ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Efficacia dell’annullamento ex tunc, ex nunc o a die crastino?
di Raffella D’Agostino
Sommario: 1. La vicenda sottoposta all’esame del G.A. e le ragioni addotte a sostegno della decisione. – 2. La controversa natura dell’inefficacia del contratto: le tesi ancora sul tappeto. – 3. Della natura e dell’ampiezza dei poteri del G.A. sulla sorte del contratto. – 4. Le ulteriori spinte in avanti del G.A. quale giudice a cognizione piena. – 5. Della specialità dei poteri del G.A. ex art. 122 c.p.a., quale giudice di merito (ossia a cognizione piena) e non già sul merito. – 6. Analisi delle motivazioni addotte dal GA a sostegno della propria decisione. – 7. Brevi considerazioni conclusive.
1. La vicenda sottoposta all’esame del G.A. e le ragioni addotte a sostegno della decisione
Con sentenza n. 1737 dell’11 febbraio 2021, il Tar Lazio, sez. II bis, disponendo l’annullamento della procedura di gara, ha ritenuto opportuno modulare la decorrenza dell’inefficacia del contratto di appalto conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione, coordinandone gli effetti con l’obbligo di ripetizione della procedura ad evidenza pubblica, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 122 e 34, comma 1, lett. e) c.p.a., non essendosi concluso il giudizio con la possibilità di una pronuncia di aggiudicazione o di subentro in favore del ricorrente vittorioso.
La controversia ha preso avvio con dispiegamento di un ricorso principale avverso il provvedimento di aggiudicazione di un appalto di servizi, nel caso di specie di trasporto pubblico con assistenza domiciliare distrettuale in favore di persone svantaggiate, da rendersi nei comuni di Marino e di Ciampino, nonché di tutti gli atti ad esso presupposti, connessi e consequenziali, con conseguente richiesta di declatoria di inefficacia del contratto per la gestione del servizio, nelle more stipulato, e successivo subentro. In via subordinata, parte ricorrente ha chiesto la ripetizione del procedimento di gara e conseguente risarcimento del danno patito.
La ricorrente principale ha addotto a fondamento delle proprie ragioni, l’illegittimità per eccesso di potere della determina dirigenziale con cui si era provveduto a confermare l’aggiudicazione della gara in favore della controinteressata, superando con esito favorevole la verifica dell’anomalia dell’offerta effettuata dalla stazione appaltante. Secondo parte ricorrente, dalla relazione prodotta ai fini della giustificazione dell’anomalia dell’offerta, cui aveva fatto accesso, era possibile evincere l’erronea formulazione dell’offerta economica presentata dalla concorrente risultata poi aggiudicataria. Pertanto, si è desunta la sussistenza dell’obbligo di esclusione della concorrente dalla procedura di gara, l’illegittimità della stessa e della conseguente aggiudicazione.
Ha dispiegato ricorso incidentale l’aggiudicataria, controinteressata, chiedendo a sua volta l’annullamento degli atti di gara nella parte in cui non avevano comportato l’esclusione della ricorrente per la presentazione di un’offerta parimenti viziata.
I ricorsi sono stati esaminati contestualmente, dipendendo entrambi dalla medesima questione di diritto. Il ricorso incidentale è risultato destituito di ogni fondamento, emergendo dalla semplice documentazione degli atti di gara la correttezza dell’offerta presentata da parte ricorrente. Diversamente, è parso fondato il ricorso principale per via della rilevata incongruità dell’offerta presentata dall’impresa risultata poi aggiudicataria. Pertanto, il Tar Lazio ha disposto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione con conseguente obbligo per l’amministrazione di riesaminare le offerte e di pronunciarsi sulle medesime conformemente a quanto rilevato in giudizio.
Purtuttavia, fermo l’accoglimento del ricorso principale con obbligo di ripetizione della procedura di gara, vista la particolare rilevanza sociale del servizio prestato, il giudice amministrativo ha disposto che l’inefficacia del contratto nelle more stipulato, decorresse a partire dal termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza, o sua notificazione a cura di parte, oltre il quale il contratto stesso doveva intendersi risolto, con salvezza delle prestazioni medio tempore rese, così da consentire alla P.A. procedente di poter riesaminare le offerte e adottare le determinazioni necessarie ad assicurare la continuità di un servizio di particolare importanza sociale, senza soluzione di continuità, anche nel caso di subentro della ricorrente alla controinteressata, all’esito delle rinnovate operazioni di gara.
Nel caso di specie, pertanto, la possibilità per il giudice amministrativo di modulare gli effetti della dichiarazione d’inefficacia del contratto stipulato a valle di un’aggiudicazione dichiarata illegittima è stata coordinata con il riesercizio della funzione da parte della pubblica amministrazione, ossia collegata all’esito della ripetizione della procedura di gara, al fine di assicurare continuità al servizio reso.
Le ragioni giuridiche su cui il giudice amministrativo ha basato la propria decisione sono state essenzialmente tre.
La prima motivazione posta a fondamento del ragionamento giuridico seguito dal Tar Lazio, data per presupposto, è stata individuata nella possibilità di regolare gli effetti conformativi dell’accoglimento del ricorso anche in deroga all’efficacia retroattiva della pronuncia di annullamento, possibilità riconosciuta in linea generale dalla recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare Cons. Stato, Ad. pl., n. 13/2017) e, nel caso di specie, ex artt. 121 e 122 c.p.a., nei limiti in cui consentono al giudice amministrativo di modellare gli effetti della pronuncia di annullamento dell’aggiudicazione.
Di poi, si è insistito sull’autonomia degli effetti costitutivi dell’assetto d’interessi derivanti dalla pronuncia d’inefficacia del contratto rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 122 c.p.a.
Infine, si è posto l’accento sulla natura generale e atipica dei poteri conferiti al giudice amministrativo ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. e) c.p.a. che, letti in combinato disposto con i peculiari poteri riconosciuti all’organo giudicante sulla sorte del contratto, ex art. 122 c.p.a., a dire del Tar Lazio, si risolverebbero in un efficace strumento di garanzia dell’effettività della tutela, ampliando gli effetti costitutivi della pronuncia stessa d’inefficacia del contratto.
Ciò posto, al fine di comprendere la portata novativa e ampliativa della soluzione resa dal Tar del Lazio, si ritiene opportuno ripercorrere, seppur succintamente, le complesse questioni sottese alla pronuncia d’inefficacia del contratto, al fine di valutarne profili di criticità o di eventuale apprezzamento.
2. La controversa natura dell’inefficacia del contratto: le tesi ancora sul tappeto.
Gli artt. 121 - 125 c.p.a. e 133, comma 1, lett. e), n. 1 c.p.a., come noto, hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sulla sorte del contratto, previamente stipulato, in esito all’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione. Tali disposizioni normative hanno riprodotto, sostanzialmente, la disciplina precedentemente contenuta negli artt. 245-bis e 245-ter del d.lgs. n. 163/2006, a sua volta conforme alla direttiva ricorsi n. 2007/66/CE, disciplina con cui il legislatore ha definitivamente inquadrato le questioni relative alle conseguenze sul contratto derivanti dall’annullamento dell’aggiudicazione, innanzitutto come un problema processuale e non piuttosto di diritto sostanziale[1].
Di qui, il permanere di alcuni profili d’incertezza su questioni teoriche che per anni hanno impegnato la dottrina nella decriptazione del dato normativo e nella qualificazione giuridica delle categorie sottese alla fattispecie normativa, dalla cui soluzione ancora oggi dipende la risposta a diverse problematiche, fra cui quella relativa all’ampiezza e all’incidenza dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo circa la sorte del contratto, in particolare nelle ipotesi di “vizi residuali”, meno gravi, del procedimento di aggiudicazione, di cui all’art. 122 c.p.a., in cui la discrezionalità riconosciuta al giudice amministrativo sembra avere più ampi margini d’intervento.
Si ribadisce, che è proprio nella suddetta fattispecie normativa che s’inquadra la questione oggetto della presente analisi.
È noto che la soluzione normativa dell’inefficacia del contratto è stata adottata in quanto conforme alle indicazioni poste a livello comunitario, in particolare al 13° considerando della direttiva n. 2007/66/CE ove era individuata, come conseguenza necessaria di un appalto aggiudicato all’esito di un affidamento illegittimo, la privazione di ogni effetto del contratto a valle stipulato, con la precisazione che la carenza di effetti non doveva essere automatica ma accertata da un organo di ricorso indipendente o l’esito di una decisione assunta da quest’ultimo.
Di qui, il superamento di alcune tesi dottrinarie prima avvalorate, quali quelle: dell’annullabilità del contratto, maggiormente caldeggiata dalla giurisprudenza di Cassazione[2], nelle sue varie sfaccettature giuridiche – essendo stata essa ricondotta sia alle ipotesi di annullabilità relativa, ex artt. 1441 c.c., sia da annullabilità per vizio del consenso o per errore essenziale, secondo lo schema normativo di cui agli artt. 1428, 1429, comma 3, c.c. o, ancora, all’annullabilità per difetto di capacità a contrarre dell’amministrazione – ; nonché la diversa tesi della caducazione automatica[3], ossia dell’inefficacia assoluta, basata sul nesso di presupposizione e interdipendenza fra la serie procedimentale ad evidenza pubblica e quella contrattuale, tale per cui simul stabunt simul cadunt.
L’attuale disciplina normativa, dunque, individua una pluralità di fattispecie che consentono al giudice amministrativo di addivenire a una pronuncia di inefficacia del contratto a valle a stipulato, a seguito dell’accertamento della tipologia di violazione commessa nel corso della procedura di affidamento. Non a caso, si è parlato della predisposizione di un meccanismo d’inefficacia a geometrie variabili[4], o meglio ancora flessibile e funzionale[5], essendo l’inefficacia sostanzialmente riconducibile a due differenti regimi giuridici: una inefficacia per così dire “ordinaria” ma cedevole, per le violazioni più gravi, ritenute tassative (art. 121 c.p.a); l’altra facoltativa o discrezionale (art. 122 c.p.a.). E invero, mentre nella prima ipotesi, al verificarsi delle fattispecie declinate dal legislatore, la pronuncia d’inefficacia del contratto dovrebbe essere la regola, ossia conseguenza necessaria ma non per questo automatica, ben potendo sussistere esigenze imperative connesse a un interesse generale che impongano la conservazione del contratto, esigenze che il giudice amministrativo è tenuto a valutare secondo le indicazioni fornite dalla legge (art. 121, comma 2), nella fattispecie residuale, quella di cui all’art. 122 c.p.a., al giudice amministrativo sono lasciati più ampi margini interpretativi per via della maggiore indeterminatezza della disposizione legislativa, essendo Egli sostanzialmente chiamato a effettuare un giudizio complesso – della cui natura si dirà nel prosieguo – sulla pluralità d’interessi in gioco ai fini della decisione sulla sorte del contratto, bensì anche sulla regolazione della decorrenza degli effetti dell’inefficacia stessa. Pertanto, mentre nel primo caso si è difronte a un’inefficacia “cedevole”, nell’altro caso si tratterebbe di un’inefficacia meramente facoltativa, non essendo quella né una conseguenza necessaria ma nemmeno ordinaria dell’annullamento dell’aggiudicazione[6].
E tutto ciò, con evidenti ricadute sulla soluzione di questioni giuridiche ancora controverse, quali quelle relative alla definizione della natura giuridica della suddetta “inefficacia”, del necessario rispetto del principio della domanda per ciascuna delle due fattispecie giuridiche e, specularmente, della possibilità di riconoscimento, o meno, di poteri officiosi[7] in capo al giudice amministrativo ai fini della pronuncia d’inefficacia del contratto.
Con particolare riferimento al primo profilo, quello inerente la natura giuridica dell’inefficacia del contratto, è possibile rinvenire, oggi, due ricostruzioni fra loro alternative, da cui poi è gemmata una tesi mediana.
Secondo una prima impostazione, tale “inefficacia” dovrebbe interpretarsi alla stregua di una nullità-sanzione[8], intesa o come violazione di regole imperative che s’indirizzano sul regolamento negoziale o, piuttosto, secondo altra interpretazione, come nullità speciale da cui conseguirebbe l’illeceità del contratto per violazione dell’ordine pubblico economico o per nullità da disvalore. In questo caso l’inefficacia avrebbe una funzione rimediale, costituendo la reazione a un difetto contrattuale.
Diversamente, secondo altra ricostruzione, l’inefficacia dovrebbe interpretarsi come una risoluzione di fonte giudiziale[9].
Le due ricostruzioni si rifanno a una diversa interpretazione del concetto d’inefficacia, sul presupposto che l’inefficacia non è una categoria giuridica a se stante, non trovando un’autonoma disciplina nemmeno nella materia civilistica, tale per cui essa può intendersi o come inefficacia in senso lato, ossia come predicato di un contratto invalido, dunque come esito di un giudizio sulla validità o meno del rapporto contrattuale, oppure in senso stretto, come mero effetto giuridico di una valutazione sganciata da profili di validità contrattuale, effetto giuridico riconducibile a cause diverse dall’invalidità del rapporto contrattuale[10]. Secondo quest’ultima impostazione l’inefficacia si porrebbe come categoria autonoma rispetto all’invalidità.
Avvalorando quest’ultima prospettiva, dell’inefficacia in senso stretto, ossia dell’inefficacia intesa come effetto giuridico dell’annullamento dell’aggiudicazione, oggetto di un’autonoma e distinta valutazione rispetto a quella di validità del contratto e del rapporto contrattuale, di cui il giudice amministrativo non è chiamato ad occuparsi[11], sembra essere gemmata in dottrina una tesi mediana, per così dire neutrale, che tende a considerare l’inefficacia di cui agli artt. 121-122 c.p.a. come un autonomo istituto giuridico non sussumibile nell’ambito delle altre categorie. Ne deriverebbe una nozione complessa d’inefficacia, che valorizzerebbe la funzionalizzazione della stessa in relazione al subentro nel contratto del ricorrente vittorioso e che consentirebbe, diversamente, di apprezzarne la natura sanzionatoria nei limiti in cui il subentro non sia consentito[12].
Pertanto, è chiaro che la ricostruzione della natura giuridica dell’inefficacia ha ricadute anche sul piano interpretativo e applicativo delle norme di riferimento.
E’ evidente, dunque, che per sciogliere i nodi interpretativi sia opportuno ricostruire anche la ratio legis sottesa alla vigente disciplina, non potendosi negare che, da sempre, le differenti soluzioni interpretative offerte dalla dottrina circa la sorte del contratto e, di conseguenza, sui poteri spettanti al giudice amministrativo, abbiano fortemente risentito della ricostruzione teorica che si è fatta della procedura ad evidenza pubblica, delle finalità ad essa sottese, nonché della natura giuridica dell’aggiudicazione e del rapporto intercorrente fra essa e il contratto a valle stipulato.
Pertanto, non può non considerarsi innanzitutto la ratio sottesa alla disciplina comunitaria che ha le sue fondamenta nell’esigenza, sempre fortemente avvertita a livello europeo, di tutela della concorrenza, quale principio cardine della procedura di affidamento e, con essa, di tutela, in via prioritaria, degli interessi (pretensivi) degli operatori economici, cui è stata attribuita una tutela in forma specifica, che s’invera attraverso il conseguimento dell’aggiudicazione della gara, con conseguente stipula ed esecuzione del contratto.
Tuttavia, una disciplina integralmente calibrata sulla tutela della concorrenza e degli operatori economici avrebbe certamente trovato una migliore e più proficua soluzione nella previsione di una caducazione automatica del contratto all’inverarsi di violazioni della procedura ad evidenza pubblica, soluzione invece scartata dal legislatore.
La vigente disciplina codicistica, invece, sebbene conforme a quella comunitaria, si presenta ben più complessa perché impone al giudice amministrativo una sintesi fra contrapposti interessi, pubblici e privati, da valutarsi anche in termini di proporzionalità in relazione alle conseguenze che potrebbero derivare dalla declatoria d’inefficacia del contratto.
Pertanto, la medesima appare maggiormente improntata a una pubblicizzazione, o se si preferisce, a una vera e propria funzionalizzazione dell’inefficacia del contratto, imponendo un bilanciamento in concreto fra tutela della concorrenza e, dunque, per essa, dell’interesse del ricorrente, ma anche delle altre parti (art 122 c.p.a), nonché della pluralità d’interessi pubblici sottesi al contratto, non necessariamente coincidenti con quello di cui è titolare la pubblica amministrazione, così come la nozione di «esigenze imperative» lascia chiaramente evincere (art 121 c.p.a.), da cui inevitabilmente scaturisce una nozione complessa d’inefficacia del contratto.
In questa prospettiva, pertanto, sembra forse preferibile perseguire quella via interpretativa, per così dire neutrale, che vuole sganciata dalle categorie civilistiche la spiegazione della natura dell’inefficacia del contratto, valorizzando l’intentio legis sottesa alla disciplina codicistica che, lungi da fornire qualificazioni di diritto sostanziale sembra avere piuttosto delineato un complesso meccanismo in cui, fuor d’ogni dubbio, un ruolo cardine spetta al giudice amministrativo che, a seconda del caso concreto, nel rispetto della legge, sarà chiamato a decidere della sorte del contratto, quale conseguenza/effetto giuridico dell’annullamento dell’aggiudicazione, modificando l’assetto d’interessi a quello sottesi, con una pronuncia costitutiva.
Di qui, la necessità di definire la natura e l’ampiezza dei poteri spettanti al giudice amministrativo sulla sorte del contratto e sulla regolazione della decorrenza degli effetti dell’inefficacia.
3. Della natura e dell’ampiezza dei poteri del G.A. sulla sorte del contratto.
Anche con particolare riferimento alla natura e all’ampiezza del sindacato giudiziale sulla sorte del contratto è possibile rinvenire in dottrina diverse tesi che sono originate, sostanzialmente, dalla incerta dicitura espressa nella direttiva comunitaria 2007/66/CE e nella legge delega del 7 luglio 2009, n. 88, in cui si era prevista una giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo circa gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto.
Il punto, come noto, è stato presto chiarito in sede giurisdizionale[13], e definitivamente fugato con la vigente disciplina codicistica, essendosi chiaramente prevista la giurisdizione esclusiva del g.a. sulla sorte del contratto, non potendo Egli sostituire le proprie valutazioni a quelle spettanti alla p.a., nonostante, nel caso di specie, sia legittimato a svolgere un sindacato forte[14], a tutela dei contrapposti interessi sottesi al contratto.
Proprio la specialità[15] che connota i poteri del giudice amministrativo in relazione alla sorte del contratto ha però alimentato dubbi in dottrina sulla tipologia di sindacato da quello svolto.
Secondo un primo orientamento[16], il giudice amministrativo sarebbe chiamato ad effettuare un giudizio equitativo, alla stregua di un giudizio di volontaria giurisdizione, in cui la valutazione e la decisone del giudice, piuttosto che natura decisoria, sembrerebbero avere natura gestionale, per via della molteplicità delle soluzioni cui il giudice può giungere, vista l’ampia discrezionalità a questi riconosciuta, avendo la normativa fatto ampio uso di concetti giuridici indeterminati, generici o incompleti. Pertanto, secondo questa teorica, i poteri del giudice amministrativo sarebbero da leggersi nell’ottica dell’equità integrativa o correttiva, così da conciliare il principio di legalità con l’indeterminatezza e flessibilità normativa, anche in ragione dell’effettività della tutela.
Di diverso avviso chi[17], valorizzando la prospettiva pan-processualista o giudice-centrica sottesa alla predetta normativa, ha ritenuto si fosse comunque difronte a un sindacato di merito del giudice amministrativo, essendo la normativa essenzialmente protesa ad assicurare una tutela effettiva e rapida del ricorrente attraverso l’inefficacia del contratto. Di conseguenza, secondo questa tesi dovrebbe ritenersi che il giudice amministrativo avrebbe un potere-dovere di compiere una valutazione dell’interesse pubblico sostitutiva di quella dell’amministrazione, compiendo una scelta discrezionale afferente a profili di opportunità e convenienza circa la conservazione, o meno, del contratto e dei suoi effetti[18].
Questa teorica, tuttavia, è confutata dal dato normativo e da quella dottrina[19] che, piuttosto, ha evidenziato come, nel caso di specie, per la prima volta, si sia chiaramente al cospetto di un sindacato pieno del giudice amministrativo sul rapporto, un sindacato particolarmente incisivo che attribuisce al giudice amministrativo una cognizione piena per l’accertamento e la valutazione dei fatti e dei contrapposti interessi sottesi alla fattispecie di riferimento, senza per questo, tuttavia, cadere in un sindacato di mera opportunità politica sulla scelta precedentemente effettuata dall’amministrazione (ossia sul merito). Ciò anche in ragione del fatto che il legislatore ha effettuato una scelta differente sul tipo di giurisdizione spettante al GA, a seconda che ricorrano le fattispecie di cui agli artt. 121-122 cp.a. o piuttosto 123 c.p.a.
La tesi merita un chiarimento, anche perché, come si dirà in seguito, differenti sono i parametri normativi che indirizzano il sindacato del G.A. nel caso concreto a seconda che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 121, comma 2, c.p.a. o piuttosto, quella ben più problematica, per la maggiore indeterminatezza e per lo specifico riferimento all’apprezzamento degli interessi in gioco, di cui all’art 122 c.p.a.
Più in particolare, sembra possibile ritenere che nel caso di specie il legislatore abbia autorizzato il giudice amministrativo a compiere, nel rispetto della terzietà, imparzialità e indipendenza della propria posizione, una valutazione contestuale dell’interesse individuale, sia esso l’interesse legittimo pretensivo vantato dal ricorrente sia quello oppositivo del controinteressato, in uno con l’interesse pubblico sotteso al contratto; interesse, quest’ultimo, non inteso come strettamente coincidente con l’interesse pubblico prevalente, ossia quello rispondente all’interesse dell’amministrazione procedente, piuttosto come “interesse pubblico del caso concreto”, ossia come sintesi della pluralità degli interessi sottesi al contratto, da valorizzarsi nella prospettiva del rispetto di esigenze imperative espressione di un interesse generale.
Il che vorrebbe significare che il G.A. non sarebbe chiamato a esprimere ex post un giudizio sulla meritevolezza della scelta precedentemente effettuata dalla p.a., sostituendo la propria decisione con il merito amministrativo, bensì – e qui la peculiarità della normativa di riferimento – a compiere una valutazione autonoma, ora per allora, sull’assetto degli interessi in gioco, sottesi al contratto nelle more stipulato, per come emergente e per come determinatosi in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione illegittima.
Tale prospettazione, tuttavia, potrebbe far sorgere il dubbio che ci si trovi di fonte a una palese violazione dell’art. 34, comma 2 c.p.a., ossia dell’inderogabile divieto per il giudice amministrativo di pronunciarsi su poteri amministrativi non ancora esercitati.
Purtuttavia, come la dottrina non ha mancato di precisare, tale norma impedirebbe al G.A. di anticipare l’amministrazione nell’esercizio del proprio potere, non già di individuare l’assetto definitivo del rapporto controverso[20].
Con particolare riferimento all’ipotesi di cui all’art.122 c.p.a., ciò starebbe a significare che la valutazione “dell’interesse pubblico del caso concreto” demandata al GA, nell’ipotesi in cui si rende necessaria un’ulteriore attività procedimentale della p.a. (ossia, la riedizione della procedura di gara), sarebbe meramente strumentale all’esplicazione dell’effetto conformativo della sentenza di annullamento.
Il che vorrebbe dire che il G.A., non ricorrendo l’ipotesi della giurisdizione di merito, non è tenuto a stabilire il nuovo e definitivo assetto d’interessi, non avendo Egli poteri costitutivi, bensì è legittimato a orientare, in maniera più puntuale, il riesercizio della funzione amministrativa, esplicitando nel dispositivo della sentenza gli effetti conformativi derivanti dall’annullamento dell’aggiudicazione sulla sorte del contratto, con particolare riferimento alla decorrenza dell’inefficacia del contratto medesimo.
Pertanto, dovrebbe ritenersi che la specialità dei poteri riconosciuti al giudice amministrativo sulla sorte del contratto, atto di natura privatistica consequenziale e direttamente connesso all’esercizio di una pubblica funzione cristallizzatasi nel provvedimento di aggiudicazione, trovi un fondamento in ragioni di economicità ed efficienza processuale che hanno, evidentemente, portato ad estendere – probabilmente oltremodo (?) – le maglie della giurisdizione esclusiva, essendo Egli di fatto chiamato a effettuare una valutazione, neutrale e obiettiva, di pura efficienza economica, non già di buona amministrazione, non dovendo esprimere un giudizio di opportunità politica o di convenienza in sostituzione della pubblica amministrazione.
In questa prospettiva, dunque, l’ampiezza dei poteri cognitori, istruttori e decisori del giudice amministrativo, per come specificatamente delineati nella normativa in esame, dovrebbe potersi apprezzare e necessariamente coniugare nel rispetto dei limiti legali alla pienezza ed effettività della tutela, per come posti dai precetti costituzionali di cui agli art. 24, 111 e 113 della Costituzione. Principi, a loro volta, recepiti e declinati nel codice del processo amministrativo che è, chiaramente, un processo di parti, fondato sul principio dispositivo, o meglio ancora, sul principio della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, come tali invalicabili, essendo nella disponibilità delle parti l’oggetto del processo, non potendo certamente accettarsi l’idea del “giudice regolatore”.
Pertanto, in questa prospettiva, sembra possibile affermare che si sia difronte a un’eccezionale ipotesi normativa di esercizio della giurisdizione piena del g.a.[21], non semplicemente perché si legittima una cognizione piena del giudice amministrativo sul fatto, bensì perché s’impone una valutazione della situazione fattuale venutasi a creare in conseguenza della sottoscrizione del contratto, tale per cui il g.a. è tenuto a valutare le conseguenze dell’annullamento dell’aggiudicazione sull’efficacia del contratto, senza per questo divenire giudice della validità del contratto stesso[22].
Purtuttavia, è evidente, però, che il giudice amministrativo, nell’ampiezza dei poteri cognitivi e decisori attribuitogli dalla legge in codesta materia, in uno con l’indeterminatezza del precetto normativo, in specie dell’art. 122 c.p.a., potrebbe inopinatamente spingersi al di là dei confini della giurisdizione di tipo soggettivo[23], verso una vera e propria funzionalizzazione del processo, esercitando poteri, e non semplici effetti, conformativi, come tali inaccettabili.
Non si può dimenticare, infatti, che anche nel caso in cui si volesse riconoscere nella fattispecie normativa in esame un esempio di giurisdizione piena del giudice amministrativo, vi sono dei limiti invalicabili – espressi nelle regole del giusto processo di cui all’art 111 Cost. – posti a presidio della legalità ordinamentale di cui il principio della separazione dei poteri è emblema, che il GA è sempre tenuto a rispettare: innanzitutto una cognizione piena sul fatto non potrà mai significare uso della scienza privata da parte del giudice, né elusione del principio dispositivo per come declinato nell’art. 64 c.p.a., né indebita violazione del principio del contraddittorio e della parità processuale fra le parti; di poi, anche un eventuale riconoscimento di poteri decisori più pervasi non potrà giustificare un sindacato del giudice sulla scelta valoriale che costituisce il proprium della funzione amministrativa[24].
Pertanto, è nel rispetto di questi termini che bisognerà condurre l’analisi della questione.
4. Le ulteriori spinte in avanti del G.A. quale giudice a cognizione piena.
Al fine di comprendere fino a che punto, nel caso di specie, il g.a. si sia spinto al di là del dato normativo e delle regole processuali è opportuno innanzitutto guardare al tenore letterale della disposizione normativa di riferimento, l’art. 122 c.p.a., e all’interpretazione estensiva che di quella si è data, anche sulla scia di una recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite[25] che ha, per vero, aperto la strada a tale nuovo indirizzo interpretativo, sempre più seguito dal giudice amministrativo nelle sue recenti pronunce[26].
Ai sensi dell’art. 122 c.p.a., il giudice amministrativo che, al di fuori dei casi indicati nell’art. 121, comma 1 e nell’art. 123, comma 3, c.p.a., annulla l’aggiudicazione definitiva, può dichiarare inefficace il contratto, stabilendone la decorrenza, tenendo conto degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto stesso, nel caso in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovo della gara e la domanda di subentro sia stata presentata.
