compresa.
Il riferimento è a Cass. civ. n. 8002/09[1], per la quale: “la mancata comunicazione alla parte costituita, a cura del cancelliere, ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., dell'ordinanza istruttoria pronunciata dal giudice fuori udienza provoca la nullità dell'ordinanza stessa, per difetto dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, nonché la conseguente nullità, ai sensi dell'art. 159 c.p.c., degli atti successivi dipendenti”.
La regola appena esposta va però coordinata con quella di cui all’art. 156, ultimo comma, c.p.c., ai sensi del quale non può essere dichiarata la nullità di un atto che abbia comunque raggiunto il suo scopo: si tratta di una regola assai rilevante in ambito processuale, che spiega, fra l’altro, il notevole interesse pratico e teorico intorno alla figura della inesistenza[2].
Pur nel silenzio della sentenza annotata, l’interprete può agevolmente comprendere lo scopo della comunicazione imposta dall’art. 176, comma 2, c.p.c.: garantire alla parte un congruo termine per allestire le proprie difese.
Muovendo da tale implicito presupposto, le Sezioni unite ritengono infondata la censura, rilevando che il procuratore cui non fu comunicata l’ordinanza di fissazione della udienza avesse comunque presenziato alla stessa, senza chiedere termini a difesa.
La sentenza annotata, quindi, ritiene che: “quando la parte, alla quale non sia stata comunicata l'ordinanza pronunciata fuori dell'udienza, abbia egualmente, per altre vie, avuto conoscenza dell'udienza di rinvio ed abbia partecipato alla stessa, senza dedurre specificamente l'eventuale pregiudizio subito per la sua difesa a causa della mancata comunicazione e senza formulare istanze dirette ad ottenere un rinvio ad altra udienza, la nullità risulta sanata per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell'art. 156 c.p.c., comma 3, essendosi comunque conseguito lo scopo della prosecuzione del processo con la partecipazione di tutte le parti in contraddittorio tra loro”.
Possono dedursi i seguenti corollari applicativi.
Il procuratore cui non viene comunicata l’ordinanza di fissazione dell’udienza, ma che sia venuto comunque a conoscenza della stessa (ad esempio per avere consultato il fascicolo telematico) può:
1) non presenziare all’udienza: in questo caso il Giudice scrupoloso dovrebbe verificare che la propria ordinanza sia stata comunicata e, accortosi del contrario, disporre d’ufficio il rinvio dell’udienza. Se tale controllo non venisse effettuato, il procuratore assente potrebbe eccepire la nullità dell’ordinanza non comunicata e di tutti gli atti dipendenti successivi.
2) presenziare all’udienza e chiedere un rinvio, deducendo un concreto pregiudizio all’attività di difesa: in questo caso il rinvio dovrebbe essere accordato.
3) presenziare all’udienza e non chiedere un termine a difesa: in questo caso il giudizio dovrebbe seguire il suo corso.
5. Il sindacato di validità della delibera assembleare nel giudizio di opposizione al conseguente decreto ingiuntivo stessa
5.1. I precedenti giurisprudenziali
Secondo un orientamento, molto rigoroso, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di spese condominiali, la delibera assembleare potrebbe essere sindacata esclusivamente in relazione alla sua efficacia.
Il riferimento è, tra le altre, a Cass. 22573/16[3], per cui: “l’annullamento della delibera assunta dall’assemblea dei condomini, derivante dall’omessa convocazione di uno di essi, può ottenersi solo con il tempestivo esperimento di un'azione "ad hoc", non potendo tale doglianza formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo chiesto per il pagamento delle spese deliberate dall'assemblea medesima”.
Tale perentoria affermazione è spiegata mediante mero riferimento ad analoga statuizione resa nel 2006[4], la quale, però e a sua volta, non spiega le ragioni di tale decisione: è comunque significativo notare che, secondo la prospettazione del ricorrente, la mancata convocazione costituirebbe motivo di nullità; in tal senso il rigetto del motivo di ricorso pare suffragato da due concorrenti ragioni: i) la mancata convocazione costituirebbe soltanto un motivo di annullamento; ii) l’annullamento può essere chiesto soltanto in apposito giudizio e con il rispetto dei termini di cui all’art. 1137 c.c.
Vien da chiedersi, quindi, cosa sarebbe accaduto se fosse stata rilevata la nullità.
Soccorre, in tal senso, la decisione resa a Sezioni unite con sentenza n. 26629/09[5], con la quale si è ritenuto sottratto allo scrutinio del Giudice dell’opposizione il sindacato sulla validità della delibera[6]: anche questa decisione, però, è spiegata tramite il mero richiamo a un’ulteriore sentenza, Cass. S.U. 4421/07, che appare finalmente decisiva.
La sentenza da ultimo richiamata si occupa di definire i contorni della sospensione del giudizio per pregiudizialità, ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
Si dia il seguente caso: l’amministratore richiede e ottiene, ex art. 63 disp. att. c.c., un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea. Il condòmino, che già aveva impugnato la delibera deducendone l’invalidità, oppone il decreto, chiedendo la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.c.
Secondo le Sezioni unite del 2007 la sospensione non è dovuta.
La Cassazione fonda tale decisione sull’indirizzo, appena illustrato, per il quale in sede di opposizione a decreto ingiuntivo (sia pure emesso ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c.) non può essere sindacata la validità della delibera.
Le ragioni, finalmente chiarite, sono in sintesi le seguenti: i) le deliberazioni condominiali, pur essendo soggette ad impugnativa ai sensi dell'art. 1137 c.c., restano vincolanti per i singoli condomini nonostante l’esperita impugnazione, salvo che il giudice di questa ne disponga la sospensione dell’efficacia esecutiva; ii) tale delibera costituisce, di per sé, prova idonea, ai fini di cui agli artt. 633 e 634 c.p.c., dell’esistenza del credito, si da legittimare non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio d’opposizione all’ingiunzione[7].
Il processo di opposizione, dunque, non potrebbe essere sospeso, avendo i due giudizi oggetti radicalmente diversi (la perdurante efficacia della delibera, per l’opposizione; la validità della stessa, per l’impugnazione): la tutela dell’opponente sarebbe quindi consegnata alla possibile sospensione dell’efficacia della deliberazione ex art. 1137 c.c.
Alla tesi restrittiva si è contrapposta ampia parte della giurisprudenza, sia pure limitata alla sola eccezione di nullità.
Con grande chiarezza, in tal senso, Cass. civ. n. 305/16[8] ha statuito che: “nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo emesso a favore del condominio, ai sensi dell'art. 63 disp. att.c.c., per la riscossione dei contributi condominiali, il giudice può sindacare, in via incidentale, anche la validità della relativa delibera assembleare, qualora essa sia affetta da vizi che ne comportino non la semplice annullabilità, ma la nullità radicale”. Se il giudice può sindacare la validità della deliberazione, non si comprende, però, perché tale scrutinio debba arrestarsi difronte a una delibera invalida perché annullabile. Va comunque considerato che, in quello specifico caso, la delibera era in effetti nulla (perché disponeva l’esecuzione di opere su un bene di proprietà esclusiva dell’opponente) e non era stata autonomamente impugnata[9].
5.2. La decisione delle Sezioni unite
Chiamate a dirimere il superiore contrasto, le Sezioni unite respingono entrambe le tesi a favore di un’impostazione ancora più permissiva e, sia consentito, condivisibile.
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo può essere sindacata la validità della delibera che costituisce la fonte della pretesa creditoria. Tale sindacato non è limitato alla nullità ma si estende anche all’annullabilità.
Diverse le ragioni.
Anzitutto, è incontestabile che con l’opposizione a decreto ingiuntivo si apra un giudizio ordinario, il perimetro del quale non è limitato alle condizioni di valida emissione dell’ingiunzione ma attiene, piuttosto, all’accertamento dei fatti costitutivi del diritto in contestazione, ossia al merito della pretesa creditoria: risulta pertanto arduo sostenere che il giudice debba ritenere fondata una pretesa non potendo sindacare la validità del titolo su cui la stessa risulta fondata. In caso contrario, secondo le Sezioni unite, si creerebbe un inammissibile ius singulare in materia condominiale.
In secondo luogo, la tesi permissiva risponde a precise esigenze di economia processuale, evitando la moltiplicazione dei giudizi e i possibili contrasti di giudicato.
Il sindacato del giudice dell’opposizione è dunque esteso alle questioni relative alla nullità della delibera: del resto, poiché tale radicale forma di invalidità impedisce la produzione di effetti, negare tale sindacato equivarrebbe a costringere il Decidente a considerare efficace ciò che non lo è. Equivarrebbe, secondo la Corte, a negare la stessa nozione di nullità.
Non solo: attesa la natura del vizio di cui si discute, il giudice dell’opposizione ha il potere dovere di rilevare d’ufficio l’eventuale nullità della deliberazione, provocando il contraddittorio ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c.
Tale sindacato, ed è questa la parte maggiormente innovativa della sentenza annotata, è esteso anche all’annullabilità: l’art. 1137 c.c., del descrivere il modello legal-tipico tramite il quale l’annullabilità della deliberazione può essere dedotta, non prevede infatti alcuna riserva dell’esercizio dell’azione di annullamento ad un apposito autonomo giudizio a ciò destinato, nè fornisce alcuna indicazione che legittimi una tale conclusione.
L’articolo 1137 c.c., secondo le Sezioni unite, prevede però che il vizio in parola possa essere dedotto esclusivamente tramite l’azione di annullamento: per questa ragione e per la finalità, sottesa al sistema, di assicurare la stabilità dei rapporti in ambito condominiale, l’annullabilità può essere fatta valere soltanto in via di azione e non, a differenza della materia contrattuale, in via di eccezione e quindi: i) in via principale, nell’ambito di apposito e separato giudizio; ii) in via riconvenzionale, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, salvo, per entrambi i casi, il rispetto del termine decadenziale di cui all’art. 1137 c.c.
5.3. Alcune osservazioni critiche
La soluzione prospettata, sia pure decisamente apprezzabile rispetto alla tesi restrittiva, presta il fianco ad alcune osservazioni critiche.
Dal punto di vista teorico, l’avere imposto, in relazione all’annullabilità, il rispetto del termine di trenta giorni ex art. 1137 c.c., comporta sia la creazione di una ius singulare in materia condominiale (cfr. art. 1442, ultimo comma, c.c.); sia la possibile moltiplicazione dei giudizi con rischio di giudicati contrastanti.
Comporta, in altre parole, conseguenze opposte alle esigenze che hanno portato al superamento della tesi restrittiva.
Dal punto di vista pratico, infatti, il condòmino che ritenga annullabile una delibera ha l’onere di impugnarla entro trenta giorni in apposito giudizio. Qualora a tale delibera segua l’ingiunzione di pagamento, lo stesso condòmino potrebbe riproporre in via riconvenzionale l’azione di annullamento col rischio di contrasti di giudicato. La soluzione a quanto appena esposto potrebbe ricavarsi dalla sospensione necessaria del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 295 c.p.c.: si è già visto, in proposito, che secondo la decisione resa a Sezioni unite con sent. n. 4421/07, il giudizio di opposizione non potrebbe essere sospeso.
Tale decisione, però, si fondava sulla asserita diversità di piani dei due processi: poiché tale diversità appare oggi superata, potendo entrambi i giudici sindacare la validità della delibera, l’orientamento espresso in quel precedente potrebbe essere superato.
La possibilità di opporre un decreto ingiuntivo entro trenta giorni dalla delibera che ne costituisce il fondamento appare, peraltro, praticamente quasi impossibile.
L’ingiunzione di pagamento, infatti, dovrebbe essere notificata (e quindi richiesta e ottenuta) entro trenta giorni dalla deliberazione: l’unica possibilità plausibile è che il decreto ingiuntivo venga emesso in pendenza del procedimento di mediazione, poiché la comunicazione della domanda interrompe i termini per l’impugnazione[10].
6. Nullità o annullabilità delle delibere assembleari
Poiché l’eventuale annullabilità della deliberazione può essere dedotta soltanto in via di azione e non di eccezione (col rispetto, quindi, del termine di cui all’art. 1137 c.c.), risulta dirimente comprendere quando la deliberazione sia invece radicalmente nulla.
6.1. La struttura della motivazione
Le Sezioni unite, in questa parte della sentenza, ragionano su due livelli: uno particolare, uno generale.
Nel particolare, analizzano la giurisprudenza relativa allo specifico caso della invalidità della delibera che abbia ripartito le spese condominiali in maniera difforme dai criteri legali o convenzionali.
Più in generale, analizzano la giurisprudenza relativa alla differenza tra nullità e annullabilità di (tutte) le delibere assembleari, illustrando il criterio discretivo proposto da Cass. S.U. 4806/2005.
Lo schema seguito è il seguente:
1) viene esposto l’orientamento “tradizionale” in materia di impugnazione della delibera che abbia ripartito le spese condominiali in modo difforme dai criteri legislativi o convenzionali;
2) viene esposto il criterio generale di distinzione tra delibera nulla e delibera annullabile proposto da S.U. 4806/2005;
3) viene affermato che il criterio discretivo “generale” non si è rilevato del tutto adeguato allo specifico tema oggetto d’analisi, contribuendo alla creazione di due orientamenti contrapposti;
4) per comporre questo contrasto viene ripensato l’orientamento generale, giungendo in applicazione di questo alla soluzione del caso.
6.2. I precedenti giurisprudenziali
Secondo la giurisprudenza tradizionale[11] occorre distinguere tra delibere che stabiliscono o modificano i criteri di ripartizione delle spese ai sensi dell’art. 1123 c.c. e delibere con le quali vengono in concreto ripartite le spese medesime: le prime richiedono l’unanimità, in difetto della quale sono nulle; le seconde, ove la ripartizione avvenga in violazione dei criteri legali o convenzionali, sarebbero annullabili.
Una metafora aiuterà a comprendere meglio la questione: le delibere che fissano le regole del gioco richiedono l’unanimità, diversamente sono nulle; le delibere che applicano le regole del gioco in maniera erronea sono annullabili.
A questo orientamento se n’è contrapposto un altro, fertile germoglio nel terreno grigio fra nullità e annullabilità.
È noto, infatti, che per Cass. S.U. 4806/05 la differenza tra le due ipotesi di invalidità va ricercata, in linea generale, nel binomio “vizi di forma, vizi di sostanza”: i primi, evidentemente meno gravi, comportano l’annullabilità; i secondi, “strutturali”, la ben più grave nullità.
A questo criterio discretivo, già parecchio incerto, le S.U. del 2005 affiancano un’ulteriore distinzione per casi ritenendo nulle le delibere: prive degli elementi essenziali; con oggetto impossibile o illecito (perché contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume[12]); con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea (per difetto assoluto di attribuzioni); che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini[13].
Sarebbero invece meramente annullabili le delibere: con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea; quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale; quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea; quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione; quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
L’aver specificato sia i casi di nullità, sia i casi di annullabilità, ha avuto l’effetto – non voluto ma probabilmente inevitabile – di concimare proprio quel terreno grigio di cui si parlava: è, infatti, sull’impossibilità giuridica dell’oggetto che si fonda il principale orientamento contrastante a quello tradizionale.
Sarebbero così radicalmente nulle le delibere adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese (…) seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, trattandosi di invalidità da ricondursi alla "sostanza" dell'atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni del collegio, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto”.
Secondo questo orientamento, peraltro, tali delibere finirebbero per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, risultando nulle, ove non approvate all’unanimità, anche sotto tale profilo.
6.3. La riscrittura della differenza tra delibere nulle e delibere annullabili
Qualcosa non funziona, si potrebbe dire.
E si avrebbe ragione: il criterio discretivo sopra sintetizzato ha comportato notevoli incertezze, alimentate dal fine di sottrarre un’eventuale impugnazione agli stringenti limiti di cui all’art. 1137 c.c.
Da questa constatazione prende le mosse la parte forse più importante della decisione annotata.
Le Sezioni unite, preso atto degli esiti particolari che l’applicazione di quel criterio generale ha comportato, riscrivono il criterio discretivo delle invalidità in materia condominiale, indicando tipologicamente poche cause di nullità e qualificando qualsiasi altro vizio come causa di annullamento.
Il ragionamento prende le mosse dall’art. 1137 c.c. che prevede, per le delibere contrarie alla legge o al regolamento di condominio, esclusivamente il possibile annullamento.
La ragione di questa scelta è individuata nel favor legislativo verso la stabilità delle decisioni: in una realtà così complessa quale il condominio, si è ritenuto opportuno non lasciare esposte le deliberazioni assembleari in perpetuo all’azione di nullità, proponibile senza limiti di tempo da chiunque vi abbia interesse.
In definitiva, il tenore amplissimo della disposizione non lascia dubbi sull’intento del legislatore di ricondurre ogni forma di invalidità delle deliberazioni assembleari, senza distinzioni, alla figura della "annullabilità" e di porre così a carico del singolo condomino l’onere esigibile sul piano della diligenza - di verificare, una volta ricevuta comunicazione di una deliberazione dell'assemblea, la sussistenza di eventuali vizi della stessa e, in caso positivo, di impugnarla, chiedendone l'annullamento.
Resta da chiedersi se, nonostante il tenore dell’art. 1137 c.c., possa talvolta parlarsi di nullità della deliberazione assembleare.
La risposta delle Sezioni unite è affermativa: “esistono categorie, nel mondo del diritto, che non sono monopolio del legislatore, ma scaturiscono spontaneamente dal sistema giuridico, al di fuori e prima della legge”.
Questa affermazione appare piuttosto sorprendente, specie se rivolta alla nullità, categoria chiaramente di diritto positivo: limitando l’analisi alle categorie (si pensi, tra gli istituti, alla famiglia, della quale si potrebbe predicare la preesistenza rispetto alla legge) il riferimento potrebbe assumere maggior pregio in relazione all’inesistenza: che, nel ragionamento delle Sezioni unite, i due istituti siano in un certo senso collimanti, pare evincersi dal dato che, si legge in motivazione, la nullità atterrebbe a quei vizi talmente radicali da privare la deliberazione di cittadinanza nel modo giuridico.
Maggiormente convincente appare il richiamo all’art. 1418 c.c., col dichiarato intento di verificare quali, tra le ipotesi di nullità ivi contemplate, possano valere per le deliberazioni dell'assemblea del condominio e siano compatibili col carattere collegiale dell'assemblea e col principio maggioritario.
Probabilmente, invece che evocare un’origine quasi giusnaturalistica nella nullità, la Suprema corte avrebbe potuto riferirsi all’art. 1418 c.c. come espressivo di un principio generale di invalidità e, dunque, di validità, degli atti giuridici anche diversi dai contratti.
Le delibere assembleari sono quindi nulle per:
1) Mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali.
È l’ipotesi di nullità strutturale mutuata dal secondo comma dell’art. 1418 c.c.: è quindi nulla la delibera priva di un decisum determinato o determinabile, quella priva di senso, quella non verbalizzata, quella adottata senza la votazione dell’assemblea.
2) Illiceità.
È l’ipotesi di delibera illecita perché contraria alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume.
La sentenza annotata richiama l’art. 1343 c.c. (causa illecita) ma si deve ritenere nulla anche la decisione che preveda prestazioni di per sé stesse illecite (oggetto illecito).
È quindi nulla per illiceità della causa la delibera che preveda un accantonamento di per se lecito che serva a evadere le imposte; è nulla per illiceità dell’oggetto la delibera che preveda la realizzazione di opere finalizzate alla creazione di barriere architettoniche.
3) Impossibilità dell’oggetto, in senso materiale o in senso giuridico.
È impossibile in senso materiale l’oggetto che non può essere fisicamente realizzato (la costruzione di un campo da calcio regolamentare nel piccolo giardino condominiale).
È impossibile in senso giuridico la delibera resa in carenza assoluta di attribuzioni: tale vizio, che attiene non al quomodo ma all’an dell’esercizio del potere, può verificarsi quando l’assemblea persegua finalità extracondominiali o si occupi dei beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini o a terzi.
È resa in carenza assoluta di attribuzioni, e veniamo allo soluzione della questione particolare, anche la delibera adottata a maggioranza con la quale si stabiliscano in via generale e per il futuro i criteri di ripartizione delle spese condominiali.
6.4. Nullità o annullabilità della delibera che ripartisca le spese in violazione dei criteri legali o convenzionali
In linea generale, quindi, sono nulle le delibere che mancano degli elementi costitutivi essenziali, quelle che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o in senso giuridico e quelle che hanno un contenuto illecito.
In tutti gli altri casi si può parlare esclusivamente di annullabilità, la cui azione deve essere esercitata nei modi e nei termini di cui all’art. 1137 c.c.
Il criterio discretivo sopra illustrato ha sicuramente il pregio della chiarezza, limitando le incertezze interpretative e superando la precedente distinzione generale tra vizi di forma e vizi di sostanza (ritenuta non conforme alla legge[14]).
