ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte? - 2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento” – 3. Conclusioni.
1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte?
Il Fato, termine di origine latina, derivante dal verbo fari, che significa "dire", "parlare", al participio passato neutro si declina in fatum, che vuol dire "ciò che è stato detto" o "la parola detta”, intendendosi dalla divinità, insomma un susseguirsi degli eventi a cui ci si deve adeguare ed è inutile tentare di sottrarsi.
E infatti, in età più matura, lo stesso termine fu usato per designare il Destino, in quanto necessità suprema e ineluttabile o potere misterioso e incontrastato[1], figlio del Caos e della Notte, al quale nessuno, nemmeno gli dei, potevano sottrarsi e di cui persino Giove non ne è che un esecutore.
Facendo un passo indietro, nei poemi omerici il destino è indicato da Moira, che letteralmente indica "parte" di vita, di felicità o di sfortuna, che è assegnata all'uomo.
Dietro il termine "destino" si nascondeva il timore che l'uomo provava dinanzi all'ignoto. Il fato è irrevocabile, mentre il destino può essere cambiato. L'uomo si è sempre interrogato sulla sua condizione di essere mortale; un esempio attuale è quello del Covid19 (coronavirus), che ci ha dimostrato che non si può nulla contro un evento imprevisto e preparato dal caso, come un'epidemia.
Anche nell’epoca latina ancora influenzata dal pensiero greco, tuttavia, non mancarono scettici razionalisti come Appio Claudio Cieco, secondo cui homo faber fortunae suae, espressione propria di un periodo di forte espansione del potere di Roma.
Ora, com’è ormai noto e diffuso nella letteratura scientifica, l’Ufficio per il Processo, nato invero da norme risalenti nel tempo[2], e il cui destino, nonostante iniziative pregevoli portate avanti a macchia di leopardo su e giù per l’Italia[3], era quello di un complessivo affievolimento, ha conosciuto, invece, a seguito del periodo pandemico, un rilancio attraverso il PNRR e nello specifico tramite la legge 26 novembre 2021, n. 206 e la legge 27 settembre 2021, n. 134, ciò oltre alle norme per il reclutamento straordinario di risorse utili all’attuazione dello stesso piano nazionale previste nel decreto - legge 9 giugno 2021, n. 80 - Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia - convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2021, n. 113 e in ultimo grazie al D. Lgs. 151/2022.
Il Piano si è proposto l’ambizioso obiettivo di concorrere al “rafforzamento della capacità amministrativa del sistema, che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie, e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche, diverse da quelle di natura giuridica, essenziali per attuare e monitorare i risultati dell’innovazione organizzativa; il potenziamento delle infrastrutture digitali con la revisione e diffusione dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e di trasmissione di atti e provvedimenti”[4].
Appare allora il caso di soffermarsi solo sulle novità introdotte dall’ultimo intervento normativo che, anche correggendo il tiro delle precedenti indicazioni, hanno in qualche maniera cristallizzato e strutturato l’Ufficio per il Processo.
L’art. 1, comma 18 della legge delega 26 novembre 2021, n. 206 sulla riforma della giustizia civile ha previsto l’istituzione in via stabile, presso tutti gli uffici giudiziari, sia civili che penali, dell’Ufficio per il processo. La scelta è indicativa della volontà di assegnare all’organizzazione una funzione centrale e trasversale nella giustizia ordinaria e amministrativa[5].
L’istituto raggiunge “finalmente” una stabilità sistematica, collocandosi fermamente fra le risorse che concorrono allo svolgimento della funzione giudiziaria, in particolare con gli artt. 16, 17, 18 e 19 delle disposizioni finali e transitorie del d. lgs n. 151/2022.
Nell’ottica di sistematicità il più importante appare l’art. 18 che introduce nel codice di procedura civile (capo II del titolo I del libro I) l’art. 58 - bis che riconosce all’ufficio per il processo la dignità di struttura stabile e indispensabile per l’esercizio della giurisdizione, allontanando le preoccupazioni di un eventuale abbandono o indebolimento dell’istituto (con dispersione delle ingenti risorse per esso investite), dopo il raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e abbattimento dell’arretrato imposti per la dead line del 2026 [6].
Le disposizioni generali, contenute nel capo I, meritano un’attenta analisi perché puntualizzano alcuni aspetti dai quali traspare l’importanza assegnata alla struttura organizzativa, per un salto non solo quantitativo ma anche qualitativo della giurisdizione.
Infatti, nelle disposizioni generali (art. 2), tra le finalità dell’UPP si prevede la realizzazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo[7] (art. 111 Cost.) attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con ciò prospettando come risorsa indispensabile la digitalizzazione[8].
La direzione e il coordinamento degli uffici per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione sono affidati ai capi degli uffici, ai quali viene attribuito il compito di predisporre il progetto organizzativo, definire le priorità di intervento, gli obiettivi da perseguire e le azioni per realizzarli, nonché di individuare, di concerto con il dirigente amministrativo, il personale da assegnare agli UPP (art. 3).