La disposizione normativa, come noto, pone una fattispecie residuale di inefficacia, come detto facoltativa, trattandosi di una norma di chiusura rispetto alle ordinarie ipotesi di inefficacia del contratto declinate dall’art. 121 c.p.a., che lascia più ampi margini di discrezionalità al giudice amministrativo sulla scelta inerente la sorte del contratto.
La decisione sull’inefficacia, rimessa al giudice in termini di “possibilità”, è infatti condizionata alla valutazione di una serie presupposti normativi che, tuttavia, pongono in primo piano la considerazione degli interessi delle parti, dunque, del ricorrente, interessato all’inefficacia del contratto funzionale al subentro o, in via subordinata, alla riedizione della gara, dell’aggiudicatario - contraente in buona fede, così come della stessa pubblica amministrazione. E la ponderazione di tali interessi, in cui senza dubbio un peso primario è da attribuire all’interesse del ricorrente, essendo la norma calibrata sulla tutela in forma specifica da assicurare a quest’ultimo, non può che essere inversamente proporzionale alla gravità del vizio che inficia l’aggiudicazione.
Proprio in riferimento a tale profilo, con particolare riferimento ai quei vizi della procedura, pur di “gravità risiduale” rispetto a quelli declinati nell’art. 121 c.p.a., con cui la disposizione normativa va coordinata, che comunque comportano la riedizione della gara, sono sorti dubbi interpretativi in merito alla discrezionalità del giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto.
Secondo una interpretazione letterale più rigorosa, infatti, richiamata anche nella sentenza che si commenta, nelle ipotesi di violazioni residuali che comunque comportino una riedizione della gara, la dichiarazione d’inefficacia del contratto dovrebbe essere la conseguenza ordinaria, non richiedendo alcuna valutazione comparativa degli interessi e degli altri elementi contemplati nella disposizione normativa (Cfr. Cons. Stato, Ad. Pl. n. 13/2011).
Il giudice amministrativo, pertanto, accertata la necessità di riedizione della gara, dovrebbe limitarsi ad annullare l’aggiudicazione e a disporre l’inefficacia del contratto, presumibilmente con efficacia ex tunc, quale conseguenza ordinaria dell’effetto retroattivo della pronuncia di annullamento dell’aggiudicazione cui il contratto è comunque connesso.
È proprio in relazione a questo profilo, della regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto, che si registrano orientamenti differenti, come quello espresso dalla sentenza in commento, partendo proprio dal presupposto della valorizzazione dell’autonomia degli effetti costitutivi della pronuncia di inefficacia del contratto rispetto a quelli derivanti dall’annullamento dell’aggiudicazione.
La disposizione normativa, infatti, è stata oggetto di differenti letture per via dell’ambivalenza del tenore letterario che la connota. Secondo un recente arresto della Corte di Cassazione, interpellata sul punto per motivi di giurisdizione, ritenuti però infondati, due sarebbero le possibili letture interpretative che la disposizione consentirebbe.
La prima corrisponderebbe alla tesi più rigorosa appena sopra richiamata, secondo cui le condizioni normative di esercizio del potere del giudice amministrativo varrebbero esclusivamente per le ipotesi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovazione della gara; nel caso contrario, pertanto, il giudice non sarebbe tenuto ad effettuare tali valutazioni.
Diversamente, secondo altra interpretazione, la disposizione normativa dovrebbe essere letta nel senso di consentire al giudice amministrativo, in ogni caso – sia che si debba o non si debba procedere al rinnovo della procedura di gara – di compiere la valutazione dei parametri condizionanti la declatoria d’inefficacia. Di conseguenza, il giudice amministrativo al ricorrere delle ipotesi di cui all’art 122 c.p.a. sarebbe sempre tenuto a tenere in considerazione gli interessi delle parti, lo stato di avanzamento dell’esecuzione del contratto, l’effettiva possibilità, per il ricorrente, di conseguire l’aggiudicazione del contratto o di subentrare nel contratto, alla luce del vizio della procedura in concreto riscontrato. Pertanto, l’eventuale obbligo di rinnovo della gara non limiterebbe i poteri cognitori e decisori del g.a., per come individuati dalla disposizione di legge, bensì impedirebbe, semplicemente, la possibilità di subentro nel contratto.
Secondo questa lettura dunque, le due condizioni della non necessità di riedizione della gara e dell’avvenuta presentazione della domanda di subentro sarebbero pregiudiziali – o meglio, necessarie anche se da sole non sufficienti, dovendo comunque valutarsi gli altri elementi condizionanti l’inefficacia – ai soli fini della tutela in forma specifica del ricorrente.
È evidente che questa seconda interpretazione amplia lo spettro dei poteri spettanti al giudice amministrativo, consentendogli di compiere un giudizio complesso anche nelle ipotesi di riedizione della gara; soluzione interpretativa, questa, che sarà maggiormente condivisibile nei limiti in cui si prediliga la tesi neutrale dell’inefficacia funzionale, posto che la qualificazione dell’inefficacia in termini di nullità-sanzione certamente imporrebbe un maggior rigore interpretativo.
Ad avvalorare tale soluzione interpretativa soccorre anche una lettura sistematica delle fattispecie di cui agli artt. 122 e 121 c.p.a. in quanto, se nelle ipotesi di violazioni più gravi di cui all’art. 121 c.p.a. è consentito al g.a. di conservare gli effetti del contratto al ricorrere delle esigenze imperative di cui al secondo comma dell’art. 121, escludere la ponderazione d’interessi contrapposti nel caso di violazioni meno gravi della procedura di gara sarebbe alquanto irragionevole, perché si giungerebbe ad un’applicazione più rigorosa della fattispecie residuale, meno grave, in cui l’inefficacia è comunque ope legis una conseguenza meramente eventuale.
Infatti, se al ricorrere delle fattispecie di cui all’art 121 c.p.a. l’inefficacia del contratto deve considerarsi una conseguenza ordinaria e, invece, la conservazione degli effetti del contratto una ipotesi eccezionale e derogatoria, possibile al ricorrere delle condizioni di cui all’art. 121 comma 2, nei casi di cui all’art 122 c.p.a. la soluzione è differente, non essendo posta una priorità a livello normativo al ricorrere di fattispecie che si pongono come regola ed eccezione, rimettendosi al giudice la decisione sulla sorte del contratto.
Pertanto, mettendo a sistema le due norme, un’interpretazione estensiva della disposizione in esame, con conseguente ampliamento dei poteri cognitori e decisori del giudice amministrativo, sarebbe legittima nei limiti in cui all’inverarsi di violazioni non gravi della procedura di gara che comunque comportino la riedizione della gara stessa, l’accoglimento della declatoria di d’inefficacia del contratto, con efficacia immediata o retroattiva, sarebbe da escludere perché conseguenza sproporzionata rispetto agli interessi di cui è causa.
È anche vero, però, che le condizioni normative cui è subordinato il giudizio sulla sorte del contratto divergono a seconda che ricorrano le fattispecie di cui all’art 121, comma 2, o 122 c.p.a.
Mentre nell’ipotesi di cui all’art 121, comma 2, c.p.a. ai fini della conservazione degli effetti del contratto si avvalorano esigenze imperative connesse alla sussistenza di un interesse generale – dunque, di più ampio respiro dell’interesse pubblico perseguito dalla p.a. competente, per vero recessivo – le sole capaci di giustificare una deroga alle accertate gravi violazioni della procedura di gara, nell’ipotesi di cui all’art. 122 c.p.a., la decisione dell’organo giudicante è strettamente calibrata sulla valutazione degli interessi di parte sottesi al contratto stipulato, ponendo particolare attenzione all’interesse del ricorrente non solo di subentrare al contratto, bensì anche alla ripetizione della gara allorché il medesimo abbia una effettiva possibilità di conseguire l’aggiudicazione.
Orbene, nell’ipotesi in cui il giudice accerti che ricorra un vizio che richieda la ripetizione della gara, l’unica conseguenza diretta e ordinaria cui la disposizione normativa darebbe luogo sarebbe quella di escludere la possibilità di subentro del ricorrente che ne abbia fatto domanda, non già quella di procedere alla declatoria d’inefficacia del contratto. Infatti, resterebbe in piedi il potere del giudice di decidere della sorte del contratto, dell’inefficacia dello stesso e della decorrenza dei relativi effetti.
Di conseguenza potrebbero aversi soluzioni divergenti a seconda del caso di specie, posto che questa interpretazione accentua i profili di autonomia degli effetti costitutivi dell’assetto d’interessi derivanti dalla pronuncia d’inefficacia del contratto rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione. Un parametro normativo certamente rilevante, capace di condizionare la declatoria d’inefficacia del contratto sino ad escluderla, è quello dello stato di esecuzione del contratto, che postula una valutazione complessa dei profili fattuali ad esso sottesi[27].
Al di là di questa ipotesi di più semplice soluzione, la decisone sull’inefficacia del contratto e sulla sua decorrenza, dovrebbe calibrarsi tutta sul bilanciamento dei contrapposti interessi di parte sottesi al contratto, nonché sulla valorizzazione dell’interesse strumentale del ricorrente alla riedizione della gara. Considerando che l’accertamento di un vizio che comporti la riedizione della gara esclude, di fatto, la possibilità di offrire tutela piena al bene della vita del ricorrente, ossia di subentrare al contratto, non sembra errato ritenere che in suddette ipotesi si avrebbe un recupero valoriale degli interessi diversi da quello del ricorrente, – o se si preferisce, si avrebbe un depotenziamento dell’interesse del ricorrente, nella ratio della norma considerato primario – sia della pubblica amministrazione resistente che del controinteressato in buona fede, ai fini della ponderazione che il giudice deve eseguire, con il rischio di derive protezionistiche, a vantaggio della conservazione degli effetti del contratto.
Che gli effetti di decisioni improntate alla tutela di interessi superindividuali, siano essi interessi collettivi, diffusi, generali, o anche solo pubblici[28], incidano sull’effettività della tutela dell’interesse del singolo ricorrente, arretrandola o financo svuotandola di contenuto nei limiti in cui tali esigenze debbano, ope legis, prevalere sulle contrapposte ragioni del singolo dedotte in giudizio, anche se fondate, è conseguenza del tutto evidente proprio al ricorrere della fattispecie di cui all’art. 121, comma 2, c.p.a[29]. Sebbene debba ritenersi che al ricorrere di tali fattispecie, della cui eccezionalità non può dubitarsi, tale conseguenza oltre che possibile sia legittima perché conforme non semplicemente alla voluntas legis bensì alla littera legis, è altrettanto vero che non si possa dubitare della necessità di vagliare con stretto rigore il ricorrere di suddette ipotesi, in quanto le stesse implicano una evidente scissione fra illegittimità amministrativa/procedimentale, anche grave, e legalità sostanziale o ordinamentale, che dir si voglia, intesa come bisogno di tutela di un interesse generale, che si manifesta al ricorrere di specifiche esigenze imperative, come potrebbero essere quelle connesse alla realizzazione di infrastrutture strategiche o alla realizzazione di opere pubbliche fruibili dall’intera collettività, o la prestazione di servizi essenziali.
Il problema, come detto, si pone con maggior evidenza proprio in riferimento alla valutazione che il giudice è chiamato a compiere ex art. 122 c.p.a, per via della maggiore indeterminatezza della fattispecie normativa rispetto a quella di cui all’art. 121, comma 2, c.p.a.
Tuttavia, valorizzando una lettura coordinata della disciplina posta dall’art. 121, comma 2, e dall’art.122 c.p.a., trattandosi di norme fra loro complementari, si ritiene che anche per quest’ultima fattispecie l’apprezzamento, da parte del giudice, della situazione di fatto esistente, da effettuare attraverso la lente della valutazione dei contrapposti interessi, debba essere operata nella logica della valorizzazione dell’interesse pubblico del caso concreto, così come precedentemente chiarito.
Le considerazioni svolte, dunque, sembrano far ritenere che, in via del tutto generale, l’interpretazione meno rigorosa dell’art 122 c.p.a., per come prospettata, non possa considerarsi, sic et simpliciter praeter legem; più in particolare, che la lettura coordinata delle due disposizioni porti piuttosto a valorizzare i limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale relativamente alla decisone sulla sorte del contratto, dovendo fugarsi l’insidia di una strumentalizzazione interpretativa delle regole processuali[30].
Pertanto, sarà fondamentale attenzionare le modalità con cui il giudice, di volta in volta, ne darà applicazione, potendo tale interpretazione portare a facili strumentalizzazioni, o meglio a una più accentuata pubblicizzazione o funzionalizzazione dell’inefficacia del contratto, allontanando ancor più la norma dalla sua ratio originaria di garanzia di tutela della concorrenza e dell’interesse pretensivo del ricorrente a godere di una tutela piena, in forma specifica, ma anche solo di essere ripagato della chance di concorrere nuovamente per l’aggiudicazione.
5. Della specialità dei poteri del G.A. ex art 122 c.p.a., quale giudice di merito (ossia a cognizione piena) e non già sul merito.
Orbene, nel caso di specie il giudice amministrativo non sembra aver oltrepassato o violato le regole del processo amministrativo quale processo di parti, piuttosto sembra aver speso i propri poteri effettuando una valutazione comparativa dei contrapposti interessi di parte ai soli fini della regolazione della decorrenza degli effetti dell’inefficacia del contratto, valorizzando l’interesse strumentale del ricorrente alla riedizione della gara, in uno con l’interesse non solo pubblico bensì collettivo alla continuità nell’esecuzione del contratto, evincibile dall’oggetto della prestazione contrattuale, nelle more resa dal contraente aggiudicatario, trattandosi di servizio essenziale di trasporto con assistenza domiciliare a soggetti svantaggiati.
Il giudice amministrativo, infatti, ha ritenuto di non emettere, nel caso di specie, una pronuncia d’inefficacia immediata o comunque retroattiva del contratto, non per ragioni di equità o di opportunità meramente politica, bensì in conseguenza di un giudizio complesso dal medesimo effettuato in maniera conforme ai parametri normativi condizionanti l’efficacia del contratto, sebbene, come detto, gli stessi impongano valutazioni a dicrezionalità piuttosto ampia, richiamando, gli elementi normativi della fattispecie, giudizi di tipo valoriale, oltre che tecnico ed economico.
Poteri del GA, che sembrerebbero trovare una plausibile spiegazione solo nella prospettiva della giurisdizione piena, intesa come espressione di un sindacato radicato nella pienezza della cognizione dei fatti e caratterizzato da una ampiezza della discrezionalità del giudice nel decidere la controversia[31]. Discrezionalità, tuttavia, che s’invera non nell’esercizio di poteri sostitutivi, non essendo chiamato il giudice a una scelta politica dell'interesse pubblico prevalente, bensì attraverso l’esplicazione di effetti conformativi più pervasivi, conseguenti alla valutazione dell'interesse pubblico del caso concreto che la norma gli impone di effettuare.
La disciplina normativa oggetto d’analisi[32], infatti, sembrerebbe porsi in posizione di assoluta distonia nel sistema processuale amministrativo, inverando una ipotesi peculiare di modello processuale di giurisdizione piena del G.A. Per comprenderne appieno il significato, è necessaria una breve riflessione storica sul punto.
Ripercorrendo le coordinate storiche sul tema, infatti, la normativa in esame invita innanzitutto a riflettere sulla complessità del concetto di giurisdizione di merito, risalente alla l. del 7 marzo 1907, n. 62, per certi versi riecheggiato nell’art. 27 del R.d. n. 1054/1924, molto spesso dimenticato.
E invero, la lettura di tali disposizioni normative porta a domandarsi cosa s’intenda per «giudicare nel merito», per coglierne una duplicità di significati: il primo significato, che forse con una maggior eco si è tramandato nella cultura del processo amministrativo, è quello di esprimere una valutazione di opportunità politica sulla scelta operata dall’amministrazione procedente; il secondo significato, il cui valore oggi, con il codice del processo amministrativo, si tende a recuperare con maggior vigore, è quello di intendere l’espressione giudicare del merito come riconoscimento di una cognizione piena del giudice amministrativo sul fatto[33].
Orbene, si è già più volte rimarcato che l’ipotesi di specie non comporti una valutazione da parte del GA in termini di opportunità politica. Con la conseguenza, che deve esser ben salda, che lo stesso non possa sostituirsi all’amministrazione, ergendosi a giudice-regolatore del caso concreto.
Diversamente, proprio il profilo della valorizzazione dell’ampliamento della cognizione del giudice, anche nel recente passato (si pensi all’art. 35 del d.lgs. n. 80/1998) è stato strumentale per valorizzare la funzione propria della giurisdizione esclusiva (nella quale rientra la materia di cui ci stiamo occupando) come giurisdizione piena del giudice amministrativo, intesa non soltanto come cognizione piena sul fatto per la verifica del corretto esercizio della funzione pubblica, bensì anche, per il profilo decisorio, come possibilità di rendere pronunce davvero satisfattive dell’interesse del ricorrente, in conformità al principio di pienezza ed effettività della tutela, di cui all’art. 1 c.p.a., quale corollario degli artt. 24, 103, 111 e 113 della Costituzione[34].
Più in particolare, l’eccezionalità dei poteri decisori che nel caso di specie sembrano riconosciuti, ope legis, al giudice amministrativo, paiono potersi giustificare proprio valorizzando il precetto di cui all’art. 113, comma 2 della Costituzione che impone di non limitare le forme di tutela giurisdizionale avverso l’esercizio scorretto della pubblica funzione, a garanzia della completa soddisfazione della pretesa fatta valere in giudizio dalla parte vittoriosa.
Norma che, tuttavia, non va interpretata nel senso di consentire, in ogni caso, dunque, incondizionatamente, una tutela giurisdizionale illimitata e invariabile contro l’atto amministrativo, spettando al legislatore il compito di regolarne modi di esplicazione ed efficacia (così testualmente, Corte Cost., 25 giugno 2019, n. 160).
E ciò con un evidente recupero del basilare e invalicabile principio di legalità ordinamentale.
Pertanto, se è vero che nella giurisdizione piena si assiste a un ampliamento tanto dei poteri cognitori quanto dei poteri decisori del giudice amministrativo, in ragione della concentrazione di una tutela potenzialmente esaustiva per la posizione soggettiva lesa dall’esercizio illegittimo della funzione, ciò non può avvenire ad libidum, non potendo farsi del giudice un organo legibus solutus, ricadendo altrimenti nel vizio del giudice- regolatore o amministratore, che dir si voglia.
6. Analisi delle motivazioni addotte dal GA a sostegno della propria decisione.
A sostegno della decisione assunta, il giudice amministrativo non si è limitato a valorizzare l’interpretazione meno rigorosa dell’art. 122 c.p.a., di cui si è ampiamente detto, ma ha giustificato la spendita dei propri poteri in relazione alla regolazione degli effetti del contratto, sfruttando le maggiori potenzialità degli effetti conformativi della propria pronuncia sul riesercizio della funzione pubblica, conseguenti alla (pacificamente riconosciuta) autonomia degli effetti costitutivi dell’assetto d’interessi derivanti dalla pronuncia d’inefficacia del contratto rispetto all’annullamento dell’aggiudicazione.
La soluzione cui il giudice amministrativo è giunto è senza dubbio innovativa perché, nella regolazione degli effetti del contratto, ha disposto la conservazione dello stesso per il tempo presuntivamente necessario alla riedizione della procedura di gara, reputando che nel bilanciamo degli interessi in gioco, ai fini della declatoria d’inefficacia del contratto, l’interesse strumentale del ricorrente vittorioso potesse essere ragionevolmente bilanciato con quello della continuità di un servizio essenziale, oggetto del contratto illegittimamente aggiudicato.
Se la soluzione cui il G.A. è giunto potrebbe essere condivisibile, qualche dubbio è lecito sollevare sul percorso motivazionale dal medesimo dispiegato.
In particolare, si ritiene opinabile un primo presupposto motivazionale cui il giudice amministrativo ha fatto impiego nell’argomentare la propria tesi, spendendolo quasi in sordina, con un obiter dictum. Ebbene, il GA sembra aver fondato (o per lo meno voluto rafforzare) la propria decisione, muovendo da un recente arresto dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, del 22 dicembre 2017, n. 13, con cui si è giunti a riconoscere, in via generale, la possibilità per il giudice amministrativo di disporre degli effetti conformativi dell’accoglimento del ricorso, seppure per derogare all’effetto retroattivo dell’annullamento.
Principio, questo, su cui la dottrina[35] ha speso rimarchevoli argomenti critici, non potendo essere accettato ad libidum posto che l’effetto retroattivo della sentenza di annullamento resta una regola fondamentale dello Stato di diritto, quale esplicazione dello stesso principio di legalità.
Sebbene tale presupposto motivazionale, pur utilizzato incidentalmente e a corollario della tesi poi dispiegata non pare condivisibile, si ritiene che il medesimo comunque non vizi la soluzione finale cui il giudice è addivenuto per una semplice ragione, dirimente, data dal fatto che il richiamo del principio generalmente posto dalla Plenaria, se non inconferente, appare comunque inutiliter datum perché, nel caso di specie, è la legge stessa ad autorizzare l’esercizio di poteri peculiari in capo al GA. Tale richiamo, pertanto, appare, se non pertinente, comunque non rilevante ai fini del decisum.
Diversamente, sembrerebbe più corretto insistere sulla specialità dei poteri riconosciuti al Giudice amministrativo dagli artt. 121 e soprattutto 122 c.p.a. cui, ope legis, gli è consentito di modulare gli effetti dell’inefficacia del contratto, sul presupposto dell’autonomia degli effetti dell’annullamento rispetto alla sorte del contratto. E di tanto si è detto.
Rilevante pare, inoltre, la lettura in combinato disposto di cui all’art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a. e all’art. 122 c.p.a., operata dal giudice amministrativo. E qui la valenza novativa della pronuncia.
Partendo dal presupposto che tale ultima disposizione normativa legittimi la regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione, con effetti costitutivi dell’assetto d’interessi ulteriori e non meramente dipendenti dall’annullamento, il GA è giunto a ritenere che la natura generale e atipica dell’azione cui all’art. 34, comma 1, lett. e) sia idonea a potenziarne l’efficacia, ampliando la valenza costitutiva della pronuncia a garanzia dell’effettività della tutela.
E ciò innanzitutto perché la dichiarazione d’inefficacia del contratto - e il conseguente potere di regolazione della decorrenza dei suoi effetti - quale conseguenza della decisione di annullamento dell’aggiudicazione, può essere intesa come effetto ulteriore, complementare e conformativo, della sentenza costitutiva di annullamento dell’aggiudicazione[36].
Di poi, il richiamo all’art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a.[37], in riferimento a una azione di cognizione e non di ottemperanza, impone, come noto, una valutazione più complessa in rapporto ai poteri spettanti al giudice, avendo questa disposizione, nel suo contenuto generale e atipico, le potenzialità per amplificare gli effetti di una pronuncia di annullamento, consentendo al giudice di esplicitare nel dispositivo della sentenza non solo gli effetti ripristinatori, bensì e soprattutto quelli conformativi. Sebbene questa resti, in generale, una mera facoltà del giudice.
Tale norma di legge, infatti, nell’attribuire a una sentenza di annullamento (o anche di condanna) ulteriori effetti finalizzati a garantire l’efficacia pratica di una sentenza di accoglimento del ricorso, valevoli in particolar modo per la tutela di interessi legittimi pretensivi, implica il riconoscimento di poteri atipici atti a integrare e rafforzare il contenuto della tutela costitutiva[38].
L’atipicità delle misure attuative di cui all’art. 34, comma 1, lett. e), inoltre, varia a seconda del diverso grado di penetrazione dello scrutinio di legittimità concesso, nel singolo caso, al giudice amministrativo; pertanto tali misure potrebbero concretizzarsi o in puntualizzazioni del modo di esercizio del potere amministrativo o in misure satisfattive sulla spettanza del provvedimento richiesto.
Tuttavia, proprio con riferimento a tale ultimo profilo, il richiamo ai poteri di cui all’art. 34, comma 1, lett. e) c.p.a. è a volte ritenuto ridondante, in particolare nel caso in cui il giudice sia legittimato a usare i poteri ben più penetranti di cui all’art. 34, comma 1, lett.c), c.p.a. o legittimato a condannare la p.a. a un facere specifico[39].
Diversamente, la norma sembrerebbe avere maggiore capacità d’incidenza proprio nelle ipotesi in cui residui in capo alla p.a. un più o meno ampio margine di discrezionalità nel riesercizio della funzione, tale per cui la misura attuativa si concretizzerebbe in una maggiore specificazione dell’effetto conformativo della sentenza di annullamento, alla stregua di misure complementari o piuttosto di prescrizioni esecutive dell’effetto conformativo, con efficacia più o meno stringente sul riesercizio della funzione.
E tale sembrerebbe essere il caso di specie, in cui il G.A. ha voluto rafforzare gli effetti conformativi della sentenza costitutiva di annullamento, adottando una statuizione di completamento dell’annullamento dell’aggiudicazione, senza per questo assumere misure di carattere sostitutivo, non legittimate, né esprimere un giudizio sul merito.
Ipotesi, che sembrerebbe consentita nel caso di specie perché tipizzata (recte, nominata) nella fattispecie normativa in esame (art. 122 c.p.a.), sebbene la stessa, nell’individuazione dei presupposti normativi legittimanti tale potere presenti un contenuto alquanto indeterminato; di qui, l’atipicità del modo di esercizio, in concreto, della funzione giurisdizionale e degli effetti conformativi incidenti sul potere pubblico. Atipicità che, in alcuni casi, potrebbe lasciar interdetti nel modo in cui si dia concreta applicazione del disposto normativo.
7. Brevi considerazioni conclusive.
Alla luce dell’indagine svolta sembrerebbe che, nel caso di specie, il giudice amministrativo abbia cercato di esercitare quei peculiari poteri che la norma di legge gli attribuisce, particolarmente incisivi, districandosi in un delicato e spesso fragile equilibrio fra rispetto delle regole del processo amministrativo come processo di parti e divieto di sostituirsi all’amministrazione nella cura dell’interesse pubblico prevalente.
Sembrerebbe che il medesimo si sia sforzato di compiere una valutazione il più possibile obiettiva, neutrale, in conformità a quei parametri normativi che, pur con tutti gli evidenziati limiti, la norma pone, perseguendo il fine indicato dalla norma di legge (art. 122 c.p.a.), ossia la valutazione dell’interesse pubblico del caso concreto, che passa attraverso la migliore (recte: efficace e contestuale) conformazione possibile della misura di tutela delle ragioni del privato, così come fatte valere in giudizio, con le ragioni d’interesse pubblico che, come detto, non si esauriscono nell’interesse dell’amministrazione procedente.
Peculiari poteri del giudice amministrativo che, si ribadisce, trovano una giustificazione, in via del tutto eccezionale, nei limiti in cui hanno espressa previsione nella disposizione di legge, che sembrerebbe riconoscere al giudice amministrativo una giurisdizione piena, quale giudice di merito[40], nei termini in cui sopra si è detto.
Pertanto, la complessa lettura sistematica della normativa in esame, sembrerebbe non consentire di escludere a priori un’interpretazione estensiva della stessa, sebbene questo comporti un ampliamento dei poteri cognitori e decisori dell’organo giudicante, senza per questo farli ricadere in una cognizione di opportunità amministrativa[41].
È anche vero, però, che tali poteri sono apprezzabili nei limiti in cui valorizzino le complesse finalità sottese alla normativa in esame, non solo pro-concorrenziali ma anche d’interesse generale, garantendo ad esempio una tutela più ampia al ricorrente stesso, considerando, nell’economia dell’azione amministrativa, per come dispiegata, anche l’interesse strumentale[42] alla riedizione della gara, inteso come effettiva possibilità per quest’ultimo di conseguire il bene della vita, bensì anche ampliando i poteri di regolazione della decorrenza degli effetti d’inefficacia del contratto a tutela dell’esecuzione di un servizio fondamentale, non solo per l’amministrazione, ma per la collettività.