Il contrasto giurisprudenziale sulla validità della delibera che ripartisca le spese comuni in difformità dai criteri legali o convenzionali, però, aveva trovato terreno fertile sulla ipotesi di nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto, ipotesi tenuta ferma dalla sentenza annotata anche se circoscritta alla carenza assoluta di attribuzioni.
Quid iuris?
Compete certamente all’assemblea, con deliberazione da assumere secondo il metodo maggioritario, l’approvazione e la ripartizione delle spese per la gestione ordinaria e straordinaria delle parti e dei servizi comuni: in tal senso, dunque, una delibera che preveda una ripartizione contraria alla legge non può dirsi, in linea di principio, impossibile per carenza assoluta di attribuzioni. Per tale ragione, applicando i risultati ermeneutici generali sopra illustrati, tale decisione è annullabile.
Non compete all’assemblea, però, il potere di modificare, a maggioranza, in astratto e per il futuro, i criteri previsti dalla legge o quelli convenzionalmente stabiliti: in questo caso si troverebbe ad operare in difetto assoluto di attribuzioni.
Per cui: la deliberazione che ripartisca le spese comuni in violazione dei criteri legali o convenzionali è annullabile; la deliberazione che a maggioranza, stabilisca o modifichi anche per il futuro i criteri generali di ripartizione delle spese previsti dalle legge o dalla convenzione, è nulla, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall'art. 1135 c.c., nn. 2) e 3).
In sintesi: se l’assemblea decide di ripartire le spese in modo difforme dalla legge o dalla convenzione, essa sta violando le regole del gioco. Per tale ragione è annullabile.
Se l’assemblea stabilisce a maggioranza un criterio di ripartizione generale e valido anche per il futuro, sta scrivendo le regole del gioco ed è, pertanto, nulla.
7. Considerazioni conclusive
La sentenza annotata avrà certamente un notevole impatto pratico.
Per quanto riguarda la distinzione generale tra le cause di invalidità, il precedente e farraginoso sistema basato sul binomio vizi di sostanza/vizi di forma, è superato dall’individuazione di poche cause di nullità: l’operatore del diritto dovrà quindi preliminarmente valutarne la sussistenza qualificando eventuali vizi diversi come motivo di annullabilità.
Per quanto attiene al perimetro del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la decisione annotata, sia pure apprezzabile rispetto all’orientamento più rigoroso, non pare fugare tutti i dubbi, residuando tutt’ora il concreto rischio della moltiplicazione dei giudizi e di eventuali giudicati contrastanti.
[1] In Giust. civ. Mass., 2009, 4, 565.
[2] Interesse soprattutto processuale. Si veda, in particolare, quel copioso filone giurisprudenziale che distingue fra notifica nulla (e quindi sanabile per raggiungimento dello scopo) e notifica inesistente: per Cass. 23760/20 in Guida al diritto 2020, 49, 79, “la notificazione di un atto di appello non compiutasi, perché tentata presso il precedente recapito del difensore della controparte che abbia trasferito altrove il suo studio, è inesistente in rerum natura, ossia per totale mancanza materiale dell'atto, non avendo conseguito il suo scopo consistente nella consegna dell'atto al destinatario; essa non è pertanto suscettibile di sanatoria ex articolo 156, comma 3, del codice di procedura civile a seguito della costituzione in giudizio dell'appellato, né di riattivazione del relativo procedimento, trattandosi di vizio imputabile al notificante in considerazione dell'agevole possibilità di accertare l'ubicazione dello studio attraverso la consultazione telematica dell'albo degli avvocati”.
In ambito sostanziale, la categoria in questione assume interesse per lo più in relazione ad atti diversi dal contratto (delibere assembleari, matrimonio e testamento): è inesistente il negozio nel quale mancano anche quei minimi requisiti perché la fattispecie possa essere sussunta nella categoria di riferimento. L’inesistenza, che pare essere stata ideata per impedire gli effetti del matrimonio tra persone dello stesso sesso (cfr. V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 756), assolve a due funzioni: i) evitare la produzione di quei pur limitati effetti che un negozio nullo può avere (in ambito processuale, appunto, l’applicazione dell’art. 156 c.p.c.); ii) impedire che si possano produrre addirittura gli effetti di un negozio valido (si pensi, prima della riforma del 2003, alle delibere societarie rese in assenza di convocazione o di verbalizzazione: a fronte di una regola che prevedeva la nullità soltanto delle delibere con oggetto impossibile o illecito, la mancanza di verbalizzazione venne descritta come ipotesi di inesistenza. Si confronti, per tutte, Cass. 9364/03 in Giust. civ., 2004, 11, p. 2767 con nota di L. Marchegiani, per la quale: “l’inesistenza della delibera assembleare di società di capitali ricorre quando manca alcuno dei requisiti procedimentali indispensabili per la formazione di una delibera imputabile alla società, determinandosi così una fattispecie apparente, non sussumibile nella categoria giuridica delle deliberazioni assembleari”.
[3] In Giust. civ. Mass, 2016.
[4] Cass. 17486/06 in Giust. civ. Mass, 2006.
[5] In Giust. civ. Mass. 2009.
[6] “Nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative delibere assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa riservata al giudice davanti al quale dette delibere siano state impugnate”.
[7] Così in motivazione: “le deliberazioni condominiali sono soggette ad impugnativa ai sensi dell'art. 1137 c.c., comma 2 e tuttavia, per espressa previsione della medesima norma, restano non di meno vincolanti per i singoli condomini, nonostante l’esperita impugnazione, salvo il giudice di questa ne disponga la sospensione dell'efficacia esecutiva, tale delibera costituendo, infatti, ex lege titolo di credito in favore del condominio e, di per sè, prova idonea, ai fini di cui agli artt. 633 e 634 c.p.c., dell’esistenza di tale credito, si da legittimare non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio d'opposizione che quest'ultimo proponga contro tale decreto, ed il cui ambito è, dunque, ristretto alla sola verifica dell’esistenza e dell'efficacia della deliberazione assembleare d'approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere”
[8] in Foro it. 2016, 5, I.
[9] Si nota, in parte motiva, un certo imbarazzo nei confronti della decisione n. 26629/09 che, come visto, richiama la precedente del 2007: “Effettivamente, considerato che pacificamente i lavori approvati all'esito dell'assemblea dell'11/8/2003 riguardavano anche interventi sui balconi di proprietà esclusiva dei ricorrenti, il vizio in oggetto, alla luce delle indicazioni fornite dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 4806 del 2005 del 28 luglio, risulterebbe effettivamente, ove sussistente, suscettibile di provocare la nullità della delibera, di modo che non appare correttamente applicato il principio della rilevabilità, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo, dell'invalidità della delibera assembleare. Effettivamente, il precedente richiamato in sentenza dal giudice di appello (Cass. n. 10427 del 2000) nella massima sembrerebbe accomunare delibere mille ed annullabili circa la conseguenza dell'irrilevabilità della loro invalidità in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, tuttavia la lettura della motivazione del precedente in questione denota che concerneva una fattispecie che, alla luce dei principi affermati da Cass. n. 4806/2005, oggi andrebbe qualificata in termini di annullabilità (vizi relativi alla convocazione dei condomini), sebbene all'epoca ritenuta tale da determinare, secondo il preesistente orientamento giurisprudenziale, la nullità della delibera.
Rispetto al precedente invocato nella sentenza appellata, deve tenersi in adeguata considerazione l'impatto che ha avuto sulla materia, il più volte menzionato intervento delle Sezioni Unite del 2005, che ha portato questa stessa Corte ad affermare con nettezza i criteri per poter distinguere tra delibere mille ed annullabili, così che appare assolutamente necessario ritenere che il limite in merito al rilievo dell'invalidità in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, operi solo per le delibere annullabili. In tal senso Cass. Sez. 2, n. 9641 del 27/04/2006, secondo cui ben può il giudice rilevare di ufficio la nullità quando, come nella specie, si controverta in ordine alla applicazione di atti (delibera d'assemblea di condominio) posta a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, la cui validità rappresenta elemento costitutivo della domanda”.
[10] Termini che riprendono a decorrere, per nuovi trenta giorni, dalla conclusione del procedimento. Si cfr. Corte App. Palermo, 1245/15 in Arch. locazioni 2017, per cui “in tema di impugnazione di delibera assembleare, il termine decadenziale di trenta giorni interrotto a seguito della comunicazione di convocazione innanzi all'organismo di mediazione, riprende nuovamente a decorrere, per un ulteriore termine di trenta giorni, a far data dal deposito del verbale presso la segreteria dell'organismo di mediazione”.
[11] Cass. 1455/95 in Arch. locazioni 1995, 622 e Cass. 1213/93 in Arch. locazioni 1993, 529: “riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 c.c. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135 c.c., nn. 2 e 3, vengono in concreto ripartite le spese medesime, atteso che soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall'art. 1137 c.c., comma 2”.
[12] Cause di nullità, queste, evidentemente mutuate dall’art. 1418 c.c.
[13] Cause di nullità “specifiche” per le assemblee condominiali.
[14] Secondo la Suprema Corte, infatti: afferiscono senz'altro al contenuto delle deliberazioni dell'assemblea condominiale le numerose disposizioni di legge che disciplinano la ripartizione delle spese tra i condomini: così, innanzitutto, l'art. 1123 c.c., che detta il criterio generale per cui "Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione"; ma anche le altre disposizioni particolari che dettano specifici criteri di ripartizione con riferimento all'oggetto della spesa (così, l'art. 1124 c.c., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la sostituzione delle scale e degli ascensori; l'art. 1125 c.c., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai; e lo stesso art. 1126 c.c., in tema di ripartizione delle spese per le riparazioni o le ricostruzioni dei lastrici solari di uso esclusivo).
La violazione di tali disposizioni dà luogo a deliberazioni assembleari "contrarie alla legge" con riferimento al loro "contenuto" e, perciò, affette da un vizio di "sostanza"; ma ciò non esclude che tale vizio rientri, in via di principio, tra quelli per i quali l'art. 1137 c.c. prevede l'azione di annullamento.
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Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato (nota a Cons. Stato, II, ord. 9 marzo 2021, n. 2013) di Clara Napolitano
Sommario: 1. Il caso dinanzi al G.a. e l’ordinanza di rimessione. – 2. Giudice adito, questione di giurisdizione in appello e abuso del processo. – 3. La giurisdizione sulla richiesta risarcitoria per lesione del legittimo affidamento da provvedimento annullato in via giurisdizionale. – 4. Segue: i presupposti della tutela. – 5. Conclusioni interlocutorie in attesa della Plenaria.
1. Il caso dinanzi al G.a. e l’ordinanza di rimessione.
L’ordinanza in commento origina da un giudizio nel quale la società ricorrente aveva adito il G.a. al fine di ottenere dal Comune resistente il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale[1] di una concessione edilizia e delle sue varianti.
Il Giudice di primo grado[2] – a fronte dell’eccezione proposta dal Comune e instauratosi il contraddittorio tra le parti – aveva dichiarato la propria giurisdizione, pronunciandosi sulla domanda. Ciò alla luce degli artt. 7 e 133, lett. f) c.p.a.[3]: secondo il Tar, il ricorso non si fondava su un mero comportamento dell’A.c., non collegato all’esercizio di potere, ma sulla circostanza che questa aveva rilasciato un P.d.C. sulla base di un’interpretazione normativa poi rivelatasi errata. Insomma, un’attività amministrativa procedimentalizzata[4].
Stante la reiezione della sua domanda nel merito, la ricorrente aveva poi appellato la sentenza, impugnandola anche per difetto di giurisdizione del G.a.: ne è derivata la prima questione – in via pregiudiziale – di cui all’ordinanza di remissione qui commentata, ovvero quella sull’ammissibilità in appello della c.d. auto-eccezione di giurisdizione.
Sul punto, l’ermeneusi del Consiglio di Stato conduce a due approdi.
Per un verso, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, il soggetto che ha proposto ricorso al Giudice amministrativo non può poi contestarne la giurisdizione[5]: ciò perché, anzitutto, quel ricorrente non è risultato soccombente su quel punto; in secondo luogo, perché tale condotta processuale integra un abuso del diritto di difesa, scaturente dal venire contra factum proprium, sanzionato con l’inammissibilità del gravame, nonché una violazione del dovere di cooperazione per la realizzazione della ragionevole durata del processo sancita dall’art. 2, comma 2, c.p.a.[6].
A questa consolidata opinione giurisprudenziale fa da contrappeso un’altra, sviluppata dalle Sezioni Unite della Cassazione[7], la quale invece ammette che lo stesso ricorrente proponga la questione di giurisdizione in appello: da ritenersi improponibile in seconde cure solo laddove coperta da giudicato (implicito o esplicito che sia); nondimeno, essa è ammessa in secondo grado – anche proposta dallo stesso ricorrente/attore in prime cure – laddove vi sia un «obiettivo dubbio sulla questione di giurisdizione»[8].
Di logica consequenzialità, la seconda questione rimessa alla Plenaria: ove ammissibile il gravame, a quale Giudice è rimessa la cognizione sulla domanda di risarcimento del danno da provvedimento favorevole annullato?
L’interrogativo pareva ormai sopito con le note ordinanze “gemelle” delle Sezioni Unite del 23 marzo 2011, nn. 6594, 6595, 6596[9], per le quali «la domanda risarcitoria proposta nei confronti della pubblica Amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria (anche nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione del diritto soggettivo alla sua integrità patrimoniale oppure (più recentemente) di una lesione all’affidamento incolpevole quale situazione giuridica soggettiva autonoma, dove l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento»[10].
A quest’orientamento – al quale ha aderito lo stesso Consiglio di Stato[11] – se ne contrappone un altro che, limitatamente alle materie di giurisdizione esclusiva, afferma sussistere il potere di cognizione del G.a.[12].
A differenza della prima questione, su questo punto il Collegio esprime la propria posizione: la quale, nello specifico, è favorevole alla sussistenza della giurisdizione amministrativa. Ciò in quanto la domanda del ricorrente non contesta un comportamento amministrativo ma ha per oggetto il risarcimento dei danni provocati da un’attività amministrativa procedimentalizzata e condensatasi in un provvedimento – pur illegittimo – perfettamente esistente, efficace e valido fino all’avvenuto annullamento; quest’ultimo è da ritenersi come momento successivo sul piano cronologico e non rilevante né ai fini della qualificazione della sua situazione soggettiva come diritto (e non – invece – come interesse legittimo), né dell’incardinazione della giurisdizione dinanzi al Tar. Così argomentando, il Collegio rimettente contesta la fondatezza dell’orientamento pro giurisdizione ordinaria perché esso «si basa sul presupposto per cui vi sarebbe l’interesse legittimo solo a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non nell’illegittimo riconoscimento del bene. Tale impostazione non appare coerente con il generale criterio di riparto sancito dalla Costituzione che non condiziona la natura delle situazioni soggettive al carattere satisfattivo o meno del provvedimento amministrativo»[13].
La Sezione rimettente approda, di poi, alla terza questione: qualora la Plenaria ritenesse la questione ammissibile nell’an e assegnasse la giurisdizione al G.a., devono infatti essere valutati i presupposti dell’azione risarcitoria proposta dal privato. Il tema è, dunque, il risarcimento del danno da provvedimento amministrativo favorevole illegittimo, successivamente annullato in sede giurisdizionale.
Secondo una prima ricostruzione, la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo ha accertato l’assenza del danno ingiusto[14] perché all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo: non può dolersi del danno chi abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto non assentibile; in tal caso il ricorrente avrebbe, sotto il profilo soggettivo, manifestato quanto meno una propria colpa e, sotto il profilo oggettivo, avrebbe attivato con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno[15].
Un diverso orientamento giurisprudenziale è invece favorevole al riconoscimento della risarcibilità della lesione dell’affidamento del privato nei confronti di un provvedimento illegittimo, annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale, seppur in presenza di stringenti limiti di prova della colpa dell’amministrazione, del danno subito dall’istante e del nesso di causalità tra l’annullamento e il danno[16].
Anche qui, il Collegio esprime la propria adesione: nello specifico, al primo orientamento, il quale nega il diritto al risarcimento.
Questo per due ragioni fondamentali.
Anzitutto perché – secondo le argomentazioni del Collegio – il legittimo affidamento non è un diritto soggettivo, bensì una situazione giuridica soggettiva dai tratti peculiari propri. Perché esso venga a esistenza, invero, occorre che la condotta della p.A. sia quantomeno colposa o in mala fede, tale comunque da far sorgere in capo all’interessato – versante, in modo speculare, in condizione di totale buona fede – un’aspettativa qualificata al conseguimento del bene della vita: la pretesa del privato dev’essere inoltre ragionevole in relazione al quadro ordinamentale applicabile alla fattispecie, e non colposamente assunta come fondata.
In secondo luogo, a differenza dell’esercizio del potere di autotutela, l’annullamento del provvedimento illegittimo avvenuto – come nel caso di specie – per via giurisdizionale esclude in radice l’esistenza di un affidamento legittimo in capo al privato: nei confronti del potere giurisdizionale non può esserci ab imis, per la natura terza del Giudice, alcuna aspettativa qualificata ‒ e dunque tutelabile mediante ristoro patrimoniale ‒ all’accoglimento delle proprie ragioni.
Tre, dunque, i gangli fondamentali della rimessione all’Adunanza plenaria:
- se sia ammissibile l’auto-eccezione di giurisdizione;
- in caso affermativo, come su di essa ci si debba pronunciare, se in favore del G.a. o del G.o.;
- in caso di giurisdizione amministrativa, quali siano i presupposti per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in capo al privato.
Ciascuna delle questioni ora riportate merita, qui, qualche breve riflessione.
2. Giudice adìto, questione di giurisdizione in appello e abuso del processo.
Secondo un recente studio sul tema dell’abuso del diritto[17] e, più nel particolare, del diritto processuale, in origine il formante giurisprudenziale ammetteva pacificamente l’appello per motivi di giurisdizione proposto dal ricorrente in primo grado, stante il dettato dell’art. 37 c.p.c. per il quale il difetto di giurisdizione è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo. Invero, «la soccombenza che giustifica l’appello sussiste anche quando il ricorrente, soccombente nel merito, abbia visto risolta in suo favore una questione pregiudiziale di rito rilevabile d’ufficio, che, risolta diversamente, gli consentirebbe la riproposizione della domanda»[18]: il Giudice riconosce in capo alla parte l’esistenza di un interesse ad appellare meritevole di tutela, poiché dall’eventuale accoglimento del motivo di gravame sulla giurisdizione discenderebbe l’annullamento dell’impugnata sentenza e la translatio judicii davanti al Giudice ordinario. Non è a ciò ostativa l’eventuale contraddittorietà logica del percorso prescelto dal ricorrente: il motivo sulla giurisdizione è comunque idoneo a ovviare alla soccombenza derivante dalla decisione appellata[19].
È poi sopravvenuto il recepimento nell’art. 9 c.p.a.[20] di una «giurisprudenza “creativa” della Cassazione in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione»[21]: secondo la quale il difetto di giurisdizione non è rilevabile per la prima volta in sede di appello.
Secondo le Sezioni Unite[22], qualora il difetto della giurisdizione non sia eccepito dalle parti né rilevato dal Giudice in primo grado, deve ritenersi suscettibile di formazione su di essa un giudicato implicito: il quale, sul piano della coerenza del sistema, ha lo stesso effetto preclusivo del giudicato esplicito, posto che incombe su tutti i soggetti del rapporto processuale l’obbligo di controllare il corretto esercizio della potestas iudicandi sin dalle prime battute processuali, in forza dell’art. 37 c.p.c., anche quando la questione non sia espressamente sollevata[23].
Il revirement pretorio, poi cristallizzato nella disposizione codicistica del processo amministrativo, ha condotto – tra l’altro – all’affermazione del divieto di venire contra factum proprium: il ricorrente che abbia adito l’Autorità giurisdizionale, uscendo dal giudizio soccombente nel merito, non può poi esercitare una sorta di jus poenitendi strumentale e contestare in appello la sussistenza di quella giurisdizione da lui stesso adìta. La trasgressione di questo divieto costituisce un abuso del diritto, nella specie del diritto processuale[24], per violazione sia del principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., sia delle regole di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c., applicati anche sul piano del processo.
I due orientamenti continuano a persistere in reciproca opposizione, sorretti dalle rispettive argomentazioni.
Quello favorevole all’auto-eccezione in appello del difetto di giurisdizione si fonda sulla sostanziale genuinità dell’interesse dell’appellante a ottenere una pronuncia a sé favorevole tramite la translatio iudicii: un interesse che non dovrebbe esser letto in via distorta e abusiva dell’istituto processuale, bensì quale pretesa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento nell’ottica della pienezza e dell’effettività[25].