Con riferimento al caso di specie, pertanto, il giudice amministrativo sembrerebbe aver rispettato la propria posizione di terzietà e imparzialità, garantendo comunque un equilibrio fra rispetto del principio dispositivo e, al contempo, del merito amministrativo, pur nell’esercizio di poteri speciali che la normativa in esame gli consente di esercitare, attraverso un’inedita regolazione degli effetti dell’inefficacia del contratto, decorrenti non rigorosamente ex nunc o ex tunc, ma temporalmente condizionati al riesercizio della funzione da parte della p.a. o comunque al rispetto di un termine dilatorio dal medesimo individuato presumibilmente in base a parametri di proporzionalità e ragionevolezza rispetto alla gravità del vizio e alla complessità della procedura di gara da ripetere.
Tuttavia, si è anche cercato di evidenziare che il rischio cui ci si espone nel riconoscere, o peggio nello sdoganare incondizionatamente tale modus procedendi nell’esercizio della funzione giurisdizionale, è quello di un possibile uso improprio – dunque patologico – di tali poteri, che potrebbe inverarsi o attraverso una tendenziale oggettivazione delle forme di tutela[43] o mediante l’espressione di giudizi equitativi o di mera opportunità politica, come tali non consentiti, costituendo, ciascuno di essi, derive improprie che trasformerebbero il processo amministrativo da dispositivo in dirigistico e il giudice in un amministratore del rapporto contrattuale.
Il problema di fondo che sembra emergere dal riconoscimento di siffatti poteri, specie se non ancorati a elementi normativi sufficientemente determinati (come sembra essere proprio il caso dell’art 122 c.p.a.) o piuttosto legati a clausole generali o a elementi che comportano un giudizio di tipo valoriale altamente opinabile, è quello di lasciare all’ampia discrezionalità del giudice l’individuazione della “regola del caso concreto” con evidente estensione degli spazi interpretativi prima, e decisori poi, con conseguente grave lesione della certezza del diritto[44], intesa in termini di prevedibilità della decisione in linea con le esigenze di uniformità e di uguaglianza sostanziale.
Alla luce di questo filone interpretativo, dunque, sarebbe forse opportuno tornare a chiedersi se Juger l’Administration c’est encore administrer per prenderne immediatamente le distanze, in quanto questa prospettiva di pensiero ci riporterebbe indietro nel tempo, minando quella cultura del processo amministrativo come luogo neutrale di tutela del singolo nei confronti del potere pubblico[45], che inevitabilmente passa dalla valorizzazione dei limiti che il principio di legalità[46] pone all’interprete.
Purtuttavia, ferme queste ultime considerazioni, si ritiene, con riferimento alla fattispecie di cui è causa, che tale modus procedendi non possa essere condannato a priori, trovando fondamento e giustificazione nella specialità dei poteri che il legislatore ha eccezionalmente attribuito al giudice amministrativo nella suddetta materia e, soprattutto, nella lettera stessa della legge[47], nella disposizione normativa per come formulata, la quale forse dovrebbe essere il vero oggetto della contestazione se si ritiene che violi il fondamentale principio della separazione dei poteri, ipotesi, tuttavia, come ricordato, proprio di recente esclusa dalla stessa Corte di Cassazione.
Concludendo, dovrebbe rimarcarsi l’eccezionalità della richiamata fattispecie normativa, se non ci si volesse spingere sino a evidenziarne l’anomalia sistematica della stessa o piuttosto la sua illegittimità costituzionale per via di un evidente difetto di formulazione della medesima, presentandosi largamente indeterminata specie lì dove rimette al giudice amministrativo la valutazione degli interessi di parte, non potendo, l’impervio cammino del riconoscimento di poteri di giurisdizione piena del giudice amministrativo, legittimare “deleghe in bianco” a favore dell’organo giudicante, così ergendolo a giudice-regolatore del caso concreto, promuovendo prassi poco ortodosse di occasionalismo giurisprudenziale[48].
***
[1] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4, 2010, 1 ss.
[2] Cass. Civ., sez. I, 17 novembre 2000, n. 14901; Id., 1 agosto 2002, n. 11427, ma anche Cons. Stato. Sez. VI, 1 febbraio 2002, n. 570. Per una ricostruzione delle tesi elaborate dalla dottrina prima del codice del processo amministrativo, cfr.: V. Cerulli Irelli, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto, in Giorn. dir. amm., 2002, 1195; V. Lopilato, Vizi della procedura e patologie contrattuali, in Foro amm. Tar, 2006, 1521; M. Monteduro, Invalidità del contratto, in Repertorio degli appalti pubblici, L.R. Perfetti (a cura di), II, 2005, 829 ss; Id., Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto d’appalto ex art. 1418, comma 1, c.c.: una radicale «svolta» della giurisprudenza tra luci e ombre, in Foro amm. Tar, 2002, 2591; E. Sticchi Damiani, La caducazione del contratto per annullamento dell’aggiudicazione alla luce del codice degli appalti, in Foro amm. Tar, 2006, 3719 - 3728; A. Cianflone - G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, XII ed., II, Milano, Giuffrè, 2012; M. Pisano, Annullamento dell’aggiudicazione e regime d’invalidità del contratto di appalto, in www.filodiritto.it, 6 maggio 2008.
[3] Cons. Stato, sez. V, n. 1518/2003; Cons. Stato, sez. VI, n. 2332/2003. Sulla qualificazione della caducazione automatica come forma d’inefficacia sopravvenuta: Cons. stato, sez. V, n. 3465/2004. Per una critica alla suddetta tesi: F.G. Scoca, Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto, in Foro amm. Tar, 2007, 283.
[4] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2017.
[5] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”: il nuovo processo super accelerato in materia di appalti e l’inefficacia flessibile del contratto nel d.lgs. n. 53 del 2010, in www.federalismi.it, 2010.
[6] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.
[7] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.; M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.; F. Cintioli, In difesa del processo di parti. (Note a prima lettura del parere del Consiglio di Stato sul “nuovo processo amministrativo sui contratti pubblici), in www.giustamm.it, 2 marzo 2010.
[8] V. Lopilato - R Tuccillo, Effetti delle decisioni giurisdizionali sul contratto, in Trattato sui contratti pubblici, tomo V, Milano, 2019, 852 ss; V. Lopilato, Categorie contrattuali, contratti pubblici e nuovi rimedi previsti dal d.lgs. n. 53/2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in Dir. proc. amm., 4/2010, 1326 ss; M. Fracanzani, Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto nel nuovo processo amministrativo: dall’onere d’impugnazione alla pronuncia di inefficacia, in Diritto della regione, Regione Veneto, 2010, 37 - 48.
[9] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, cit.
[10] Sulla distinzione fra inefficacia in senso lato e inefficacia in senso stretto nella dottrina civilistica, cfr.: S. Pugliatti, I fatti giuridici, revisione e aggiornamento di A. Falzea, con prefazione di N. Irti, Milano, Giuffrè, 1996. Per una ricostruzione dell’inefficacia, come categoria giuridica: V. Lopilato - R. Tuccillo, Effetti delle decisioni giurisdizionali sul contratto, in Trattato sui contratti pubblici, cit., 860 ss.
[11] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.
[12] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.; E. Sticchi Damiani, Annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, in Dir. proc. amm., 1/2011, 240 ss.
[13] Cons. Stato, parere reso in commissione speciale, 1 febbraio 2010, n. 368. F. Saitta, Contratti pubblici e riparto di giurisdizione: prime riflessioni sul decreto di recepimento della direttiva n. 2007/66/CE, in www.giustiziaamministrativa.it.
[14] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.; il quale sottolinea la specialità dei poteri riconosciuti al G.A. in relazione alla dichiarazione di inefficacia del contratto quale conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione; nonché: F. Cintioli, In difesa del processo di parti, cit.
[15] Più in generale sulle recenti modifiche al rito appalti: M. Lipari, Il nuovo rito appalti nel decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, in l’amministrativista, 22 settembre 2020; Ibidem M.A. Sandulli, Rito speciale in materia di contratti pubblici, 4 giugno 2020.
[16] P. Carpentieri, Sorte del contratto, in www.giustizia-amministrativa.it
[17] M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”, cit.; E. Sticchi Damiani, Annullamento dell’aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, cit., in particolare 263 ove l’A. parla di «potere sostanzialmente di merito limitato dal solo parametro della ragionevolezza»; ma altresì V. Cerulli Irelli, Osservazioni sulla bozza di decreto legislativo attuativo della delega di cui all’art. 44 L. n. 88/2009 (presentate alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati l’11 febbraio 2010), in Giustamm.it, 2/2010.
[18] R. Caponigro, La valutazione giurisdizionale del merito amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] F.G. Scoca, Il processo amministrativo ieri, oggi domani (brevi considerazioni), in Dir. proc. amm., 4/2020, 1097 ss.; Id., Considerazioni sul nuovo processo amministrativo, in ww.giustizia-amministrativa.it; Id., Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto, in Foro amm. Tar, 2007, 797 ss.; E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo, cit.; A. Police, Le forme della giurisdizione, in Giustizia amministrativa, F.G. Scoca (a cura di), Torino, III° ed. 2009 e oggi VIII° ed., 2020, 126 ss; Id., Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo. Contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001.
[20] Così M. Trimarchi, Full jurisdiction e limite dei poteri non ancora esercitati, in Persona e amministrazione, 2/2018; Id., L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018.
[21] L. R. Perfetti, La full jurisdiction come problema. Pienezza della tutela giurisdizionale e teorie del potere, del processo e della Costituzione, in Persona e amministrazione, 2/2018; Ibidem: A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato. Più in generale, sull’intensità del sindacato giurisdizionale del G.A. può vedersi l’intera sezione monografica del richiamato numero della rivista.
[22] In tal senso: E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.;
[23] Si ricordano le note pronunce del Cons. Stato, Ad. Pl., nn. 4 e 5/2015, su cui cfr.: A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 5/2015, 286 ss.; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it. 2015, 2192 ss. Più in generale sui temi: Aa.V.v., Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa in ricordo di Leopoldo Mazzarolli, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2017; G. Tropea, La specialità del giudice amministrativo tra antiche criticità e persistenti insidie, in Dir. proc. amm., 2018, 889 ss.; Id., Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm, 2017, 1235; A. De Siano, Dall’atipicità delle azioni all’atipicità dei poteri del G.A. Torsioni del processo amministrativo in nome della giustizia, in Dir. proc. amm., 1/2020, 59 ss.
[24] Su questi temi, da ultimo: M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria fra procedimento e processo, in Des 2/2020, 195 ss.
[25] Cass. Civ., sez. un., 22 marzo 2017, n. 7295.
[26] In particolare, possono citarsi: Tar Lazio, sez. II ter, 24 dicembre 2019, n. 14851; Cons. Stato, 24 luglio 2020, n. 3311.
[27] Cfr. Cons. Stato, n. 1032/2018; Cons. stato, n. 4369/2014; Cons. Stato, n. 4585/2015.
[28] Sulla distinzione: G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2020.
[29] Ad es. cfr. T.r.g.a., Sez. autonoma Bolzano, n. 43/2021.
[30] Sui temi, sia consentito rinviare a: R. Dagostino, Le corti nel diritto del rischio, Bari, 2020.
[31] A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, cit.
[32] Stessa considerazione potrebbe farsi anche per la disciplina della c.d. class action pubblica. Sui temi: A. Police, Le forme della giurisdizione, cit.
[33] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, 505 ss.
[34] A. Police, Le forme della giurisdizione, cit., 126 ss., 133 ss.
[35] R. Di Pace, L’annullamento tra tradizione e innovazione; la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 4/2012, 1273; C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in Dir. proc. amm., 2/2012, 280 ss.; Ibidem, A. Giusti, La “nuova” sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, 293 ss; A. Cassatella, Nuovi orientamenti in tema di efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: un’innovazione necessaria? Nota a Cons. Stato, ad. pl., 22 dicembre 2017, n. 13, in Dir. proc. amm., 3/2018, 1134 ss. Sebbene oggi si riconosca un temperamento a tale regola, non rivelandosi assoluta, è anche vero che si tende a circoscrivere le ipotesi in cui la decorrenza retroattiva degli effetti della pronuncia di annullamento può non prodursi. Tali sono: a) factum infectum fieri nequit; b) quando è nell’interesse del ricorrente che l’annullamento non comporti la retrodatazione totale o parziale degli effetti; c) il giudice valuti che gli effetti ex tunc dell’annullamento si rivelino lesivi dell’interesse del ricorrente. Sul punto: E. Follieri, La tipologia delle azioni proponibili, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), Torino, 2020, 190 ss. e in particolare195.
[36] E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120 – 124 del codice del processo amministrativo, cit.
[37] Commento all’art. 34 c.p.a., in Commentario breve al Codice del processo amministrativo, G. Falcon – F. Cortese – B. Marchetti (a cura di), Wolters Kluwers - Cedam, Vicenza, 2020.
[38] A. Giusti, Il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, Napoli, 2012, 214 ss.
[39]Commento all’art. 34 c.p.a., in Commentario breve al Codice del processo amministrativo, cit.
[40] Così, acutamente: A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, 277 ss. in cui l’A. dimostra come «questo tipo di cognizione… non ha nulla a che vedere con le valutazioni di opportunità o di merito amministrativo; il giudice di merito, infatti, non opera scelte discrezionali, né effettua ponderazioni d’interessi che siano alternative .. da quelle effettuate dalla pubblica amministrazione», nonché facendo riferimento proprio all’art. 122 c.p.a., quale ipotesi eccezionale prevista dalla legge, di attualità della giurisdizione di merito nel senso sopra chiarito di piena giurisdizione, si giustifichi proprio «nei casi in cui eccezionalmente si rende necessaria una contestualità tra la tutela delle situazioni d’interesse legittimo dei privati e la tutela delle ragioni dell’interesse pubblico».
[41] A. Police, L’epifania della piena giurisdizione nella prima stagione della «giurisdizione propria» del Consiglio di Stato, cit., 272.
[42] Sulla rilevanza dell’interesse strumentale e sull’autonomia della tutela riconoscibile a tali situazioni giuridiche soggettive, purché non emulative, diverse dal bene vita finale cui il ricorrente aspira: Cons. Stato, Ad. pl., 11 maggio 2018, n. 6; bensì anche Corte Cost., (sent.) 13 dicembre 2019, n. 271.
[43] Tale effetto patologico sembra, invece, essersi concretizzato proprio in una pronuncia di poco antecedente, emessa dallo stesso organo giudicante (Tar Lazio, sez. II ter, 24 dicembre 2019, n. 14851), in cui il G.A., sebbene abbia speso le medesime argomentazioni, sembra aver piegato la logica della funzionalizzazione della dichiarazione di inefficacia del contratto a ragioni di tutela meramente oggettive, mosse dalla evidente finalità di ripristinare la legalità violata, scavalcando il principio della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, ex art. 112 c.p.c.. Sul tema, cfr.: M. Condorelli, Rinnovazione della gara e inefficacia “condizionata” del contratto di appalto, in Giorn. dir. amm., 3/2020, 399 ss.
[44] Aa.Vv., Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018; G. Tropea, (In)certezza del diritto e Stato giurisdizionale: il caso dell’abuso del diritto e del processo (riflessioni a margine di V. Omaggio, Saggio sullo Stato costituzionale, Torino 2015), in Dir. e proc amm., 2017, 3, 1063-1118; ID., Diritto alla sicurezza giuridica nel dialogo “interno” ed “esterno” tra Corti, in Dir. proc. amm., 2018, 4, 1244 ss.; M.A Sandulli., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 3, 2018, 45 ss.
[45] A Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018.
[46] M. A. Sandulli, Principi e regole dell’azione amministrativa: riflessioni sul rapporto fra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, al sito www.federalismi.it, 6 dicembre 2017
[47] In particolare si allude all’art. 122 c.p.a. nella parte in cui prescrive al G.A. di «tenere conto, in particolare, degli interessi delle parti».
[48] M. Betzu, Diritto giurisprudenziale versus occasionalismo giurisprudenziale, in Riv. dir. publ., 1/2017, 41 ss.; M. Luciani, Funzione e responsabilità della giurisdizione. Una vicenda italiana (e non solo), in Giur. Cost., 2012, 3824 ss.
La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327)
di Riccardo Pappalardo
Sommario: Premessa. Parte prima 1. Il dialogo come collegamento cosmonautico tra diritto interno e diritto europeo - 2. L’ordinanza Cons. St., Sez. VI, 18 marzo 2021, n. 2327 - 3. I quesiti sottoposti alla Corte di Giustizia e la rilevanza delle questioni; Parte seconda - 4. C’è un giudice a Lussemburgo: il ruolo della Corte di Giustizia dell’UE - 5. Il rinvio pregiudiziale alla CGUE come strumento di verifica dei rapporti tra le giurisdizioni interne; 6. Il principio di autonomia procedurale e i suoi limiti - 7. I motivi inerenti alla giurisdizione al centro del dibattito - 8. Il ruolo riformatore del giudice nel dialogo con la Corte costituzionale e con la Corte europea - 9. L’ordinanza Sez. Un.,18 settembre 2020, n. 19598 - Parte terza - 10. Il compito della Corte di Giustizia: giudice d’interpretazione o d’impugnazione? - 11. Conclusioni (che auspicano una conclusione).
PREMESSA
L’ordinanza Cons. St., 18 marzo 2021, n. 2327 si inserisce, aggiungendovi un importante tassello, nel dibattito sui rapporti tra giudice nazionale e giudice europeo e sui rimedi esperibili contro le sentenze del giudice amministrativo di ultima istanza in contrasto con le decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea: dibattito di cui questa Rivista ha dato ampiamente conto, pubblicando diversi contributi sulla nota ordinanza n. 19598/2020 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (su cui v. infra).
PARTE PRIMA
1. IL DIALOGO COME COLLEGAMENTO COSMONAUTICO TRA DIRITTO INTERNO E DIRITTO EUROPEO
Nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo[1] Galileo Galilei opera una decisa confutazione del sistema geocentrico di stampo aristotelico-tolemaico per abbracciare una visione del cosmo di tipo copernicano. Per spiegare le sue teorie, tanto complesse quanto rivoluzionarie, e persuadere il lettore di questo nuovo modo di leggere la realtà, lo avverte di aver scelto il dialogo come forma di elaborazione e trasmissione del sapere.
Come suggerisce la sua etimologia[2], del resto, la forma dialogica, attraverso una serrata e continua interlocuzione, consente di scandagliare le varie posizioni, spesso contrapposte, per giungere auspicabilmente a un punto di sintesi finale.[3]
Il nostro ordinamento giuridico nell’ultimo ventennio ha assistito ad una vera e propria rivoluzione e il Sole attorno a cui ruotano gli altri pianeti (o, fuor di metafora, gli Stati membri) è con tutta evidenza l’ordinamento europeo.
Sarebbe infatti un’imperdonabile ingenuità ritenere che nell’epoca in cui viviamo la dimensione del giuridico si esaurisca all’interno dei confini nazionali e che non si stia assistendo, in un fertile spazio d’incontro, ad una rapidissima costruzione di un autentico diritto comune.[4]
Non è questa la sede per esaminare i significativi mutamenti che l’ordinamento dell’Unione Europea ha provocato e tuttora provoca nei singoli ordinamenti nazionali, ma quel che è certo è che tale sistema, giorno dopo giorno, si completa ed arricchisce per mezzo della fattiva interlocuzione tra giudici: nazionali ed europeo.
Oggi il dialogo giuridico è necessariamente tra i due massimi sistemi, ossia ordinamento interno ed europeo, ed è sicuramente agevolato da quello tra Corti europee e nazionali, all’insegna di una sempre maggiore cooperazione.[5] Ciò ha reso più frequenti le loro occasioni di confronto e ha portato proprio le magistrature superiori nazionali a ricorrere sempre più spesso alla CGUE[6], tanto da avventurarsi in una vera e propria “corsa al dialogo”, in parte dovuta all’obbligo per i giudici di ultima istanza di effettuare il rinvio pregiudiziale (v. art. 267, par. 3, TFUE, salvo alcune specifiche eventualità[7]), in parte dovuta all’auspicio che, in una rinnovata sistemazione delle fonti, l’autorevolezza di un plesso giurisdizionale “terzo” consenta di risolvere alcune questioni interne ancora insolute.[8]
2.- L’ORDINANZA CONS. STATO, SEZ. VI, 18 MARZO 2021, N. 2327
L’ordinanza in commento è tra le più emblematiche rappresentazioni di questo fenomeno.
La fattispecie oggetto dell’ordinanza riguarda, ancora una volta, l’annoso caso Avastin-Lucentis.[9]
Il fatto può sintetizzarsi così: l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dopo aver accertato un’intesa restrittiva della concorrenza conclusa in violazione dell’art. 101 TFUE tra alcune società operanti nel settore farmaceutico, vietava la prosecuzione delle condotte contestate e irrogava le conseguenti sanzioni amministrative pecuniarie.
Segnatamente, l’intesa avrebbe avuto l’obiettivo di ridurre la domanda, e quindi le quantità vendute, di un farmaco (Avastin) a favore di un altro più costoso (Lucentis) attraverso la diffusione di notizie tese a distorcere la percezione dei rischi dell’uso off label in ambito oftalmico del primo.
Avverso tale provvedimento le case farmaceutiche ricorrevano dinnanzi al giudice amministrativo il quale, dopo aver disposto la riunione dei ricorsi, li rigettava nel merito.[10]
Nel giudizio di appello il Consiglio di Stato sottoponeva alcune questioni pregiudiziali interpretative alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[11], e, dopo la risposta da parte di quest’ultima[12], respingeva gli appelli, confermando così la sentenza di primo grado e, per l’effetto, il provvedimento impugnato.[13]
Il caso torna sub iudice in quanto le originarie ricorrenti hanno chiesto la revocazione della sentenza di appello deducendo, sotto plurimi aspetti, un errore di fatto revocatorio ex artt. 106 c.p.a. e 395, comma 1, n. 4, c.p.c.. Tali profili però qui non interessano, essendo stati risolti dal Consiglio di Stato con sentenza non definitiva (che ha dichiarato l’inammissibilità dei motivi di revocazione dedotti).
Ciò che rileva, invece, è la circostanza che le parti - deducendo anche la violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia nel precedente giudizio[14] - hanno chiesto al Consiglio di Stato sia di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non prevede un’ipotesi di revocazione per il caso in cui la sentenza sia in contrasto con il diritto eurounitario, sia di sottoporre alla Corte di Giustizia, tramite rinvio pregiudiziale, la questione della compatibilità del nostro sistema processuale rispetto al diritto UE nella parte in cui non prevede un’ulteriore ipotesi di revocazione per il caso di violazione manifesta dei principi di diritto affermati dalla CGUE in sede di rinvio pregiudiziale, non consentendo così di prevenire la formazione di un giudicato contrastante con il diritto eurounitario.
Quest’ultima è la strada intrapresa dal Consiglio di Stato.
I giudici di Palazzo Spada, infatti - dopo aver richiamato il quadro normativo di riferimento (nazionale ed europeo), nonché l’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost. fornita dalla Corte costituzionale -, evidenziano che nel nostro ordinamento non sussiste uno strumento atto a verificare e garantire che una sentenza emessa da un organo giurisdizionale di ultimo grado non si ponga in contrasto con il diritto eurounitario e, nello specifico, con i principi enunciati dalla Corte di Giustizia.
Quanto appena affermato deve necessariamente porsi in relazione con la giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia sul parallelismo tra principio di autonomia procedurale e intangibilità del giudicato.
È stato infatti più volte ribadito dalla Corte che il diritto dell’Unione non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto.[15]
Il principio dell’intangibilità della res iudicata (che, notoriamente, facit de albo nigrum) è infatti riconosciuto come centrale sia nell’ordinamento giuridico eurounitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali.[16]
Al fine di garantire la certezza del diritto, la stabilità dei rapporti giuridici nonché una buona amministrazione della giustizia, tale principio postula necessariamente che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione.[17]
Proprio muovendo da tali considerazioni il Consiglio di Stato valorizza la circostanza che nel giudizio sottoposto al suo esame il giudicato non si sia ancora formato poiché non sono ancora decorsi i termini di impugnazione stabiliti dall’art. 92 c.p.a..
I tre quesiti interpretativi, difatti, vengono dichiaratamente proposti al fine di “scongiurare la formazione del giudicato, con il conseguente consolidamento della supposta violazione del diritto comunitario”.
Per non incorrere nel rischio che si consolidi una violazione del diritto eurounitario, ad avviso del Consiglio di Stato appare perciò preferibile incidere sulla decisione prima che la stessa passi in giudicato, piuttosto che ricorrere al rimedio successivo del risarcimento del danno.
3. I QUESITI SOTTOPOSTI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA E LA RILEVANZA DELLE QUESTIONI
Poste queste premesse, con il primo quesito il Consiglio di Stato chiede alla Corte di Giustizia se il giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, in un giudizio in cui la domanda della parte sia direttamene rivolta a far valere la violazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio al fine di ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, possa verificare la corretta applicazione nel caso concreto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nel medesimo giudizio, oppure se tale valutazione spetti alla Corte di Giustizia.
Con il secondo quesito il Consiglio di Stato chiede alla Corte se nella fattispecie concreta la sentenza impugnata per revocazione abbia violato i principi espressi a suo tempo dalla Corte di Giustizia nella sentenza emanata a seguito del primo rinvio pregiudiziale.
Infine, con il terzo quesito interpretativo si chiede al giudice europeo se gli articoli 4, paragrafo 3, 19, paragrafo 1, del TUE e 2, paragrafi 1 e 2, e 267 del TFUE, letti anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ostino ad un sistema come quello concernente gli articoli 106 del codice del processo amministrativo e 395 e 396 del codice di procedura civile, nella misura in cui non consente di usare il rimedio del ricorso per revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, ed in particolare con i principi di diritto affermati da quest’ultima in sede di rinvio pregiudiziale.
Chiarito l’intendimento del Consiglio di Stato, ci si deve tuttavia interrogare sulla rilevanza delle questioni interpretative rimesse alla Corte di Giustizia, nonché sull’opportunità del rinvio.
Com’è noto la questione oggetto del rinvio deve essere rilevante ai fini del decidere. In altre parole la risoluzione del dubbio prospettato deve essere decisiva nella soluzione del caso sub iudice.[18]
Tale precisazione non è da trascurare, specie nel caso al nostro esame.
Il Consiglio di Stato, infatti, se è pur vero che da un lato interpella il giudice europeo - così come suggerito dalle parti -, è però altresì vero che prende subito posizione sulla fondatezza dei sospetti avanzati.
Nell’ordinanza, infatti, si afferma expressis verbis che il Collegio dubita che le violazioni del diritto UE prospettate dalle parti effettivamente sussistano (“da cui l’ipotetica irrilevanza del quesito pregiudiziale proposto dalle società ricorrenti”), affermando altresì che la sentenza impugnata ha ben recepito il dictum della Corte di Giustizia.
Al più, continua l’ordinanza, potrebbe trattarsi di error in iudicando non relativo allo scorretto recepimento della regola di giudizio o dei principi giuridici applicabili in astratto (non essendo stato affermato dalla sentenza revocanda un principio di diritto contrario con gli stessi), bensì riferibile all’applicazione concreta dei principi espressi dalla Corte di Giustizia, a seguito dell’erronea valutazione e interpretazione dei fatti di causa e del materiale probatorio.
Quest’ultima attività però, secondo il Consiglio di Stato - essendo inerente all’esame della fattispecie concreta e non all’interpretazione della norma - è attività tipicamente demandata al giudice nazionale e, quand’anche erronea, non sarebbe idonea a dar luogo ad un orientamento giuridico contrastante con quanto affermato dalla Corte di Giustizia.
Una conferma di tale assunto la si troverebbe nella recente sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 2018 in cui è stato precisato che “nella fisiologica dinamica dei rapporti fra il Giudice della nomofilachia e quello del giudizio a quo, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto da parte del primo, spetterà a quest’ultimo l’attività di contestualizzazione della regula iuris in relazione alle peculiarità del caso concreto, dovendosi in via di principio escludere forme di sostanziale ibridazione fra l’enunciazione di un principio e la definizione di una vicenda puntuale”.[19] Il principio, riferito al rapporto tra giudici nazionali, secondo il Consiglio di Stato sarebbe replicabile anche nella prospettiva dei rapporti tra giudice nazionale e Corte di Giustizia.
Sebbene dunque sia lo stesso giudice remittente a dubitare della rilevanza delle questioni[20], il Collegio si interroga comunque se a sindacare la sussistenza di una violazione del diritto dell’Unione Europea debba essere il giudice nazionale o la Corte di Giustizia, quale unica istituzione competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale sulla validità e l’interpretazione del diritto dell’UE (nel cui novero rientrerebbero anche le pronunce della stessa Corte di Giustizia).
Un approfondimento di tali questioni richiede però preliminarmente che si svolga qualche breve riflessione sul ruolo che la Corte di Giustizia occupa nell’ordinamento eurounitario, nonché sul rinvio pregiudiziale, quale istituto centrale nel dialogo tra le Corti.
PARTE SECONDA
4. C’È UN GIUDICE A LUSSEMBURGO: IL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UE
Com’è noto, nel sistema giuridico europeo, la Corte di Giustizia è l’Istituzione titolata ad assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati al fine di garantirne l’uniforme applicazione da parte di tutti gli Stati membri, i quali, dal canto loro, stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione.[21]
Il suo ruolo è davvero un unicum nel panorama delle organizzazioni internazionali: essa, in particolare, oltre a ulteriori specifiche funzioni previste dai Trattati, ha il precipuo compito di pronunciarsi, in via principale sui ricorsi presentati da uno Stato membro, da un’Istituzione o da una persona fisica o giuridica, nonché, in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazionali, sull’interpretazione del diritto dell'Unione o sulla validità degli atti adottati dalle Istituzioni.[22]
Nei ricorsi diretti la Corte assume, mutatis mutandis, le vesti di giudice costituzionale e di giudice di ultima istanza, ma è in sede di rinvio pregiudiziale che può scorgersi la enorme potenzialità della funzione nomofilattica della Corte.[23
Come anche riconosciuto dalla Corte di Giustizia, le sue decisioni sono vincolanti per il giudice nazionale[24], il quale, ove non osservasse il principio di diritto enunciato dalla Corte, esporrebbe lo Stato membro all’apertura di una procedura di infrazione e a un ricorso per inadempimento a norma dell’art. 258 TFUE.[25]
Nel risolvere la questione al suo esame la Corte di Giustizia realizza una cooperazione virtuosa con i giudici nazionali, che, a loro volta, avendola investita della questione, diventano essi stessi sentinelle del diritto dell’Unione.[26]
La scelta se effettuare o meno il rinvio spetta infatti soltanto ai giudici nazionali che sono investiti della controversia. Essi devono assumersi la responsabilità della futura pronuncia e valutare, in riferimento alle particolarità di ciascuna causa, tanto la necessità di un rinvio pregiudiziale per poter emettere la loro sentenza, quanto la rilevanza delle questioni che essi sottopongono alla Corte.[27]
Tale circuito, per molti versi virtuoso, può tuttavia produrre delle notevoli distorsioni.
Come evidenziato da autorevole dottrina, lo spettro della responsabilità dello Stato-giudice per violazione del diritto UE può comportare alcune forme di abuso della richiesta di rinvio pregiudiziale ad opera delle parti, nonché un eccesso di scrupolo da parte dei giudici di ultima istanza, i quali di fronte alla minaccia della responsabilità potrebbero non trovare più adeguata rassicurazione nell’applicazione della teoria dell’acte clair introdotta a partire dalla sentenza Cilfit.[28]
5. IL RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CGUE COME STRUMENTO DI VERIFICA DEI RAPPORTI TRA LE GIURISDIZIONI INTERNE
Ma, come già si è avuto modo di accennare, vi è anche un’altra tendenza al rinvio pregiudiziale, più nebulosa, che negli ultimi mesi ha visto protagonisti la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato, che hanno deciso di effettuare due rinvii pregiudiziali interpretativi ex art. 267 TFUE per verificare la compatibilità del nostro sistema processuale rispetto al diritto eurounitario nei casi in cui non siano rinvenibili rimedi interni - diversi da quello risarcitorio - per far fronte all’inosservanza delle sentenze della CGUE.[29]
In realtà tale corsa-rincorsa al rinvio alla CGUE deve necessariamente essere letta insieme ad un altro fenomeno, di segno opposto al dialogo, che ultimamente ha coinvolto Corte di Cassazione, Corte costituzionale e Consiglio di Stato, ossia quella che è stata definita la “guerra tra Corti”[30]sull’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost. relativo al ricorso in cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per “motivi inerenti alla giurisdizione”.[31]
Il tema, che necessiterebbe un’autonoma trattazione[32], sarà qui affrontato limitatamente ad un suo specifico aspetto, ossia la tenuta dell’attuale assetto dei rapporti tra giurisdizioni di fronte all’applicazione del diritto dell’Unione.
6. IL PRINCIPIO DI AUTONOMIA PROCEDURALE E I SUOI LIMITI
Per affrontare più nel dettaglio quanto ora accennato, giova fare una rapida digressione sui limiti del principio di autonomia procedurale degli Stati membri.
Con riferimento al diritto processuale, a partire dal caso Rewe del 1976[33], la Corte di Giustizia, in mancanza di una specifica disciplina comunitaria volta ad armonizzare il diritto processuale nazionale, ha ripetutamente riconosciuto tale principio, in virtù del quale spetta ai singoli Stati membri il compito di predisporre gli strumenti processuali più idonei a garantire l’attuazione del diritto europeo nei settori di applicazione.[34]
Questa competenza procedurale degli Stati membri viene dunque intesa dal giudice europeo come autonomia nella previsione dei rimedi finalizzati a garantire l’effettività del diritto UE.[35]
Tale autonomia, tuttavia, non è considerata dalla Corte senza limiti, ma viene riconosciuta agli Stati a condizione che gli strumenti interni approntati non siano meno favorevoli rispetto a quelli relativi a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività).[36]
Come giustamente rilevato dalla dottrina più autorevole, la Corte si è riservata una sorta di droit de regard sugli ordinamenti nazionali, per verificare non tanto se essi garantiscano un livello minimo di protezione, bensì se le condizioni procedurali e sostanziali previste siano o meno conformi a parametri di adeguatezza ed effettività, che la Corte stessa desume dal corpus del diritto UE o dai principi generali.[37]
Si delinea così quello che è stato definito uno standard europeo di tutela giudiziaria, a cui i singoli ordinamenti devono cedere il passo, rafforzando le modalità di protezione, “anche a costo di modificare o introdurre norme e procedure ad hoc, nell’ordinamento giuridico nazionale”.[38]
7.- I MOTIVI INERENTI ALLA GIURISDIZIONE AL CENTRO DEL DIBATTITO
Delineata la cornice di riferimento, è il caso adesso di comprendere la ragione per cui i recenti movimenti tellurici tra le Corti abbiano come epicentro proprio l’applicazione del diritto sovranazionale.
Il tradizionale orientamento della Suprema Corte ha sempre escluso che la violazione del diritto dell’Unione Europea comporti un indebito straripamento del giudice amministrativo dalle sue attribuzioni. Si è osservato, infatti, che il primato del diritto eurounitario non è in grado di sovvertire gli assetti procedimentali degli ordinamenti nazionali.[39]
La querelle giurisprudenziale è infatti piuttosto recente. Essa ha inizio nel 2015 con la sentenza Cogeam (dal nome dell’impresa ricorrente), quando, pur senza smentire espressamente il consolidato indirizzo su cui si erano assestate e valorizzando le peculiarità del caso al loro esame, le Sezioni Unite, in considerazione della nozione elastica di giurisdizione, hanno affermato che rientra tra i motivi inerenti alla giurisdizione il caso, estremo, di radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, per come interpretate dalla Corte di Giustizia.[40]
In tale pronuncia si afferma che “la cassazione della sentenza impugnata risulta, allora, indispensabile per impedire, anche nell’interesse pubblico, che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi degli Stati membri deve conformarsi alla normativa comunitaria”.[41]
Tale orientamento è stato poi rafforzato dalla la celebre sentenza Mantovani (dal nome dell’impresa ricorrente) con cui le Sezioni Unite hanno cassato per diniego di giurisdizione una sentenza del Consiglio di Stato che aveva fatto applicazione di una regola processuale interna che, per come interpretata, si poneva in frontale contrasto con il diritto eurounitario alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia.[42]
Sulla base della specifica collocazione istituzionale della Corte di Giustizia nell’architettura europea, nonché in forza del principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello nazionale, le Sezioni Unite hanno affermato infatti che, nell’ambito di intervento del diritto eurounitario, costituiscono motivi di giurisdizione le ipotesi di scostamento dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di accesso alla tutela giurisdizionale, giacché in esse l’errore di interpretazione determina un radicale stravolgimento delle norme di rito ridondante in manifesto diniego di giurisdizione.[43]
Seppur tale approdo abbia introdotto un principio di sicura portata innovativa nei rapporti tra Cassazione e Consiglio di Stato, quanto appena affermato dalla Suprema Corte non ebbe in realtà il tempo di sedimentarsi a sufficienza a causa di una decisa battuta di arresto ad opera della Corte costituzionale.
Le Sezioni Unite, infatti, sulla linea tracciata dalle pronunce sopra ricordate, domandarono alla Corte Costituzionale se la loro recente interpretazione “evolutiva” e “dinamica” del concetto di giurisdizione consentisse altresì di assimilare la violazione del diritto convenzionale a quella del diritto eurounitario al fine di legittimare la ricorribilità in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione in caso di sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con le decisioni della Corte EDU.
Il Giudice delle leggi, però, nella ben nota sentenza n. 6 del 2018[44], ha posto un freno a tale accelerazione interpretativa, segnando una tappa fondamentale nel dibattito sui motivi inerenti alla giurisdizione e, attraverso ciò, sui rimedi esperibili in caso di violazione del diritto sovranazionale da parte del Consiglio di Stato.[45]
La risposta della Corte costituzionale ai quesiti sottoposti è stata decisamente opposta rispetto a quanto sostenuto in precedenza dalle Sezioni Unite, non lasciando margini di incertezza: l’interpretazione evolutiva finora avanzata e volta a far rientrare tra i motivi di ricorso in cassazione anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando, non soltanto “mette in discussione la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni”, ma non può neppure qualificarsi come “evolutiva”, proprio perché “non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale”.
Secondo Giudice delle leggi, peraltro - ed è questo il punto che qui più interessa - il sindacato della Corte di Cassazione “nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU”, perché ciò costituisce pur sempre un motivo di illegittimità, seppur particolarmente qualificata.
Chiarito ciò, la Corte costituzionale si mostra ben consapevole della sussistenza di un problema nel nostro sistema processuale, specie nel caso di sopravvenienza di una decisione delle Corti sovranazionali, ma esorta a trovare una soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con l’introduzione ad opera del Legislatore di un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., così come già auspicato nella sentenza n. 123 del 2017[46].
In quest’ultima pronuncia la Corte - investita della questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - ha posto all’attenzione del Legislatore l’invito della Corte EDU a introdurre strumenti processuali interni che consentano la riapertura del processo non penale, precisando infatti che, diversamente da quanto si impone nel processo penale[47], dalla lettura della giurisprudenza della Corte EDU, per gli Stati che non prevedono tale meccanismo, non emerge alcun obbligo di riaprire i processi civili o amministrativi, essendo rimessa alla loro discrezionalità la scelta del miglior rimedio per conformarsi alle pronunce della Corte di Strasburgo.[48]
8. IL RUOLO RIFORMATORE DEL GIUDICE NEL DIALOGO CON LA CORTE COSTITUZIONALE E CON LA CORTE EUROPEA
Le pronunce sopra ricordate non soltanto hanno rappresentato la cassa di riso
nanza di un dibattito già avviato da tempo, ma sono state anche un autentico tonico per una prolifica e vivacissima riflessione giuridica, che tutt’oggi perdura. Esse dunque non vanno lette isolatamente, ma in sinergia tra loro, in un contesto in cui l’una costituisce il terreno di coltura dell’altra.
Ormai, peraltro, è del tutto evidente che sia in corso un profondo ripensamento del nostro intero assetto processuale, a partire dal concetto stesso di potere giurisdizionale quale prerogativa dello Stato che promana dallo Stato. In tale epoca post-moderna- in cui il rigorismo delle fonti del diritto, per come delineato all’art. 1 delle Disposizioni preliminari al codice civile, appare a molti superato -l’opera del giudice sembra decisiva. [49]
In un contesto improntato al pluralismo giuridico il giudice non è più (solo) iudex sub lege, bensì rappresenta “il più autentico garante della crescita di un ordinamento giuridico, della sua perenne storicità e, pertanto, della sua salutare coerenza al divenire sociale”.[50]
In una combinazione di regimi giuridici diversi il ruolo del giudice muta. Un panorama normativo multilivello gli impone infatti di rendersi interprete di rinnovate esigenze attribuendogli nuovi compiti e responsabilità. Ciò inevitabilmente richiede un costante dialogo con altri giudici e Istituzioni.
L’esperienza insegna che il dialogo può svilupparsi sia in senso orizzontale, tra più giudici di un medesimo ordinamento giuridico (in tal caso l’interlocutore privilegiato, dato il suo ruolo, è la Corte costituzionale), sia in senso verticale (tra giudici nazionali e giudici sovranazionali, primi tra tutti Corte di Giustizia e Corte EDU).
Per tornare al nostro caso, dopo la sentenza n. 6 del 2018, si è registrato un pacifico recepimento da parte della Corte di Cassazione di quanto affermato dal Giudice costituzionale: le Sezioni Unite in plurime occasioni hanno infatti ritenuto recessivo l’orientamento di segno evolutivo dalle stesse avanzato con le sentenze Cogeam e Mantovani, riprendendo pertanto a negare che il loro intervento, in sede di controllo di giurisdizione, possa essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU e/o dall’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, trattandosi di motivi attinenti alla legittimità della decisione e, come tali, esulanti dalle questioni di giurisdizione.[51]
Com’è noto, però, il dibattito è stato riaperto, in termini peraltro assai più accesi, da una recente riconsiderazione critica da parte delle Sezioni Unite dei rimedi che l’ordinamento appresta per far fronte alle violazioni del diritto eurounitario da parte del giudice amministrativo.
La strada scelta dalle Sezioni Unite è ancora una volta quella del dialogo, ma stavolta si è cambiato interlocutore. Come si è già detto supra, vi è infatti una corsa, sempre maggiore, al dialogo con la Corte di Giustizia su questioni di diritto processuale interno.
Il diritto europeo, in altre parole, assume sempre più spesso il ruolo di metro di giudizio attraverso cui misurare l’effettività della tutela giurisdizionale garantita dal Legislatore nazionale.
Di tutto questo è urgente tener conto perché mai come oggi si è avvertito il bisogno di spostare in ambito sovranazionale la risoluzione di questioni pressoché interne, richiedendo al giudice europeo un compito che forse neppure gli è proprio, e che egli stesso in verità ha avuto cura di non assumere avendo ripetutamente riconosciuto il principio di autonomia processuale degli Stati membri.
9. L’ORDINANZA SEZ. UN.,18 SETTEMBRE 2020, N. 19598
Con l’ormai notissima ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione - tornando sull’annoso tema dei motivi inerenti alla giurisdizione di cui all’art. 111, comma 8, Cost. - hanno rimesso alla Corte di Giustizia dell’UE tre questioni pregiudiziali.[52]
Il caso all’attenzione della Corte di Cassazione interessava quella fecondissima fucina che è il contenzioso sugli appalti pubblici, che l’esperienza ha insegnato essere un prodigioso banco di prova del diritto nazionale e di quello eurounitario.
Anche in questo caso la decisione del Consiglio di Stato impugnata veniva contestata in quanto ritenuta in contrasto con i principi affermati dalla Corte di Giustizia, in particolare nelle sentenze Lombardi[53], Puligienica[54] e Fastweb[55].
Non è certamente questa la sede per scandagliare nel dettaglio la ricchissima intelaiatura di argomentazioni poste dall’ordinanza in questione[56]; ci soffermeremo pertanto su un punto specifico, ossia l’esigenza, manifestata dalle Sezioni Unite, di evitare la formazione di un giudicato amministrativo gravemente contrastante con il diritto eurounitario.
A tal proposito la Suprema Corte ravvisa nel ricorso per cassazione ex art. 111, comma 8, Cost. lo strumento più idoneo a scongiurare siffatto esito. Tale mezzo impugnatorio viene infatti descritto come “l’estremo rimedio apprestato dall’ordinamento nazionale per evitare la formazione di qualunque giudicato contrario al diritto dell’Unione”.
Le Sezioni Unite ampliano la riflessione che si imporrebbe nel caso concreto al loro esame per soffermarsi su alcuni profili centrali del nostro ordinamento processuale, ossia i rapporti tra le diverse giurisdizioni interne laddove venga in rilievo l’applicazione del diritto dell’Unione Europea.
La Corte di Cassazione, infatti, ben conscia dell’orientamento della Corte costituzionale di cui alla sentenza n. 6 del 2018, ne sospetta l’incompatibilità con il diritto UE sulla base di molteplici argomentazioni.
Essa muove dalla considerazione che “il giudice nazionale che faccia applicazione di normative nazionali (sostanziali o processuali) o di interpretazioni elaborate in ambito nazionale che risultino incompatibili con disposizioni del diritto dell'Unione applicabili nella controversia, come interpretate dalla Corte di giustizia (…) esercita un potere giurisdizionale di cui è radicalmente privo, ravvisandosi un caso tipico di difetto assoluto di giurisdizione - per avere compiuto un’attività di diretta produzione normativa non consentita nemmeno al legislatore nazionale - censurabile per cassazione con motivo inerente alla giurisdizione, a prescindere dall’essere la sentenza della Corte di giustizia precedente o successiva alla sentenza amministrativa impugnata nel giudizio di cassazione”.
Questa tesi, se portata alle sue estreme conseguenze, a rigor di logica, dovrebbe condurre alla conclusione per cui qualsiasi giudice nazionale (ordinario o amministrativo che sia) è radicalmente privo del potere giurisdizionale quando applica norme nazionali che risultino (ex ante, ma forse anche ex post, dato il richiamo alle sopravvenute sentenze della CGUE) contrarie al diritto europeo.
Seguendo tale impostazione, tanto affascinante quanto parossistica, sembrerebbe pertanto che il giudice nazionale, non soltanto sia vincolato all’osservanza e all’applicazione del diritto dell’Unione Europea, ma, nei campi regolati da tale diritto, questo costituisca il presupposto della giurisdizione, la quale verrebbe meno nel momento in cui si effettuino interpretazioni della normativa interna contrastanti con esso.
Quanto testé tratteggiato si spiegherebbe, ad avviso della Suprema Corte, giacché, contrariamente a quanto avviene con la sentenza affetta da semplice violazione di legge nelle fattispecie regolate dal diritto nazionale - ove la erronea interpretazione o applicazione della legge è, tranne in casi eccezionali, pur sempre riferibile a un organo giurisdizionale che è emanazione della sovranità dello Stato -, “nelle controversie disciplinate dal diritto dell’Unione lo Stato ha rinunciato all’esercizio della sovranità, la quale è esercitata dall’Unione tramite i giudici nazionali, il cui potere giurisdizionale esiste esclusivamente in funzione dell’applicazione del diritto dell'Unione”.
Tale passaggio, che sembra far discendere dalla violazione del diritto eurounitario una lesione della sovranità europea, è stato oggetto di puntuali critiche da parte della dottrina, la quale si è anche interrogata sia sulle ragioni per cui debba gravare sulla Corte di Cassazione il compito di “garante naturale della sovranità europea”, sia sull’adeguatezza a tali fini dello strumento del ricorso ex art. 111, comma 8, Cost..[57]
La risposta che la Cassazione fornisce a tali interrogativi è lineare: scongiurare il consolidamento di una violazione del diritto eurounitario, prima che la decisione del Consiglio di Stato passi in giudicato.
Che tale problema esista, - specie in caso di sopravvenienza delle decisioni delle Corti sovranazionali -, è stato perfino attestato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018, la quale, come già si è avuto modo di accennare, affermando che la soluzione vada ricercata all’interno di ciascuna giurisdizione, ha esortato il Legislatore a introdurre un nuovo caso di revocazione nell’art. 395 c.p.c..
Due punti meritano però di essere sottolineati.
La Corte di Cassazione, registrando allo stato attuale l’insussistenza di un utile rimedio revocatorio per scongiurare le violazioni del diritto dell’Unione addebitabili agli organi giurisdizionali, giunge alla conclusione che il ricorso per cassazione costituisca l’unico possibile rimedio avverso le sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con la giurisprudenza - antecedente o sopravvenuta - della Corte di Giustizia.
Ma vi è di più. Secondo le Sezioni Unite, quand’anche si introducesse un nuovo caso di revocazione per far fronte alle violazioni del diritto UE[58], tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell’istituto, specialmente laddove le sentenze delle Corti sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. Concludendo, esse dubitano anche che lo strumento revocatorio sia idoneo a paralizzare l’ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emanata in sede di revocazione possa potenzialmente violare i limiti della giurisdizione.
PARTE TERZA
10.- IL COMPITO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: GIUDICE D’INTERPRETAZIONE O D’IMPUGNAZIONE?
Come si è avuto modo di illustrare, la Corte di Giustizia è chiamata a svolgere un ruolo determinante che suscita vivo interesse tra gli studiosi poiché, trascendendo il caso specifico al suo esame, può ricucire uno strappo attualmente presente nel nostro ordinamento processuale.
È evidente infatti che il rinvio effettuato dall’ordinanza del Consiglio di Stato in commento è speculare a quello recentemente operato dalle Sezioni Unite: in entrambi i casi il giudice europeo, attraverso l’utilizzo di uno strumento tipico (i.e. il rinvio pregiudiziale), è chiamato a svolgere un compito atipico, tanto inusuale quanto delicato.
A questo proposito sorge una domanda: a seguito di un rinvio pregiudiziale interpretativo, la Corte di Giustizia può dismettere le vesti dell’interprete per assumere il compito di giudice dell’impugnazione?
Dal tenore dell’ordinanza di rinvio emerge che il Consiglio di Stato sia ben consapevole che, per giurisprudenza consolidata, la Corte di Giustizia non sia competente a decidere lo specifico caso da cui origina il rinvio: spetta unicamente al giudice nazionale esaminare e valutare i fatti del procedimento principale nonché determinare l’esatta portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative applicabili.[59]
Ciononostante, secondo il giudice amministrativo di ultima istanza, visto che il ricorso per revocazione proposto dalle ricorrenti, nella sua fase rescindente, si fonda soltanto sulla pretesa violazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nel precedente giudizio, allora “anche le circostanze di fatto e i relativi elementi di prova, che in base alla giurisprudenza già citata dovrebbero essere di esclusiva valutazione del giudice nazionale, vengono a costituire – nella loro prospettata errata o mancata valutazione da parte del giudicante – gli specifici parametri alla stregua dei quali verificare la sussistenza o meno della dedotta violazione dei principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia”.
Siffatta affermazione appare tuttavia poco persuasiva, almeno per due ragioni.
Innanzitutto, se spettasse alla Corte di Giustizia verificare la corretta applicazione nel giudizio a quodei principi espressi in sede di rinvio pregiudiziale è ovvio che tale attività imporrebbe necessariamente un esame della fattispecie concreta (attività che la Corte tende ad escludere).
Ma, soprattutto, si snaturerebbe lo strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo.
In realtà, in via di principio, il quadro normativo di riferimento astrattamente consentirebbe pure di adire una seconda volta la Corte.
Stando all’art. 104 del Regolamento di procedura della Corte di Giustizia, riguardante l’interpretazione delle pronunce della Corte, in caso di rinvio pregiudiziale spetta ai giudici nazionali valutare se essi abbiano ricevuto sufficienti chiarimenti mediante una pronuncia pregiudiziale, o se appaia necessario adire nuovamente la Corte.
Ma tale nuovo rinvio, se si guarda alla norma, dovrebbe riguardare la sufficienza dei chiarimenti e non la loro correttezza applicazione.
Se così non fosse, all’intervento della Corte di Giustizia “a monte”, sulla corretta interpretazione delle norme eurounitarie, si sommerebbe pertanto una sua intromissione “a valle” avente come obiettivo il controllo sull’operato dei giudici nazionali.
Si tratterebbe allora di un malcelato, e finora sconosciuto, strumento impugnatorio, la cui non attivazione peraltro esporrebbe a responsabilità lo Stato membro, con tutte le conseguenze immaginabili in tema di dilatazione dei tempi processuali e di sovraccarico del ruolo della Corte.
Le suddette conclusioni appaiono smentite anche dalle Raccomandazioni relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale[60], in cui si afferma espressamente che “La domanda di pronuncia pregiudiziale deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nell’ambito del procedimento principale”.
Se dunque appare difficile che la Corte accolga la prima questione (e, per l’effetto, la seconda), giova allora domandarsi quale strumento le parti avrebbero a disposizione a fronte di un erroneo recepimento nel caso concreto dei principi affermati dalla Corte di Giustizia da parte dei giudici di ultima istanza.
A tal fine occorre soffermarsi sul terzo quesito (il quale non è posto in subordine rispetto ai precedenti, e quindi autonomamente analizzabile), ossia se sia incompatibile con il diritto UE la mancata previsione di un’apposita ipotesi di revocazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con sentenze della Corte di Giustizia, “e in particolare con i principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale”.
Il quesito si presta a due possibili interpretazioni letterali, giacché il significato da attribuirsi alla locuzione “in particolare” potrebbe essere sia quello di ulteriore precisazione volta a delimitare il perimetro entro cui va letta la parte che precede (quindi come equivalente di “più specificamente”); sia quello di aggiunta tesa solamente a focalizzare l’attenzione (quindi come sinonimo di “soprattutto”, “prima di ogni altra cosa”). Quest’ultimo significato consentirebbe di ricomprendere nel quesito anche le ipotesi di contrasto di una sentenza del Consiglio di Stato con sentenze sopravvenute della Corte di Giustizia.
Tuttavia, attraverso un argomento teleologico, che tenga dunque conto della finalità che ha la rimessione alla Corte di Giustizia, deve preferirsi un’interpretazione che non trascenda dal caso concreto e che quindi sia ossequiosa del principio della rilevanza.
È evidente, pertanto, che deve essere preferito il primo dei due significati prospettati, ritenendo così il quesito circoscritto all’assenza di ipotesi di revocazione dirette a verificare la corretta applicazione dei principi espressi dalla Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale nella “medesima” controversia.
Se però il principio di rilevanza impone la formulazione di una domanda così circoscritta, ciò comunque non dovrebbe indurre a escludere che la Corte di Giustizia, nell’illustrare la sua risposta, possa comunque svolgere alcune argomentazioni sistematiche volte a chiarire in che rapporto il principio di autonomia procedurale si pone rispetto all’attuale sistema processuale italiano per il caso di decisioni del giudice amministrativo di ultima istanza, non ancora passate in giudicato, che violino il diritto europeo.
11. CONCLUSIONI (CHE AUSPICANO UNA CONCLUSIONE)
L’occasione è d’oro, poiché pendono dinnanzi alla Corte di Giustizia due rinvii - quello operato dalla Corte di Cassazione e quello effettuato dal Consiglio di Stato - nella sostanza convergenti, perché diretti a scongiurare il consolidamento di violazioni del diritto europeo che ben potrebbero essere corrette tramite rimedi interni (siano essi il ricorso in cassazione o un nuovo caso di revocazione), allo stato però inattivabili, vuoi per una solida e resistente interpretazione della norma costituzionale, vuoi per la mancanza di una disposizione legislativa al riguardo.
Semplificando: con il primo rinvio, la Corte di Cassazione chiede alla Corte di Giustizia se il ricorso per motivi di giurisdizione possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che seguano interpretazioni incompatibili con le sentenze della Corte di Giustizia nei settori disciplinati dal diritto UE; con il secondo, quello del Consiglio di Stato, invece si domanda alla Corte di Giustizia se un tale rimedio non possa essere invece la revocazione.