Inoltre, la giurisprudenza della Cassazione ha riconosciuto anche un «diritto di avere torto»[26] delle parti che abbiano adito un plesso giurisdizionale e se ne siano poi “pentite”, impugnando la sentenza sulla base dell’interesse che deriva dalla soccombenza nel merito: il gravame, pur censurabile sotto il profilo della coerenza processuale, è ammissibile.
A questo, tuttavia, si oppone l’argomentazione fondata sull’art. 111 Cost. e sull’abuso del processo[27]: il “pentimento” costituisce, in realtà, un utilizzo distorto degli istituti processuali, idoneo ad aggravare il processo, a renderlo molto più oneroso per la controparte, utilizzandolo per conseguire una determinata utilità senza avere tuttavia un interesse apprezzabile e meritevole di protezione da parte dell’ordinamento. Questo abuso meriterebbe, dunque, d’esser sanzionato con l’inammissibilità del gravame.
È su quest’ultimo punto che quest’orientamento genera una gemmazione. Secondo alcune sentenze del Giudice di legittimità[28], la sanzione alla condotta contraddittoria di chi adisce un Giudice e poi ne contesta la giurisdizione non dovrebbe essere quella della inammissibilità: l’incoerenza del comportamento della parte dovrebbe, semmai, essere stigmatizzata con la condanna alle spese per trasgressione ai doveri di lealtà e probità, ex art. 88 c.p.c., secondo la disciplina dettata dall’art. 92, comma 1, ultima parte, c.p.c.[29].
La sanzione dell’inammissibilità ha trovato comunque progressivo consolidamento sia dinanzi alla Cassazione sia dinanzi al Consiglio di Stato. Nucleo centrale dell’argomentazione è il c.d. giudicato interno: l’accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo, che è pienamente capace di passare in giudicato, anche se il Giudice si sia pronunciato solo implicitamente sullo stesso.
Pertanto, di fronte a una sentenza di rigetto della domanda, non è ravvisabile una soccombenza del ricorrente sulla questione di giurisdizione; rispetto a questo capo, infatti, questo va considerato vincitore. Essendo tale, non sarà legittimato a contestare il capo sulla giurisdizione e a sostenere che la potestas iudicandi spetti a un Giudice diverso.
Si tratta di una posizione estrema, per la quale si può pensare a un diniego di giustizia: si negherebbe, cioè, al ricorrente di adire il suo Giudice naturale precostituito per legge. Non v’è dubbio, però, che questo sia comunque un valore presidiato dall’obbligo del Giudice di procedere d’ufficio in primo grado alla verifica della sua potestas iudicandi e che vada bilanciato con l’esigenza di speditezza del processo, nonché dall’art. 41 c.p.c., che consente a ciascuna parte di chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione[30].
Vale forse la pena allora di porre mente a quell’orientamento – molto minoritario – pure citato dal Consiglio di Stato nell’ordinanza qui commentata, e apparentemente corrivo: quello che ammette il gravame nel caso di «obiettivo dubbio sulla questione di giurisdizione»[31].
Si disvelano, cioè, fattispecie nelle quali – per la complessità della questione, o il numero di ricorsi, o anche l’incertezza del quadro normativo – è obiettivamente difficile adire il giudice correttamente dotato del potere di ius dicere: ciò potrebbe comportare ripensamenti della linea difensiva e necessità di chiarimento che sorgono solo in un secondo momento.
Vien da sé che, in queste fattispecie, risulta fondamentale il potere valutativo del Giudice, al quale è attribuita una discrezionalità nell’apprezzare anche il comportamento delle parti in causa, nonché la questione sottoposta al suo giudizio. Si pensi all’ambito delle concessioni, seguite da contratti, che siano poi oggetto di plurimi ricorsi o giudizi consecutivi. Il ragionevole dubbio del ricorrente non merita, probabilmente, d’esser sanzionato con l’inammissibilità del gravame tout court, ma dovrebbe comportare quanto meno una valutazione da parte dell’Autorità giudiziaria in relazione alla complessità della fattispecie sub iudice.
È – d’altra parte – la condizione nella quale versa la querelle dalla quale origina l’ordinanza in commento: si tratta del giudizio risarcitorio a seguito di annullamento giurisdizionale di provvedimento amministrativo illegittimo. Una fattispecie nella quale i contrasti giurisprudenziali sono ampi e fondati su ragioni fortemente contrastanti, oltre che spesso di difficile profilazione, anzitutto sull’ambito della giurisdizione. Tanto che, appunto, la Sezione remittente segnala alla Plenaria i due orientamenti contrapposti che, come ora si vedrà, sono tutt’altro che chiari.
3. La giurisdizione sulla richiesta risarcitoria per lesione del legittimo affidamento da provvedimento annullato in via giurisdizionale.
La determinazione del Giudice competente a decidere sulla richiesta di risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento per annullamento – in via giurisdizionale o di autotutela – del provvedimento amministrativo illegittimo è la seconda questione-chiave posta dalla Sezione rimettente all’Adunanza plenaria.
La diatriba è molto nota ed esplorata da giurisprudenza e dottrina[32] e pareva aver trovato composizione – come detto in apertura – con alcune pronunce della Cassazione che qualificano l’adozione e il successivo annullamento del provvedimento favorevole come un unicum, un “comportamento” complessivamente lesivo dell’affidamento del privato, del suo «diritto soggettivo all’integrità patrimoniale»[33] e, come tale, rilevante ai fini della responsabilità per violazione dei principi di buona fede e correttezza[34] e rientrante nella giurisdizione ordinaria. È opportuno soffermarsi sui passaggi logici di questo orientamento, consolidatosi con le note ordinanze “gemelle” della Cassazione nn. 6594, 6595, 6596 del 2011.
Secondo le Sezioni Unite, l’annullamento – in via di autotutela o giurisdizionale – del provvedimento favorevole priva i soggetti, che ne erano stati beneficiari, del diritto conseguito illegittimamente: costoro perdono, dunque, le facoltà che erano state loro attribuite contra ius, così la p.A. (o il Giudice amministrativo) ripristinando la legalità violata. La legittima privazione del diritto conseguente a un provvedimento illegittimamente favorevole (o esercitabile sulla base di quest’ultimo), non consente di accedere alla tutela demolitoria dinanzi al G.a.: ne risulta precluso l’accesso anche alla tutela risarcitoria consequenziale, non integrando il risarcimento del danno una materia di giurisdizione esclusiva ma una tutela ulteriorerispetto a quella caducatoria.
L’avvenuto annullamento del provvedimento favorevole, dunque, comporta che questo continui a rilevare per il soggetto che ne aveva tratto vantaggio esclusivamente quale “mero comportamento” degli organi che lo avevano rilasciato, rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c. quale atto illecito per violazione del principio neminem laedere. L’unica tutela invocabile sarebbe così quella risarcitoria fondata sull’affidamento, relativa a un danno «che oggettivamente prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere pubblico», fondandosi su doveri di comportamento in buona fede richiesti dall’ordinamento anche all’Amministrazione. Questa tutela, però – stante la mancanza di connessione tra il danno e il potere pubblico, e la consistenza di diritto soggettivo della situazione (affidamento) fatta valere – non sarebbe riconducibile alla giurisdizione del G.a., con conseguente riserva della relativa cognizione al Giudice ordinario[35].
Questa lettura non è andata certo esente da critiche: ne è stata subito evidenziata l’incoerenza col sistema del c.p.a., improntato alla concentrazione delle tutele innanzi al Giudice amministrativo, tramite l’attribuzione a questi di tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’Amministrazione. Si è osservato, in particolare, che la circostanza che il danno non sia immediatamente cagionato dal provvedimento – che appare legittimo – ma emerga solo dopo l’annullamento dell’atto, sia questione che attiene esclusivamente al piano cronologico. Si tratta di circostanza che invece non incide sulla ricollegabilità diretta del pregiudizio – sul versante eziologico, rilevante ai sensi dell’art. 1223 c.c. – all’adozione del provvedimento amministrativo[36]: ne consegue che l’azione caducatoria e quella risarcitoria – anche nel caso di annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole illegittimo – ricadono nella giurisdizione amministrativa, essendo comunque inerenti al cattivo esercizio del potere.
Né si può pensare che il radicamento della giurisdizione in base al criterio della causa petendi cambi a seconda che il danno sia stato provocato da un provvedimento favorevole o sfavorevole. Secondo l’opinione che radica la giurisdizione dinanzi al G.o., «vi sarebbe l’interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi nell’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene». Una lettura, questa, che porta inevitabilmente il titolare di un interesse pretensivo illegittimamente insoddisfatto a rivolgersi al G.a. per il danno derivante dall’illegittimo diniego, mentre il titolare di un interesse oppositivo all’eventuale annullamento d’ufficio a rivolgersi al G.o.[37]: situazioni soggettive che potrebbero riguardare tanto i destinatari dei provvedimenti quanto i controinteressati, non essendo certo infrequente che un medesimo provvedimento, frutto di un medesimo unico esercizio di potere, generi interessi contrastanti nei soggetti che ne subiscono gli effetti diretti o riflessi.
I commenti critici alle ordinanze “gemelle” hanno peraltro sottolineato che la lesione di un interesse legittimo si configura anche quando la p.A. illegittimamente rilasci al cittadino un provvedimento favorevole[38]: basterebbe già questo, quale fonte della lesione, a costituire titolo per chiedere il risarcimento del danno. Ne è derivato un dubbio consistente circa la necessità di far riferimento alla figura dell’affidamento per la tutela risarcitoria[39].
L’orientamento affermativo della giurisdizione ordinaria porta con sé un’altra perplessità: la possibilità di risarcire il danno per la lesione del legittimo affidamento quale situazione soggettiva rilevante ex se, pienamente scorporata dal pregresso esercizio di potere amministrativo, degradato a comportamento illecito presupposto ex art. 2043 c.c.. Ci si è chiesti[40], infatti, se davvero l’affidamento possa esser tenuto in separata considerazione rispetto alla vicenda amministrativa sottostante, tanto da affidarne la protezione a un organo giurisdizionale diverso rispetto a quello che ha il potere di cognizione su di essa.
Al netto delle osservazioni sulla effettiva scorporabilità dell’affidamento rispetto al rapporto amministrativo sotteso, la questione parrebbe condensabile in questa alternativa: se si ritiene che il danno sia comunque una conseguenza dell’illegittimità del provvedimento favorevole originariamente emanato, la giurisdizione si radicherebbe in capo al Giudice amministrativo; diversamente, qualora si ritenesse che il danno nasce dalla condotta complessiva dell’amministrazione e non dagli effetti del provvedimento, la giurisdizione spetterebbe al Giudice ordinario[41].
L’ordinanza di rimessione qui commentata, prima ancora d’addentrarsi nella qualificazione di questa situazione giuridica soggettiva, opta però – forse anche alla luce dell’ultimo arresto della Cassazione che amplia ancora la giurisdizione ordinaria sulla tutela risarcitoria della lesione del legittimo affidamento[42] – per una forte riconnessione del danno all’esercizio del potere amministrativo. Non v’è dubbio, per il Collegio, che la lesione si sia verificata a seguito di un illegittimo esercizio del potere amministrativo ampliativo, fondato su una interpretazione errata delle norme di riferimento da parte dell’Amministrazione: il fatto che quel provvedimento sia stato poi annullato è un dato che rileva dal punto di vista meramente cronologico, non logico né eziologico del danno.
Il G.a. remittente, in altre parole, si rifà alle osservazioni critiche rispetto alle posizioni assunte dalla Cassazione: il danno non è pervenuto dal “comportamento complessivo” dell’Amministrazione, ma dall’illegittimo esercizio del potere. E, trattandosi nella specie di potere esercitato in materia urbanistico-edilizia, la cognizione non può che rientrare nell’alveo della giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, lettera f), c.p.a., atteso che l’ordinamento attribuisce, in ossequio al principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, alla cognizione del G.a. tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’Amministrazione.
4. Segue: i presupposti della tutela.
Come anticipato nel paragrafo di apertura di questo commento, qualora la giurisdizione si radicasse innanzi al G.a., l’analisi successiva deve incentrarsi sui presupposti della tutela risarcitoria.
I contrastanti orientamenti, stavolta, guardano alla lesione del legittimo affidamento del privato e sulla necessità (o meno) che sussista l’elemento soggettivo (quanto meno) di colpa d’apparato per farlo valere dinanzi all’Autorità giurisdizionale.
L’opinione della Sezione rimettente è chiara: aderisce all’orientamento più restrittivo per il quale non è sufficiente – ai fini dell’affermazione della responsabilità per danno della p.A. – che il provvedimento avesse concesso al privato il bene della vita successivamente sottrattogli con l’annullamento giurisdizionale. Non è su questo, che si fonda il danno da lesione dell’affidamento.
Ciò sostanzialmente per una ragione. E cioè che – se il provvedimento ampliativo era illegittimo ed è stato quindi annullato – il privato non può – e non poteva – vantare alcun diritto sul bene della vita oggetto di quel provvedimento medesimo. Tanto che, se l’Amministrazione avesse agito jure, il privato quel bene non l’avrebbe certo ottenuto.
In altri termini, il privato non può dolersi del danno derivante dall’annullamento di un provvedimento ampliativo illegittimo laddove la sua istanza sia stata «oggettivamente» non assentibile: è una lettura confermata dalla giurisprudenza amministrativa in materia di titoli edilizi[43], la quale responsabilizza anche il privato istante nel momento in cui questi si rivolga alla p.A. e chieda un titolo abilitativo presentando un progetto «oggettivamente» contrario alle norme urbanistico-edilizie, così per un verso manifestando una propria colpa soggettiva e, per l’altro, contribuendo egli stesso al danno inducendo l’Amministrazione in errore.
Residua, così, un limitatissimo margine per la richiesta risarcitoria laddove il Giudice rilevi l’esistenza di un affidamento legittimo in capo al privato che sia in buona fede soggettiva, che abbia un’aspettativa ragionevole e non fantasiosa al conseguimento – secundum legem – del bene della vita chiesto alla p.A. e che – per contro – la p.A. abbia agito con mala fede o colpa tale da far sorgere l’aspettativa nell’interessato (lo si ripete, in totale buona fede): condizioni insomma molto restrittive.
A questo orientamento fa da contraltare un altro – che ha il suo terreno d’elezione nelle controversie aventi per oggetto l’annullamento di atti di gara, quindi un tema dominato dalla giurisprudenza europea che ne ha tratteggiato i profili di responsabilità oggettiva[44] – per il quale invece c’è spazio per il ristoro patrimoniale derivante dalla lesione dell’affidamento quando la p.A. abbia agito in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Ciò in ragione del principio più generale secondo il quale l’Amministrazione è tenuta, nello svolgimento della propria attività, a rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può fare nascere una responsabilità da comportamento scorretto, incidente non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze derivanti dall’altrui scorrettezza[45]. Ciò implica che il Giudice – pur nella legittimità dell’agire della p.A. anche in via di autotutela – non è esentato dall’indagare eventuali profili di responsabilità dell’apparato pubblico[46]. Ora, questa violazione degli obblighi di correttezza e buona fede può rilevare ex se[47] – come è nella disciplina degli appalti – oppure richiedere anche la prova dell’elemento soggettivo della colpa d’apparato[48].
Come detto, il Collegio propende per l’orientamento più restrittivo che richiede una rigida analisi della buona fede del privato e della oggettiva ragionevolezza della sua pretesa nei confronti della p.A.; con un passaggio tuttavia curioso, nel quale specifica che – in linea generale – il legittimo affidamento non è un diritto soggettivo, ma è «un istituto giuridico che taglia trasversalmente l’intero ordinamento giuridico», «una situazione giuridica soggettiva dai tratti peculiari propri». Come tale, esso non è tutelabile se non in ragione degli stringenti requisiti di cui sopra di buona fede (oggettiva e soggettiva) del privato nonché di assenza assoluta di sua colpa, nonché di un atteggiamento malevolo o colposo della p.A..
Ma non è l’unico passaggio degno di riflessione.
Il Collegio opera una distinzione circa il rilievo, nella lesione dell’affidamento, del tipo di annullamento del provvedimento intercorso: traccia una linea di demarcazione tra annullamento (o anche revoca) in via di autotutela e annullamento in sede giurisdizionale. Collegando solo al primo le conseguenze in tema di danno da lesione del legittimo affidamento: viceversa, secondo le parole dell’ordinanza, «l’annullamento del provvedimento amministrativo in sede giurisdizionale non può mai ridondare in una lesione di un affidamento legittimo, idonea a fondare una domanda risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione».
Ciò in quanto a fronte del medesimo petitum risarcitorio, ovvero il ristoro del danno da lesione del legittimo affidamento, le causae petendi sono differenti a seconda che l’annullamento sia avvenuto in sede di autotutela o giurisdizionale.
Nel primo caso, «l’eventuale affidamento del privato (ammesso che vi sia) verrebbe pregiudicato da un condotta dell’Amministrazione, la quale modifica unilateralmente, melius re perpensa o alla luce di sopravvenienze, l’assetto d’interessi precedentemente delineato nell’esercizio del suo potere pubblicistico»: come dire, ammesso che il privato possa vantare un qualunque affidamento (nei ristrettissimi margini consentiti dall’orientamento più rigido) su un provvedimento ampliativo, questo verrebbe leso dall’esercizio di un potere amministrativo; nel caso di annullamento da parte del G.a., il potenziale affidamento verrebbe leso «da un provvedimento promanante dal potere giurisdizionale, nei cui confronti non può esserci in radice, per la natura terza del giudice, alcuna aspettativa qualificata ‒ e dunque tutelabile mediante ristoro patrimoniale ‒all’accoglimento delle proprie ragioni».
Il passaggio è gravido di conseguenze sulla tutela risarcitoria, ed è potenzialmente in grado di scardinare la giurisprudenza ormai cristallizzata per la quale il provvedimento illegittimo ampliativo favorevole e il suo successivo annullamento – in via giurisdizionale o di autotutela – costituiscono presupposto tecnico-giuridico di una lesione che ha arrecato un danno al privato.
Se, cioè, per una considerevole parte del diritto vivente ci si trova dinanzi a «una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato, in sede giurisdizionale, in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio, che consegue a tale affidamentoe alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole»[49], l’ordinanza in commento – ove dovesse trovare condivisione in Plenaria – eliminerebbe ab imis la possibilità di chiedere il risarcimento per lesione dell’affidamento in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo favorevole.
5. Conclusioni interlocutorie in attesa della Plenaria.
Il percorso dell’ordinanza di rimessione porta ad alcune riflessioni.
Anzitutto, l’auto-eccezione di giurisdizione da parte del ricorrente-appellante: entrambi gli orientamenti hanno alla base condivisibili argomentazioni circa la logica, la coerenza e la correttezza nell’uso degli strumenti processuali. L’inammissibilità del gravame sembra ancora la soluzione maggiormente condivisa: non v’è chi non veda, tuttavia, il pericolo che questa conduca a un diniego di giustizia laddove sulla controversia si sia pronunciato un Giudice sulla cui giurisdizione – anche se solo in grado d’appello – sia stata sollevata eccezione. D’altra parte, il timore di un utilizzo strumentale dell’auto-eccezione per fare turismo giustiziale è anch’esso fondato e trova appunto nella sanzione dell’inammissibilità una soluzione in grado di arginare questa pratica. Resterebbe da esplorare – ed eventualmente da costruire – la categoria delle ipotesi nelle quali vi sia il paventato «dubbio oggettivo sulla giurisdizione»: se dovesse trovare accoglimento questo “fontanazzo”[50] nella diga dell’inammissibilità delle auto-eccezioni sulla giurisdizione, non v’è dubbio che il diritto pretorio si rivelerà essenziale nel delinearne i profili applicativi.
Quanto poi alla giurisdizione sulla richiesta risarcitoria da lesione dell’affidamento: il conflitto tra gli orientamenti è assestato ancora sul crinale tradizionale del collegamento diretto o mediato al potere amministrativo, o meno. Di poi, in modo condivisibile, il Collegio mette in luce – come già attenta dottrina aveva fatto – la pericolosità di rimettere il criterio discretivo della giurisdizione al contenuto del provvedimento e, dunque, alla natura degli interessi legittimi a esso legati (se pretensivi od oppositivi), pena la gemmazione di più giudizi, lasciati a più plessi giurisdizionali, per i danni conseguenti all’esercizio di un medesimo potere amministrativo. Il Collegio rimettente si colloca nella scia più tradizionale della giustizia amministrativa, e richiama a sé la giurisdizione sulla richiesta risarcitoria per danno da lesione del legittimo affidamento sulla scorta del fatto che questo è derivato – direttamente o mediatamente – da un esercizio illegittimo in prima battuta del potere amministrativo, che non può essere relegato a mero presupposto fattuale quale parte di un “comportamento” dannoso.
Ma la parte più interessante è quella relativa ai presupposti della tutela risarcitoria: rigidissimi, per il Collegio, perché il legittimo affidamento non sarebbe un diritto soggettivo ma una situazione peculiare dotata di precisi e ristretti margini d’esistenza. Nessuno, peraltro, nel caso in cui il privato lamenti il danno subito per l’annullamento in via giurisdizionale di un provvedimento ampliativo illegittimo: ipotesi nettamente distinta da quella dell’annullamento in via di autotutela.
Questa ricostruzione genera qualche perplessità.
Andando con ordine. Nelle parole del provvedimento qui annotato, la ragione per la quale l’annullamento giurisdizionale non può dare adito ad alcuna richiesta risarcitoria per lesione dell’affidamento starebbe nel fatto che – stante la terzietà del Giudice – il privato non può muovere alcuna pretesa in merito all’esercizio del potere di jus dicere. Come dire: se l’Amministrazione autoannulla un proprio precedente provvedimento, esercita un potere nei confronti del quale possono sorgere pretese; se quel medesimo potere promana da un Giudice, non c’è alcuno spazio per quelle medesime pretese.
Le argomentazioni appaiono piuttosto criptiche, se non proprio apodittiche. A chi scrive pare che una possibile chiave del ragionamento del Giudice stia nella ricostruzione del legittimo affidamento quale istituto generale: ovvero la incolpevole situazione che spinge qualcuno a confidare nella coerenza dei comportamenti del suo interlocutore. Questo sembrerebbe implicare che, nel caso in cui la p.A. eserciti l’autotutela, dovrebbe rispondere di un comportamento contraddittorio, ove questo abbia prodotto un danno (la cui prova è comunque rimessa al privato che ne reclama il ristoro); ove invece la rimozione del provvedimento avvenga per statuizione del Giudice, e dunque per esercizio di un potere terzo, la contraddittorietà nel comportamento dell’Amministrazione mancherebbe, e dunque verrebbe meno il presupposto della lesione dell’affidamento.
Così congegnata, questa lettura presta il fianco a rilievi critici.
Anzitutto, essa omette di considerare che la figura chiamata istituzionalmente a rilevare l’esistenza di un legittimo affidamento è proprio il Giudice. Pertanto, per un verso, pare affermare che l’esercizio del potere giurisdizionale impedirebbe la configurazione del legittimo affidamento, così impedendo tout court la possibilità di ricevere tutela per chi ne lamenti la lesione; per altro verso, omette di ricordare che proprio il potere del Giudice serve a valutare se vi sia stata lesione o meno del legittimo affidamento derivante dall’incolpevole confiance sull’apparente legittimità di un provvedimento amministrativo ampliativo e, in caso affermativo, a erogare la tutela risarcitoria. Non si può dimenticare, invece, che Giudice ripristina la legalità violata e riporta la situazione secundum legem: questo, tuttavia, non lo esime dall’esaminare – ove esistente – il danno provocato non dal suo annullamento, bensì dal provvedimento ampliativo illegittimo.
Non si comprende, poi, il richiamo alla terzietà del Giudice: per il Collegio, “terzietà” implicherebbe l’impossibilità per la parte processuale di muover pretese nei suoi confronti; in realtà, la natura terza dell’organo giudicante è, per un verso, garanzia d’imparzialità, per altro verso, requisito necessario per la composizione di una controversia. Il richiamo, pertanto, parrebbe inconferente rispetto al tema dell’insorgenza di un legittimo affidamento del quale chiedere tutela.
Infine, il passaggio logico secondo il quale l’annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo favorevole illegittimo impedirebbe ab imis la configurazione del legittimo affidamento contrasta con il ragionamento presupposto del Collegio: per il quale – lo si ricorda – l’annullamento (in autotutela o giurisdizionale) è vicenda che non rileva dal punto di vista dei presupposti tecnico-giuridici per la configurazione dell’affidamento (e dunque comporta l’assegnazione del potere di cognizione alla giurisdizione amministrativa, non ordinaria).
Ciò che non rilevava ai fini della giurisdizione rileverebbe, invece, e per ragioni che restano piuttosto criptiche nelle trame dell’ordinanza, ai fini della fondatezza della richiesta risarcitoria per lesione dell’affidamento.
Pare, cioè, che il Giudice – quando si parla della fondatezza – non stia più valutando l’esercizio illegittimo del potere ampliativo (che, nella prima parte dell’ordinanza, sarebbe stato causativo della lesione), bensì stia dando rilievo proprio al “comportamento complessivo” tenuto dalla p.A.: per un verso il Giudice sostiene la connessione del danno al potere amministrativo per richiamare a sé la giurisdizione; per altro verso – pur parlando di potere – in realtà il Giudice medesimo sembra negare la risarcibilità del danno perché non sussisterebbe il comportamento tipico che fonda la lesione dell’affidamento legittimo per ius commune ovvero la violazione del divieto di venire contra factum proprium.
Alla luce delle perplessità che l’ordinanza genera, specie in tema di presupposti della richiesta risarcitoria per lesione dell’affidamento, l’intervento della Plenaria diventa quanto mai necessario, posto che l’eventuale condivisione della lettura del Collegio rimettente potrebbe condurre alla negazione di tutela per tutti coloro che abbiano fatto incolpevole affidamento sulla legittimità di un provvedimento ampliativo e se lo siano poi visto annullare in sede giurisdizionale, subendone dei danni patrimoniali non più ristorabili.
[1] Disposto da Tar Pescara, I, 9 gennaio 2006, n. 11, confermata in appello da Cons. Stato, IV, 11 aprile 2007, n. 1672, e ulteriormente avvalorata dal rigetto di ricorso per revocazione, mediante decisione del medesimo Cons. Stato, IV, 12 maggio 2008, n. 2166.
[2] Tar Pescara, I, 20 giugno 2012, n. 293.
[3] Quale esercizio di potere amministrativo in materia urbanistico-edilizia.
[4] Queste le parole del Tribunale amministrativo: «questo Collegio rileva come nella fattispecie in esame non ci si trovi in presenza di un atto nullo o inesistente, o assunto a termini scaduti e quindi in carenza di potere, nel qual caso l’operato dell’amministrazione potrebbe ricondursi ad un mero comportamento, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, ma di fronte ad un atto formale amministrativo assunto dal Comune sulla base di un’interpretazione consolidata della normativa comunale applicabile e condivisa dalla stessa ditta ricorrente» (corsivo di chi scrive). Per questa ragione, secondo il G.a., si ricadeva in fattispecie differente da quella decisa da Cass. SS.UU., 23 marzo 2011, n. 6594, secondo cui la lesione del legittimo affidamento del privato da parte dell’Amministrazione a un mero comportamento illecito posto in violazione del principio del neminem laedere, dunque ricadente nella giurisdizione ordinaria.
[5] Il problema investe, più in generale, il rapporto tra giurisdizioni e coinvolge anche l’ambito penalistico. Per M. Caputo, Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo, in Iurisprudentia.it, 2016, p. 11, «L’abiura della giurisdizione adita ab origine si tradurrebbe, secondo l’orientamento negativo, in un prolungamento dei tempi della definizione del giudizio per ragioni meramente opportunistiche e strumentali. Peraltro ammettere l’auto-eccezione in appello vorrebbe dire riconoscere alla parte soccombente nel merito la possibilità per questi di ricusare ex post il giudice – rectius: la giurisdizione – in base all’esito della controversia».
[6] A questo proposito il Collegio cita numerosi precedenti giurisprudenziali: ex aliis, Cons. Stato, V, 19 settembre 2019, n. 6247; Id., 13 agosto 2018, n. 4934; Id., 27 marzo 2015, n. 1605; Id., 7 febbraio 2012, n. 656; Cons. Stato, III, 31 maggio 2018, n. 3272; Id., 1 dicembre 2016, n. 5047; Id., 26 ottobre 2016, n. 4501; Id., 13 aprile 2015, n. 1855; Id., 7 aprile 2014, n. 1630; Cons. Stato, IV, 22 maggio 2017, n. 2367; Id., 21 dicembre 2013, n. 5403; Cons.Stato, VI, 8 aprile 2015, n. 1778; Id., 8 febbraio 2013, n. 703.
[7] Cass., SS.UU., 27 dicembre 2010, n. 26129; Cass., SS.UU., 29 marzo 2011, n. 7097; Cass., SS.UU., 27 luglio 2011, n. 16391; Cass., SS.UU., 20 gennaio 2014, n. 1006; Cass., SS.UU., 20 maggio 2014, n. 11022; Cass., SS.UU., 28 maggio 2014, n. 11916; Cass., SS.UU., 19 giugno 2014, n. 13940; nonché Cons. Stato, V, 9 marzo 2015, n. 1192.
[8] Per esempio in materia di concessioni, v. Cons. Stato, n. 1192/2015, cit.: «pur avendo ripetutamente statuito che lo strumento tipico per risolvere la questione di giurisdizione prima che sia definito anche solo in parte il merito della controversia è il regolamento preventivo di giurisdizione, rispetto alla cui proposizione è pertanto legittimata anche la parte attrice o ricorrente (sentenza 23 aprile 2001, n. 174, ordinanze 25 luglio 2002, n, 10995, 6 luglio 2004, n. 12412, 14 gennaio 2005, n. 603, 21 settembre 2006, n. 20504, 27 gennaio 2011, n. 1876, 12 luglio 2011, n. 15237, 24 aprile 2014, n. 9251), nondimeno, in una recente pronuncia le stesse Sezioni unite hanno escluso che il divieto di abuso del processo sia violato dalla parte che abbia contestato la giurisdizione amministrativa da lui stesso adita, mediante motivo d’appello ai sensi dell’art. 9 del codice del processo di cui al d.lgs. n. 104/2010, in una controversia in cui il dubbio obiettivamente si poneva ed in relazione alla quale scaturiva quindi una “necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione” (sentenza 19 giugno 2014, n. 13940)».
[9] Seguite da altre ordinanze conformi: Cass., SS.UU., 4 settembre 2015, n. 17586; 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640; 2 agosto 2017, n. 19171; 23 gennaio 2018, n. 1654; 2 marzo 2018, n. 4996; 24 settembre 2018, n. 22435; 13 dicembre 2018, n. 32365; 19 febbraio 2019, n. 4889; 8 marzo 2019, n. 6885; 13 maggio 2019, n. 12635; 28 aprile 2020, n. 8236.
[10] Queste le parole della stessa ordinanza qui commentata.
[11] Cons. Stato, V, 27 settembre 2016, n. 3997; Cons. Stato, IV, 25 gennaio 2017, n. 293; Id., 20 dicembre 2017, n. 5980; Cons. Stato, VI, 13 agosto 2020, n. 5011.
[12] Cons. Stato, V, 23 febbraio 2015, n. 857; Tar Pescara, I, 20 giugno 2012, n. 312; nonché ordinanze Cass. SS. UU., 21 aprile 2016, n. 8057 e 29 maggio 2017, n. 13454 per l’ipotesi di annullamento di autotutela di provvedimento di affidamento di sevizio pubblico.
[13] Sicché questa soluzione «potrebbe condurre a esiti disarmonici, in quanto, in base ad essa, laddove il risarcimento venga chiesto dal controinteressato per i danni causatigli da un provvedimento illegittimo, vi sarebbe giurisdizione del giudice amministrativo su tale domanda, mentre, qualora la domanda risarcitoria sia proposta dal soggetto destinatario del medesimo illegittimo provvedimento a lui favorevole, la giurisdizione si radicherebbe presso l’autorità giudiziaria ordinaria»: il che contrasta con la lettura costituzionalmente orientata della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, non attinente certo alla differente soggettività delle parti di fronte a un medesimo esercizio di potere amministrativo.
[14] Così Cons. Stato, V, 17 gennaio 2014, n. 183.
[15] Cfr. Cons. Stato, IV, 29 ottobre 2014, n. 5346.
[16] Cons. Stato, IV, 20 dicembre 2017, n. 5980; Tar Campania, Napoli, VIII, 3 ottobre 2012, n. 4017, che riconduce la tematica de qua alla responsabilità precontrattuale.
[17] G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015.
[18] Cons. Stato, VI, 10 settembre 2009, n. 5454.
[19] In questo senso anche Cons. Stato, V, 5 dicembre 2008, n. 6049; Cons. Stato, IV, 24 febbraio 2000, n. 999.
[20] In base al quale «Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione».
[21] G. Tropea, L’abuso, cit., p. 38.
[22] Cass., SS.UU., 9 ottobre 2008, n. 24883. Sulla pronuncia, tra i numerosi commenti, v. M.A. Sandulli, Dopo la “translatio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37 c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a primissima lettura in margine a Cass., SS.UU., 24883 del 2008), la quale trae dalla pronuncia echi di unità della tutela nei rapporti tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria, sottolineando la necessità – in ragione dei principi di equità e ragionevole durata del processo – di concentrare innanzi al Giudice amministrativo le controversie in materia di annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto; v. anche M. Lipari, La translatio del processo nel disegno di legge governativo approvato dalla Camera dei Deputati (AS-1082): certezze e dubbi; R. Vaccarella, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e translatio iudicii, tutti in Federalismi.it, n. 24/2008.
[23] Continua la pronuncia: «In altri termini il giudice deve innanzi tutto autolegittimarsi (art. 276, comma 2, c.p.c.) ed eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale a una pronuncia positiva così come il silenzio delle parti vale acquiescenza (art. 329 c.p.c.)».
[24] Il principio risulta tutt’ora consolidato, v. per esempio Cons. Stato, II, 2 dicembre 2020, n. 7628: «Ai sensi degli artt. 74 e 88 comma 2 lett. d), c.p.a., è inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata in appello dalla stessa parte che aveva adìto la medesima giurisdizione con l’atto introduttivo di primo grado; tale regola processuale trova infatti fondamento nel divieto dell’abuso del diritto, quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche, in quanto vige nel nostro sistema un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva (divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto), in cui si inserisce anche l’abuso del processo».
[25] V. in proposito i commenti a Cass., SS.UU., 20 ottobre 2016, n. 21260: tra gli altri, G.G. Poli, Ancora limiti al difetto di giurisdizione: le sezioni unite dall’abuso del processo al difetto di interesse ad appellare dell’attore soccombente nel merito, in Il Foro it., 2017, I, cc. 977 ss.; A. Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, ivi, cc. 983 ss.; F. Auletta, La Corte di cassazione afferma il principio di coerenza nella difesa della parte: non si può più contestare il potere del giudice dal quale si è già preteso (invano) di ottenere ragione, ivi, cc. 986 ss. V., inoltre, R. Villata, La giurisdizione e il suo processo sopravviveranno ai “cavalieri dell’apocalisse”, in Riv. dir. proc., n. 1/2017, pp. 106 ss.; Id., Ancora in tema di inammissibilità dell’appello al Consiglio di Stato sulla giurisdizione promosso dal ricorrente soccombente in primo grado, ivi, n. 4-5/2017, pp. 1093 ss.
[26] Letteralmente da Cass., SS.UU., 29 marzo 2011, n. 7097, la quale puntualizza: «Il ricorso è ammissibile perché sulla questione di giurisdizione non si è formato il giudicato, né implicito, né esplicito. Come è noto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche dopo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 37 c.p.c., che ne ha delineato l’ambito applicativo in senso restrittivo, la questione di giurisdizione può essere sempre sollevata, anche in relazione alla sentenza di appello, quando una delle parti (non importa quale) abbia sollevato tempestivamente la questione stessa con i motivi di appello. Infatti, la portata dell’art. 37 c.p.c. riacquista la sua massima espansione quando il tenore della decisione (che attenga al rito o al merito, o ad entrambi) sia tale da escludere qualsiasi forma di decisione implicita o esplicita sulla giurisdizione (Cass. 24883/2008), ovvero quando la questione sia emersa entro i limiti cronologici consentiti, come nella specie».
[27] Su cui, oltre al già citato Tropea, v. anche, tra gli altri, M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio dell’abuso della tutela giurisdizionale, Milano, 2004; Id., Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012; Id., Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2015, pp. 445 ss.; C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2008, pp. 1005 ss.; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, pp. 1 ss.; G. Verde, Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, pp. 1138 ss.; S. Baccarini, Giudizio amministrativo e abuso del processo, ivi, pp. 1203 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso di processo, ivi, pp. 1262 ss.; G. D’Angelo, Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo, in Urb. app., 2015, pp. 181 ss., nota a Cons. Stato, V, 29 ottobre 2014, n. 5346.
[28] Tra cui Cass., SS.UU., 27 dicembre 2010, n. 26129 e la già citata Cass., SS.UU., n. 7097/2011.
[29] Cass., SS.UU., n. 7097/2011: «il comportamento della parte la quale soltanto all’esito del giudizio di appello solleva la questione di difetto di giurisdizione del giudice da lei stesso adito (dopo avere contrastato la stessa eccezione formulata dalla controparte) costituisce violazione del dovere di lealtà e probità delle parti, di cui all’art. 88 cod. proc. civ.. Trattasi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost.. Pertanto tale condotta può determinare l’applicazione dell’art. 92 cod. proc. civ., comma 1, ultima parte secondo il quale, il giudice, a prescindere dalla soccombenza può condannare una parte al rimborso delle spese che, in violazione dell’art. 88 cod. proc. civ., ha causato all’altra parte (v. Cass. 18810/2010)».
[30] V. in proposito le riflessioni di S. Pignataro, L’auto-eccezione del difetto di giurisdizione: profili problematici e spunti ricostruttivi, in Federalismi.it, n. 6/2019.
[31] Si tratta di Cons. Stato, n. 1192/2015, cit.
[32] Si segnalano qui, tra gli innumerevoli contributi, quelli di G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Riv. giur. ed., n. 5/2016, pp. 483 ss.; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss.; F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento, in Federalismi.it, n. 24/2011; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, n. 7/2011; P. Chirulli, Responsabilità da comportamento. Report annuale 2011, in Jus Publicum, www.jus-publicum.com, 2011; da ultimo – più in generale sulla tutela dell’affidamento alla luce degli ultimi arresti giurisprudenziali della Cassazione – v. anche M. Filippi, Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione: riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza, in Giustiziainsieme.it, 11 febbraio 2021.
[33] Così Cass., SS.UU., ord. 4 settembre 2015, n. 17586: «L’azione di risarcimento dei danni per l’affidamento incolpevole del beneficiario del provvedimento amministrativo emesso illegittimamente e poi rimosso per annullamento in autotutela divenuto definitivo o per annullamento in sede giurisdizionale spetta alla giurisdizione del G.o.; il solo fatto che nella fattispecie rilevi l’agire della p.a. che ha portato all’adozione del provvedimento favorevole illegittimo non giustifica che la lesione che si manifesta ex post quando tale provvedimento viene rimosso, e fa sorgere eventuale diritto al risarcimento del danno da affidamento incolpevole, sia riferibile all’interesse legittimo che il beneficiario aveva in relazione a quell’agire, e ciò in quanto quell’interesse pretensivo non era già l’interesse all’agire legittimo della p.A., bensì quello all’emanazione del provvedimento ampliativo, che è stato, sia pure illegittimamente, soddisfatto. Ciò che viene in rilievo successivamente all’annullamento è piuttosto il diritto soggettivo all’integrità patrimoniale, con conseguente giurisdizione del G.o.». A commento di quest’ordinanza, cfr. M. Sinisi, Annullamento della concessione per la realizzazione e gestione di un porto turistico, in Riv. giur. ed., n. 5/2015, pp. 1059 ss.
[34] Cass., SS.UU., ord. 22 giugno 2017, n. 15640, statuisce che la responsabilità da annullamento in autotutela della p.A. non ricade né nella responsabilità aquiliana né in quella contrattuale, pur essendo più vicina a quest’ultima a causa del “contatto” qualificato tra le parti; la posizione giuridica ricoperta dal privato, peraltro, non ricadrebbe nell’interesse legittimo ma sarebbe «assimilabile» al diritto soggettivo.
[35] Le perplessità espresse sul punto, all’epoca dell’emanazione delle ordinanze, da M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno, cit., p. 11, sono chiare e condivisibili, poiché «il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico e coerentemente la lesione che esso arreca deve essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo: tanto più se esso ha già conosciuto in sede cognitoria della sua legittimità (su ricorso del terzo leso nel suo interesse oppositivo o del destinatario leso dal suo annullamento d’ufficio)». Questo a meno che la situazione di legittimo affidamento non sia considerata diritto soggettivo, tutelabile innanzi al Giudice ordinario: orientamento, questo, progressivamente consolidatosi negli anni successivi.
[36] Lo evidenzia con chiarezza M. Filippi, Il principio dell’affidamento, cit., p. 4.
[37] Con ulteriore complicazione qualora l’annullamento d’ufficio sia esercitato su istanza di un terzo controinteressato al provvedimento ampliativo di primo grado: cfr. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., n. 2/2011, p. 896 ss., spec. p. 809.