La Corte di Giustizia è dunque stata chiamata a dipanare un intricatissimo nodo problematico, forse non solo interpretativo, che investe incisivamente l’assetto costituzionale delle giurisdizioni.
Essa, dunque, assume di fatto il ruolo di arbitro di una contesa che trascende le singole tematiche e concerne invece gangli ben più profondi del nostro ordinamento: il rapporto tra le giurisdizioni, e quindi il ruolo ordinamentale della Corte di Cassazione.
Ad avviso di chi scrive la Corte di Giustizia, pur senza abdicare al ruolo cui è chiamata, non potrà né dovrà scegliere essa stessa quale dei due rimedi processuali sia più adatto ad assicurare l’osservanza del diritto UE, compito questo inequivocabilmente spettante agli Stati membri.
Ciò, in verità, sarebbe astrattamente possibile ove - come paventato dalla Corte di Cassazione con dovizia di argomenti - risultasse con riferimento a uno specifico rimedio violato il principio di equivalenza
Nel ritenere violato il principio di equivalenza (specie nel caso in cui non si consenta il ricorso in cassazione per denunciare l’eccesso di potere del giudice amministrativo che travalichi la sfera di competenza del Legislatore europeo) ci si scontrerebbe però con la considerazione, prontamente avanzata in dottrina, secondo cui è la stessa giurisprudenza della Sezioni Unite a ritenere più teorica che effettiva l’ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale rispetto al Legislatore nazionale[61], avendo così “dequotato” il diniego di giustizia a mero errore interpretativo, “avvertendo poi l’esigenza di ricorrere al radicale stravolgimento delle regole UE per giustificarne la sindacabilità, così, in buona sostanza, teorizzandone il confinamento a tale ipotesi (così peraltro indebolendo, se non radicalmente svilendo, il richiamo all’equivalenza)”. [62]
Tra i limiti al principio di autonomia procedurale quello più pregnante potrebbe invece essere il principio di effettività, che si assumerebbe leso se il nostro ordinamento non offrisse un rimedio utile per far fronte all’inosservanza della giurisprudenza della Corte di Giustizia (anche sopravvenuta nell’intervallo temporale precedente al giudicato). Tale dubbio appare più consistente del primo, e sembra peraltro condiviso - seppur da diversi punti di osservazione - tanto dalla Suprema Corte quanto dal Consiglio di Stato.
Sicché, è proprio muovendo dall’esigenza di garantire il principio di effettività che la Corte di Giustizia - come peraltro già fatto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 - potrà prendere atto dell’esistenza di un vuoto di tutela incompatibile con l’ordinamento eurounitario, rimettendo però al singolo Stato membro la scelta dello strumento utile ad evitare, prima della formazione del giudicato, che si consolidino interpretazioni contrarie al diritto eurounitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia.
A tal punto, a seguito di una siffatta risposta, esaustiva ma rispettosa delle competenze statali in materia, la logica conseguenza per evitare di esporre lo Stato italiano ad una procedura di infrazione sarebbe quella di investire della questione nuovamente la Corte costituzionale, che valuterà se cambiare l’orientamento manifestato con la sentenza n. 6 del 2018 (consentendo così il ricorso per cassazione anche nei casi di violazione da parte del Consiglio di Stato delle sentenze della Corte di Giustizia) o se svilupparlo ulteriormente dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 395 c.p.c. nella parte in cui non consente di ricorrere al rimedio del ricorso per revocazione al fine di impugnare sentenze del Consiglio di Stato confliggenti con le sentenze della Corte di Giustizia.
Se è pur vero che il giudice nazionale, per garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, può disapplicare (rectius non applicare) le disposizioni nazionali contrastanti, senza dover necessariamente attendere un intervento del Legislatore o una declaratoria di incostituzionalità, nel nostro caso l’interlocuzione con la Corte costituzionale sarebbe certamente opportuna (forse dovrebbe essere indicata come strada dalla stessa Corte di Giustizia), ripristinando così virtuosamente il dialogo interno tra le nostre Corti.
Ma vi sono altre ragioni che inducono ad auspicare un intervento della Corte costituzionale.
In entrambi i casi prospettati, infatti, non si tratterebbe “semplicemente” di disapplicare una disposizione nazionale contrastante con il diritto UE.
In un caso si tratterebbe di disapplicare una disposizione costituzionale o, per meglio dire, l’interpretazione che ne fornisce la Corte costituzionale (che è l’interprete naturale del dettato costituzionale) senza però investirla della questione.
Nel secondo caso, ove si propendesse per lo strumento revocatorio, è pacifico che solamente la Corte costituzionale potrebbe introdurre una nuova ipotesi di revocazione. Diversamente, il giudice a quodovrebbe operare una sorta di disapplicazione additiva, senza peraltro che da essa possano scaturire effetti erga omnes.
In ambedue le ipotesi l’ordinamento non se ne gioverebbe.
***
[1] G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Firenze, 1632.
[2] L’origine del lemma è dato dall’unione di logos (cioè “discorso”) e dia (ossia “fra”): starebbe a significare pertanto “discorso tra” (individui).
[3] L’aspetto teleologico del dialogo, finalizzato ad un’intesa, è proprio connaturato nella stessa definizione della parola. Si v. a tal proposito www.garzantilinguistica.it che definisce il dialogo come “colloquio, comunicazione costante tra persone o tra gruppi che favorisce la comprensione reciproca e permette di eliminare o ridurre i conflitti”.
[4] Sul tema gli studi sono molti, per un’analisi del fenomeno da una prospettiva storica si rinvia in particolare a A. Padoa Schioppa, Il diritto comune in Europa: riflessioni sul declino e sulla rinascita di un modello, in Foro it.,1996, V, 14; Id., Storia del diritto in Europa. Dal Medioevo all’età contemporanea, Bologna, 2007; Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, 2003. Si v. anche L. Lacchè, Europa una et diversa. A proposito di ius commune europaeum e tradizioni costituzionali comuni, in Forum historiae iuris, 2003; P. G. Monateri, T. Giaro, A. Somma, Le radici comuni del diritto europeo, 2005.
[5] Sul dialogo tra le Corti e sugli apporti delle Corti nella dimensione europea v. M. Cartabia, «Taking Dialogue Seriously» The Renewed Need for a Judicial Dialogue at the Time of Constitutional Activism in the European Union, in www.jeanmonnetprogram.org, 2007; S. Cassese, La funzione costituzionale dei giudici non statali. Dallo spazio giuridico globale all’ordine giuridico globale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 3, 609 ss.; F. Fontanelli e G. Martinico, Alla ricerca della coerenza: le tecniche del « dialogo nascosto » fra i giudici nell’ordinamento costituzionale multlivello, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 2, 351 ss..; A. Sandulli, La Corte di giustizia europea e il dialogo competitivo tra le Corti, in Aa. Vv., Il diritto amministrativo oltre i confini, Milano, 2008..
Con specifico riferimento, invece, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, l’intensificarsi del dialogo è testimoniato dai Protocolli d’intesa tra la Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato siglati a Roma nel 2017 e seguiti da un Convegno dall’evocativo titolo “Il dialogo tra le Corti e l'attuazione del diritto convenzionale nell’ordinamento interno”. Gli atti del convegno sono rinvenibili in www. giustizia-amministrativa.it.
[6] Con particolare attenzione al tema del rinvio pregiudiziale v. M. P. Chiti, Il rinvio pregiudiziale e l’intreccio tra diritto processuale nazionale ed Europeo: come custodire i custodi dagli abusi del diritto di difesa?, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2012, 745 ss.; R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, disponibile in www.cortedicassazione.it; A. Ruggeri, Il rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione: risorsa o problema? (Nota minima su una questione controversa), in Diritti comparati, 2011; S. Spuntarelli, Il ruolo del rinvio pregiudiziale alla CGUE nella giurisdizione amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 3, 985 ss.; G. Vitale, La logica del rinvio pregiudiziale tra obbligo di rinvio per il giudice di ultima istanza e responsabilità, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2013, 1, 59 ss..
[7] In base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia il giudice nazionale può astenersi dall’effettuare il rinvio nel caso in cui la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, esaminata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale (acte éclairé); oppure nel caso in cui la giurisprudenza costante della Corte, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, abbia risolto il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere (acte clair). Si v. CGUE, 27 marzo 1963, cause riunite C-28/62, C- 29/62 e C-30/62, Da Costa; e CGUE, 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit, punto 14.
[8] Appare notevolmente mutato lo scenario che si profilava non molti anni fa e ben evidenziato da M. Cartabia, La Corte costituzionale italiana e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, in N. Zanon (a cura di), Le corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, 127, ad avviso della quale “i dati che emergono dai rapporti annuali della Corte di giustizia rivelano come le Corti supreme siano assai pigre nell’investire la Corte di giustizia, dimostrando così che quello che in base alla formulazione letterale del trattato dovrebbe costituire un obbligo, in realtà viene generalmente interpretato come opportunità da utilizzare all’occorrenza”.
Peraltro, stando alle statistiche riportate nelle Relazioni annuali della Corte di Giustizia (disponibili fino al 2018 e rinvenibili nel sito https://curia.europa.eu/), l’Italia è seconda solamente alla Germania per numero di rinvii pregiudiziali: sessantotto nel 2018, cinquantasette nel 2017, sessantadue nel 2016, quarantasette nel 2015.
[9] Per un approfondimento si rinvia a L. Arnaudo e R. Pardolesi, La saga Avastin/Lucentis: ultima stagione, in Foro it., 2019, III, 533; S. Gorza, Il caso Avastin/Lucentis tra contraddizioni ed omissioni, in Dir. ind., 2020, 1, 30 ss.; B. Bertan, L'ordinanza di rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato nel caso I760, Roche/Novartis - farmaci Avastin-Lucentis: la valutazione concorrenziale degli accordi di licenza e l'uso off label del farmaco nella definizione di mercato rilevante, in Riv. dir. industr., 2017, 3, 402 ss.; e M. Colangelo, Il caso Avastin-Lucentis: violazione antitrust o regulatory failure?, in Riv. dir. industr., 2016, 2, 218 ss..
[10] TAR Lazio, 2 dicembre 2014, n. 12168.
[11] Cons. St., Sez. VI, 11 marzo 2016, n. 966.
[12] CGUE, 23 gennaio 2018, C‑179/16, Hoffmann-La Roche e altri.
[13] Cons. St., Sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990.
[14] Sul punto v. G. Tesauro, Sui vincoli (talvolta ignorati) del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale: una riflessione sul caso Avastin/Lucentis e non solo, in federalismi.it, 2020, secondo cui il Consiglio di Stato non ha dato seguito agli accertamenti richiesti dalla Corte di Giustizia ed ha deciso direttamente con affermazioni in contrasto con la risposta chiesta e ottenuta da Lussemburgo.
[15] CGUE, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub, punto 20; e CGUE, 16 marzo 2006, C‑234/04, Kapferer, punto 21. Cfr. anche, CGUE, 1 giugno 1999, C-126/97, Eco Swiss, punti 46 s..
[16] Solo in casi particolarissimi il principio dell’autorità della cosa giudicata è stato messo in discussione dalla Corte. Si tratta ad es. del celebre caso Lucchini (CGUE, 18 luglio 2007, C‑119/05) che però riguardava una situazione del tutto peculiare in merito alla ripartizione delle competenze tra Stati membri ed Unione in materia di aiuti di Stato; e del già citato caso Olimpiclub nella parte riguardante il valore del c.d. giudicato esterno.
[17] CGUE, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub, punto 22; Cfr. anche CGUE, sentenza 30 settembre 2003, C‑224/01, Köbler, punto 38; e CGUE, 16 marzo 2006, C‑234/04, Kapferer, punto 20.
[18] Cfr. CGUE, 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit, punto 10, in cui si afferma che la questione non è pertinente “nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della lite”.
[19] Cons. St., Ad. plen., 23 febbraio 2018, n. 2.
[20] Nell’ordinanza lo si afferma diffusamente in termini chiarissimi. Si v. ad esempio il punto 9 in cui si sostiene “Alla luce delle considerazioni che precedono, dovendosi escludere la sussistenza di una violazione, sia dal punto di vista della sua configurazione astratta che da quello fattuale, del diritto dell’Unione europea e dei principi affermati dalla sentenza della Corte di Giustizia del 23 gennaio 2018, è opinione del Collegio che non sussista il requisito della rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dalle parti”.
[21] Art. 19, par. 1, TUE. Per ulteriori approfondimenti in dottrina sul ruolo della Corte, tra i tantissimi, v. G. Tesauro, Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di giustizia nell’evoluzione dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2013, 3, 483 ss.; nonché il fondamentale contributo di A. Tizzano, La Corte di giustizia delle Comunità europee, Napoli, 1967.
[22] Art. 19, par. 3, TUE. Per un quadro generale del rinvio pregiudiziale si rinvia alla recente opera monografica di C. Iannone e F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020. Si v. anche G. Martinico, Le sentenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunità europee come forme di produzione normativa, in Riv. dir. cost., 2004, 249 ss.; e D. U. Galetta, Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE ed obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale: una rilettura nell’ottica del rapporto di cooperazione (leale) fra giudici, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2012, 2.
[23] Così M. Condinanzi, Innovazione e continuità alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in C. Amalfitano e M. Condinanzi (a cura di), La Corte di Giustizia dell'unione europea oltre i trattati: la riforma organizzativa e processuale del triennio 2012-2015, 15.
[24] Chiara in tal senso è CGUE, 5 ottobre 2010, C-173/09, Elchinov, secondo cui “la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell’Unione in questione, per la definizione della lite principale (…). Da queste riflessioni discende che il giudice nazionale, che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE, è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione”.
[25] Sulla responsabilità dello Stato membro per inosservanza degli obblighi comunitari v. CGUE, 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler; e CGUE, 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo.
[26] Cfr. E. D’Alessandro, Il procedimento pregiudiziale interpretativo dinanzi alla Corte di Giustizia, Torino, 2012; G. Raiti, La collaborazione giudiziaria nell’esperienza del rinvio pregiudiziale comunitario, Milano, 2003. Sui temi in argomento si v. anche R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia insieme, 4 marzo 2021, che interrogandosi sul dialogo pregiudiziale tra Corte di Cassazione e Corte di Giustizia dell’UE, afferma che “la richiesta di rinvio crea un percorso virtuoso di avvicinamento del diritto comunitario a quelle tradizioni culturali comuni che costituiscono, come è noto, una delle basi fondamentali dei principi generali dell’ordinamento comunitario coniati, ancora una volta, dalla Corte di Giustizia”.
[27] Tra le molte pronunce si v. CGUE, 18 giugno 1991, causa C-369/89, Piageme e a., punto 10; CGUE, 15 giugno 1995, procedimenti riuniti C-422/93, C-423/93 e C-424/93, Teresa Zabala Erasun e Instituto Nacional de Empleo, punto 14.
[28] M. A. Sandulli, Riflessioni sulla responsabilità civile degli organi giurisdizionali, in federalismi.it, 2012. Si v. anche A. Barone, Nomofilachia, corti sovranazionali e sicurezza giuridica, Dir. proc. amm., 2020, 3, 557 ss..
[29] Sul nuovo volto del rinvio pregiudiziale, specie con riferimento alla giustizia amministrativa, degno di interesse è il recente contributo di S. Foà, Giustizia amministrativa e rinvio pregiudiziale alla CGUE: da strumento “difensivo” a mezzo per ridiscutere il sistema costituzionale, in federalismi.it, 2021.
[30] L’espressione è di R. Bin, È scoppiata la terza “guerra tra le Corti”? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in federalismi.it, 2020. Si v. anche M. Clarich, Giurisdizione: partita a poker tra Cassazione e Consulta sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Norme e Tributi, Il sole 24ore, 14 ottobre 2020.
[31] L’art. 111, comma 8, Cost. statuisce infatti che “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
[32] La letteratura sul tema è copiosa, si rinvia pertanto ex multis agli ottimi lavori di A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018; A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubbl., 2013, 1, 341 ss.; F. Francario, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2017; C. E. Gallo, L’impugnazione in cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in Dir. e proc. amm., 2013, 2-3; Id., Il controllo della Corte di Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, ora in F. Francario e M. A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018; M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012; A. Panzarola, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 1; P. Patrito, I «motivi inerenti alla giurisdizione» nell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Napoli, 2016; A. Police e F. Chirico, «I soli motivi inerenti la giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il Processo, 2019, 1, 113 ss.; M. A. Sandulli, A proposito del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, in F. Francario e M. A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018; M. A. Sandulli, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. «pregiudiziale» amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., sez. un., nn. 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Riv. giur. edilizia, 2006, 1; A. Travi, Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in www.giustamm.it, 2017; R. Villata, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., 2015, 632 ss..
[33] CGUE, 16 dicembre 1976, C-33/76, Rewe, in cui si afferma “In mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro il designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta, modalità che non possono, beninteso, essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale”.
[34] Con particolare riguardo al principio di autonomia procedurale si v. D. U. Galetta, La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea, in Ius publicum, 2011; Ead., L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, Torino, 2009 ; M. Gnes, Verso la «comunitarizzazione» del diritto processuale nazionale, in Giorn. dir. amm., 2001, 5, 524 ss.
[35] D. U. Galetta, La giurisprudenza della Corte di giustizia, cit..
[36] CGUE, 17 marzo 2016, C-161/15, Bensada Benallal, punto 24; CGUE, 21 gennaio 2016, C-74/14, Eturas, punto 32.
[37] R. Adam e A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione Europea, Torino, 2017, 357.
[38] R. Adam e A. Tizzano, cit., 357.
[39] Così Cass., Sez. Un. 1 marzo 2012, n. 3236.
[40] Cass., Sez. Un., 6 febbraio 2015, n. 2242, in Foro it., 2016, I, 327, che riguardava un caso peculiare in quanto, prima che la sentenza del Consiglio di Stato passasse in giudicato (perché impugnata per motivi inerenti alla giurisdizione innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) era sopravvenuta l’interpretazione della Corte di Giustizia, sollecitata, in un caso analogo da altro giudice.
[41] Muovendo da tali decisive considerazioni le Sezioni Unite enunciano tale principio di diritto “In tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l’art. 111, ultimo comma, Cost. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea, neppure sotto il profilo dell’osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, 3° comma, Tfue. Tuttavia, è affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo va cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è riscontrata essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso affermato con l’interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.
[42] Cass., Sez. Un., 29 dicembre 2017, n. 31226, in Foro it., 2018, I, 1721, con nota di G. Sigismondi, Questioni di giurisdizione in senso dinamico e nuovi limiti all'impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato con ricorso per cassazione: una via percorribile?.
[43] Sul diniego di giurisdizione, tra tutti, v. F. Francario, Diniego di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Roma, 2019.
[44] Corte Cost., 18 gennaio 2018, n. 6, in Foro it., 2018, I, 373.
[45] Per i commenti alla sentenza si v. F. Francario, Diniego di giurisdizione, cit.; A. Police e F. Chirico, «I soli motivi inerenti la giurisdizione», cit.; G. Sigismondi, Questioni di legittimità costituzionale per contrasto con le sentenze della Corte EDU e ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione contro le sentenze dei giudici speciali: la Corte costituzionale pone altri punti fermi, in Giur. cost., 2018, 1, 122 ss.; P. Tomaiuoli, L’”altolà” della Corte Costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in www.giurcost.org, 2018.; A. Travi, Un intervento della Corte costituzionale sulla concezione ‘funzionale’ delle questioni di giurisdizione accolta dalla Corte di cassazione, in Dir. proc. amm., 2018, 3, 111 ss..
[46] Corte Cost., 26 maggio 2017, n. 123.
[47] Com’è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza 7 aprile 2011, n. 113, ha riconosciuto l’esistenza dell’obbligo convenzionale di riapertura del processo penale allorquando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza della Corte EDU, e conseguentemente ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede una specifica ipotesi di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna.
[48] Per un’esaustiva analisi si v. C. Contessa, Giudicato amministrativo e vincoli CEDU, in Il libro dell'anno del diritto 2018, Roma, 2018; F. Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza, in federalismi.it, 2017.; Id., Giudicato e revocazione, in Il libro dell'anno del diritto 2018, Roma, 2018; C. Nardocci, Esecuzione delle sentenze CEDU e intangibilità del giudicato civile e amministrativo. L’orientamento della Corte costituzionale, in federalismi.it, 2018; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, in Dir. proc. amm., 2018, 2, 646 ss.; A. Randazzo, A proposito della sorte del giudicato amministrativo contrario a pronunzie della Corte di Strasburgo (note minime alla sent. n. 123 del 2017 della Corte costituzionale), in Consulta online, 2017, 460 ss.; I. Rossetti, Stabilità giuridica contro revocazione: la Corte costituzionale chiude la partita, in Dir. proc. amm., 2018, 665 ss.; A. Travi, Pronunce della Corte di Strasburgo e revocazione delle sentenze: un punto fermo della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2017, 1246.
[49] Sul tema non può non farsi riferimento alle riflessioni di P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2007, III ed.; Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015; Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017; Id., Oltre la legalità, Roma-Bari, 2020. Per gli aspetti critici v. M. A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 e ss.
[50] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., 129.
[51] Si v. Cass., Sez. Un., 15 aprile 2020, n. 7839, che ha riconosciuto natura vincolante all’interpretazione fornita dalla sentenza della Corte costituzionale “in quanto dispiegata su una pura sostanza costituzionale”. Cfr., ex multis, anche Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 20 marzo 2019, n. 7926; Cass., Sez. Un., 6 marzo 2020, n. 6460; Cass., Sez. Un., 21 agosto 2020, n. 17578.
[52] Per una breve illustrazione dell’ordinanza si permetta il rinvio a R. Pappalardo, Sul ricorso in cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato per violazione del diritto europeo: le Sezioni Unite rimettono la questione alla Corte di Giustizia, in Foro amm., Osservatorio sulla Giustizia Amministrativa diretto da M. Lipari e M. A. Sandulli.
[53] CGUE, 5 settembre 2019, C-333/18.
[54] CGUE 5 aprile 2016, C-689/13.
[55] CGUE, 4 luglio 2013, C-100/12.
[56] Per tali aspetti, nonché per un approfondito esame delle questioni sottese si rinvia a A. Carratta G. Costantino e G. Ruffini, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, 19 ottobre 2020; S. Barbareschi e A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di cassazione “fuori contesto”: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU., 18 settembre 2020, n. 19598?, in federalismi.it, 2020; F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustizia insieme, 11 novembre 2020; G. Greco, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione tra l’art. 111, co. 8, della Costituzione e il diritto dell’Unione europea: la parola alla Corte di Giustizia, in Giustizia insieme, 11 dicembre 2020; Id., L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in www.giustizia-amministrativa.it, 2021; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustizia insieme, 24 novembre 2020; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte dicassazione n. 19598 del 2020, in Giustizia insieme, 29 novembre 2020; Ead., Corte di Cassazione, Sentenza n. 27770/2020, Le Sezioni Unite confermano il profilo di self restraint sull’eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo nei confronti del legislatore, in federalismi.it, 2020; P. Tomaiuoli, Il rinvio pregiudiziale per la pretesa, ma incostituzionale, giurisdizione unica, in Consulta online, 2020; A. Travi, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foro News, 12 ottobre 2020; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustizia insieme, 7 ottobre 2020.
[57] M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, cit., secondo cui non pare convincente la prospettata contrapposizione funzionale tra l’applicazione del diritto nazionale e quella del diritto europeo, perché entrambe le attività sono riconducibili ad una funzione giurisdizionale unitaria.
[58] Le Sezioni Unite ricordano, peraltro, che le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto le disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo sono state puntualmente rigettate. Si citano a tal proposito Corte Cost., 27 aprile 2018, n. 93 e Corte Cost., 2 febbraio 2018, n. 19.
[59] Si v. CGUE, 13 aprile 2010, C-73/08, Bressol, punto 64; nonché CGUE, 23 ottobre 2003, cause riunite C-4/02 e C-5/02, Schönheit e Becker, punti 82 e 83, in cui si precisa altresì che la Corte di Giustizia, per dare al giudice nazionale risposte utili, può fornire indicazioni, tratte dal fascicolo della causa principale come pure dalle osservazioni scritte ed orali sottopostele, idonee a mettere il giudice nazionale in grado di decidere.
[60] CGUE, Raccomandazioni all'attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 25 novembre 2016 (2016/C 439/01), e poi pubblicate nella nuova versione sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 novembre 2019 (2019/C 380/01).
[61] Si v. Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2019, n. 6059, secondo cui “questa Corte è pervenuta movendo dalla considerazione secondo cui l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto - dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all’uopo creata - detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un'attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa; attività quest'ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto”. In senso analogo, ex multis, Cass., Sez. Un., 1 febbraio 2016, n. 1840; Cass., Sez. Un., 21 marzo 2017, n. 7157; Cass., Sez. Un., 20 aprile 2017, n. 9967; Cass., Sez. Un., 10 aprile 2017, n. 9147.
In dottrina v. R. De Nictolis, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.sipotra.it, 32, secondo cui “sembra cogliersi un particolare self restraint delle sez. un. nel sindacare una decisione giurisdizionale per invasione della sfera legislativa, nella consapevolezza che si tratta di un terreno scivoloso in cui, se non si vuole accedere alla tesi del giudice come “bocca della legge”, è innegabile che l’interpretazione della legge ha insito un margine di “creazione” della regola del caso concreto. E se tale “creazione” venisse stigmatizzata come “invasione di campo”, si perderebbe del tutto il confine tra “violazione di legge” e “invasione della competenza legislativa””.
[62] Così M.A. Sandulli, Guida alla lettura, cit.. Si v. anche M. Lipari, Il sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, cit., secondo cui inoltre “Va ricordato, comunque, che la CGUE, nello spettro fisiologicamente limitato del proprio giudizio, ben potrebbe attestarsi sulla rappresentazione fornita dal giudice remittente. Dunque, non è da escludere che la CGUE possa anche affermare, in via ipotetica, che se, effettivamente, la Cassazione ha consolidato un singolare indirizzo interpretativo penalizzante il diritto UE, il sistema processuale nazionale italiano deve essere riallineato, consentendo il ricorso per cassazione diretto a censurare una violazione del diritto UE alle medesime condizioni previste per la proposizione del ricorso che lamenti la trasgressione del diritto nazionale. Una eventuale pronuncia di tale contenuto, tuttavia, sarebbe inutiliter data, dal momento che l’ipotizzata mancanza di equivalenza non sembra sussistere nella realtà”.
Bundesverfassungsgericht, ombelico del sovranismo o volano per un’Europa solidale?
di Marina Castellaneta
Deragliamento o maggiore tempo di viaggio? Ancora tutti da decifrare gli effetti del nuovo intervento della Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht, BvG) che, con decisione depositata il 26 marzo 2021, ha disposto una sospensione della conclusione del procedimento di ratifica, stabilendo che il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier non può ancora firmare la legge di ratifica sulla decisione Ue sulle risorse proprie fino alla pronuncia sulle misure provvisorie della stessa Consulta tedesca[1]. Un colpo di scena che arriva dopo il voto positivo da parte del Parlamento tedesco (sia dal Bundestag sia dal Bundesrat), che tiene con il fiato sospeso la Commissione europea e i Governi dello spazio Ue. È sempre la Germania l’ago della bilancia per ogni iniziativa Ue. Talvolta interviene il Governo, talvolta la banca centrale, in altri casi i giudici costituzionali. Con un ruolo di primo piano, in tutte le partite, di associazioni e gruppi populisti, in alcune occasioni vicini all’estrema destra.
Ultimo in ordine di tempo è il ricorso presentato da un gruppo di euroscettici guidati da Bernd Lucke, economista ed ex parlamentare Ue nonché fondatore dell’“Alternative fuer Deutschland” (poi abbandonata) e del gruppo dei riformatori liberalconservatori, nonché da altri cittadini del movimento “Bündnis Bürgerwille”.
Questa volta il provvedimento sotto attacco è, come detto, la decisione sulle risorse proprie dell’Unione europea approvata dal Consiglio il 14 dicembre 2020 (decisione 2020/2053 e che abroga la decisione 2014/335)[2]. Un atto determinante, quello impugnato, nell’attuale crisi economica e sociale nonché sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19, per il sostegno agli Stati membri che saranno destinatari di 750 miliardi di euro, recuperabili anche attraverso il debito pubblico europeo.
Un primo round è stato già incassato dai ricorrenti vista l’ampia risonanza mediatica e l’apprensione di tutto il mondo che, di fatto, è sospeso tra prospettive di recupero nella crescita economica e aggravamento della crisi sociale.
La decisione sulle risorse proprie, che comprende il bilancio pluriennale, ma soprattutto l’emissione dei bond europei per finanziare le spese dovute in particolare alla crisi economica e sociale provocate dalla pandemia, richiede la ratifica degli Stati. Così, gli occhi di tutta Europa sono puntati sul Bundesverfassungsgericht e sul primo provvedimento che riguarderà le misure provvisorie richieste dai ricorrenti, ma che, di fatto, potrebbe provocare, se sarà decisa la sospensione fino alla pronuncia di merito, uno scontro tra Consulta e Unione europea (finanche, in prospettiva, con la Corte di giustizia), con ulteriori effetti disastrosi.
Un sicuro effetto, oltre a uno stress supplementare non necessario in questi tempi, sarà quello di ritardare la messa al punto del piano di supporto economico, smantellando i progetti della Commissione che pensava di elargire la prima tranche di aiuti entro l’estate 2021.
Ma sul tavolo c’è molto di più perché è in gioco un cambio di rotta e di visione che ha avuto l’imprimatur proprio dalla Germania che, con la Cancelliera Angela Merkel, ha permesso quantomeno di sperare in un cambio di passo nel senso di un passaggio dall’austerity “senza se e senza ma” alla solidarietà. Certo, non completa.
Non è la prima volta che i Governi europei, Bruxelles e il mondo, anche dei mercati, attendono le sentenze della Corte costituzionale tedesca che, almeno finora, è intervenuta senza scalfire troppo l’Unione europea e senza condizionare le altre corti costituzionali. Tutti interventi che hanno riguardato le misure Ue di carattere monetario e finanziario. Sulla nuova questione relativa alla decisione sulle risorse proprie, però, un campanello d’allarme era già suonato attraverso il rapporto annuale 2020, presentato l’8 gennaio 2021, dal Bundesrechnunghof, intitolato “Eu TrustFunds: high burden, little transparency and not really more rapid than other Eu emergency response”[3].
Dal punto di vista del fondamento giuridico dell’azione dei ricorrenti guidati da Bernd Lucke, c’è la decisione che include il Recovery Plan ritenuta contraria all’articolo 310 del Trattato sul funzionamento dell’Unione e all’articolo 311 (che apre il capo I del Titolo II, dedicato alle risorse proprie dell’Unione), in particolare nella parte in cui, l’indicata decisione ammette, in via di fatto, una parziale messa in comune dei debiti. Tale ultimo articolo, infatti, dispone che il bilancio dell’Unione sia finanziato integralmente tramite risorse proprie “fatte salve le altre entrate”. L’approvazione è affidata al Consiglio che delibera secondo una procedura legislativa speciale all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo. Tuttavia, se la norma sembrerebbe poter costituire una base per l’azione dei ricorrenti a causa del debito comune, mettendo da parte le considerazioni sul richiamo a “fatte salve altre entrate”, va osservato che la stessa norma stabilisce che il Consiglio può istituire “nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente”. In ogni caso, la decisione entra in vigore solo dopo l’approvazione degli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali”. Il richiamo al finanziamento integrale con risorse proprie è alla base dell’azione di Lucke perché, a suo avviso, la decisione approvata dal Consiglio risulterebbe non avere una base giuridica e sarebbe piuttosto un atto contrario al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in violazione della Carta costituzionale tedesca poiché è il Parlamento che deve pronunciarsi sul bilancio nazionale[4]. Detto in altri termini, non sarebbe ammissibile un provvedimento Ue che porti nuovo debito sui cittadini tedeschi (tralasciando, però, un aspetto e cioè che anche la Germania si gioverà del Next Generation EU e del sistema di Recovery and Resilience Facility).
Nulla di nuovo, quindi, perché i ricorrenti sembrano recitare un vecchio copione. È stato il caso dei ricorsi sul programma di acquisto dei titoli di Stato (Public Sector Purchase Programme) avviato dalla Banca centrale europea dal 2015 per salvare la zona euro (noto come Quantitative Easing).
In quell’occasione, la Corte costituzionale tedesca, con la sentenza del 5 maggio 2020 (caso Weiss), in piena pandemia, aveva messo sotto controllo le misure adottate dalla Banca centrale europea e il programma di acquisti di titoli di Stato. La BvG aveva posto un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue: nell’ordinanza di rimessione, la Consulta tedesca aveva affermato che la Banca centrale europea avrebbe dovuto provare che gli obiettivi di politica monetaria erano stati proporzionali. Ma sul tavolo c’era molto di più perché era evidente che si trattava di un’azione di forza della BvG nei confronti della Corte di giustizia Ue che, con la sentenza dell’11 dicembre 2018, causa C-493/17, Weiss, aveva riconosciuto la legittimità degli interventi della Banca centrale nel Quantitative Easing.
Dal canto suo, la BvG, pur ammettendo che il Quantitative easing non era contrario al diritto dell’Unione nella parte in cui non era utilizzato per finanziare il debito pubblico degli Stati, è arrivata a sostenere che la stessa Corte di Lussemburgo aveva sostanzialmente agito ultra vires affermando la legittimità degli atti della BCE. Di conseguenza, poiché le misure non erano in linea con la ripartizione di competenze e il principio di proporzionalità fissati nel Trattato, malgrado la diversa pronuncia di Lussemburgo, esse non vincolavano la Germania e il Bundesbank avrebbe potuto decidere di non partecipare al programma, in assenza di chiarimenti dalla Banca centrale europea.
Come sottolineato da Tesauro, la Corte costituzionale tedesca, in quell’occasione, oltre a mostrare una certa diffidenza nei confronti di Lussemburgo, in modo confuso, aveva ritenuto che “le misure varate dalla BCE producessero effetti economici oltre quelli monetari, dunque al di là del confine della competenza attribuitale dagli Stati membri, e ne ha dedotto una insufficiente motivazione sulla proporzionalità. Dubito molto – ha precisato Tesauro - che questo sia l’approccio corretto al principio di proporzionalità applicato al principio delle competenze di attribuzione”[5].
La sentenza aveva spinto la Corte di giustizia, con un comunicato dell’8 maggio, a precisare che solo i giudici Ue sono competenti a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto Ue[6].
E’ opportuno ricordare anche la sentenza della Corte di giustizia del 16 giugno 2015, nella causa C-62/14 (Gauweiler), con la quale si sosteneva che il programma OMT (Outright Monetary Transactions) non era basato su un atto ultra vires e che il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) funzionale ad adottare un programma di acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari era conforme al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea[7].
Per quanto riguarda la nuova saga, nella vicenda che rischia di travolgere il piano di aiuti per la pandemia, la Corte costituzionale tedesca non si è rivolta ancora alla Corte Ue, ma resta da vedere se, prima di pronunciarsi nel merito, decida di farlo. Anche in questo caso, però, il rapporto tra i due organi giurisdizionali rischia di concludersi con uno scontro, come era avvenuto con il caso Weiss. La crisi era rientrata, ma resta il fatto che i giudici tedeschi, in sostanza, avevano criticato i giudici Ue mettendone in discussione l’operato proprio sulla legittimità degli atti dell’Unione.
Resta da vedere se anche in questa occasione si riproporrà uno scontro tra Corti.
In ogni caso, si può, a nostro parere, trarre una conclusione di carattere generale, ossia che nelle questioni che implicano un impegno sul piano internazionale ed europeo, non sempre la partecipazione dei singoli giova all’integrazione, come dimostra il caso dei continui ricorsi alla BvG e la vicenda della Brexit. Questo a maggior ragione quando iniziano a diffondersi “teorie” populiste e sovraniste.
[1] Il comunicato è nel sito https://www.bundesverfassungsgericht.de/DE/Homepage/homepage_node.html
[2] In Gazzetta Ufficiale Ue del 15 dicembre 2020, L 424, p. 1 ss. Si veda anche il regolamento 2020/2093 del 17 dicembre 2020 che stabilisce il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027, in Gazzetta Ufficiale Ue del 22 dicembre 2020, L433, p. 1 ss.
[3] Reperibile qui https://www.bundesrechnungshof.de/de/veroeffentlichungen/produkte/bemerkungen-jahresberichte/jahresberichte/2020-hauptband/langfassungen/eu-treuhandfonds-aufwendiger-intransparenter-und-kaum-schneller-als-regulaere-eu-aussenhilfen-pdf
[4] Si veda, tra gli altri, G.L. Tosato, Karlsruhe torna a bussare alla porta dell’Ue: guai in vista?, in https://affarinternazionali.it.
[5] Così, R. Conti, G. Tesauro, Dove va l’Europa dei diritti dopo la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale sul quantitative easing, in questa Rivista, 2020. Si veda anche S. Cafaro, Quale Quantitative Easing e quale Unione europea dopo la sentenza del 5 maggio?, in https://www.sidiblog.org; G. Tesauro e P. De Pasquale, La BCE e la Corte di giustizia sul banco degli accusati del Tribunale costituzionale tedesco, in Osservatorio europeo DUE (dirittounioneeuropea.eu, 11 maggio 2020).
[6] Si veda M. Castellaneta, Bundesverfassungsgericht contro la Corte UE o contro l’Europa? A margine della sentenza della Corte costituzionale tedesca sulle misure di acquisto di titoli di Stato volute dalla Banca centrale europea, in questa Rivista.
[7] Cfr. P. De Sena, S. D’Acunto, La Corte di Karlsruhe, il mito della “neutralità” della politica monetaria e i nodi del processo di integrazione europea, in https://www.sidiblog.org; L.F. Pace, And indeed it was a (failed) nullification crisis: the OMT judgment of the German Federal Constitutional Court and the winners and losers of the final showdown in the OMT case, ivi; S. Cafaro, Caso OMT: la Corte giudica l’operato della BCE, ivi.
Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021
di Gilda Ferrando
Sommario: 1. Casi e problemi – 2. I precedenti – 3. Le sentenze della Corte costituzionale – 4. La parola ai giudici di merito.
Corte cost. 9 marzo 2021, n. 32 – Coraggio Pres. – Sciarra Rel.
Fecondazione eterologa all’estero – Stato del figlio nato da una coppia di donne –Riconoscimento da parte della madre intenzionale – Esclusione – Questione di legittimità costituzionale inammissibile – Urgenza dell’intervento del legislatore.
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, 9, l. n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, sollevate in riferimento agli artt. 2,3, 30, 117 Cost. Spetta infatti alla prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario. Nondimeno la Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore riscontrato nel caso di specie (il caso riguardava un bambino nato da una coppia di donne mediante inseminazione eterologa realizzata all’estero. Non essendo praticabile l’adozione in casi particolari da parte della madre intenzionale per l’insormontabile dissenso della madre biologica in seguito al verificarsi della crisi della coppia, il giudice a quo riteneva inammissibile anche il riconoscimento, e quindi sollevava la questione di legittimità delle norme impugnate).
Corte cost. 9 marzo 2021, n. 33 – Coraggio Pres. – Viganò Rel.
Maternità surrogata all’estero – Stato del figlio – Doppia paternità - Riconoscimento dell’atto di nascita straniero – Contrarietà all’ordine pubblico – Questione di legittimità costituzionale inammissibile - Urgenza dell’intervento del legislatore
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, c. 6 l. n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, c. 1 , l. n. 218/1995 e dell’art. 18 d.P.R. n. 396/2000 sollevate in riferimento agli artt. 2,3, 30, 117 Cost. Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore (il caso riguardava il riconoscimento dell’atto di nascita straniero recante la doppia paternità del bambino nato da maternità surrogata all’estero).
1. Casi e problemi
Con due sentenze pubblicate nello stesso giorno la Corte costituzionale abbraccia con uno sguardo d’insieme le questioni relative all’accertamento della doppia maternità (n. 32) e della doppia paternità (n. 33). Le motivazioni si devono a due diversi redattori (Silvana Sciarra la prima e Francesco Viganò la seconda) ma, pur nelle diversità stilistiche e di accento, seguono uno stesso percorso argomentativo.
Fino ad ora i giudici avevano esaminato distintamente ciascun problema, ed erano pervenute a soluzioni differenziate a seconda delle diverse situazioni in cui si presentava il problema del riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale, vale a dire con colui il quale, pur non avendo un rapporto genetico col figlio, ne ha voluto la nascita nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa, se ne prende cura ed è responsabile della sua formazione.
Quando è stato redatto un atto di nascita straniero si è propensi ad ammetterne il riconoscimento se da esso risulti la doppia maternità[1], ma non quando venga indicata la doppia paternità[2]. Nel caso, poi – ed è quello più frequente – in cui il figlio di una coppia di donne che è andata all’estero per la fecondazione eterologa nasca in Italia, si tende ad escludere che l’ufficiale di stato civile possa accogliere la domanda di formare l’atto di nascita con l’indicazione della doppia maternità[3].
Si guarda invece con favore all’adozione in casi particolari (art. 44, lett. d), l. n. 184/1983) che viene considerata la via maestra per dare veste giuridica al rapporto con il genitore sociale[4].
Può apparire sorprendente che, a fronte di un’unica domanda di giustizia da parte dei bambini, si prospettino soluzioni così differenziate. Il fatto è che fino ad ora i giudici hanno cercato una risposta partendo dall’assunto che nell’ordinamento si rifletta un modello di famiglia, per così dire, tradizionale, dove vi sono un padre e una madre, un modello la cui conservazione corrisponde all’interesse generale. Fa eccezione solamente il caso del bambino nato all’estero da due mamme il riconoscimento del cui atto di nascita straniero è stato ammesso, dato che in questo caso non è stato possibile invocare un ordine pubblico ostativo all’applicazione delle regole internazionalprivatistiche di riconoscimento dei provvedimenti stranieri.
Cosa è cambiato, allora, con le due pronunce in commento della Corte costituzionale? E’ cambiato lo sguardo del diritto che finalmente si rivolge al bambino, e nel prisma dei suoi diritti esamina i due diversi casi.
Intendiamoci, la Corte non abbandona la linea tracciata dai suoi precedenti (n. 237/2019, 230/2020[5]). Anche questa volta le due sentenze dichiarano inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, ritenendo necessario l’intervento del legislatore. C’è tuttavia un cambio di passo. Non solo l’intervento del legislatore viene definito “indifferibile” (n. 33), e viene giudicato “non …più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa” (n.32), ma, ancor prima il bambino e i suoi diritti vengono messi al centro dell’attenzione.
2. I precedenti
Rileggiamo, allora, questi precedenti [6]. Lasciamo da parte la sentenza n. 221/2019 che ha ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto di accesso alla PMA da parte delle coppie dello stesso sesso (art. 5, l. n. 40/2004) [7]. E consideriamo invece le due sentenze, dovute alla penna dello stesso estensore (Rosario Morelli) in cui la Corte ha affrontato la questione relativa al supposto divieto di formare l’atto di nascita con l’indicazione della doppia maternità. Entrambe si sono concluse con la decisione d’inammissibilità.[8] La seconda[9] – che ci riguarda più direttamente – ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma (che viene desunta dagli artt. 1, c. 20, l. n. 76/2016, e 29, c. 2 d. P. R. n. 396/2000) che non consente la formazione dell’atto di nascita con l’indicazione della doppia maternità del bambino nato in Italia da una coppia di donne grazie alla fecondazione eterologa realizzata all’estero su richiesta congiunta di entrambe[10].
Si tratta di questione analoga a quella esaminata dalla n. 32/2021[11]. Diverse sono le norme impugnate (nel caso della n. 230 gli artt. 1, c. 20, l. n. 76/2016, e 29, c. 2 d. P. R. n. 396/2000, nel caso della n. 32 gli artt. 250, c.c., 8, 9, l. 40), ma il problema è sempre lo stesso: è conforme a Costituzione una lettura del sistema della filiazione che non ammette l’indicazione di due mamme nell’atto di nascita?
Nel 2020 la Corte fa propria l’interpretazione accolta dai giudici di merito. Pur condividendo l’idea che la legge n. 40 (artt. 8, 9) fondi la genitorialità sul consenso e la responsabilità della coppia che decide di fare ricorso alla PMA, ritiene che tale regola si applichi solo alle coppie che possono accedere alle tecniche. Perché si applichino gli artt. 8 e 9 “occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie “di sesso diverso”, atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita”[12]. Confermata l’interpretazione del giudice a quo, se ne esclude il contrasto con gli artt. 2, 3, 30,31 Cost, nell’assunto che “i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. …come non consentono l’interpretazione adeguatrice della norma censurata … allo stesso modo neppure, però, ne autorizzano la reductio ad legitimitatem”. A sentire la Corte, infatti, non può ritenersi “arbitraria o irrazionale “l’idea che “una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi, in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il ‘luogo’ più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato”. E tale scelta, prosegue la Corte, non viola gli artt. 2 e 30 Cost. … perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.”. I diritti del bambino, come si vede, non vengono presi in considerazione, come se la questione riguardasse l’accesso alle tecniche, il modello di famiglia riflesso nell’art. 5, i diritti dei genitori, e non lo stato del nato, i suoi diritti fondamentali (artt. 2, 3, 30).
Il giudizio di inammissibilità deriva dal fatto che, a sentire la Corte, la Costituzione come non impone di riconoscere l’omogenitorialità, neppure lo impedisce cosicchè la questione resta affidata alla discrezionalità del legislatore[13]. Dunque, il legislatore “può” ma non “deve”, garantire forme di tutela più ampie, mentre il giudice resta alla finestra, in attesa.
La sentenza n. 33/2021 affronta la diversa questione del riconoscimento del provvedimento straniero da cui risulta la doppia paternità di un bambino generato all’estero con gravidanza per altri. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n.12193/2019) avevano ritenuto inammissibile il riconoscimento dell’atto di nascita per contrasto col divieto di maternità surrogata inteso come principio di ordine pubblico (artt. 64, l. n. 218/1995, art. 18 d. P.R. n. 396/2000) [14]. Preso atto che, in base a quel precedente, è questa la regola posta dall’“interpretazione attuale del diritto vivente”, la I sezione della S.C. aveva rimesso la questione alla Corte costituzionale[15], tenuto conto che, dopo la decisione delle Sezioni Unite (anche se poco prima del suo deposito), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso, su questione analoga, un parere consultivo[16] che ha un’intonazione molto diversa. Se le Sezioni Unite focalizzano la propria attenzione sulla illiceità di una tecnica che l’ordinamento ritiene meritevole di sanzione penale, la Corte EDU mette in primo piano i diritti del bambino. Ai legislatori nazionali vanno riconosciuti spazi di discrezionalità nella scelta dei modi in cui garantire la loro tutela, fermo restando che lo strumento alternativo alla trascrizione dell’atto di nascita deve in ogni caso assicurare una tutela “pronta” ed “effettiva”.
L’ordinanza di remissione prendeva le mosse proprio dall’insufficienza degli strumenti che il nostro diritto interno mette a disposizione per garantire una tutela “piena” ed “effettiva” dei diritti del bambino ed evidenziava l’insanabile contrasto tra la regola iuris applicata ed il diritto del bambino alla propria identità, alla certezza del proprio stato giuridico nei confronti di entrambi i genitori che lo hanno messo al mondo.
La risposta della Corte costituzionale è nel senso dell’inammissibilità della questione, dato che, in prima battuta spetta al legislatore ad individuare i modi in cui garantire i diritti del bambino. La Corte, tuttavia, non si arresta a questa constatazione e si fa carico di indicare quali sono i diritti del bambino e quale ne è la rilevanza costituzionale, cosicchè dopo questa sentenza non ci sono più dubbi sul fatto che i diritti del bambino oggi non sono adeguatamente garantiti.
3. Le sentenze della Corte costituzionale
Le due sentenze affrontano con uno sguardo d’insieme la questione dello stato dei figli nati da coppie omoaffettive, siano essi nati da coppie di donne o da coppie di uomini perché i diritti dei figli hanno un solo colore ed è quello indicato dalle norme costituzionali interne ed europee.
È proprio dai diritti dei bambini che prende le mosse la sentenza n. 32 (quella che si occupa dei nati da coppie di donne) ricordando che questo era stato il percorso segnato già nel 1998, con la prima pronuncia in materia di PMA[17] dove, affrontando la questione dello stato dei figli nati da fecondazione eterologa, la Corte esprimeva l’”urgenza” di individuare strumenti di tutela del nato “non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione” (artt. 30, 31 Cost.), ma “ancor prima – in base all’art. 2 della Costituzione – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità”. La Corte di Cassazione[18], prima, ed il legislatore, poi, (artt. 8,9, l. n. 40) hanno seguito quel “monito”, rendendo i genitori, sulla base del loro consenso, responsabili nei confronti del nato anche nel caso in cui si fossero avvalsi di una tecnica (come l’eterologa) che la legge all’epoca non ammetteva[19]. L’art. 9 della l. n. 40, nel far prevalere la responsabilità sulla verità biologica dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio, garantendo “il consolidamento …di una propria identità affettiva, relazionale e sociale”.
L’evoluzione successiva delle norme interne (l. n. 219/2012, d. lgs.n. 154/2013) ed europee (art. 24 CDFUE) – osserva la Corte - segna un ulteriore progresso nella direzione di un sempre più ampio riconoscimento dei diritti del bambino e del suo preminente interesse. Se ne trova conferma nella giurisprudenza delle Corti europee del Lussemburgo e di Strasburgo, quest’ultima ripetutamente incline a garantire la stabilità dei legami e delle relazioni familiari del minore anche se meramente “di fatto”, non ancora riconosciute dal diritto. L’ampia rassegna della giurisprudenza della Corte europea (n. 32) mira a dimostrare che nella tutela del preminente interesse del bambino è compresa “la garanzia del suo diritto all’identità affettiva, relazionale, sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e sul loro riconoscimento giuridico”. Da questo punto di vista il riconoscimento del legame con i genitori intenzionali rientra “nel perimetro di diritti concretamente azionabili che si traducono in altrettanti obblighi degli Stati a intervenire se la tutela non è effettiva”. In questa stessa direzione vengono richiamate anche precedenti sentenze della Corte costituzionale che in diverse occasioni ha valorizzato l’interesse del bambino a “mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione”, dando in tal modo rilievo ad una genitorialità sociale o di fatto pur in assenza di discendenza biologica[20].
È la stessa prospettiva da cui muove la sentenza n. 33. Il fatto che la questione sottoposta all’esame della Corte riguardi un caso di maternità surrogata, pratica penalmente sanzionata e apertamente condannata dalle Sezioni Unite (n. 12193/2019) [21] e dalla stessa Corte costituzionale (n. 272/2017), non può infatti porre nell’ombra il fatto che le questioni su cui la Corte si deve ora pronunciare “sono però focalizzate sugli interessi del bambino …nei suoi rapporti con la coppia” (omosessuale o eterosessuale, non importa) che ne ha voluto il concepimento e la nascita. La questione da decidere non riguarda la maternità surrogata, ma lo stato del figlio. Questo passaggio è decisivo in quanto, diversamente dalle sezioni Unite, la Corte costituzionale è consapevole della necessità di non confondere i due distinti piani: da un lato il giudizio sulla condotta dei genitori, dall’altro la tutela dei diritti del figlio.
Il problema è stabilire se “il diritto vivente espresso dalle Sezioni unite civili … sia compatibile con i diritti del minore sanciti dalle norme costituzionali e sovranazionali invocate dal giudice a quo”, con quel suo preminente interesse che impone al giudice di adottare la decisione che in concreto lo persegua, quella decisione, cioè “che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior ‘cura della persona”[22].
Da questo punto di vista “non vi è dubbio … che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia”. E questo si apprezza da una duplice prospettiva dato che “questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino” ed anche perché il bambino ha diritto a che sia affermata i capo ad entrambi “la titolarità giuridica di quel fascio di doveri … inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali”, dai quali non è pensabile che costoro “possano ad libitum sottrarsi”.
Non viene dunque in discussione, precisa la Corte, un preteso “diritto alla genitorialità” in capo agli adulti, ma un diritto del bambino ad avere due genitori responsabili della sua crescita. E dal suo punto di vista un genitore solo, quello biologico, non è sufficiente, perché quando un bambino cresce ed è continuativamente accudito da un nucleo composto da due persone, che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale, “è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento del proprio rapporto giuridico con entrambe”.
Pur nel riconoscimento del carattere di assoluta preminenza che i diritti del bambino rivestono nella scala dei valori costituzionali, la Corte ne ammette il bilanciamento, nei limiti di proporzionalità, con altri scopi legittimi perseguiti dall’ordinamento, compreso quello di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità. Anche alla luce della giurisprudenza CEDU, il margine di apprezzamento di cui gode il legislatore non è incondizionato, dato che egli deve rendere possibile la piena formalizzazione del rapporto col genitore intenzionale, anche se non necessariamente mediante la trascrizione del provvedimento straniero. Lo strumento prescelto, che potrebbe eventualmente essere anche un particolare tipo di adozione, deve comunque rispondere ad alcuni stringenti requisiti. Quanto ai tempi, il riconoscimento giuridico deve essere assicurato “al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati”. Quanto ai modi, deve essere assicurata l’“effettività” e la “celerità” della sua messa in opera. Quanto ai contenuti, deve essere riconosciuta la “pienezza del legame di filiazione”.
Questo perché i diritti del bambino non possono essere strumentalizzati ad altri fini, per quanto legittimi. “Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata”. E questo non è ammissibile, come la Corte ha chiarito in altre occasioni: a proposito del divieto di riconoscimento dei figli nati da incesto[23] e, da ultimo, a proposito del carattere automatico della pena accessoria della sospensione dalla responsabilità genitoriale in capo al genitore autore di un grave reato in danno del figlio[24].
Se dunque i diritti del figlio devono ricevere una tutela di questo tipo, non si può non vedere che nel nostro ordinamento sussiste un “vuoto di tutela”, una “preoccupante lacuna” (n. 32) perché lo strumento che viene indicato dalla giurisprudenza come alternativa rispetto alla dichiarazione della doppia maternità nell’atto di nascita o al riconoscimento del provvedimento straniero indicante la doppia paternità non soddisfa i requisiti richiesti.
L’una e l’altra sentenza concordano nel denunciare “l’insufficienza del ricorso all’adozione in casi particolari” (n. 32) che non è “ancora del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali richiamati” (n. 33). Tale insufficienza è palpabile nel caso esaminato dalla sentenza n. 32, dato che il mancato consenso del genitore biologico la rende “impraticabile proprio nelle situazioni più delicate per il benessere del minore”. In termini generali si deve comunque riscontrare la sua inadeguatezza, dato che si tratta di un istituto che “opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati, visto che non conferisce al minore lo status di figlio legittimo dell’adottante, non assicura la creazione di un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante (considerata l’incerta incidenza della modifica dell’art. 74 cod. civ. operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali») e non interrompe i rapporti con la famiglia d’origine” (n. 32). Se dunque lo strumento per far constare la doppia genitorialità dovesse essere l’adozione, “essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983” (n. 33) [25].
4. La parola ai giudici di merito
Come i precedenti del 2019 e 2020 le sentenze n. 32 e 33 del 2021 sono entrambe di inammissibilità. Come allora si riconosce che è compito del legislatore disciplinare la materia. E tuttavia la Corte questa volta non si limita ad un generico invito, si spinge ben oltre, fissa i confini della discrezionalità del legislatore, indica quali sono le condizioni che devono essere soddisfatte e nella n. 32 giunge a prefigurare i possibili strumenti alternativamente praticabili[26]. La sua pazienza non è senza limiti: “questa Corte ritiene di non poter ora porre rimedio”. Al legislatore si chiede di intervenire “con urgenza”, precisando che “in prima battuta” la disciplina della materia spetta al legislatore. Queste puntualizzazioni pongono all’attenzione un duplice ordine di problemi. Da un lato, nei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore, sorge spontanea la domanda su quali potrebbero essere le conseguenze dell’inerzia del legislatore. Potrebbe, con tutte le cautele del caso, la Corte risolvere la situazione di stallo con una pronuncia di illegittimità costituzionale[27]?