[38] C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss., spec. p. 569-570: «l’interesse legittimo vantato dal cittadino [...] è sempre il medesimo, e cioè è la pretesa ad un provvedimento (non solo) favorevole (ma anche) frutto dell’attività legittima dell’amministrazione […]. […] l’interesse legittimo non può essere disgiunto dalla legittimità del provvedimento; e ciò innanzitutto perché l’interesse legittimo è attribuito al cittadino in relazione a vicende nelle quali all’Amministrazione è attribuito un potere, che per definizione deve essere esercitato legittimamente al fine di perseguire il pubblico interesse, cosicché la coesistenza armoniosa delle due posizioni, interesse legittimo e potere, vi è soltanto se entrambe corrispondono al diritto. L’interesse legittimo, inoltre, è correlato al legittimo esercizio del potere, nel senso che lo richiede, perché nel nostro ordinamento […] non è ipotizzabile che vi sia una posizione di vantaggio che possa essere acquisita e mantenuta anche se è frutto di un’attività illecita o comunque contrastante con il diritto». Della stessa opinione è M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo, cit.; viceversa, secondo F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, p. 462 ss., la legittimità del provvedimento ampliativo è una qualità affatto indifferente per il privato destinatario, il quale più semplicemente mira al conseguimento e alla stabilità degli effetti di quel provvedimento.
[39] Cfr. A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro It., 2011, I, p. 2398.
[40] F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito, cit., p. 9, così si esprime: «è proprio incontrovertibile che l’affidamento sia un diritto soggettivo (o un interesse legittimo)? O meglio, è sicuro che esista un diritto all’affidamento o un diritto alla correttezza dell’azione amministrativa svincolato dalla vicenda amministrativa autoritativa? Cioè si è sicuri che la lesione dell’affidamento e la violazione della correttezza – che resta uno dei vizi di legittimità del procedimento amministrativo da tempi “sandulliani” e quindi costituisce un “parametro” del sindacato – diano invece luogo a posizioni soggettive autonome svincolate dalla vicenda sostanziale cui si riferiscono e idonee a essere riparate da un giudice diverso da quello della vicenda sostanziale? Cioè, si possono scorporare correttezza, non discriminazione, buon andamento, ecc. dal procedimento amministrativo e quindi dal luogo tipico di esercizio della funzione e di composizione tra interessi contrapposti? (Non si sottovaluti la normale trilateralità delle vicende sostanziali in esame e la potenziale plurioffensività dell’unica manifestazione del potere che si rinviene in esse). O piuttosto il giudice “ordinario” e naturale della funzione pubblica dovrebbe conoscere anche di quelle lesioni e di quelle violazioni provocate nell’esercizio del potere pubblico nell’ambito di una medesima vicenda sostanziale?».
[41] Così, P. Chirulli, Responsabilità da comportamento, cit., p. 14.
[42] Ci si riferisce a Cass., SS.UU., ord. 28 aprile 2020, n. 8236, con nota di G. Tropea e A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del G.o. Note critiche, in Giustiziainsieme.it, 15 maggio 2020; F. Ferretti, Lesione dell’affidamento del privato ad opera della p.A. e conseguenze sul riparto di giurisdizione (nota a Ord. Cass. Civ. Sez. Un. n. 8236 del 28 aprile 2020), in Judicium.it, 2020.
[43] Per la quale «nel caso di annullamento in sede giurisdizionale di un titolo abilitativo [...] non può [...] dolersi del danno chi ‒ per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. ‒ abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno»: Cons. Stato, IV, n. 5346/2014, cit.
[44] V. Tar Campania, Napoli, VIII, 3 ottobre 2012, n. 4017, in materia di revoca dell’aggiudicazione definitiva di una gara d’appalto: «Venendo, ora, a scrutinare l’an dell’invocato danno risarcibile, non rileva, innanzitutto, l’elemento psicologico del lamentato illecito precontrattuale. In questo senso, la Corte di giustizia UE (sez. III) ha reputato incompatibile con l’ordinamento comunitario la normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata (sent. 30 settembre 2010, C-314/09). Essa ha, dunque, configurato in modo marcatamente oggettivo la responsabilità dell’amministrazione nel particolare settore degli appalti pubblici, connotato dalla funzione riparatorio-compensativa della tutela risarcitoria per equivalente, con cui surrogare integralmente, in presenza dei medesimi e soli presupposti di illegittimità, quella in forma specifica, rivolta al conseguimento del bene della vita ambito (aggiudicazione), nonché connotato dalla sostanziale completezza, autoconclusività e puntualità della relativa disciplina, la cui inosservanza risulta, di per sé, presuntiva di colpa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 483/2012)».
[45] In questo senso anche la nota sentenza Cons. Stato, ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5, sulla quale v. il commento – e relativi rinvii bibliografici ivi riportati – di F.F. Guzzi, Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: l’Adunanza Plenaria fa un ulteriore passo in avanti verso la parificazione della PA al contraente privato anche nella fase della procedura di evidenza pubblica, in Federalismi.it, n. 3/2019.
[46] Tar Napoli, VIII, n. 4017/2012, cit.: «L’ordinamento, infatti, apprezza con favore il ripristino della legalità attraverso il riconoscimento dell’esercizio dei poteri di autotutela dell’Amministrazione, ma riconosce comunque che, dopo una “legittima” revoca dell’aggiudicazione, possa residuare spazio per il risarcimento dei danni precontrattuali conseguenti alla lesione dell’affidamento ingenerato nell’impresa vittoriosa in seno alla procedura di evidenza pubblica poi rimossa». In merito alla dicotomia tra legittimità del provvedimento di autotutela e responsabilità precontrattuale della p.A. sia consentito il rinvio a C. Napolitano, L’autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018, spec. pp. 268 ss.
[47] Cass., I, 20 dicembre 2011, n. 27648: «in tema di responsabilità precontrattuale, la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito ha l’onere di allegare, ed occorrendo provare, oltre al danno, l’avvenuta lesione della sua buona fede, ma non anche l’elemento soggettivo dell’autore dell’illecito, versandosi come nel caso di responsabilità da contatto sociale, in una delle ipotesi di cui all’art. 1173 c.c.». La sentenza è richiamata da Tar Napoli, VIII, n. 4017/2012, cit., la quale rimarca il concetto: «Perché sussista una tale responsabilità per “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione, occorre però, da un lato, che il comportamento tenuto dalla P.A. risulti contrastante con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 del cod. civ., dall’altro, che lo stesso comportamento abbia ingenerato un danno del quale appunto viene chiesto il ristoro. L’obbligo di correttezza e buona fede nelle trattative va inteso in senso “oggettivo”, nel senso che non si richiede un particolare comportamento soggettivo di malafede, ma è sufficiente anche il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte che senza giustificato motivo ha eluso le aspettative della controparte».
[48] Cons. Stato, V, 22 ottobre 2019, n. 7161: «la responsabilità precontrattuale richiede non solo la buona fede soggettiva del privato, ma anche che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà dell’amministrazione, e che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione stessa, in termini di colpa o di dolo».
[49] Ex multis, Tar Campania, Napoli, V, 3 settembre 2019, n. 4440.
[50] Ci si riferisce qui alla nota figura metaforica di S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici: l’integrazione in corso di giudizio del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1995, pp. 18 ss.
Il lavoro agile nelle rinnovate logiche del sistema produttivo
di Gianni Toscano
Sommario: 1. Il lavoro agile quale paradigma del moderno sistema produttivo. - 2. (segue) Le (apparenti) differenze con il c.d. telelavoro. - 3. Il contenuto dell’accordo individuale: il luogo di svolgimento della prestazione e l’esercizio dei poteri datoriali. - 4. Orario di lavoro e diritto alla disconnessione nell’ordinamento interno e nell’esperienza francese e spagnola. - 5. Il trattamento economico e normativo. - 6. Il diritto di recesso dall’accordo di lavoro agile. - 7. La tutela della salute e sicurezza dello smart worker. - 8. Riflessioni conclusive (anche) alla luce dell’attuale contesto pandemico.
1. Il lavoro agile quale paradigma del moderno sistema produttivo.
L’epoca attuale è permeata da un incessante processo di digitalizzazione, il cui raggio d’azione sta progressivamente assumendo latitudini sempre più ampie.
In questa sede, non essendo possibile effettuare una generale disamina del fenomeno - che meriterebbe ulteriori riflessioni anche sul piano sociologico ed economico - si tenterà di metterne in rilievo l’impatto sull’attività d’impresa e, soprattutto, sui rapporti di lavoro[1].
Il modello di “Impresa 4.0” rappresenta l’ultima tappa del processo evolutivo delle attività industriali[2], in cui si registra un’intensa interazione tra uomo e macchina, mediata dall’utilizzo di sistemi informatici sempre più sofisticati ed in grado di gestire un considerevole flusso di dati e informazioni[3].
È in tale contesto che si fanno sempre più strada le c.d. intelligenze artificiali, attraverso la creazione di robot capaci di interagire con gli esseri umani e di sostituirsi ad essi nello svolgimento di talune attività lavorative[4].
A partire dagli anni novanta del secolo scorso, stiamo, infatti, assistendo ad un progressivo sviluppo tecnologico[5] che ha dato vita a quella che in dottrina è stata definita “società telematica”, “destinata a sostituire quella industriale e i suoi metodi di produzione e a ridurre in modo vistoso il lavoro umano”[6].
Una significativa tappa del processo evolutivo in atto, da valutare in termini positivi, è rappresentata dall’approvazione della l. 22 maggio 2017, n. 81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato”, che disciplina, inter alia, il c.d. “lavoro agile”, anche noto come “smart working”[7].
Il lavoro agile, applicabile anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, ben lungi dal rappresentare una nuova tipologia contrattuale, costituisce una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa sganciata dai tradizionali schemi legati a precipui orari e luoghi di lavoro[8].
In chiave ricostruttiva, unitamente al telelavoro e al lavoro tramite piattaforme digitali, può essere considerata una species del più ampio genus del c.d. “lavoro a distanza” (o “da remoto”)[9].
Quanto alla disciplina, preliminarmente, non può farsi a meno di rilevare la singolare la scelta del legislatore di collocarla all’interno della l. n. 81/2017, che, com’è noto, è stata emanata per disciplinare in maniera organica il lavoro autonomo imprenditoriale[10].
Un ulteriore aspetto da mettere sin da subito in rilievo[11] è rappresentato dall’espresso riferimento agli accordi fra le parti individuali del rapporto per la definizione di modalità essenziali di svolgimento dello stesso, quali, a titolo esemplificativo: l'individuazione del luogo di svolgimento della prestazione, l’individuazione e la distribuzione dell’orario di lavoro, le modalità dei relativi controlli.
L’attribuzione di queste decisioni all’autonomia individuale, piuttosto che a quella collettiva, rappresenta una significativa novità per il nostro ordinamento.
Guardando più da vicino alle disposizioni relative al lavoro agile, l’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 81/2017 chiarisce che le finalità della disciplina in esame sono quelle di “incrementare la competitività” e “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Quanto al primo obiettivo, diretta espressione del principio della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., non v’è dubbio che esso risponda ad esigenze imprenditoriali, posto che la modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, per i suoi effetti positivi sulla salute del lavoratore, può certamente consentire un vantaggio per l’azienda in termini di produttività e raggiungimento degli obiettivi aziendali.
Il secondo obiettivo, da intendersi quale manifestazione dei principi costituzionali posti a tutela del lavoratore (artt. 2, 3, 4 e 35 Cost.), risponde invece all’esigenza di attuare politiche del lavoro c.d. family friendly, volte a favorire modelli organizzativi che, consentendo la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata[12], contribuiscono al benessere psico-fisico del lavoratore[13].
Alla luce delle predette finalità, dunque, il lavoro agile si traduce in un reciproco vantaggio (win-win) per l’impresa e il lavoratore[14].
Il medesimo comma, inoltre, nel prevedere che le disposizioni del Capo II “promuovo il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”, da un lato, circoscrive l’ambito di applicazione ai soli rapporti di lavoro ex art. 2094 c.c.[15] e, dall’altro prevede che le concrete modalità del lavoro agile debbano essere stabilite mediante accordo individuale tra le parti, che deve essere stipulato per iscritto “ai fini della regolarità amministrativa e della prova” e può avere una durata determinata o indeterminata[16].
2. (segue) Le (apparenti) differenze con il c.d. telelavoro.
La disamina del lavoro agile non può però prescindere da alcune (sia pur brevi) preliminari considerazioni in merito al c.d. telelavoro, definito come “una forma di organizzazione e/o svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”[17].
Invero, queste due forme di lavoro, sebbene non risultino perfettamente sovrapponibili, presentano talune analogie[18].
Muovendo dai tratti non comuni, si osserva che, mentre nel lavoro agile (come si vedrà meglio infra) la prestazione lavorativa viene svolta solo parzialmente all’esterno dell’azienda e senza postazione fissa, nel telelavoro viene svolta regolarmente al di fuori dei locali aziendali.
Tuttavia, come sostenuto da parte della dottrina, l’assenza di una postazione fissa non sembra determinante ai fini distintivi tra le due figure, in quanto “non esiste alcun dato normativo, interno o esterno all’ordinamento giuridico italiano, che induca a individuare nella presenza o meno di una postazione fissa il tratto distintivo tra le due fattispecie”[19].
Semmai, sul piano normativo, potrebbe ravvisarsi una differenza in ordine all’utilizzo di strumentazioni informatiche nello svolgimento dell’attività lavorativa, non necessario nell’ambito delle prestazioni di lavoro agile[20].
Invero, le differenze tra il lavoro agile e il telelavoro sembrerebbero più apparenti che reali, ad eccezione di due ipotesi del tutto marginali: a) la prestazione viene svolta all’esterno dell’azienda senza l’utilizzo della strumentazione tecnologica; b) l’alternanza tra lavoro in azienda e in altre sedi risulti occasionale, dal momento che la “regolarità”, da intendersi come “ripetitività” o “continuità”, costituisce un elemento caratterizzante del telelavoro.
Pertanto, è possibile ritenere che il lavoro agile rappresenti “un altro modo di chiamare il telelavoro subordinato”[21], con tutto ciò che ne consegue sul piano della disciplina applicabile.
3. Il contenuto dell’accordo individuale: il luogo di svolgimento della prestazione e l’esercizio dei poteri datoriali.
L’accordo individuale deve contenere la disciplina dell’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali (art. 19, comma 1)[22].
La disposizione deve però essere letta in combinato disposto con il primo comma dell’art. 18, in cui si stabilisce non soltanto che tale modalità di esecuzione può essere realizzata “anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”, ma anche (e soprattutto) che “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Con riferimento al luogo di svolgimento del lavoro agile (all’esterno dell’azienda e senza una postazione fissa), parte della dottrina[23] ritiene che l’assenza di precisi vincoli relativi al luogo di lavoro e alla postazione fissa comporti l’impossibilità di prevedere un obbligo, in capo al lavoratore, di svolgere la prestazione in una determinata sede, con la conseguenza che questa debba invece essere rimessa alla libera scelta del lavoratore.
Tuttavia, anche alla luce dell’art. 1182 c.c., risulta maggiormente condivisibile ritenere che il luogo di lavoro debba essere identificato dalle parti, facendo ricorso anche a una elencazione delle possibili sedi, così da consentire al lavoratore di scegliere il luogo tra quelli oggetto di accordo, previa comunicazione al datore di lavoro[24].
L’accordo disciplina l’esecuzione del lavoro agile, “anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore” (art. 19, comma 1), e deve altresì regolamentare “il potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni” (art. 21, comma 1), nonché “le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinare” (art. 21, comma 2).
Al riguardo, la scelta di rimettere ad un’intesa tra le parti anche l’esercizio dei poteri datoriali necessita di talune precisioni, per (tentare di) fornire un possibile inquadramento sul piano ricostruttivo.
Quanto all’esercizio del potere direttivo, è la stessa eterodirezione sottesa al rapporto che esclude una possibile ingerenza del lavoratore nell’esercizio di siffatto potere datoriale, anche laddove attuata mediante apposita pattuizione inserita all’interno dell’accordo individuale.
Pertanto, il riferimento “alle forme di esercizio del potere direttivo” non dovrebbe essere inteso in senso sostanziale, ossia relativo al contenuto degli ordini e delle direttive (che rimangono ad esclusivo appannaggio datoriale), ma sul piano formale, ossia tendenzialmente legato alle modalità estrinsecative dello stesso, soprattutto in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali dell’azienda.
Anche il riferimento all’esercizio del potere di controllo necessita di talune precisazioni in chiave ermeneutica, specie alla luce dell’espresso rinvio alle previsioni di cui all’art. 4 Stat. lav.
Com’è noto, il primo comma dell’art. 4 St. lav. prevede che gli strumenti dai quali possa derivare la possibilità di un controllo a distanza dell’attività lavorativa possono essere installati e utilizzati, previo accordo collettivo, stipulato dalla RSU o dalle RSA, esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale.
Tuttavia, il secondo comma dell’art. 4, stabilisce che la predetta previsione non si applica per gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”.
Tra i limiti imposti dall’art. 4 St. lav., è inoltre previsto che le informazioni raccolte siano utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che sia data al lavoratore “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli” e nel rispetto di quanto previsto dalla disciplina in materia di privacy.
Al riguardo, si deve osservare che gli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore, seppur utilizzati per rendere la prestazione di lavoro e finalizzati al raggiungimento dell’obiettivo della conciliazione vita-lavoro, possono al contempo consentire un controllo datoriale sull’attività lavorativa[25].
Si pensi, ad esempio, ai software che permettono il collegamento da remoto ai server dell’azienda.
Pertanto, alla luce della evidente difficoltà di tracciare un sicuro discrimine tra l’area dei controlli a distanza suscettibili di autorizzazione preventiva per giustificate ragioni aziendali e quella esonerata da tali vincoli[26], nonché della giurisprudenza formatasi in argomento[27], desta non poche perplessità la scelta del legislatore di non prevedere che l’utilizzo di taluni strumenti tecnologici nel lavoro agile formi oggetto di specifico accordo collettivo.
Infine, con riferimento all’individuazione delle condotte connesse alla prestazione di lavoro agile e che possono dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, si ritiene che la stessa non possa comunque assumere carattere tassativo, dovendosi pur sempre integrare con le previsioni della contrattazione collettiva di riferimento e con le ulteriori disposizioni di carattere generale in materia (ad es. art. 2119 c.c.).
4. Orario di lavoro e diritto alla disconnessione nell’ordinamento interno e nell’esperienza francese e spagnola.
Per quanto concerne l’orario di lavoro, l’inciso “senza precisi vincoli di orario” non può essere inteso come totale assenza di limiti, in considerazione del fatto che la stessa disposizione prevede che la prestazione debba essere resa “entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Al riguardo, l’art. 17, comma 5, del d.lgs. n. 66/2003, stabilisce che “ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi”, tra i quali rientra il c.d. “telelavoro”, non si applicano le disposizioni dettate in tema di: orario normale di lavoro (art. 3), durata massima dell’orario di lavoro (art. 4), lavoro straordinario (art. 5), riposo giornaliero (art. 7), pause (art. 8), modalità di organizzazione del lavoro notturno e obblighi di comunicazione (art. 12) e durata del lavoro notturno (art 13).
Tuttavia, tale disciplina derogatoria non trova applicazione in relazione alle prestazioni di lavoro agile, ad eccezione di quanto previsto dall’art. 3 sull’orario normale di lavoro[28].
In quest’ottica, pare condivisibile l’opinione di chi ritiene che l’applicazione dei soli limiti di durata massima non deve essere intesa come una verifica sull’effettivo svolgimento della prestazione da parte del lavoratore entro la durata temporale stabilita, ma piuttosto nel senso di assicurare che tali limiti non vengano superati[29].
Aderendo a tale prospettazione, è possibile affermare che l’individuazione ex art. 19, comma 1 dei tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro (c.d. diritto alla disconnessione), sia finalizzata a garantire proprio l’osservanza dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro.
Invero, il diritto alla disconnessione ha lo scopo di evitare che il lavoratore sia esposto a una reperibilità costante[30].
Al riguardo, preme osservare che i moderni strumenti tecnologici, seppur in grado di migliorare l’efficienza della prestazione lavorativa, risultano potenzialmente idonei a incidere negativamente sulla salute del lavoratore (es. sindrome di burn-out, overworking, ecc.), vanificando l’esigenza della conciliazione vita-lavoro.
È proprio in quest’ottica che il diritto alla disconnessione si inserisce tra le tutele da apprestare al lavoratore, in quanto consente a quest’ultimo di “interrompere” la connessione, senza che ciò possa comportare ripercussioni sul piano personale e lavorativo[31].
Come osservato in dottrina, tale diritto non può essere inteso come disconnessione dalla rete, ma piuttosto come il diritto a “rimanere nella rete in modo selettivo, impedendo di essere cercato in determinati momenti della giornata” [32], onde evitare che il lavoratore sia esposto ad una continua reperibilità.
Nel disegno di legge n. 2229 (adattamento negoziale delle modalità di lavoro agile nella quarta rivoluzione industriale), l’art. 3, già nella sua rubrica, attribuiva maggior rilievo al diritto alla disconnessione, nonché al ruolo del medico del lavoro.
Non a caso, il comma 7 stabiliva che “nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.
I commi 2 e 3 della suddetta disposizione, oltre ad assegnare al medico del lavoro il compito di autorizzare e convalidare le misure scelte dal datore di lavoro - che sono necessarie “per tutelare e garantire l’integrità fisica e psichica, la personalità morale e la riservatezza del lavoratore” - prevedevano che il lavoratore fosse tenuto, ogni quattro mesi, a sottoporsi a visite periodiche di prevenzione e controllo, presso i presidi sanitari pubblici o dal medico del lavoro competente.
Tuttavia, il predetto impianto normativo, fortemente incentrato sulla tutela della salute del lavoratore, è stato successivamente assorbito e radicalmente modificato dal disegno di legge n. 2233, che nel suo testo definitivo, accolto dall’art. 19, comma 2, l. n. 81/2017, si limita a prevedere che l’accordo individuale debba individuare i tempi di riposo e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro[33].
Appare evidente che la disciplina dettata in tema di diritto alla disconnessione, nella sua attuale e scarna formulazione, che demanda all’accordo individuale il compito di individuarne i contenuti, non offre una puntuale ed efficace tutela alla salute del lavoratore, con il conseguente rischio, come già accennato, di vanificare gli effetti della conciliazione vita-lavoro[34].
Ad ogni modo, la disconnessione non sembrerebbe costituire un divieto imposto al datore di lavoro, bensì un diritto soggettivo dei lavoratori, analogamente a quanto avviene in altre legislazioni europee[35].
Al riguardo, dall’analisi comparata con altri ordinamenti giuridici, emergono alcuni tratti comuni e significative differenze.
In particolare, nell’ordinamento giuridico francese, attraverso la c.d. Loi Travail, approvata l’8 agosto 2016, il diritto alla disconnessione ha trovato riconoscimento al comma 7 dell’art. 2242-8 del Code du Travail, in base al quale “la négociation annuelle” deve riguardare anche le modalità di esercizio, da parte del lavoratore, del proprio diritto alla disconnessione e la messa a disposizione di dispositivi che regolino l’utilizzo degli strumenti informatici, allo scopo di assicurare il rispetto dei tempi di riposo, del periodo di ferie e della vita personale e familiare[36].
Anche in tal caso, quindi, il diritto alla disconnessione, introdotto in un contesto di riforma del diritto del lavoro, risponde alla duplice esigenza di tutelare la salute del lavoratore e realizzare la conciliazione tra vita privata e vita lavorativa[37].
Una sostanziale differenza tra i due ordinamenti emerge, invece, con riferimento all’ambito di applicazione.
Infatti, diversamente da quanto previsto dalla l. n. 81/2017, nella quale l’ambito applicativo del diritto alla disconnessione risulta circoscritto esclusivamente al lavoro agile, nell’ordinamento giuridico francese tale diritto ha portata generale, prescindendo, dunque, dalle modalità di lavoro prescelte.
Il legislatore spagnolo ha invece introdotto la disconnessione nell’ambito della Ley Orgánica 3/2018 sulla Protección de Datos Personales y garantía de los derechos digitales.
In particolare, l’art. 88, comma 1, riconosce il diritto alla disconnessione al fine di garantire, fuori dall’orario di lavoro legale o convenzionalmente stabilito, il rispetto del tempo di riposo, dei permessi e delle ferie, cosi come della sua privacy personale e familiare.
Il secondo comma, oltre a prevedere l’esigenza fondamentale della conciliazione tra vita lavorativa e vita privata, stabilisce che le modalità di esercizio dovranno essere previste nella negociación colectiva o, in mancanza, nell’accordo tra l’impresa e i rappresentanti dei lavoratori.
Infine, il terzo e ultimo comma dell’art. 88 prevedono che il datore di lavoro, previa audizione dei rappresentanti dei lavoratori, elabori una politica interna riguardante tutti i lavoratori, inclusi quelli che occupano posizioni dirigenziali, finalizzata a definire le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione e le azioni di formazione e sensibilizzazione del personale sull’utilizzo ragionevole degli strumenti tecnologici, allo scopo di evitare il rischio dell’affaticamento informatico.
La medesima legge, inoltre, ha introdotto l’art. 20 bis nella Ley del Estatuto de los Trabajadores, il quale riconosce espressamente il diritto dei lavoratori, non soltanto alla privacy nell’utilizzo dei dispositivi digitali messi a disposizione dal datore di lavoro, ma anche alla disconnessione digitale.
Dalla comparazione con l’ordinamento giuridico francese e spagnolo, dunque, emerge una disciplina più articolata del diritto alla disconnessione rispetto alle previsioni presenti nel nostro ordinamento, rispetto alle quali, dunque, in un’ottica de iure condendo, si auspica un più incisivo intervento del legislatore.
5. Il trattamento economico e normativo.
Il trattamento economico e normativo riconosciuto al lavoratore agile non può essere “inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda” (art. 20, comma 1).
Il richiamo al trattamento “complessivamente applicato” dovrebbe essere interpretato, sotto il profilo retributivo, nel senso che al lavoratore, oltre al c.d. trattamento base, potranno essere applicati soltanto gli istituti retributivi compatibili con la modalità di prestazione lavorativa in esame[38].
Nell’ottica di garantire al lavoratore agile anche la parità di trattamento normativo, il secondo comma dell’art. 20 prevede che a quest’ultimo possa essere riconosciuto, nell’ambito dell’accordo di cui all’art. 19, il diritto all’apprendimento permanente e alla periodica certificazione delle relative competenze.
6. Il diritto di recesso dall’accordo di lavoro agile.
Un ulteriore aspetto su cui soffermarsi è rappresentato dal diritto di recesso[39], disciplinato dall’art. 19, comma 2.
Sul punto, è espressamente previsto che, ove l’accordo abbia durata indeterminata, il recesso potrà essere esercitato con un preavviso non inferiore a trenta giorni.
Tuttavia, nel caso di lavoratori disabili e di recesso datoriale, il termine di preavviso non può essere inferiore a novanta giorni, al fine di “consentire un’adeguata riorganizzazione dei percorsi di lavoro rispetto alle esigenze di vita e di cura del lavoratore.
La medesima disposizione contempla anche l’ipotesi in cui ricorra un giustificato motivo.
In tal caso, qualora l’accordo sia a termine, le parti potranno recedere prima della scadenza dello stesso, mentre nell’ipotesi di accordo a tempo indeterminato, il recesso sarà esercitabile senza preavviso.
Deve osservarsi che il recesso previsto dalla citata disposizione non si riferisce al contratto di lavoro, bensì all’accordo individuale, ossia alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.
Di conseguenza, l’estinzione dell’accordo dovrebbe determinare “l’espansione della modalità lavorativa ordinaria”[40], nel senso che la prestazione lavorativa dovrà essere svolta interamente presso i locali dell’azienda.
Ad ogni modo, occorre interrogarsi se (ed eventualmente in che termini) gli effetti prodotti dal recesso dall’accordo individuale possano incidere anche sul rapporto di lavoro, posto che il primo (lavoro agile) può essere considerato un patto accessorio del secondo (contratto di lavoro).
La problematica si pone con particolare riferimento alla nozione di “giustificato motivo”, che può essere esercitato senza preavviso (accordo con durata interminata) o prima della scadenza del termine (accordo con durata determinata).
A tal proposito, prima facie, in chiave ricostruttiva, il legislatore sembrerebbe evocare la nozione prevista dall’art. 3 della l. n. 604 /1966, in tema di licenziamento, che ricorre in presenza di un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” (giustificato motivo soggettivo) o di “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (giustificato motivo oggettivo).
Invero, la riconduzione alla nozione testé richiamata, sebbene sul piano meramente semantico appaia plausibile, ad una più attenta analisi, conduce a ben altre conclusioni.
Al riguardo, un primo dato da evidenziare è rappresentato dall’insussistenza, in caso di recesso dall’accordo di lavoro agile per giustificato motivo, di un obbligo di dare il preavviso.
Tale circostanza, dunque, più che al giustificato motivo ex art. 3 cit., sembrerebbe rinviare alla diversa nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c.
Tuttavia, il rinvio alla giusta causa non appare una strada percorribile, dal momento che, com’è noto, quest’ultima non consente una prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro.
Di conseguenza, qualora il riferimento al giustificato motivo venisse impropriamente ricondotto alla nozione di giusta causa, il recesso non potrebbe dispiegare effetti esclusivamente in relazione all’accordo di lavoro agile, ma dovrebbe giocoforza caducare l’intero rapporto di lavoro.
È evidente che una tale impostazione però striderebbe con la stessa ratio sottesa al lavoro agile e all’esigenza di flessibilità nella gestione del rapporto.
Pertanto, sul piano ricostruttivo, si ritiene più opportuno emancipare la locuzione “giustificato motivo” da quanto previsto dall’art. 3 della l. n. 604/1966, tanto sul piano del fatto, quanto su quello dell’effetto.
Difatti, in ordine al primo aspetto, il giustificato motivo di recesso dall’accordo di lavoro agile non necessariamente deve essere ancorato a valutazioni di carattere negativo (soggettive o oggettive), ma deve essere inteso in un’accezione più lata, che ricomprenda al suo interno qualsivoglia valido motivo che spinge le parti a ripristinare la precedente modalità di lavoro secondo gli schemi “ordinari” o “tradizionali”.
Non bisogna infatti scordare che la scelta di ricorrere al lavoro agile non assume i caratteri della definitività e può essere rivista in qualunque momento, anche in assenza di un giustificato motivo.
Ciò consente anche di comprendere le differenze, sul piano effettuale, rispetto alla nozione di cui al richiamato art. 3, non essendo in tal caso dovuto alcun preavviso in presenza di un giustificato motivo.
È possibile, dunque, concludere che il recesso per “giustificato motivo” esercitato ai sensi dell’art. 19, comma 2, l. n. 81/2017, produca i suoi effetti esclusivamente nei confronti del lavoro agile e non incida sul relativo contratto di lavoro a monte.
Quanto precede lo si apprezza meglio laddove si consideri, ad esempio, un eventuale grave inadempimento degli obblighi contrattuali, in costanza di smart working, posto in essere dal lavoratore mentre svolge la prestazione lavorativa all’esterno dei locali dell’azienda.
In tal caso, il datore di lavoro, all’esito di apposito procedimento disciplinare, ritenendo integrati gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, potrebbe anche licenziare il dipendente, risolvendo il relativo rapporto di lavoro.
Ciò significa che il recesso dal rapporto di lavoro si pone su un piano differente rispetto a quello dall’accordo individuale e travolge quest’ultimo in presenza dei presupposti ex art. 3, l. n. 604/1966, o 2119 c.c., anche qualora i fatti posti a fondamento del provvedimento sanzionatorio siano riconducibili all’attività posta in essere dal lavoratore in modalità agile all’esterno dell’azienda, secondo il principio “simul stabunt, simul cadent”.
Non opera invece l’ipotesi inversa, ossia che dal recesso dall’accordo di lavoro agile, anche in presenza di un giustificato motivo, discenda la risoluzione del rapporto di lavoro.
Difatti, in tal caso, il recesso e l’eventuale giustificato motivo risultano esclusivamente riconducibili all’accordo di lavoro agile e non già al rapporto di lavoro, rispetto al quale l’atto di recesso avrà l’effetto, a seconda dei casi, di ripristinare o di dar vita ad un normale rapporto di lavoro subordinato secondo gli schemi ordinari o tradizionali.
7. La tutela della salute e sicurezza dello smart worker.
La disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza del lavoratore agile è contenuta negli artt. 18, comma 2, e 22, da leggersi unitamente alle disposizioni previste dal d.lgs. n. 81 del 2008.
In particolare, viene attribuita al datore di lavoro la responsabilità della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a consegnare al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale[41], un’informativa scritta con l’individuazione dei rischi generali e specifici, connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.
Sul punto, si ritiene condivisibile la tesi secondo cui il generale obbligo, posto a carico del datore di lavoro, di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore agile non possa considerarsi assolto attraverso la mera consegna dell’informativa scritta, risultando altresì necessaria l’adozione delle misure previste dal d.lgs. n. 81/2008[42].
Al riguardo, il rinvio è all’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008, che contiene la disciplina prevenzionistica applicabile “ai lavoratori subordinati che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico”, compresi quelli di cui al D.P.R. n. 70/1999 e all’accordo quadro europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002.
Come affermato in dottrina[43], ai fini dell’applicazione della norma in esame, da interpretare in senso estensivo, è necessario che il rapporto di lavoro abbia natura subordinata e la prestazione venga svolta a distanza, mediante collegamento informatico e telematico.
Il carattere “continuativo” della prestazione deve, inoltre, essere inteso come sinonimo di “regolarità”, con la conseguenza, quindi, che tale disciplina può estendersi anche al lavoro agile.
Quanto al contenuto della norma, è previsto che ai suddetti lavoratori si applichino le disposizioni di cui al titolo VII, in tema di attrezzature munite di videoterminali, a prescindere dall’ambito in cui viene svolta la prestazione lavorativa.
Inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, queste dovranno essere conformi alle disposizioni previste dal titolo III sull’uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale[44].
La medesima norma prevede, altresì, un duplice obbligo: da un lato, quello del datore di lavoro di informare i lavoratori a distanza sulle politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali, e, dall’altro, quello del lavoratore di applicare correttamente le direttive aziendali di sicurezza.
Si ritiene, inoltre, applicabile al lavoro agile anche la previsione in base alla quale il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti, al fine di verificare la corretta attuazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza da parte del lavoratore a distanza, hanno accesso al luogo di lavoro, nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, e che tale accesso sia subordinato al preavviso e al consenso del lavoratore, nel caso in cui la prestazione lavorativa venga resa presso il suo domicilio[45].
Infine, nell’ottica di tutelare la salute del lavoratore, la disposizione in esame prevede che il datore di lavoro debba garantire l’adozione di misure finalizzate a prevenire l’isolamento del lavoratore rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, consentendogli di incontrare i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda.
8. Riflessioni conclusive (anche) alla luce dell’attuale contesto pandemico.
In conclusione, è indubbio che il lavoro agile, nelle rinnovate logiche del sistema produttivo, costituisca un proficuo esempio di combinazione tra flessibilità e innovazioni tecnologiche, consentendo alle imprese di aumentare la produttività e ai lavoratori di conciliare i tempi di vita e di lavoro.
Invero, anche lo smart working presta il fianco a possibili condotte elusive poste in essere dalle parti del rapporto di lavoro.
Tuttavia, da un’analisi costi-benefici, i potenziali effetti positivi del lavoro agile (se proficuamente applicato) sono di gran lunga superiori rispetto agli eventuali abusi nel suo utilizzo[46].
Quanto precede ha trovato peraltro conferma, a fortiori, nell’attuale contesto storico di riferimento, martoriato dalla crisi pandemica ancora in atto, in cui potremmo definirlo come un utile strumento di “contrasto indiretto” del Covid-19.
Difatti, il legislatore, sin dall’adozione dei primi provvedimenti emergenziali, ha inteso riconoscere un ruolo preminente allo smart working tanto nel settore privato, quanto nel pubblico impiego[47], definendolo quale “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”[48].
Peraltro, per agevolare il ricorso al lavoro agile, il legislatore dell’emergenza, attraverso provvedimenti derogatori temporanei, ne ha anche modificato i requisiti e le modalità di accesso, rendendolo “molto più snello e semplificato”[49].
Pertanto, come rilevato in dottrina, “la soluzione del lavoro agile, pur nelle espresse criticità connesse alla sua implementazione dal punto di vista della privacy, potrebbe indubbiamente costituire la via più facile non solo come soluzione rimediale alla crisi della prima metà dell’anno 2020, ma potrebbe indubbiamente costituire la base per indubbi benefici da realizzare attraverso tale modalità di lavoro e sull’opportunità di incentivare tali pratiche anche una volta usciti dall’attuale crisi emergenziale”[50].
[1] Peraltro, a scanso di equivoci, come puntualmente rilevato in dottrina, “il lavoro digitale non è solo quello connesso alle piattaforme, agli algoritmi e all’economia dei c.d. “lavoretti”, ma è ampiamente diffuso e pervasivo nel lavoro amministrativo nel settore pubblico e privato, bastando l’utilizzo di computer e di posta elettronica per alterare modalità e tempi delle prestazioni senza necessariamente apportare modifiche al sinallagma contrattuale” (in questi termini, D. Gottardi, Da Frankestein ad Asimov: letteratura “predittiva”, robotica e lavoro, in Labour & Law Issues, 4, 2, 2018, p. 8).
[2] È stato osservato che la c.d. quarta rivoluzione industriale “si presenta con un impatto ancora più disruptive rispetto alla precedente per almeno due motivi: la pervasività della connessione nella vita di persone e organizzazioni, che porta sostanzialmente ad un dilatarsi infinito dello spazio-tempo individuale e collettivo; la velocità inedita con questa rivoluzione sta avvenendo” (in questi termini, S. Gheno-L. Pesenti, Smart working: una trasformazione da accompagnare, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 4).
[3] La prima rivoluzione industriale risale al XIX secolo e si è caratterizzata per l’uso dell’energia a vapore e delle macchine utensili; nella seconda si assiste all’introduzione dell’energia elettrica e delle catene di montaggio; nella terza, invece, ha avvio la diffusione di strumenti tecnologici ed elettronici.
[4] Analizzando il fenomeno globale della digitalizzazione e l’emersione di nuovi modelli economici, P. Tullini, Economia digitale e lavoro non-standard, in Labour & Law Issues, 2, 2, 2016, p. 6, rileva che “sul versante dell’occupazione si prospettano una progressiva contrazione dei livelli complessivi d’impiego, la sostituzione del lavoro umano con quello automatizzato, la rapida obsolescenza professionale amplificata dalla codificazione artificiale delle conoscenze attuata dalle tecnologie intelligenti e capaci di auto-apprendimento, il rischio di emarginazione delle fasce deboli e dei lavoratori vulnerabili”.
[5] Sull’incidenza del progresso tecnologico sui rapporti di lavoro, cfr. P. Ichino, Le conseguenze dell’innovazione tecnologica sul diritto del lavoro, in Riv. it. dir. lav., I, 2017, p. 525 ss.; M. Weiss, Digitalizzazione: sife e prospettive per il diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., 2016, p. 651 ss.
[6] G. Santoro-Passarelli, Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., 2, 2019, p. 421.
[7] In argomento si registrano numerosi contributi dottrinali, tra i quali si rinvia, a mero titolo indicativo, a: F. Notaro, Il lavoro agile nel quadro della vecchia (o nuova?) subordinazione, in Lav. Dir. Europa, 1, 2019, p. 2 ss.; M. Martone, Lo “smart working” nell’ordinamento italiano, in DML, 2, 2018, p. 293 ss.; M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., 4, 2017, p. 921 ss.; M. Corso, Sfide e prospettive della rivoluzione digitale: lo “smart working”, ivi, p. 978 ss.; M. Lai, Evoluzione tecnologica e tutela del lavoro: a proposito di “smart working” e di “crowd working”, ivi, p. 985 ss.; C. Romeo, Il lavoro agile in ambito privato e pubblico, in Mass. giur. lav., 2017, p. 824 ss.; S. Nappi, Riforma del lavoro autonomo, lavoro agile e altri esercizi stilistici parlamentari in una legislatura incompiuta, in DML, 2, 2017, p. 197 ss.
[8] In particolare, il lavoro agile è definito “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017).
[9] Cfr. M. Lai, Il lavoro a distanza, quale regolamentazione?, in Lav. Dir. Europa, 2, 2020, p. 4. Come evidenziato da M. Brollo, “Smart” o “Emergency Work”? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in Lav. giur., 6, 2020, p. 556, “l’antenato prossimo del lavoro agile è il telelavoro del decennio ’90, a sua volta, parente lontano del lavoro a domicilio degli anni ‘70”.
[10] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, in Nuove leggi civ. comm., 3, 2018, p. 633, il quale afferma che “la sedes materiae non è delle più appropriate”.
[11] Sul quale v. amplius infra.
[12] Sul punto, cfr. in partiolare A. R. Tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 419/2020, p. 1 ss.; G. Caporali, La conciliazione fra tempi di vita e di lavoro tra diritto costituzionale e normativa comunitaria, in Dir. Soc., 2, 2009, p. 321 ss.
[13] È stato osservato che la qualità del lavoro è strettamente legata ed è in qualche modo dipendente dalla qualità della vita. Difatti, “la serenità e l’equilibrio della vita personale e degli affetti familiari può consentire di lavorare meglio; così come, viceversa, una crisi familiare può pregiudicare anche il percorso professionale, dando fiato a un circolo vizioso che spinge sempre più i soggetti ai margini della vita economica e sociale” (così, L. Zanfrini, Smart working: il profilo della sociologia del lavoro, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 2).