La seconda questione riguarda i rapporti tra legislatore e giudici di merito. Nell’attesa che il legislatore intervenga, i giudici – a partire proprio dai remittenti - si troveranno a dover decidere questioni relative allo status dei figli di coppie omogenitoriali. Come dovranno decidere? Dovranno applicare una regola iuris di cui la Corte ha già rilevato il contrasto con la Costituzione o non dovranno invece dare una interpretazione costituzionalmente orientata che garantisca in modo ottimale il diritto del bambino ad avere due genitori, coloro che ne hanno voluto la nascita e che sono responsabili della sua formazione?
Per quanto riguarda la formazione dell’atto di nascita che indichi la doppia maternità, parte della giurisprudenza di merito[28] ha già indicato una via: la partenza si trova nella distinzione tra regole sull’accesso alle tecniche e regole sullo stato dei figli; per proseguire con l’individuazione di queste ultime sulla base dei principi generali (preminente interesse del minore, declinato come diritto ad uno status certo fin dalla nascita nei confronti delle persone che effettivamente ne sono i genitori; rifiuto delle logica sanzionatoria che fa ricadere sui figli le conseguenze delle condotte degli adulti; principio di non discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale dei genitori) e della legge 40 (il consenso come fondamento dello status di figlio nelle PMA (artt. 8, 9) anche in assenza dei requisiti prescritti dall’art. 5).
Ulteriori problemi si incontrano nel caso della doppia paternità. Penso che tuttavia le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 offrano argomenti per un ripensamento della nozione di ordine pubblico fatto proprio dalle Sezioni unite, per un diverso bilanciamento tra i valori in gioco[29], un diverso bilanciamento che, già alla luce del parere consultivo CEDU, la prima sezione[30] sembrava suggerire, trattenuta peraltro dal rispetto dovuto all’autorità delle Sezioni Unite[31].
Quanto all’ammissibilità della via dell’interpretazione adeguatrice, mi pare si possano fare queste considerazioni. Diversamente dalla sentenza n. 230 [32], le sentenze n. 32 e n. 33 non prendono partito su quale sia l’interpretazione corretta e si limitano a dare atto che “l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa denunciata è stata esplorata e consapevolmente scartata dal collegio remittente”, “il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione” (n. 32)[33].
Va poi considerato che, a sentire la Corte, la disciplina spetta “in prima battuta” (n. 33) al legislatore, il che lascia un intendere che “in seconda battuta” la parola passa ad altri, alla stessa Corte che “ora” ritiene di “non poter porre rimedio”, ma forse potrà farlo domani. E non si deve escludere che anche i giudici di merito possano avere voce in capitolo dato che non si può ammettere che i diritti dei bambini in carne ed ossa vengano sacrificati nella snervante attesa di un legislatore che forse considera troppo “divisiva” la questione per farsene carico.
D’altra parte, il ragionamento può essere completato andando a rileggere la motivazione della sentenza n. 347/1998. Anche allora la Corte affidava “in via primaria” al legislatore la disciplina della PMA. Ma non si limitava a questo. In mancanza di una legge riconosceva al giudice il potere di “ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione …(dei) beni costituzionali” implicati. Questa, anche oggi, mi pare la via da percorrere, se si vuole evitare che in concreto si verifichi quella violazione di diritti fondamentali che la Corte ha condannato[34].
[1] V. Cass., 30 settembre 2016, n. 19599 (estensore Lamorgese), Foro it., 2016, I, 3329, con nota di G. Casaburi; in Corr. Giur., 2017, 18, con mia nota Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status familiari; in Nuova giur. civ. comm. 2017, 372, con nota di P. Palmeri, Le ragioni della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same-sex (ibid., pag. 362); in articolo29.it, con nota di A. Schillaci, Le vie dell’amore sono infinite. La Corte di cassazione e la trascrizione dell’atto di nascita straniero con due genitori dello stesso sesso. Si trattava di bambino nato in seguito a c.d. fecondazione incrociata (gravidanza portata avanti dalla prima madre grazie all’impianto di embrione formato con l’ovocita della seconda fecondato con seme di donatore anonimo). Successivamente il principio è stato ribadito anche nel caso in cui la seconda madre non aveva alcun legame biologico con il nato Cass., 15 giugno 2017, n. 14878 (estensore Dogliotti), Articolo29.it, con commento di S. Stefanelli, Riconoscimento dell’atto di nascita da due madri, in difetto di legame genetico con colei che non ha partorito.
[2] Cass. S.U. 8 maggio 2019, n. 12193, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 737 con commento di U. Salanitro, Ordine pubblico internazionale, filiazione omosessuale e surrogazione di maternità; in Fam. dir., 2019, 753, con note di G. Ferrando e M. Dogliotti; in Familia, 2019, 369, con nota di M. Bianca; in Foro it., 2019, I, 4027, con nota di G. Luccioli, E v. anche il mio commento, I bambini prima di tutto. Gestazione per altri, limiti alla discrezionalità del legislatore, ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 815.
[3] Cass. 3 aprile 2020, n.7668, Cass. 22 aprile 2020, n. 8029, entrambe in Questione giustizia on line, 2020, con note di Celentano e Ferrando.
[4] L’adozione in casi particolari (art. 44, lett. d), l. n. 184/1983) da parte del genitore non biologico viene generalmente ammessa dalla giurisprudenza (a partire da Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, in Foro it., 2016, I, 2368 ss., con nota di G. Casaburi; in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1135, con commento di G. Ferrando al quale mi permetto di rinviare. Al riguardo, v. anche Corte EDU, G.C. avis consultatif 10 aprile 2019, R. P 16-2018-001, in Nuova giur. civ. comm., 2019,757, con nota di A.G. Grasso; in articolo29.it, con nota di A. Schuster. E v. anche il mio commento, I bambini prima di tutto. Gestazione per altri, limiti alla discrezionalità del legislatore, ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 815. La Corte europea ha ritenuto che rientri nell’ambito della discrezionalità dei legislatori nazionali individuare i modi in cui tutelare i diritti del bambino, sempre che tali strumenti garantiscano una tutela “pronta” ed “effettiva”. Indicazioni in questo senso anche in Cass. S.U. 8 maggio 2019, n. 12193, cit. infra, Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272, cit. infra; Corte cost. 15 novembre 2019, n. 237; Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, in Giustizia insieme, 2020, con nota di M. Bianca, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020, in Nuova giur. civ. comm., 2021, con mio commento, Di chi è figlio un bambino con due mamme? Commento a prima lettura di Corte cost. n. 230/2020.
[5] Corte cost. 15 novembre 2019, n. 237; Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, in Giustizia insieme, 2020, con nota di M. Bianca, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020, e in Nuova giur. civ. comm., 2021, in corso di stampa, con mio commento.
[6] Non riguarda i genitori omoaffettivi, ma una coppia di coniugi che aveva avuto un figlio con GPA all’estero la sentenza della Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272 (in Nuova giur. civ. comm., 2018, 546, con commento di A. Gorgoni, Art. 263 cod. civ.: tra verità e conservazione dello status filiationis, ivi, 540 ss. e in Corr. giur., 2018, 446, con mia nota, Gestazione per altri, impugnativa del riconoscimento e interesse del minore) dove la Corte aveva stigmatizzato la maternità surrogata in quanto “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c. interpretato nel senso che nell’impugnativa della maternità della madre committente non sarebbe ammissibile la valutazione dell’interesse del minore.
[7] Corte cost. 23 ottobre 2019, n. 221, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 548, con nota di I. Barone, Fecondazione eterologa e coppie di donne: per la Consulta il divieto non è illegittimo e commento di M.C. Venuti, La genitorialità procreativa nella coppia omoaffettiva (femminile). Riflessioni a margine di Corte cost. n. 221/2019, ivi, 664, E v. anche U. Salanitro, A strange loop. La procreazione assistita nel canone della Corte costituzionale, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 206 ss; ID. , I requisiti soggettivi per la procreazione assistita: limiti ai diritti fondamentali e ruolo dell’interprete, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, p. 1360 ss.
[8] Il primo caso (Corte cost. 15 novembre 2019, n. 237. Al riguardo, v. A. Astone, Omosessualità e filiazione tra tentativi di sovranismo e oscillanti aperture, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 1169) riguardava un bambino che aveva la cittadinanza dello Stato del Wisconsin, la cui legge ammette l’indicazione della doppia maternità. L’applicazione della legge nazionale ex art. 33, l. 218/1995, era stata esclusa dal giudice remittente (Trib. Pisa, ord. 15 marzo 2018, Nuova giur. civ. comm., 2018, 1569, con nota di A.G. Grasso; in articolo29.it, con nota di A Schillaci) nell’assunto che le norme interne sarebbero “norme di applicazione necessaria” tali da impedire l’applicazione della legge straniera difforme.
[9] Corte cost. 4 novembre 2020, n. 230, cit.
[10] Il Trib. Venezia, ord., 3 aprile 2019 aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 20, della l. n. 76/2016 “nella parte in cui limita la tutela … delle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai “soli diritti e … doveri nascenti dall’unione civile” e dell’art. 29, 2° co d. P.R. 396/2000 – per contrasto con gli artt. l 2,3, I e II comma, 30 e 117 Cost.”
[11] Nel caso attuale la madre intenzionale aveva inizialmente chiesto di poter adottare la bambina, ma questo non era stato possibile dato che la madre genetica, nel pieno della crisi che aveva portato alla rottura con la sua compagna, rifiutava il consenso richiesto dall’art. 46 l. adoz.. Il rifiuto dell’ufficiale di stato civile sbarrava la via al riconoscimento della bambina come propria ex artt. 250 c.c. e 8, 9, l. n. 40 e in definitiva rendeva impossibile dare alla bambina quel secondo genitore sul quale ormai da anni faceva conto. Di qui il ricorso ai giudici che, condividendo il giudizio negativo, sollevavano la questione di legittimità costituzionale (Tribunale di Padova ord. 9. 12.2019).
[12] Per l’infondatezza della relativa questione, v. Corte cost. 23 ottobre 2019, n. 221, cit..
[13] “Se, dunque, il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali» (sentenza n. 221 del 2019)”.
[14] Cass., SS.UU., 8 maggio 2019, n. 12193, cit.
[15] Cass., ord., 29 aprile 2020, n. 8325, in Nuova giur. civ. comm., 2020, p. 1116 con commento di V. Calderai, La tela strappata di Ercole. A proposito dello stato dei nati da maternità surrogata; in Familia 2020, 767, con nota di F. Azzarri, L’inviolabilità dello status e la filiazione dei nati all’estero da gestazione per altri; in Fam. dir., 2020, con note di Ferrando, I diritti dei bambini con due papà. La questione va alla Corte costituzionale e di Recinto, Un inatteso “revirement” della Suprema Corte in tema di maternità surrogata.
[16] Il parere è stato reso su richiesta della Corte di cassazione francese investita della domanda di trascrizione, anche a favore della madre intenzionale, dell’atto di nascita delle due gemelle figlie di una coppia di coniugi nate da GPA all’estero: Corte EDU, G.C. avis consultatif 10 aprile 2019, R. P 16-2018-001, in Nuova giur. civ. comm., 2019,757, con nota di A.G. Grasso, in articolo29.it, con nota di A. Schuster. A distanza di 5 anni dalla precedente, la Corte Edu torna nuovamente sul caso Mennesson (v. Corte EDU 26 giugno 2014, ric. 65192/11, Mennesson c. Francia) per riconoscere il diritto del bambino alla trascrizione dell’atto di nascita straniero non solo nei confronti del padre, genitore biologico, ma anche della madre intenzionale.
[17] Corte cost. 26 settembre 1998, n. 347, in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 51, con nota di E. Palmerini. E v. il mio commento: Inseminazione eterologa e disconoscimento di paternità tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 1999, II, 22.
[18] Cass. 16 marzo 1999, n. 2315, Fam. dir.,1999, 237, con nota di M. Sesta.
[19] L’art. 4, c. 3, l. n. 40 vietava il ricorso a tecniche di PMA eterologhe. Il divieto è stato dichiarato illegittimo da Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 802, con mio commento, Autonomia delle persone e intervento pubblico nella riproduzione assistita. Illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, ivi, 2014, II, p. 392. Per quanto riguarda lo stato del figlio la Corte ha ritenuto applicabili gli artt. 8 e 9: “I profili …concernenti lo stato giuridico del nato ed i rapporti con i genitori, sono … anch’essi regolamentati dalle pertinenti norme della legge n. 40 del 2004, applicabili anche al nato da PMA di tipo eterologo in forza degli ordinari canoni ermeneutici”.
[20] V. Corte Cost. 25 giugno 2020, n. 127 che ritiene la valutazione di questo interesse rilevante nel giudizio di impugnazione del riconoscimento promosso da chi lo abbia effettuato in mala fede. Ancor prima v. Corte cost. 18 dicembre 2017, n. 272, cit., la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c. interpretato nel senso che nell’impugnativa della maternità della madre committente non sarebbe ammissibile la valutazione dell’interesse del minore.
[21] Più di recente le sezioni unite hanno ribadito il giudizio negativo sulla GPA in una pronuncia che ammette il riconoscimento dell’adozione piena pronunciata all’estero a favore di una coppia di uomini “non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione”: Cass. S.U. 31 marzo 2021, n. 9006.
[22] Alla penna dello stesso relatore di deve la recente Corte cost. n. 102/2020 che, in applicazione di tale principio ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale” (Corte cost. 29 maggio 2020, n. 102).
[23] Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494, in Familia, 2003, 848 ss., con note di G. Ferrando e S. Landini. che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 278 cod. civ. abr. che, in caso di incesto, impediva le indagini sulla paternità e la maternità.
[24] Corte cost. 29 maggio 2020, n. 102.
[25] Va qui segnalato il tentativo da parte della giurisprudenza di merito di una interpretazione che renda possibile l’instaurazione di rapporti di parentela “almeno” tra fratelli: v. Trib. min. Bologna 3 luglio 2020, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 78, con commento di M. Cinque, Adozione in casi particolari: parentela tra “fratelli acquisiti”?. E v. anche Trib. min. Venezia, 9 ottobre 2020, Ilfamiliarista.it.
[26] “In via esemplificativa, può trattarsi di una riscrittura delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione. Solo un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso, consentirebbe di ovviare alla frammentarietà e alla scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il “miglior interesse del minore”. Esso, inoltre, eviterebbe le “disarmonie” che potrebbero prodursi per effetto di un intervento mirato solo a risolvere il problema specificamente sottoposto all’attenzione di questa Corte. Come nel caso in cui si preveda, per il nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, il riconoscimento dello status di figlio, in caso di crisi della coppia e rifiuto dell’assenso all’adozione in casi particolari, laddove, invece, lo status – meno pieno e garantito – di figlio adottivo, ai sensi dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983, verrebbe a essere riconosciuto nel caso di accordo e quindi di assenso della madre biologica alla adozione. Il terreno aperto all’intervento del legislatore è dunque assai vasto e le misure necessarie a colmare il vuoto di tutela dei minori sono differenziate e fra sé sinergiche”.
[27] Non mancano i precedenti, si pensi soltanto al caso Cappato (Corte cost., ordinanza n. 207/2018 e sentenza n. 242/2019). Al riguardo, v. A. Ruggeri, La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (nota minima a Corte cost. nn.32, 33 del 2021), in Consultaonline.it, 2021, 221
[28] Trib. Bologna, decr., 6 luglio 2018; Trib. Pistoia, decr. 5 luglio 2018; Trib. Genova 16 novembre 2018, tutte in articolo 29.it. In motivazione v. anche App. Napoli, sez. min., 15 giugno 2018, in articolo 29.it., con nota di M. Gattuso. Per approfondimenti, rinvio al mio I bambini, le loro mamme e gli strumenti del diritto, cit.
[29] Per un commento critico alla Sezioni Unite, rinvio al mio I bambini prima di tutto. Gestazione per altri, limiti alla discrezionalità del legislatore, ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 815.
[30] Cass., ord., 29 aprile 2020, n. 8325, cit. Al riguardo rinvio al mio commento, I diritti dei bambini con due papà. La questione va alla Corte costituzionale, in Fam. dir., 2020.
[31] Le stesse Sezioni Unite sembrano muoversi su un crinale evolutivo: v., a proposito del riconoscimento dell’adozione del minore pronunciata all’estero a favore di una coppia omogenitoriale, la motivazione di Cass. S.U., 31 marzo 2021, n. 9006.
[32] Che riteneva “esatta la premessa esegetica da cui muove il giudice a quo”, facendo conseguentemente propria l’interpretazione contraria alla doppia maternità nell’atto di nascita.
[33] “La Sezione rimettente ha plausibilmente motivato nel senso dell’impraticabilità di una interpretazione conforme, proprio in ragione dell’intervenuta pronuncia delle Sezioni unite, che ha formato il diritto vivente che il giudice a quo sospetta di contrarietà alla Costituzione. Ciò deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale” (n. 33).
[34] Ricordiamo, d’altra parte, cosa fece la Corte di Cassazione (21 aprile 2015, n. 8097) quando la Corte costituzionale (11 giugno 2014, n. 170) dichiarò incostituzionale il divorzio automatico del transessuale “nella misura in cui” la legge non prevedeva che i coniugi potessero “convertire” il matrimonio in un’altra forma riconosciuta dall’ordinamento. In assenza di una legge che sarebbe arrivata solo l’anno successivo (art.1, c. 27, l. n. 76/2016), la Corte di Cassazione, con giurisprudenza innovativa, ritenne inammissibile la caducazione automatica del matrimonio dato che, ragionando in senso contrario, ci sarebbe stata quella violazione di diritti fondamentali che la Corte costituzionale aveva condannato.
Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali – 2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne – 3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione – 4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo.
1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali
Non è la prima volta – come si sa – che la Consulta piega ed adatta alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità. Questa vicenda riceve, tuttavia, oggi una esasperata e per molti versi originale rappresentazione segnalandosi per taluni profili, ora rapidamente richiamati, sui quali conviene far luogo ad una disincantata e, per quanto possibile, distaccata riflessione.
Avverto subito che non è facile cosa, perlomeno non lo è per chi, come me, è da tempo fermamente convinto del bisogno, di cruciale rilievo, di tenere fermi i canoni stessi, quale condizione necessaria, ancorché di per sé sola insufficiente, del mantenimento della “giurisdizionalità” della giurisdizione costituzionale, vale a dire della riconoscibilità della sua stessa natura ed essenza, della identità che la distingue da ogni altra espressione della giurisdizione[1].
La posta in palio è, dunque, elevatissima; e non può, perciò, non destare inquietudine la circostanza che essa sia messa in “gioco”, tanto più poi quando l’esito della partita appaia essere perdente.
Immediate e di tutta evidenza le conseguenze che discendono dalla mancata osservanza dei canoni suddetti. Dismettendo i panni del “giudice”, nella peculiare accezione e valenza posseduta dal termine nelle sue applicazioni alla giustizia costituzionale, alla Corte non resta che indossare al loro posto quelli del decisore politico, anzi del massimo decisore politico, commutandosi – come mi è venuto di dire già in altre occasioni – in un autentico potere costituente permanente, da se medesimo abilitato a disporre a piacimento, secondo occasionali convenienze, delle norme costituzionali che ne danno l’identità e ne qualificano l’attività. In buona sostanza, mette dunque da canto il principio della separazione dei poteri che, pur nella temperata accoglienza ricevuta dalla nostra Carta al pari delle altre venute alla luce all’indomani della seconda grande guerra, dà comunque la cifra espressiva di ogni ordinamento di tradizioni liberali. Non a caso, infatti, se ne fa menzione, quale una delle basi portanti della struttura di uno Stato costituzionale, nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, unitamente al riconoscimento dei diritti fondamentali, nei cui riguardi si pone – come si sa – in funzione servente.
Viene, insomma, a determinarsi un’anomala commistione dei ruoli istituzionali, rendendosi pertanto indistinguibile quello giocato dalla Corte rispetto all’altro che è proprio degli organi della direzione politica. Ed è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore o, magari – e perché no? –, nel corso di una stessa vicenda processuale entrambi, alternandoli man mano che la stessa si svolge e dando quindi modo agli stessi di rispecchiarsi, in forme inusuali, nei verdetti emessi in chiusura dei casi.
Non è consentito qui allargare il discorso oltre l’hortus conclusus entro il quale questa succinta riflessione è obbligata a stare; e, tuttavia, poiché ogni tessera di un mosaico si lega alle altre e tutte assieme compongono il quadro, non è inopportuno accennare di sfuggita come si siano avute non poche (ed esse pure preoccupanti) manifestazioni di questo trend volto ad un innaturale mescolamento dei ruoli. Mi limito al riguardo a rammentare qui il modo con cui l’ultima giurisprudenza intende e (non di rado non) mette in pratica il limite del rispetto della discrezionalità del legislatore, che pure per vero è da tempo soggetto a vistose oscillazioni[2], talora persino ad usi diametralmente opposti: ora, cioè, tenuto fermo e fatto valere davanti alle richieste venute dalle autorità remittenti di incisive manipolazioni del dettato legislativo ed ora però – e questo ciò che, appunto, ha qui specifico rilievo – messo sotto stress o, diciamo pure, interamente da canto. Quest’ultimo esito, poi, può presentarsi in varie forme: dandosi al legislatore un termine, del quale peraltro non sempre è chiara la ratio, perché provveda a far luogo al necessario, sostanziale rifacimento di una disciplina legislativa complessivamente carente e non in linea con il dettato costituzionale[3], ovvero sollecitando puramente e semplicemente il legislatore stesso ad intervenire sotto la minaccia della futura e pressoché certa caducazione operata direttamente dalla stessa Corte[4]. Ed è interessante notare, a sicura conferma della astratta sussistenza del limite e del suo disinvolto superamento, come la Corte non si trattenga dal prospettare al legislatore talune possibili discipline alternative (così, appunto, in Cappato) ovvero a dare un vero e proprio “catalogo” di indicazioni al quale attenersi, sì da conformare la propria decisione quale una sorta di anomala “pronunzia-delega”, ora più ed ora meno stringente per il suo primo e naturale destinatario[5].
La Corte insomma adegua la misura dell’intervento politico-normativo cui fa luogo alle circostanze, per come sono di volta in volta apprezzate, senza che peraltro non sempre risulti chiara la ragione per cui, fissate certe premesse del suo ragionamento e portate quindi ai loro conseguenti svolgimenti, si facciano veicolare gli esiti raggiunti ora da questa ed ora da quella tecnica decisoria: tecniche – si faccia caso – a volte assai diverse, persino opposte, malgrado la straordinaria somiglianza riscontrabile tra le vicende processuali alle quali si applichino[6].
È questo – a me pare – lo scotto, assai grave in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali), che si è costretti a pagare per effetto della proliferazione incessante (e, negli ultimi tempi, a ritmi incalzanti) degli strumenti stessi. Insomma, quanto più si è arricchita la panoplia dei tipi e sottotipi di decisione forgiati dalla Consulta, tanto più in conseguenza del loro affollamento v’è il rischio del loro uso promiscuo e – se posso esser franco – improvvisato, faticandosi quindi non poco a capire (e talvolta non riuscendosi a capire affatto) quale mai possa essere stata la ragione della scelta nel singolo caso adottata[7].
2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne
Ora, il dato che con maggiore evidenza balza subito agli occhi, già a prima lettura della decisione qui annotata, è dato dal suo porsi ben oltre (e, per ciò stesso, contro) il disposto di cui all’art. 136 della Carta che – come si sa – vorrebbe prodotto subito e in ogni caso l’effetto ablativo che è proprio delle pronunzie di accoglimento.
Sulla decisione si sono avuti già diversi commenti di accreditati studiosi[8], la qual cosa semplifica molto il compito che mi è stato oggi affidato dandomi modo di fermare specificamente l’attenzione unicamente sul punto evocato dal titolo dato alla mia riflessione.
In breve, la Corte fa qui luogo ad un’anomala vacatio sententiae, peraltro dalla durata stupefacentemente lunga[9], non prevista (e, per ciò stesso, non consentita[10]) dal disposto costituzionale sopra richiamato, mostrando in tal modo factis di ritenere “bilanciabile” la norma sul processo costituzionale in parola con altra norma, di cui all’art. 106 Cost., relativa all’amministrazione della giustizia (e, dunque, ad un bene costituzionalmente protetto da cui dipende il fisiologico ed ottimale esercizio della giurisdizione, con tutto ciò che esso rappresenta per i diritti e gli interessi in genere tutelati dalla Carta), malgrado si tratti di materiali del tutto eterogenei e, come tali, non confrontabili.
Si diceva che non è la prima volta che la Corte mostra di considerare “cedevoli” le norme sui giudizi di costituzionalità. La circostanza per cui se ne sono avuti non sporadici riscontri non è tuttavia – è banale dover qui rammentare – una giustificazione valida dell’operato del giudice costituzionale. Non si trascuri, ad ogni buon conto, il fatto che le manipolazioni per il futuro, quale quella operata in occasione della vicenda processuale che ha dato lo spunto per il commento che si va ora facendo, solo ad una prima ma erronea impressione appaiono essere speculari a quelle relative al passato, di cui pure si sono avuti non pochi riscontri[11]. E ciò, per la elementare ragione che il passato è noto e possono, perciò, ben darsi casi in cui la delimitazione temporale dell’effetto ablativo si dimostri essere perfettamente rispondente ad esigenze di sistema, anzi – a dirla tutta – non si ponga affatto quale una forma di manipolazione, nell’accezione propria del termine, bensì linearmente discenda dai canoni relativi all’avvicendamento delle fonti nel tempo ed alle dinamiche del processo costituzionale.
Si pensi, ad es., ad una legge regionale venuta alla luce nel pieno rispetto dei parametri al tempo della sua formazione vigenti e divenuta successivamente invalida a causa di un mutamento del parametro, quale potrebbe aversi per effetto della entrata in vigore di una nuova legge statale idonea a porre vincoli all’autonomia regionale. Ebbene, è chiaro che la eventuale perdita di efficacia dell’atto affetto da invalidità sopravvenuta[12] non già ex tunc bensì unicamente a far data dal momento del mutamento del parametro non urta coi canoni relativi alla composizione delle antinomie, costituendone piuttosto il piano e lineare svolgimento.
Di contro, le manipolazioni per il futuro sono gravate dall’ipoteca relativa alla inconoscibilità di quest’ultimo e, talora, alla sua imprevedibilità, tanto più poi quando l’evento prefigurato al quale è ancorata la perdita di efficacia dell’atto illegittimo potrebbe venire ad esistenza in un momento molto lontano nel tempo, come appunto si ha nel caso nostro[13], nel quale peraltro non è affatto certo che nella data prevista si abbia davvero il completamento della riforma della magistratura onoraria. Di qui all’ottobre 2025 possono, infatti, accadere molte cose, tali da rendere, per un verso, materialmente impossibile o, diciamo pure, non necessaria la produzione dell’effetto ablativo – ed è proprio ciò che, in fondo, la stessa Corte si augura[14] –, in conseguenza del complessivo rifacimento della disciplina della materia da parte del legislatore. Per un altro verso, è però pure da mettere in conto la evenienza che, non riuscendosi a portare a termine la riforma della magistratura onoraria, si avverta il bisogno di prolungare ulteriormente la vigenza della normativa oggi dichiarata costituzionalmente illegittima. La qual cosa, francamente, non vedo come possa farsi, se non tornando ad investire la Corte della medesima questione già decisa nel senso… dell’annullamento. Una ipotesi, chiaramente, impraticabile, semplicemente assurda. Si conoscono, infatti, molti casi di questioni dapprima rigettate e poi accolte[15], ma non ovviamente di questioni accolte e poi rigettate[16].