[14] C. Timellini, In che modo oggi il lavoro è smart? Sulla definizione di lavoro agile, in Lav. giur., 3, 2018, p. 230.
[15] Invero, l’originario d.d.l. n. 2229/2016 prevedeva la possibilità di estendere tale disciplina anche al lavoro autonomo.
[16] L’art. 23, comma 1, stabilisce altresì che l’accordo e le sue modificazioni devono essere oggetto delle comunicazioni di cui all’art. 9-bis del d.l. 510/1996, convertito dalla l. 608/1996.
[17] Art. 1, par. 1, dell’Accordo interconfederale del 9 giugno 2004 per il recepimento dell’Accordo-quadro europeo sul telelavoro. In dottrina, cfr. M. Frediani, Telelavoro ed accordo interconfederale, in Lav. giur., 9, 2004, p. 824 ss. Invero, la disciplina del telelavoro è piuttosto frammentata e si differenzia tra settore pubblico e privato. In particolare, nel pubblico impiego le disposizioni di riferimento sono contenute all’interno del d.p.r. n. 70/99 e dell’Accordo-quadro nazionale del 23 marzo 2000, mentre nel privato oltre all’accordo sindacale europeo del 2002 e al suddetto accordo interconfederale del 2004, vi sono alcune disposizioni che richiamano l’accordo europeo all’interno del d.lgs. n. 81/2008. In dottrina, cfr. F. D’Addio, Considerazioni sulla complessa disciplina del telelavoro nel settore privato alla luce dell’entrata in vigore della legge n. 81/2017 e della possibile sovrapposizione con il lavoro agile, in Dir. rel. ind., 4, 2017, p. 1006 ss.
[18] Sul rapporto tra lavoro agile e telelavoro, si rinvia, in particolare, a G. Santoro-Passarelli, Il lavoro autonomo non imprenditoriale, il lavoro agile e il telelavoro, in Riv. it. dir. lav., 3, 2017, p. 369 ss.; M. Frediani, Il lavoro agile tra prestazione a domicilio e telelavoro, in Lav. giur., 7, 2017, p. 630 ss.
[19] Cfr. M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, cit., p. 937.
[20] L’art. 18, comma 1, della l. 81/2017, nel prevedere che il lavoro agile possa essere svolto “con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici”, ammette anche la possibilità del contrario.
[21] In argomento, si rinvia a M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, cit., p. 945; O. Mazzotta, Lo statuto del lavoratore autonomo ed il lavoro agile, in Quotidiano Giur., 1 febbraio 2016.
[22] Pertanto, come osservato da autorevole dottrina, “alla fine, risulta che il lavoratore agile è sottoposto ad un duplice regime, a seconda che la sua prestazione sia svolta fuori o dentro l’azienda, quello di lavoratore subordinato normale e quello di lavoratore agile, con un non facile coordinamento, che potrebbe, anzi [..] dovrebbe essere definito nel patto” (così, F. Carinci, La subordinazione rivista alla luce dell’ultima legislazione: dalla “subordinazione” alle “subordinazioni”?, in ADL, 4-5, 2018, p. 977).
[23] G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in L. Fiorillo e A. Perulli (a cura di), Il Jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Torino, 2017, p. 185.
[24] M. Lai, Evoluzione tecnologica e tutela del lavoro: a proposito di smart working e di crowd working, cit., p. 993.
[25] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 662.
[26] Sul punto, come osserva P. Tullini, La digitalizzazione del lavoro, la produzione intelligente e il controllo tecnologico nell’impresa, in ID. (a cura di), Web e lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Torino, 2017, p. 13, “è del tutto evidente la difficoltà di tracciare un sicuro discrimine - tanto sul piano teorico quanto operativo - tra l’area dei controlli a distanza suscettibili di autorizzazione preventiva per giustificate ragioni aziendali (art. 4, co. 1, St. lav.) e quella del monitoraggio attraverso le tecnologie di lavoro che sono esonerate da vincoli e considerate legittime ex se (art. 4, co. 2, St. lav.). E, com’è ovvio, tali difficoltà aumentano con la diffusione dei sistemi intelligenti che sono già naturalmente predisposti per una pluralità di applicazioni o facilmente “espandibili” sotto il profilo funzionale”.
[27] In tema di apparecchiature per la rilevazione dei dati di entrata e uscita: Cass. 13 maggio 2016, n. 9904, in Giust. civ. Mass., 2016, ove si afferma che “la rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall'azienda mediante un'apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro (nella specie, un "badge" elettronico idoneo a rilevare non solo la presenza ma anche le sospensioni, i permessi e le pause, ed a comparare nell'immediatezza i dati di tutti i dipendenti) ove sia utilizzabile anche in funzione di controllo a distanza del rispetto dell'orario di lavoro e della correttezza dell'esecuzione della prestazione, si risolve in un accertamento sul "quantum" dell'adempimento, sicché è illegittima ai sensi dell'art. 4, comma 2, della l. n. 300 del 1970 se non concordata con le rappresentanze sindacali, ovvero autorizzata dall'ispettorato del lavoro, dovendosi escludere che l'esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore”. In tema di sistemi informatici di rilevamento delle telefonate, v. Cass. 1 ottobre 2012, n. 16622, in Dir. giust. online, 2012, nella parte in cui si afferma che “il divieto di controlli a distanza ex art. 4, della legge n. 300 del 1970, implica che i controlli difensivi posti in essere mediante sistema informatico di rilevamento delle telefonate ricadono nell'ambito dell'art. 4, comma 2, della legge n. 300 del 1970, e, fermo il rispetto delle garanzie procedurali previste, non possono impingere la sfera della prestazione lavorativa dei singoli lavoratori; qualora interferenze con quest'ultima vi siano, e non siano stati adottati dal datore di lavoro sistemi di filtraggio delle telefonate per non consentire, in ragione della previsione dell'art. 4, comma 1, di risalire all'identità del lavoratore, i relativi dati non possono essere utilizzati per provare l'inadempimento contrattuale del lavoratore medesimo”.
[28] Sul punto, v. G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 655, secondo cui “il fatto che il legislatore ponga dei limiti riferiti all’orario massimo va inteso nel senso che non trovano applicazione quegli altri relativi all’orario normale (art. 3) e dunque, conseguentemente, al lavoro straordinario (art. 5)”, nonché G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, cit., p. 189.
[29] G. Proia, L’accordo individuale e le modalità di esecuzione e di cessazione della prestazione di lavoro agile, in Il Jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, cit., p. 189.
[30] E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella l. n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, in Dir. rel. ind., 2017, p. 1024 ss. In dottrina, cfr. altresì L. Foglia, La privacy come limite alla subordinazione: diritto alla disconnessione e rifiuto della prestazione, in dirittifondamentali.it, 2, 2020, p. 105 ss.
[31] In argomento, R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale. Possibili profili di tutela, in Labour & Law Issues, 5, 2, 2019, p. 218.
[32] D. Poletti, Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», in Resp. civ. prev., 1, 2017, p. 9.
[33] In argomento, si veda D. Poletti, Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», cit., p. 7 ss.
[34] In tal senso, si consideri quanto affermato dal Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, nella seduta n. 177 del 13 maggio 2020, presso la Commissione 11a del Senato (Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale), nella parte in cui faceva presente l’esigenza di assicurare “in modo più netto di quanto già previsto – anche quel diritto alla disconnessione, senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando cosi alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”.
[35] In tal senso, E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, cit., p. 1028 ss.
[36] Per un maggior approfondimento sull’analisi comparata con l’ordinamento giuridico francese, si veda E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, cit., p. 1026 ss.
[37] Cfr. D. Poletti, Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», cit., p. 14.
[38] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 658. In argomento, cfr. M. G. Deceglie, Il trattamento del lavoratore agile, in Mass. giur. lav., 2017, p. 837 ss. e L. Monterossi, Il lavoro agile: finalità, politiche di welfare e politiche retributive, in M. Verzaro (a cura di), Il lavoro agile nella disciplina legale, collettiva e individuale, Napoli, 2018, p. 35.
[39] In argomento, si rinvia in particolare a G. Franza, Lavoro agile: profili sistematici e disciplina del recesso, in Dir. rel. ind., 3, 2018, p. 773 ss.
[40] G. Ricci, Il lavoro a distanza di terza generazione: la nuova disciplina del “lavoro agile”, cit., p. 661.
[41] In dottrina è stato affermato che l’inciso “almeno” indichi la necessità di provvedere a una nuova informativa ogniqualvolta si verifichino variazioni nell’ambito del luogo di lavoro (all’esterno dei locali aziendali), tali da incidere sui fattori di rischio. In tal senso L.M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, in Dir. rel. ind., 4, 2017, p. 1043 s., il quale aggiunge che il datore di lavoro dovrà fornire una nuova informativa anche nel caso in cui il lavoratore svolga la prestazione lavorativa in un nuovo ambiente di lavoro, non contemplato dalla precedente informativa.
[42] Sul punto, si veda L.M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, cit., p. 1045 e ss.
[43] M. Peruzzi, Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker?, in Dir. sic. lav., 1, 2017, p. 8.
[44] In argomento, cfr. la circolare INAIL del 2 novembre 2017, n. 48.
[45] Cfr. L. M. Pelusi, La disciplina di salute e sicurezza applicabile al lavoro agile, cit., p. 1041 ss. Di diverso avviso, M. Frediani, Il lavoro agile tra prestazione a domicilio e telelavoro, cit., p. 636.
[46] Cfr. F. Malzani, Il lavoro agile tra opportunità e nuovi rischi per il lavoratore, in DML, 1, 2018, p. 17 ss.
[47] Invero, come rilevato in dottrina, “prima della pandemia questa forma di organizzazione del lavoro dipendente era ancora molto meno diffusa di quel che avrebbe potuto essere, anche perché era conosciuta poco o in modo troppo impreciso: erano poco comprese le enormi sue potenzialità sul terreno del risparmio dei tempi di spostamento delle persone e dei costi logistici aziendali, ma anche sul terreno della riduzione del traffico urbano e dell’inquinamento” (così, P. Ichino, Lo smart working e il tramonto della summa divisio tra lavoro subordinato e autonomo, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 2).
[48]Sui provvedimenti emergenziali in materia di smart working, si rinvia, in particolare, a: S. Cairoli, Lavoro agile alle dipendenze della pubblica amministrazione entro ed oltre i confini dell’emergenza epidemiologica, in Lav. Dir. Europa, 1, 2021, p. 2 ss.; M. Frediani, Il D.M. 19 ottobre 2020 quale compendio del lavoro agile in regime emergenziale, in Lav. giur., 10, 2020, p. 1023 ss.; M. Brollo, “Smart” o “Emergency Work”? Il lavoro agile al tempo della pandemia, cit., p. 553 ss.; B. Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno “smart working”?, in Riv. it. dir. lav., 2, 2020, p. 215 ss.; R. Zucaro, Pubblica Amministrazione e “smart working”, dalla disciplina ordinaria alla deroga emergenziale, in LPA, 2, 2020, p. 81 ss.; V. Giannuzzi Savelli, Flessibilità nel pubblico impiego: perché il lavoro agile è davvero la soluzione per “ridurre le distanze”, in Lav. Dir. Europa, 2, 2020, p. 2 ss. Per uno sguardo alle prime pronunce giurisprudenziali sul lavoro agile durante la fase dell’emergenza Covid-19, si rinvia a L. Valente, Emergenza Covid-19 e diritto soggettivo allo smart working, in Lav. giur., 12, 2020, p. 1193 ss.; M. Tufo, Il lavoro agile (dell’emergenza) esordisce in giurisprudenza: come bilanciare gli interessi in gioco nell’era della pandemia?, in Lav. Dir. Europa, 2, 2020, p. 2 ss.; A. Stefanelli-A. Marinelli, Nota a Tribunale Grosseto sez. lavoro 23 aprile 2020 n. 502, ivi, p. 2 ss.
[49] M. Brollo, “Smart” o “Emergency Work”? Il lavoro agile al tempo della pandemia, cit., p. 563, la quale fa notare che “al di là dell’etichetta legale, di fatto, il lavoro ridisciplinato dalla normativa d’emergenza più che una modalità di lavoro agile o di smart working assomiglia, per un verso, ad una forma classica di (tele)lavoro in blocco, per altro verso, ad una attività lavorativa eseguita a domicilio (o in qualsiasi dimora in cui si trovano, anche non abituale); ma, come noto, il marketing legale funziona e quindi il nome attribuito, specie nella versione anglofona di smart working - evocativa di una modalità lavorativa non solo agile, ma pure intelligente o confortevole - suona più accattivante, con la speranza che la stessa parola ne agevoli la diffusione”.
[50] C. Romeo, L’attuale dimensione del lavoro subordinato e no: la ricerca di nuove tutele, in Lav. giur., 11, 2020, p. 1062.
La nomofilachia informatica re-interpreta gli istituti processuali in chiave evolutiva: la rilevanza del principio di non contestazione ai fini dell’improcedibilità ex art. 369 c.p.c. in ambiente digitale*
di Enzo Vincenti (Consigliere e direttore del C.E.D. della Corte di Cassazione)
Sommario:1. Premessa: il nuovo orizzonte di senso della “nomofilachia informatica” - 2. Il continuum con la giurisprudenza del recente passato - 3. Il principio del raggiungimento dello scopo - 4. Conclusioni.
1. Premessa: il nuovo orizzonte di senso della “nomofilachia informatica”
L’esperienza della Corte di cassazione maturata in ambito di processo civile telematico (PCT) ha mostrato, almeno fino ad oggi, una peculiarità di fondo, che ha influito in modo anche significativo sull’adozione di talune scelte ermeneutiche su questioni processuali. Difatti, nonostante che il PCT non fosse realtà operativa per il processo civile di legittimità, la Cassazione si è trovata investita della soluzione di problematiche giuridiche relative al PCT e, quindi, chiamata ad enunciare principi di diritto interferenti non soltanto con il processo analogico di legittimità, ibridato telematicamente in alcuni limitati aspetti (comunicazioni di cancelleria, notifiche degli atti di parte, modalità di deposito di atti già nativi digitali), ma anche sul PCT dei gradi di merito.
Dal 31 marzo scorso, però, la Cassazione è entrata ufficialmente nel circuito del PCT e questo evento non potrà assumere una valenza neutra su come verrà a modularsi, nel prossimo futuro, anche lo svolgimento dei compiti che l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario affida istituzionalmente al giudice di legittimità, ossia quelli di assicurare “l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge” e “l'unità del diritto oggettivo nazionale”.
Ciò che, in sintesi, chiamiamo nomofilachia.
Occorrerà il giusto tempo di rodaggio perché sotto il profilo dell’efficienza e stabilità del sistema infrastrutturale il PCT di legittimità possa funzionare in modo del tutto soddisfacente; ci auguriamo che questo rodaggio si esaurisca in tempi ragionevoli, così da consentire anche il passaggio dal regime di facoltatività del deposito degli atti di parte a quello della obbligatorietà, che si presta ad essere il più coerente rispetto alla morfologia stessa del giudizio di cassazione, che presenta, rispetto al giudizio di merito, una indubbia semplicità strutturale.
Ma quel periodo di rodaggio servirà anche per metabolizzare, da parte dei giudici di legittimità, il passaggio da un rito a vocazione essenzialmente analogica ad un rito a centralità digitale. Passaggio che segna, anzitutto, una rivoluzione simbolica, la quale non potrà che plasmare in modo nuovo la percezione complessiva del contesto – quello processuale - in cui si realizza quotidianamente l’esercizio della giurisdizione.
Dunque, anche in Cassazione il PCT è divenuto “carne viva”, non più realtà mediata e questo darà all’espressione “nomofilachia informatica” un nuovo orizzonte di senso.
E’, quella “informatica”, una particolare declinazione della nomofilachia, che ha avuto modo di affermarsi, per l’appunto, ancor prima che il PCT di legittimità fosse una realtà e che si è potuta realizzare in ragione di una lettura dell’assetto processuale “dato” – dunque, un assetto calibrato non solo formalmente, ma anche culturalmente sulle norme del codice di rito e non su quelle di settore - in chiave sistematica e secondo una interpretazione evolutiva che si è avvalsa, essenzialmente, dei principi, anche sovranazionali, che governano il processo civile.
Tuttavia, si prospetta – come detto - un nuovo orizzonte di senso per la “nomofilachia informatica”, sebbene questo specifico contesto non possa prescindere dalla linfa vitale alla quale ha attinto la giurisprudenza sinora formatasi, con essa, quindi, dovendosi anche confrontare.
Si può, dunque, prefigurare un continuum tra recente passato e futuro prossimo nella giurisprudenza della Cassazione in materia di PCT e tanto perché il percorso è segnato dalla stessa funzione e dal quomodo (che non è solo “modalità”) di formazione dell’interpretazione nomofilattica.
Questa non vive di astrattismi, ma è sempre relativa al caso oggetto della lite.
Il principio di diritto è la regola del caso concreto, quella alla quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia. Di qui, anche l’attenuarsi della contrapposizione, a volte troppo sopravvalutata, tra ius litigatoris e ius constitutionis.
Il piano dell’interpretazione della legge non è, infatti, scisso dalla vicenda storica che viene portata dinanzi al giudice, ma da essa è alimentato.
Tutto ciò, ovviamente, vale anche per l’interpretazione della legge processuale; anzi, per essa, in ragione proprio della particolare conformazione dei poteri del giudice di legittimità, il contatto con la realtà storica della controversia è apprezzabile con ancor maggiore forza e penetrazione.
Nella verifica dell’error in procedendo la Cassazione è anche giudice del “fatto processuale” e, quindi, entra nel vivo del processo, di come si è svolto, coniugando direttamente l’interpretazione della norma di rito con l’attività processuale in concreto realizzatasi.
Sicché, l’entrata in vigore del PCT di legittimità ha reso possibile (o meglio, renderà possibile da oggi in poi) la diretta cognizione, a tutto tondo, di un particolare fatto processuale – intimamente legato all’informatizzazione del processo - dapprima conosciuto essenzialmente “in vitro”, così da consentire una interpretazione della norma processuale ancora più consapevole rispetto alla realtà normata e ad essa maggiormente aderente.
Dunque, un nuovo orizzonte di senso per la c.d. “nomofilachia informatica”.
Ciò, per le ragioni anzidette, non significherà di per sé svalutazione della giurisprudenza già formatasi in materia; il valore nomofilattico degli orientamenti giurisprudenziali pregressi andrà semmai depurato da incertezze interpretative (o anche da abbagli, come a volte è capitato e non lo si può nascondere) ovvero rimeditato se necessario, proprio in virtù di quella diretta cognizione e consapevolezza che colma la distanza precedente.
2. Il continuum con la giurisprudenza del recente passato
In una sintetica ricognizione della giurisprudenza che ha reso comunque possibile questa prima fase della “nomofilachia informatica”, l’attenzione sarà concentrata sulle decisioni delle Sezioni Unite (n. 22438 del 24 settembre 2018 e n. 8312 del 25 marzo 2019) che hanno reinterpretato l’istituto della procedibilità del ricorso per cassazione, regolato dall’art. 369 c.p.c., ascrivendo peculiare rilievo al principio di non contestazione in ambito processuale, nel contesto però di altri cooperanti principi, che la stessa giurisprudenza della Cassazione aveva già messo a fuoco nell’affrontare talune problematiche giuridiche relative al processo civile telematico.
Anzitutto, il principio del raggiungimento dello scopo, ma non da solo, perché vengono in risalto i presidi costituzionali e sovranazionali del “giusto processo” e, con essi, la stessa problematica delle fonti del processo in modalità telematica, in quel dialogo complesso tra codice di rito e norme, non solo di rango primario, che dettano discipline peculiari tra loro interagenti.
Interazioni che, del resto, hanno trovato rilievo nella stessa giurisprudenza della Cassazione, sebbene non sempre in modo organico.
Una visione d’insieme, tuttavia, si rinviene nella sentenza n. 22871 del 10 novembre 2015 in tema di sottoscrizione della sentenza con firma digitale a norma dell’art. 15 del d.m. n. 44/2011.
In quell’occasione si è ritenuto di poter “salvare” dalla nullità (si evocava, addirittura, la categoria dell’inesistenza), per mancanza di sottoscrizione (ovviamente autografa) necessaria in base al combinato disposto di cui agli artt. 132, secondo comma, n. 5, e 161, secondo comma, c.p.c., le sentenze redatte in formato elettronico dal giudice e recante la sua firma digitale, in quanto equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005 (codice dell’amministrazione digitale: CAD), resi applicabili al processo civile dall'art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla l. n. 24 del 2010.
Equiparazione resa ancor più netta dalla normativa successiva, ossia tramite l’art. 16-bis, commi 9-bis e 9-octies, del d.l. n. 179 del 2012, all’esito delle modifiche recate dal d.l. n. 90 del 2014 e dal d.l. n. 83 del 2015, quali disposizioni che presuppongono l’esistenza di un provvedimento del giudice inserito nel fascicolo informatico e, dunque, sottoscritto con firma digitale.
Tuttavia, proprio l’ulteriore evoluzione normativa sembra aver complicato il problema della ordinazione delle fonti.
In primo luogo, il fatto che la disciplina di rango primario e sub-primario risente necessariamente delle disposizioni dettate dalle fonti di livello eurounitario, con il preciso obiettivo di uniformare determinate materie comuni al mercato interno. Ne accenna la citata sentenza del 2015, ma, in particolar modo, assume un ruolo centrale nell’economia della ratio decidendi del principio espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 10266 del 27 aprile 2018, sulle firme digitali in formato “Cades” o “Pades”, il Regolamento UE 910/2014 (e-IDAS), che stabilisce le condizioni per il riconoscimento reciproco in ambito di identificazione elettronica, nonché le regole comuni per le firme elettroniche, l’autenticazione su web ed i relativi servizi fiduciari per le transazioni elettroniche.
E’, quindi, una trama di rinvii e di rimandi che davvero rendono il significato di come la “nomofilachia informatica” si sia trovata, in precondizioni non affatto favorevoli, a governare un habitat impegnativo.
E di ciò ne è prova, in guisa di peculiare cartina di tornasole, proprio la questione della procedibilità del ricorso per cassazione, la cui soluzione non rimaneva astratto esercizio di logica giuridica, ma opzione determinante effetti radicali sulla controversia, come quelli che derivano dalla sanzione dell’improcedibilità dell’atto di impugnazione adottata dal giudice di legittimità, quale esito, non di merito, che chiude definitivamente la vicenda del processo.
3. Il principio del raggiungimento dello scopo
In siffatto contesto, il principio del raggiungimento dello scopo ha costituito, dunque, il filo conduttore del percorso giurisprudenziale intrapreso dalla Cassazione sul PCT.
Esso ha avuto modo di affermarsi chiaramente con la sentenza n. 9772 del 12 maggio 2016, secondo cui, anche prima della disciplina introdotta dal d.l. n. 83 del 2015 – che modificando l’art. 16 bis del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) recante la disciplina ordinaria sul deposito degli atti processuali con modalità telematiche nell’ambito dei procedimenti civili, aveva consentito il deposito anche degli introduttivi -, il deposito per via telematica non dava luogo a nullità, bensì a mera irregolarità, là dove detto deposito, tramite generazione della ricevuta di avvenuta consegna, avesse avuto esito positivo e così da raggiungere il proprio scopo.
Il principio è stato enunciato in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ma poi è stato esteso anche ad altri atti introduttivi; ad es. – con l’ordinanza n. 1717 del 23 gennaio 2019 - al reclamo avverso decisione del Tribunale dei minorenni.
Due sono i profili che, della citata sentenza n. 9772/2016, occorre mettere in evidenza.
Il primo, relativo alla lucida individuazione del principio cardine di strumentalità delle forme desumibile dal combinato disposto degli artt. 121 e 156 c.p.c., per cui esse, lungi dal perseguire un valore e fine autoreferenziali, sono dettate per la realizzazione dell'obiettivo che la norma disciplinante la forma dell'atto intende conseguire. Di qui, pertanto, il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato impedisce di dare rilievo al vizio dello stesso, in quanto il processo deve essenzialmente tendere ad una pronuncia di merito.
Il secondo profilo, anch’esso di rilievo peculiare, riguarda l’affermazione secondo cui anche in “ambiente telematico” lo scopo del deposito dell’atto processuale è quello della presa di contatto tra la parte e l'ufficio giudiziario e della messa a disposizione di esso alle altre parti.
In tal modo non solo si è dato risalto alla necessaria triangolarità in cui si risolve il “giusto processo”, ma è stata pure disinnescata quella opzione ermeneutica, fatta propria da una certa giurisprudenza di merito, secondo cui il deposito telematico avrebbe avuto anche lo scopo, essenziale, di veicolare le richieste della parte al giudice mediante un supporto smaterializzato e decentralizzato. Opzione che, peraltro, aveva portato ad affermare (con conseguente declaratoria di inammissibilità rese in numerose decisioni di merito) che tra i requisiti essenziali dell’atto processuale digitale figurano anche gli standard tecnici per il confezionamento e, tra questi, i c.d. formati.
Va precisato che la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 10266/2018, sulle firme digitali in formato “Cades” o “Pades”, non ha affrontato, ex professo, la questione dell’operatività della sanatoria per raggiungimento dello scopo per violazione delle specifiche tecniche, ritenendola assorbita nella affermata utilizzabilità di entrambi detti formati.
Tuttavia, già le stesse Sezioni Unite, con la sentenza n. 7665 del 18 aprile 2016, avevano ritenuto che la notificazione a mezzo PEC di un controricorso in formato “.doc”, anziché “.pdf”, come stabilito dall’art. 19-bis del provvedimento del direttore SIA del 16 aprile 2014, in quanto la controparte non aveva dedotto alcun specifico pregiudizio all’esercizio del diritto di difesa, fosse da reputarsi sanata per raggiungimento dello scopo.
Il principio è stato successivamente ribadito (tra le altre, da due ordinanze del 2018, la n. 14042 e la n. 14818) nel caso di notificazione a mezzo PEC irrispettosa della prescrizione, dettata dall’art. 19-ter del citato provvedimento dell’aprile 2014, sull’indicazione del nome del file contenuto nell’attestazione di conformità di una copia informatica.
L’ordinanza n. 14042 del 1° giugno 2018 ha, peraltro, enunciato il principio, di portata più generale, per cui la violazione di specifiche tecniche dettate in ragione della mera configurazione del sistema informatico, non può mai comportare la invalidità degli atti processuali compiuti, qualora non vengano in rilievo la violazione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, ma al più, una mera irregolarità sanabile in virtù proprio del principio di raggiungimento dello scopo.
3. Le questioni relative alla procedibilità del ricorso per cassazione
Questa direttrice di orientamento ha rappresentato certamente l’humus fertile che ha alimentato la maturazione dapprima della decisione delle Sezioni Unite n. 22438/2018 e poi della decisione, sempre delle Sezioni Unite, n. 8312/2019, rispettivamente sulle questioni, sostanzialmente analoghe, della procedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del deposito di copia analogica del ricorso nativo digitale e della sentenza redatta in formato telematico notificati a mezzo PEC, in assenza tuttavia di attestazione del difensore di conformità all’originale telematico, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa.
Questioni sulle quali si era venuto ad affermare un indirizzo più restrittivo, incline alla soluzione dell’improcedibilità.
Quell’humus si è poi arricchito di ulteriori piani di riflessione che proprio una interpretazione in chiave evolutiva e sistematica ha fatto convergere verso la soluzione poi adottata: si tratta, come ho già accennato, dei piani, intersecantesi, dei principi fondamentali della giurisdizione e delle fonti di regolazione della materia processuale implicata.
La realtà processuale – come detto - registrava la presenza di un giudizio, quello di legittimità, in cui l’impianto della disciplina era (e lo è stato sino al 31 marzo 2021), radicalmente ancorato a modalità analogiche e dove, nel proprio ambito, non si faceva applicazione (salvo minime eccezioni) delle regole del PCT.
Un processo, dunque, dove la formazione digitale del ricorso e della sentenza e il loro deposito in copia analogica autenticata certamente non trovavano ancoraggio nel combinato disposto degli artt. 365 e 369 c.p.c., quali norme mai modificate nella loro originaria e risalente formulazione.
Eppure già la giurisprudenza che aveva adottato un indirizzo meno liberale aveva avvertito l’esigenza di rendere coerente, per quanto possibile, questa distanza tra discipline differenti, così da ritenere ammissibili quei presupposti (ossia il deposito di atti nativi digitali o formati telematicamente) e questo in base già ad una prima interpretazione evolutiva in consonanza con il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, che, proprio in ambito sovranazionale, ha trovato coerente sponda nel principio di “non discriminazione” (quanto ad effetti giuridici) del documento digitale dettato dall’art. 46 del regolamento UE n. 910 del 2014 (eIDAS).
Di qui, l’ulteriore passo compiuto dalle Sezioni Unite secondo una prospettiva convergente con l’esigenza di consentire la più ampia espansione, nel perimetro di tenuta del sistema processuale, del diritto fondamentale di azione (e, quindi, anche di impugnazione) e difesa in giudizio (art. 24 Cost.), in coerenza proprio con il principio “obiettivo” dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla cui realizzazione coopera, in quanto principio “mezzo”, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.), in una dimensione complessiva di garanzie che rappresentano patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU).
Il che, ovviamente, non poteva che dare spazio ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono guidare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale – e quindi le sanzioni processuali radicali come l’improcedibilità –, ascrivendo rinnovata vitalità al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo e, quindi, del raggiungimento dello scopo.
Assumono, quindi, primazia i principi immanenti al “giusto processo”, che non possono comunque essere recessivi rispetto alle forme e alle modalità, contingenti, nei quali il processo stesso viene ad essere configurato in base all’esercizio, ragionevole, della discrezionalità di cui gode il legislatore nel plasmarne gli istituti (tra le molte, Corte cost., sentenze n. 243 del 2014 e n. 216 del 2013).
E ovviamente deroghe non sono consentite nel caso del processo telematico, sebbene esso sia venuto ad acquisire, in misura sempre crescente, il ruolo di strumento duttile e funzionale in un’ottica di semplificazione ed efficienza del c.d. servizio giustizia.
Una breve riflessione a margine.
Giova, infatti, dare ancora maggiore rilievo ai concetti appena espressi prendendo spunto da una delle più recenti decisioni della Corte costituzionale sul processo civile telematico, la sentenza n. 75 del 2019.
Con questa decisione è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16-septies del d.l. n. 179 del 2012 nella parte in cui prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche, la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24, si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione dell’anzidetta ricevuta.
Era stato proprio il “diritto vivente” ad imporre quella lettura della norma - in sostanza, il divieto per il notificante di provvedere alla notifica telematica dopo le ore 21 -, che la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole e vulnerante il principio di effettività della tutela giurisdizionale, ritenendo applicabile anche in questo caso la regola generale di scindibilità soggettiva degli effetti della notificazione.
Particolarmente significative sono le affermazioni del Giudice delle leggi, perché l’irragionevolezza o meglio l’irrazionalità intrinseca della norma vivente è stata colta proprio nel fatto che essa veniva a sterilizzare le virtualità del presupposto che ne conformava indefettibilmente l’applicazione, ossia quelle del sistema telematico di notificazione degli atti.
In altri termini, il vulnus che l’art. 16-septies, nella portata ad esso ascritta dal “diritto vivente”, recava al pieno esercizio del diritto di difesa – segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare –, era apprezzabile proprio nell’aver fatto venire meno quell’affidamento che il notificante riponeva nelle potenzialità tutte del sistema tecnologico (affidamento ingenerato dallo stesso legislatore immettendo tale sistema nel circuito del processo), il cui pieno dispiegamento avrebbe invece consentito di tutelare e ciò senza pregiudizio del destinatario della notificazione.
Dunque, lo iato irrazionale tra nomos e techne che il “diritto vivente” aveva determinato è stato ricomposto attraverso il riconoscimento delle potenzialità proprie del sistema tecnologico, ma nell’alveo imprescindibile dei valori del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Tornando in medias res, proprio su questi principi/valori si è mossa la “nomofilachia informatica” espressa dalle sentenze del 2018 e del 2019, facendoli interagire con una pluralità di fonti – il codice di rito, la normativa di settore del PCT e la normativa generale del d.lgs. n. 82 del 2005 – attribuendo rilievo eminente a quest’ultima, intesa non solo come piattaforma regolativa di chiusura – secondo quanto previsto dell’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 82/2005, modificato dal d.l. n. 179 del 2016 -, ma anche come criterio finalistico di orientamento.
E’ in questo contesto, quindi, che viene attribuito rilievo centrale al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione del ricorso nativo digitale o della sentenza redatta in formato telematico, della conformità di detta copia all’originale telematico, in applicazione dell’art. 23, comma 2, del CAD stesso.
La saldatura interpretativa è operata anzitutto con la giurisprudenza più risalente (addirittura richiamando una decisione delle Sezioni Unite del 2 febbraio 1976, n. 323) che aveva già avuto modo di sterilizzare la sanzione dell’improcedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del deposito del ricorso in copia informe qualora non vi fossero dubbi sulla sua conformità all’originale.
Ebbene quella saldatura si fa presente nell’interpretazione in senso evolutivo, adottata dalle più recenti Sezioni Unite, del superamento delle ragioni per cui quegli stessi precedenti (e poi la giurisprudenza più restrittiva sul deposito del ricorso nativo digitale e della sentenza redatta in formato telematico), avevano predicato come ostative della possibilità di far valere la non contestazione della controparte ai sensi dell’art. 2719 c.c.
La certezza della conformità della copia all’originale – si diceva - non può essere data dalla mancata contestazione di controparte perché si tratta di verifica ad essa sottratta (indisponibile), per essere riservata (stante la rilevanza pubblicistica degli interessi) alla Corte di cassazione, non essendo del resto la parte stessa comunque in possesso dell’originale del ricorso e, quindi, impossibilitata ad operare la stessa valutazione di conformità.
Questo apparato argomentativo è stato ritenuto non dirimente una volta mutata la forma dell’atto, ossia consolidatosi il passaggio da quella analogica a quella digitale.
Dunque, secondo una linea comune e di continuità tra la decisione del 2018 e quella del 2019, avendo la prima tracciato il sentiero poi ribadito dalla seconda, si viene ad escludere la sanzione dell’improcedibilità ove il controricorrente non abbia disconosciuto, ai sensi del citato art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 82 del 2005, la conformità della copia informale all’originale notificatogli; con il corollario che, in caso di disconoscimento o in caso di parte rimasta soltanto intimata, il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica sino all’udienza di discussione o all’adunanza in camera di consiglio.
Il percorso seguito dalle due sentenze, come detto, è comune e ha dato vita ad una osmosi concettuale tra due piani operanti nello stesso contesto (ricorso e sentenza), che la sentenza n. 8312 del 2019 ha ricondotto ad unità, rilevando che sia per il ricorso, che per la sentenza “contano principalmente due elementi, la conformità all’originale e la tempestività del deposito”, essendo entrambi, anche “in ambiente di ricorso analogico e di norme processuali calibrate su tale forma di atto”, presi in considerazione, ai fini della procedibilità il ricorso, sia come “atti processuali (ovviamente di valenza diversa), sia con riguardo all’attività rappresentata dal relativo deposito, nella necessaria ricerca di un punto di equilibrio, che consenta di bilanciare la esigenza funzionale di porre regole di accesso alle impugnazioni con quella a un equo processo, da celebrare in tempi ragionevoli”.
Il contesto, dunque, è quello, affatto peculiare, del giudizio di cassazione, in cui l’impianto e lo svolgersi della relativa disciplina processuale è – recte: era fino al 31 marzo scorso - ancorato ad una dimensione analogica degli atti (salva l’eccezione delle comunicazioni di cancelleria).
Ed è un contesto che già di fatto, prima ancora che giuridicamente, giustifica l’inserimento nel circuito processuale della collaborazione del depositante dell’atto e del controricorrente, ai fini di verifiche di conformità (involgenti sia il ricorso nativo digitale, che la sentenza estratta dal fascicolo informatico) che erano oggettivamente precluse alla Corte in quel momento storico.
Proprio nel dare rilievo al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione, della conformità di detta copia all’originale telematico è la stessa sentenza del 2019 a riconoscere che la decisione del settembre 2018 aveva già operato decisamente una interpretazione innovativa dell’art. 23, comma 2, del CAD, intendendo tale disposizione come “norma di chiusura” in base al duplice presupposto:
a) della impossibilità per la Corte di effettuare la verifica diretta sull’originale nativo digitale;
b) della possibilità della parte destinataria dell’atto processuale nativo digitale, sottoscritto con firma digitale, di poterne operare, o meno, il disconoscimento rispetto alla copia analogica che non sia stata autenticata dal difensore autore dell’atto notificato, in quanto in possesso proprio del suo originale.
In tal senso, viene superata la configurazione tradizionale del citato art. 23, comma 2, quale norma dalla valenza meramente probatoria e confinata in un rapporto meramente privatistico, che si riteneva, quindi, inapplicabile in sede di verifiche come quelle in esame, che hanno implicazioni pubblicistiche e non sono nella disponibilità delle parti.
Tale approdo ermeneutico si è reso possibile proprio perché operante – come più volte ripetuto - sul terreno già fertile del principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, secondo una lettura particolarmente attenta ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità, di matrice soprattutto sovranazionale, i quali devono orientare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale, senza indulgere ad “inutili formalismi”, ma operando per dare concretezza al principio di effettività della tutela giurisdizionale.
Ma questa operazione ermeneutica coerenziatrice va anche letta come implementazione dello spazio vitale della funzione nomofilattica, perché viene a rafforzare lo statuto del “precedente” nell’ottica valoriale della certezza giuridica e, dunque, rendendolo affidabile criterio e misura della prevedibilità riguardo alla decisione dei casi futuri.
4. Conclusioni
Il descritto contesto impone di affrontare, tra le altre, una sfida impegnativa per la c.d. “nomofilachia informatica”, che – come già in parte evidenziato – viene posta dalla pluralità delle fonti di produzione del diritto di settore (incluso il livello eurounitario), che interagiscono tra loro, esibendo peraltro un diverso rango: primario, secondario, tecnico, quest’ultimo espressione anche di determinazioni amministrative (ad es., i decreti direttoriali del Ministero della Giustizia), la cui posizione, peraltro, è spesso frutto di interventi settoriali e non coordinati, secondo un disegno non sempre armonico, ma dettato sovente da contingenze e urgenze.
Invero, lo stesso CAD, sebbene venga evocato come corpo omogeneo di disposizioni di fonte legislativa con valenza di disciplina generale e di principio, affida la propria attuazione alle c.d “regole tecniche”, ossia ad una disciplina operativa di dettaglio, che, oggi, dopo la modifica dell’art. 71 del medesimo Codice, introdotta dal d.lgs. n. 217 del 2017, sono dettate sotto forma di “Linee guida”, adottate non più in forma regolamentare (con decreto del Presidente del consiglio o di un Ministro delegato), ma direttamente dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), divenendo efficaci non più dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (dove è solo previsto che si dia notizia della loro adozione), bensì dopo la pubblicazione nell’apposita area del sito Internet istituzionale dell’AgID. Ciò che apre ulteriormente alla discussione di come sussumere le “Linee guida” nell’ambito di una gerarchia delle fonti del diritto.
La giustificazione di fondo di tale assetto la si rinviene nel fatto che la flessibilità regolativa della normativa sub-primaria si presenta congeniale all’evoluzione tecnologica di natura prettamente informatica che il sistema del PCT non può ignorare.
Il che, se da una parte consente davvero la flessibilità, per altro verso, come è facile intuire, risulta un fattore di complicazione nell’ambito della regolazione del processo.
Sono i nostri filosofi contemporanei (Severino, Galimberti) ad ammonirci che la tecnologia non è asettica e neutrale, ma fa politica.
Affermazione questa che acutissimo e insigne giurista, come Natalino Irti, ha tradotto evidenziando che privilegiare, secondo una visione prospettica e di risultato, l’una o l’altra opzione regolativa che si affidi anche alla tecnica diventa una “questione di potere”.
Così nel nostro campo: diventa “questione di potere” rendere una certa scelta tecnica (prendiamo ad es. le tipologie di errore nel deposito telematico dell’atto digitale) impediente o meno dell’intervento del giudice all’interno del circuito della verifica processuale.
Nel contesto del PCT, dove fonti che non sono la legge vengono abilitate a regolare aspetti non certo irrilevanti del processo civile, non sembri ultronea la precisazione (che è dato trarre dalla più volte citata sentenza delle Sezioni Unite del settembre del 2018) per cui è necessario che siano i principi generali della legge processuale ad assumere il ruolo privilegiato di fonte interpretativa condizionante la portata della disciplina settoriale.
In altri termini, occorre davvero che la “nomofilachia informatica”, in dialogo con la dottrina (ma anche con le altre giurisdizioni in un’ottica di semplificazione e di armonizzazione della disciplina del processi telematici: passaggio anche questo necessario e da effettuare in tempi stretti), rifletta seriamente su un’actio finium regondorum che misuri con certezza ambiti competenziali e spazi di intervento attraverso la stella polare del “giusto processo regolato dalla legge”, secondo quanto predicato dal secondo comma dell’art. 111 Cost., che deve orientare in modo forte le “regole del gioco”, per non rendere evanescente il nucleo indefettibile del diritto inviolabile della difesa in giudizio.
*Relazione tenuta il 20 aprile 2021 al corso della SSM “Nomofilachia e informatica”
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