Come si vede, la tecnica decisoria che dà modo alla Corte di apporre un termine di vacatio alle proprie decisioni può – ne convengo – rivelarsi adeguata a talune circostanze, così come peraltro si è dimostrata essere negli ordinamenti che la conoscono[17], ma a condizione che l’intervallo temporale tra la emissione del verdetto e la produzione dell’effetto ablativo sia ragionevolmente contenuto, non già – come qui – in misura abnorme lungo. In ogni caso – come si viene dicendo –, un punto è da tener fermo, senza esitazione alcuna; ed è di dar modo al giudice costituzionale di muoversi unicamente entro il recinto segnato dai canoni che presiedono all’esercizio delle sue funzioni. Se poi si ritiene che l’ambito in parola, per com’è oggi, non sia più sufficiente a dar modo all’organo di spaziare e di spingersi in territori ad oggi preclusigli e invece bisognosi di essere dallo stesso coltivati, a beneficio della Carta e di quanti – cittadini ed operatori istituzionali – ad essa fanno capo per avere appagati taluni loro bisogni, ebbene la soluzione c’è ed è a portata di mano: quella indicata nell’art. 138, per la modifica dei canoni costituzionali sul processo, e in altre fonti (legge comune e norme frutto di produzione giuridica da parte della stessa Corte) quanto agli ulteriori canoni posti in svolgimento e ad integrazione dei primi[18].
Di contro, la Corte molte volte fa luogo ad occasionali rifacimenti degli stessi: innova cioè norme frutto di “diritto politico” con norme espressive di “diritto giurisprudenziale”, per riprendere ora i termini accreditati da un’autorevole, non dimenticata dottrina ed oggi d’uso corrente[19]. Ed è evidente che la seconda forma di produzione giuridica è, per sua indeclinabile vocazione, soggetta a continue oscillazioni e mai finiti ripensamenti, diversamente dalla prima che, pur andando essa pure ovviamente incontro a modifiche, esibisce nondimeno una maggiore rigidità e – ciò che più importa – offre, perlomeno sulla carta, garanzie maggiori di certezza del diritto in senso oggettivo. È poi chiaro che a volte enunciati presenti in atti di normazione, a partire da quelli costituzionali, possono essere forieri di ancora maggiori incertezze di quelle che possono conseguire alle espressioni della giurisprudenza, specie laddove quest’ultima si componga in “indirizzi” (in senso proprio), consolidati ed univocamente orientati.
La cosa ha particolare rilievo proprio sul piano costituzionale.
Non rinnego – sia chiaro – il significato profondo e ad oggi attuale avuto dalla “lotta per la Costituzione” – come suole essere chiamata – condotta nella gloriosa ed esaltante stagione che ha portato all’avvento delle prime Carte liberali; e non intendo, dunque, affatto rimettere in discussione il valore intrinseco in una nuova ed adeguata “razionalizzazione” costituzionale, alla quale a mia opinione sarebbe anzi urgente porre mano, svecchiando e rigenerando la Carta del ’48 in linea con la sua matrice originaria ed allo scopo di renderla ancora più confacente a nuovi bisogni nel frattempo venuti alla luce. Intendo solo dire che dovremmo tutti avere piena consapevolezza dei guasti che – ahimè, non di rado – conseguono ad un uso non vigilato delle tecniche di produzione giuridica, al punto che in talune circostanze un sano diritto non scritto – come mi è venuto di dire in altre occasioni – si rivela essere assai preferibile ad uno scritto e malfatto[20].
Sempre a fugare ogni possibile fraintendimento del mio pensiero, tengo poi a chiarire che, pur nella consapevolezza dei rischi ai quali fa comunque andare incontro il “diritto politico”, non ne auspico di certo l’abbandono, accompagnato dalla entrata in campo, in modo prepotente, in sua vece del “diritto giurisprudenziale”, che a sua volta – come si è venuti dicendo – comporta esso pure inconvenienti non da poco. Il modello vincente, nel quale da tempo mi riconosco, è, invece, quello del congiunto ed equilibrato concorso di entrambe le forme di produzione giuridica in parola: all’uno, in ispecie, toccando la descrizione della cornice del quadro, a mezzo di indicazioni a maglie larghe (essenzialmente per principia), restando poi demandato ai pratici (e, segnatamente, appunto ai giudici) il perfezionamento e completamento dell’opera a mezzo di atti congrui con le peculiari esigenze dei casi[21].
Ad ogni buon conto, per tornare alla questione qui di specifico rilievo, le norme sul processo – come si è fatto altre volte notare – non sono passibili di “bilanciamento” alcuno e la loro osservanza si impone quale condizione per ogni altro “bilanciamento”, proprio perché è dalla stessa che si riconosce la natura dell’organo e la fedeltà al munus ad esso conferito dalla Carta. Sarebbe come – per fare un esempio volutamente esasperato ma immediatamente eloquente – immaginare che il Parlamento, in occasione della formazione di una legge, pensi di poter cambiare le regole al riguardo stabilite con… la legge stessa in tal modo venuta alla luce che, perciò, presenti carattere riflessivo, legittimando se stessa. O sarebbe come se un arbitro di una partita di calcio o di altro sport si inventasse sul posto, in corso di svolgimento del gioco, una nuova regola che non c’è (e non può esserci), quale quella di sentirsi abilitato a venire in soccorso della squadra perdente e di poter perciò dare calci alla palla contro la rete avversaria[22].
L’assurdità degli esempi appena fatti è talmente eloquente da non richiedere che si spenda alcuna parola in più a commento dell’accaduto.
3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione
V’è però un punto che merita di essere ulteriormente rimarcato, sia per il fatto che non è la prima volta che se ne ha riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale e sia perché è sicuro che tornerà ancora a ripresentarsi. Ed è dato dal singolare, per l’aspetto logico, itinerario compiuto dal giudice, già per ciò che attiene alla sua partenza ed ai passi quindi fatti lungo il solco inizialmente tracciato.
In breve, il ragionamento si svolge così.
In premessa, la Corte muove da un dato ritenuto incontestabile nella sua vistosa portata e per gli effetti ad esso riconducibili, muove cioè da una situazione di fatto che con argomenti stringenti qualifica essere in sé e per sé contraria a Costituzione (la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia). Aggiunge che questa situazione si è ormai – come dire? – consolidata e che, perciò, la sua rimozione “secca” e con effetti immediati produrrebbe effetti devastanti, comunque intollerabili, per l’amministrazione della giustizia e, di riflesso, per i suoi fruitori, i cittadini e quanti in genere ad essa si rivolgono per avere appagamento in diritti e bisogni meritevoli di tutela[23].
La conseguenza, linearmente svolta muovendo dalla premessa fissata e dalla constatazione di com’è fatta la realtà, è che, a giudizio della Corte, non è possibile far subito luogo alla caducazione della disciplina normativa illegittima, che nondimeno merita ugualmente di essere subito dichiarata contraria a Costituzione, rimandandosi quindi la produzione dell’effetto ablativo alla data futura indicata nella parte motiva della decisione.
Ebbene, di questo schema – sarei tentato di dire, di questo standard – si hanno numerose altre testimonianze nei campi più varî di esperienza. Il “modello” è, in buona sostanza, sempre lo stesso. Perlopiù si ricorre all’emergenza quale causa determinante un certo stato di cose e giustificativa della decisione che il giudice sarebbe obbligato ad adottare, che può appuntarsi in uno dei corni dell’alternativa seguente: far luogo al mantenimento della normativa oggetto di giudizio, di cui pure non si nascondono le non poche né lievi carenze, oppure – come qui – caducarla con effetti però molto differiti in avanti.
Come si vede, può aversi ora una tecnica provvisoriamente assolutoria (ma con previo riconoscimento di… colpevolezza) ed ora invece una di condanna ma con spostamento temporale in avanti dell’applicazione della pena. Tecniche, dunque, alternative per il tipo di appartenenza (e, di conseguenza, per gli effetti loro propri) ma utilizzate in modo promiscuo, secondo occasione[24].
Ora, vi è un punto, di cruciale rilievo, che mi sta particolarmente a cuore mettere in evidenza. Ed è che le emergenze in genere – tranne rare evenienze, quale può essere un evento della natura ad oggi non scongiurabile, come un terremoto – non spuntano come funghi in un bosco dopo una notte di pioggia né sono come un violento acquazzone che ricade su uomini e cose determinando allagamenti e catastrofi in genere, obbligando pertanto il legislatore a far luogo a discipline normative problematicamente conciliabili con la Carta o, diciamo pure, con essa frontalmente contrastanti, quale ad es. è stata quella varata negli anni bui del terrorismo rosso e mandata quindi assolta dalla notissima sent. n. 15 del 1982[25].
Le emergenze, di contro, sono – perlomeno, il più delle volte – la conseguenza immediata e diretta, seppur non sempre subito riconoscibile, di annose e gravi carenze (e talora della vera e propria latitanza) del legislatore, del perpetuarsi di intollerabili ingiustizie sociali, del reiterarsi di fenomeni corruttivi diffusi[26] e di quant’altro insomma fa a pugni con l’etica pubblica repubblicana cui dà voce la Carta.
È, poi, chiaro che le mancanze in parola si debbono, in misura determinante, alla crisi ingravescente della rappresentanza politica, su cui – come si sa – è venuta col tempo a formarsi una messe copiosa di scritti di vario segno e orientamento ed alla quale pertanto non giova ora riservare neppure un cenno[27]; una crisi che si alimenta da radici profonde, diffuse, reciprocamente aggrovigliate in seno al corpo sociale. La qual cosa induce invero a non poco pessimismo circa la possibilità di apprestare rimedi efficaci a questo stato di cose universalmente deplorato, ove si convenga – come a me pare si debba – che non sono di certo sufficienti allo scopo pur corpose riforme dell’apparato istituzionale, laddove non accompagnate e sorrette da un rifacimento complessivo della struttura della società sottostante e da un critico ripensamento delle relazioni che in essa s’intrattengono, in primo luogo, tra i consociati e, quindi, tra questi ultimi e gli organi dell’apparato stesso[28].
Il vero è che è proprio il tessuto sociale ad essere ormai gravemente sfilacciato, proprio perché sono andati smarriti gli antichi punti ideali di riferimento; ed a pagarne in primo luogo le conseguenze – come si diceva – sono stati (e sono) i valori fondamentali dell’ordinamento dal cui inveramento dipende la salvaguardia dell’idea di Costituzione e dello Stato che da essa prende il nome.
Come si vede, la posta in palio è ben altra di quella, pure di primario rilievo, costituita dal merito della vicenda che ha dato lo spunto per la succinta riflessione che si sta per chiudere. Forse, la Corte non è pienamente avvertita del fatto che, aggiungendo un disposto in deroga all’art. 136 dapprima mancante, non ha semplicemente manipolato una norma come un’altra del parametro costituzionale – cosa, comunque, di per sé di singolare gravità – ma ha riplasmato l’essenza della Costituzione, con la stessa facilità con cui si traggono da una sostanza gommosa e malleabile, quale la plastilina con cui giocavamo da bambini, figure sempre nuove, secondo la fantasia e l’ispirazione del momento.
Il fatto occasionale a volte resta un evento unico, dando vita ad una momentanea sospensione del vigore di un precetto costituzionale che quindi torna ad espandersi ed a riaffermarsi nella sua originaria portata[29]. Non si trascuri, tuttavia, che nulla va mai perduto e che, piuttosto, tutto si conserva, ogni novità introdotta per via giurisprudenziale rendendosi pur sempre disponibile per futuri utilizzi, anche per casi imprevedibili al momento in cui vi si è fatto inizialmente luogo. È perciò che alla circostanza che ha dato lo spunto per questo commento va assegnato un particolare rilievo, soprattutto per ciò che essa potrebbe rappresentare per l’avvenire.
4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo
Un’ultima notazione, che consegno in forma dubitativa. La Corte ha acclarato che la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia non è rispettosa della Costituzione, sospendendo nondimeno la produzione degli effetti conseguenti al suo accertamento. Mi chiedo, dunque, se le pronunzie emesse dai giudici stessi o da collegi di cui essi facciano parte vadano incontro a rischi conseguenti all’ormai riconosciuta invalidità della composizione degli organi giudicanti.
Qui pure – come si vede – si assiste ad un bilanciamento risoltosi a discapito di coloro che chiedono giustizia e che per anni seguiteranno ad averla da parte di chi non aveva (e non ha) il titolo per somministrarla, per ciò solo risultando destinatari di una giustizia… ingiusta. Un esito – si dice nella pronunzia in commento – che va pur tuttavia tollerato, a fronte dell’inconveniente ancora maggiore che si avrebbe con la caducazione immediata della normativa incostituzionale. È tuttavia da mettere in conto – temo – una pioggia di ricorsi alla Corte europea per violazione dei canoni relativi al giusto processo, quanto meno per l’aspetto del lasso temporale irragionevolmente lungo intercorrente tra la pronunzia odierna del giudice costituzionale e l’atteso rifacimento della composizione degli organi giudicanti. Intendo dire che, seppure la Corte di Strasburgo dovesse rimettersi – come con ogni probabilità farà – al margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato in ordine alla disciplina della materia, ugualmente potrebbe giudicare intollerabile un’attesa così lunga qual è quella oggi concessa dalla Consulta al legislatore.
Si vedrà.
Non disponiamo, ovviamente, di alcun elemento in grado di dare lumi circa i possibili sviluppi della vicenda, una volta che quest’ultima dovesse poi trasporsi in ambito sovranazionale. Certo si è, in conclusione, che la questione è di scottante attualità, gravida di implicazioni a largo raggio e suscettibile di esiti sotto plurimi aspetti imprevedibili. Già solo per ciò avrebbe forse meritato un supplemento di attenzione da parte della Corte prima che quest’ultima si fosse determinata nel senso che sappiamo. È pur vero che l’alternativa all’accoglimento (“secco” ed immediato ovvero con rinvio a termine spostato molto in avanti) non avrebbe potuto che essere quella del rigetto con monito che, però, com’è noto, il più delle volte resta privo di sostanziali ed apprezzabili effetti.
Stretta nella morsa soffocante tra il lasciare le cose così come oggi sono, sollecitando vigorosamente il legislatore a cambiarle, ed innovarvi ma solo per l’avvenire, la Corte non ha esitato – verosimilmente, non a cuor leggero – ad optare per il secondo corno dell’alternativa. E l’ha fatto – come si è venuti dicendo – con una sentenza di… revisione costituzionale.
Una volta di più, insomma, anziché sollecitare il legislatore a far luogo al mutamento del quadro normativo vigente battendo la via piana del mutamento costituzionale con le procedure indicate nell’art. 138, specificamente volto a dotare la Corte dello strumento della vacatio sententiae noto ai sistemi di giustizia costituzionale propri di altri ordinamenti, è stato lo stesso arbitro costituzionale a centrare subito il bersaglio, segnando il risultato decisivo per le sorti della partita. Solo che, una volta messosi a tirare calci alla palla, a mia opinione ha fatto un… autogol.
L’augurio è che ne abbia piena avvertenza, prima che ne discendano conseguenze di ordine istituzionale suscettibili di imprevedibili sviluppi per la tenuta complessiva del sistema.
[1] Basti solo, al riguardo, rammentare che – secondo una opinione largamente diffusa ed autorevolmente accreditata [tra i molti, C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.); A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. In prospettiva comparata, per tutti, AA.VV., Giustizia e Costituzione agli albori del XXI secolo, a cura di L. Mezzetti - E. Ferioli, Bonomo, Bologna 2018.] – la Corte racchiuderebbe al proprio interno due “anime”, come sono pittorescamente raffigurate, l’una appunto giurisdizionale e l’altra politica, chiamate a stare in costante, seppur precario, equilibrio, richiesto dal peculiare munus demandato all’organo e dalla parimenti peculiare conformazione dei materiali normativi coinvolti in occasione del suo esercizio, in ispecie del parametro costituzionale di cui l’organo stesso è chiamato a porsi quale interprete privilegiato e massimo garante. È pur vero però che molti segni si hanno, specie negli sviluppi della giurisprudenza degli anni a noi più vicini, che denotano una marcata prevalenza della seconda “anima” sulla prima; ed allora il rischio assai grave che si corre è che, laddove ciò si abbia in una particolarmente accentuata e francamente intollerabile misura (ed è proprio questo il caso nostro), venga a conti fatti a smarrirsi l’attributo della “giurisdizionalità” della funzione.
[2] … prontamente rilevate dalla più avveduta dottrina [tra gli altri, A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.].
[3] Così, in ispecie, nel discusso (e discutibile) caso Cappato o nella vicenda di cui a Corte cost. n. 132 del 2020 che sarà definita nel giugno prossimo, ad un anno esatto dalla pronunzia interlocutoria emessa in applicazione della stessa tecnica decisoria in due tempi inaugurata nel primo caso ora richiamato.
[4] V., di recente, part., Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021 [e, su di esse, se si vuole, la mia nota La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota minima a Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 11 marzo 2021, 221 s.]. Un riferimento alla discrezionalità del legislatore è, ora, anche nella sent. n. 48 del 2021, con nota di L. Trucco, Diritti politici fondamentali: la Corte spinge per ampliare ulteriormente la tutela (a margine della sent. n. 48 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 1° aprile 2021, 283 ss.
[5] In realtà, destinatari delle pronunzie sono sempre anche i giudici e gli organi dell’amministrazione, a vario titolo chiamati a far luogo alle attività “conseguenziali” sollecitate dalla loro adozione, in forme varie a seconda dei casi.
[6] La “fungibilità” delle tecniche decisorie è ora rilevata anche da R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 6 aprile 2021, 289 s.
[7] Per fare ora solo un esempio già altrove addotto, ad es. non mi è chiaro perché la tecnica inaugurata in Cappato, di cui pure deploro l’utilizzo, non sia stata fatta valere anche nella vicenda di cui a Corte cost. n. 230 del 2020, definita con una decisione d’inammissibilità [sulla vicenda, fatta oggetto di numerosi commenti, riferimenti ora in E. Olivito, (Omo)genitorialità intenzionale e procreazione medicalmente assistita nella sentenza n. 230 del 2020: la neutralità delle liti strategiche non paga, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 2 marzo 2021, 137 ss., e A. Giubilei, L’aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali femminili. Nota alla sentenza n. 230 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos (www.nomos-leattualitaneldiritto.it), 3/2020, 1 ss.]. E così via in molti altri casi. Il disagio davanti a siffatte oscillazioni ed aporie di costruzione giurisprudenziale è stato, di recente, manifestato anche da altra, accreditata dottrina [N. Zanon, I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, in Federalismi (www.federalismi.it), 3/2021, 27 gennaio 2021, 86 ss., spec. 96 ss. (con richiamo ad un mio pensiero sul punto)].
[8] … tra i quali, V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 6 aprile 2021, 130 ss., spec. 135 s., e R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., 288 ss.
[9] … fino all’ottobre 2025.
[10] Non è inopportuno qui rammentare che, a differenza di ciò che ordinariamente vale al piano dei rapporti inter privatos, laddove tutto ciò che non è vietato è permesso, in diritto pubblico il potere si ha unicamente laddove vi sia una norma che previamente lo fondi e ne disciplini le modalità di esercizio.
[11] Un esempio per tutti, quello di cui alla sent. n. 10 del 2015, che ha animato un fitto dibattito ai cui esiti ricostruttivi nondimeno non può ora riservarsi neppure un cenno; a riprova della varietà dei punti di vista al riguardo espressi è sufficiente il solo dato per cui nel sito Consulta OnLine (www.giurcost.org) sono richiamati, in testa alla decisione in parola, ben trentanove commenti ospitati da sedi scientifiche in rete, senza ovviamente tener conto quelli presenti su Riviste cartacee, sui manuali di giustizia costituzionale e monografie nelle quali si tratta degli effetti temporali delle decisioni del giudice costituzionale.
[12] … ovviamente, possibile col solo procedimento in via di eccezione, essendo ormai decorsi i termini per i ricorsi in via d’azione.
Per la distinzione tra una incostituzionalità sopravvenuta in senso stretto ed una in senso lato, v., volendo, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 209 s., dove si rileva come accanto ad una siffatta specie di invalidità potrebbe aversi anche quella, opposta, di una legittimità sopravvenuta.
[13] Per l’aspetto ora considerato, la manipolazione operata dalla pronunzia qui annotata si presenta ancora più incisiva – sempre che si reputi possibile fare una sorta di “graduatoria” al riguardo… – di quella posta in essere in Cappato, proprio per il più lungo lasso di tempo intercorrente rispetto alla definizione del caso, che di per sé gioca nel senso di lasciare un segno ancora più marcato sul dettato costituzionale, fatto oggetto di corposo rifacimento dalla tecnica decisoria in parola (sul significato posseduto dalla dimensione temporale nelle esperienze di rilievo costituzionale richiamo qui solo, per tutti, lo studio di T. Martines, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti in onore di S. Pugliatti, III, Giuffrè, Milano 1977, 783 ss., nonché in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, 477 ss.).
[14] … anche se si avrebbe la stranezza di un atto giuridico, la sentenza della Corte, rimasto improduttivo di effetti per suo stesso… auspicio.
[15] Ciò che, invero, è pacificamente ammesso ma che – come si è tentato di argomentare altrove – appare per vero essere problematicamente conciliabile col disposto di cui all’art. 137, ult. c., Cost. che – senza distinzione alcuna tra tipo e tipo di decisione della Corte – esclude categoricamente la eventualità della loro “impugnazione”, in vista dunque di un eventuale ripensamento da parte dello stesso giudice costituzionale di una questione, come che sia, ormai decisa, smarrendosi altrimenti il quid proprium della ragion stessa di esistere della Corte, che è di dare certezze di diritto costituzionale, in quanto abilitata a dire l’ultima parola sulle controversie coinvolgenti la legge fondamentale della Repubblica (ho indagato il senso complessivo e il modo di operare e di farsi valere del disposto summenzionato nei miei Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, e Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss.).
[16] … salvo il caso di legge riproduttiva di altra legge dapprima caducata che, nuovamente impugnata, esca quindi indenne dal secondo giudizio della Consulta, magari – perché no? – per effetto di un fatto nuovo che lo giustifichi, quale potrebbe esser dato, ad es., da una pronunzia di questa o quella Corte europea venuta medio tempore alla luce. E, tuttavia, in una congiuntura siffatta, le due “situazioni normative” (che, a mia opinione, si pongono ad oggetto del sindacato di costituzionalità), una volta poste a raffronto, si dimostrano essere non coincidenti, proprio a causa del novum nel frattempo registratosi. Il fatto “riproduttivo”, ad ogni buon conto, nel caso nostro non può aversi, essendo ancora in vigore la disciplina normativa oggetto della pronunzia ablativa iniziale.
[17] Se n’è, d’altronde, avvertita la consapevolezza da parte di più d’uno studioso e la stessa Corte, dal suo canto, ha ritenuto la questione meritevole di approfondimento, tanto da farne oggetto di esame nel corso di uno dei Seminari annuali con i quali sollecita il confronto degli studiosi su questioni scottanti e gravide di implicazioni (v., dunque, AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche in riferimento alle esperienze straniere, Palazzo della Consulta 23-24 novembre 1988, Giuffrè, Milano 1989).
Sta di fatto che la sospensione della produzione dell’effetto ablativo comporta pur sempre un costo innegabile per i diritti costituzionali in vista della cui salvaguardia è presentata la questione di costituzionalità avente ad oggetto la normativa poi provvisoriamente mantenuta in vigore e perciò applicata al giudizio a quo. Il sacrificio della rilevanza, registratosi nella circostanza (ancora R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., spec. 294; altri riferimenti in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 211), nondimeno, non costituisce – come si sa – di certo una novità nelle esperienze più recenti degli ultimi anni (basti solo por mente alle note pronunzie in materia elettorale ed alla sent. n. 10 del 2015, sopra già richiamata).
[18] L’auspicio di una revisione dell’art. 136 Cost., giudicata sommamente opportuna (e, anzi, necessaria), è formulato nello scritto da ultimo richiamato, 214.
[19] Il riferimento è, ovviamente, ad A. Pizzorusso, alla cui memoria è stato dedicato un incontro di studio proprio sul tema, svoltosi a Pisa il 16 dicembre 2019: v., dunque, AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il diritto giurisprudenziale, a cura di V. Messerini - R. Romboli - E. Rossi - A. Sperti - R. Tarchi, University Press, Pisa 2020.
[20] Ne dà, d’altronde, sicura riprova l’intera vicenda storica del costituzionalismo liberale maturata in Gran Bretagna, con ciò che essa ha rappresentato per il radicamento di siffatto modello anche in ordinamenti a tradizione costituzionale scritta. Ad ogni buon conto, non ha molto senso ora rimettere in discussione il valore incontestabile della scrittura costituzionale, con le garanzie ad essa inscindibilmente legate.
[21] Il rapporto tra le due forme di produzione giuridica è, nondimeno, circolare, l’una alimentandosi ed incessantemente rinnovandosi per effetto della spinta e delle sollecitazioni venute dall’altra.
[22] Il soccorso, poi, come si sa, molte volte si ha ugualmente, in forme ora abilmente mascherate ed ora invece spudoratamente scoperte, attraverso il cattivo uso della funzione arbitrale, spesso comunque – come tutte le umane cose – incorsa in errore senza cattiva intenzione.
[23] In realtà, come si è fatto notare da un profondo conoscitore delle dinamiche del processo (V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, spec. ult. par.), ben altri avrebbero dovuto essere i rimedi rispetto alla soluzione adottata dal legislatore per assicurare il superamento della crisi della giustizia. Il punto è che la loro messa in atto avrebbe richiesto (e oggi pure richiederebbe) tempi non brevi ed interventi plurimi e reciprocamente coordinati su più fronti. La qual cosa conferma per tabulas che la caducazione della normativa ad oggi in vigore non sarebbe di per sé sufficiente allo scopo, se non iscritta in un quadro organico di interventi aventi ad oggetto l’organizzazione dei servizi della giustizia e le modalità di svolgimento delle funzioni a quest’ultima facenti capo.
[24] Invito qui a fermare l’attenzione sul linguaggio adoperato; non dico infatti: secondo i casi, che possiedono una loro complessiva connotazione oggettiva, suscettibile di ripetizione temporale e di inquadramento sistematico in prospettiva teorico-astratta. Dico invece: secondo occasione, per significare l’uso imprevedibile ed improvvisato delle tecniche in parola, senza che ne risulti – come si diceva – molte volte chiara la ragione.
[25] … nella quale pure il fatto in sé dell’emergenza è stato – come si sa – determinante al fine della mancata caducazione della normativa adottata dal Governo per dilatare in modo abnorme i termini massimi della carcerazione preventiva, nell’intento di evitare che tornassero in libertà individui sospetti di appartenere alle BR e seguitassero a fare di persone innocenti bersagli viventi in funzione della realizzazione del disegno criminoso avuto di mira.
[26] Su ciò, di recente, la densa riflessione di G. Tarli Barbieri, Corruptio optimi pessima. La corruzione della politica nello specchio del diritto costituzionale, Mucchi, Modena 2020.
[27] Riferimenti e ragguagli possono, se si vuole, aversi dal mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[28] Ho trovato particolarmente utile e, in più punti, davvero illuminante la cruda diagnosi al riguardo contenuta in un’agile pubblicazione monografica di un illustre studioso dell’antichità romana, A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020, dalla quale ho quindi preso le mosse per una personale riflessione i cui esiti possono vedersi rappresentati nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss.
[29] D’altronde, lo ha fatto (e lo fa) talvolta anche l’altro massimo garante del sistema, il Presidente della Repubblica. Ricordo, ad es., quanto verificatosi durante il settennato di Pertini (che pure non era di certo smanioso di “picconare” il sistema, come lo è stato un altro discusso Presidente), con riguardo alla nomina dei senatori a vita, in forza di una originale lettura, in precedenza ed in seguito smentita, del disposto di cui all’art. 59 Cost., favorevole – come si sa – a che ogni Presidente possa far luogo a cinque nomine, idonee perciò ad aggiungersi a quelle fatte dai suoi predecessori (una eventualità ormai scongiurata – come pure è noto – da una opportuna precisazione messa in coda al disposto suddetto con legge cost. n. 1 del 2020).
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