Il successivo art. 4 elenca le figure professionali che andranno a costituire gli uffici per il processo e gli uffici spoglio, analisi e documentazione, e precisa che ciascun componente svolge i compiti attribuiti secondo quanto previsto dalla normativa, anche regolamentare, e dalla contrattazione collettiva relativa alla figura professionale di appartenenza.
Il capo II del decreto in esame tratteggia i compiti dei componenti dell’ufficio per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione, distinguendo a seconda della tipologia di ufficio giudiziario. Nella descrizione, il legislatore delegato (art. 5, comma 1) ha utilizzato la formulazione «sono attribuiti uno o più fra i seguenti compiti»: tale espressione induce a ritenere che l’elencazione delle attività sia tassativa e non meramente esemplificativa.
Al riguardo, si osserva che la previsione del successivo art. 11 – che prevede che gli UPP e gli uffici spoglio debbano svolgere «anche le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria e di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi degli uffici giudiziari, previste dai relativi documenti organizzativi» – impone un coordinamento fra le due norme, in quanto i progetti organizzativi costituiscono un riferimento centrale per la valorizzazione delle attività degli UPP che potranno, però, svolgersi solo all’interno della elencazione prevista dall’art. 5.
Insomma, viste le norme che precedono, potremmo iniziare a pensare che in questo caso, dopo anni di ritardi, accumulo di processi di vecchia data a scapito anche della qualità dei provvedimenti giurisdizionali, l’Italia abbia battuto un colpo e abbia deciso di non abbandonarsi al fato ma di incidere sul proprio destino.
Questa spinta si è concretizzata innanzitutto in un ingente afflusso di risorse umane, circa dodicimila assunzioni[9] ma anche in una riorganizzazione dell’attività giurisdizionale.
Il singolo magistrato non è più un’isola ma è la punta di diamante di un team che si organizza e gestisce in funzione della migliore risposta da dare alla richiesta di giustizia.
Ma in questa nuova organizzazione una nuovissima figura si è affacciata, l’addetto all’Ufficio per il Processo, cui è stato anche dato il maggior peso numerico nelle fasi assunzionali, oltre novemila nuove unità: basterà il solo apporto numerico a migliorare le performances degli uffici giudiziari?
2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento”
Già nel settembre 2022, a pochi mesi dall’entrata in funzione del “nuovo” Ufficio per il Processo, prima che giungesse un aggiornamento normativo, l’articolo a firma del Presidente di Cassazione Raffaele Frasca[10], con straordinaria e lucida lungimiranza, poneva il problema, e ne forniva una dirimente interpretazione, della figura e della gestione c.d. “ibrida”[11] dell’Addetto all’Ufficio per il Processo.
Invero, prima che le norme rassegnate nel paragrafo precedente vedessero la luce, l’autore si era trovato ad affrontare l’esigenza che l’Addetto fosse, anche per dar seguito al raggiungimento degli obiettivi PNRR, impiegato appieno nell’attività di supporto alla funzione giurisdizionale attraverso i seguenti sintetici compiti: “l’addetto partecipa, sotto la supervisione del presidente di sezione o di altro magistrato, allo spoglio delle nuove iscrizioni, allo studio del fascicolo, alla predisposizione di schemi e di bozze di provvedimenti semplici, alla preparazione dell’udienza e al controllo delle notifiche, alla analisi dei ruoli per verificare serialità di procedimenti, scadenze imminenti e così via”.
Si sosteneva, inoltre, mi perdonerà l’autore la sintesi del testo, che, da una parte la funzione di “raccordo con le cancellerie” attribuita prima facie mediante circolari ministeriali[12] e, dall’altra, il gruppo di mansioni prettamente di assistenza all’azione giudiziaria, collidessero tra loro e che dovesse darsi prevalenza alla seconda funzione, giacché più chiara espressione delle intenzioni del legislatore e dell’intento di sostegno al piano emergenziale. Si sosteneva, infine, che vi fosse un angolo riservato al controllo del lavoro degli AUPP appannaggio del dirigente amministrativo ma limitato agli aspetti prettamente organizzativi del personale quali, ad esempio, gestione delle presenze, articolazione dell’orario di lavoro, concessione di benefici previsti dalle norme di contrattazione collettiva, permessi e ferie, attribuzione dei buoni pasto ecc.
Il D. Lgs. 151/2022, all’art. 11, pone questa norma di chiusura che, per quanto dal carattere ampio e residuale, “…le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria…”, è precisa nell’escludere che il funzionario AUPP possa in qualche misura essere precipuamente adibito a funzioni proprie di cancelleria ma, si precisa, che lo stesso possa svolgere solo una funzione di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi.
Inoltre, come evidenziato nel precedente paragrafo, il testo di legge ha riaffermato la funzione di raccordo ma ha posto delle norme che appaiono in contrasto tra loro lasciando non chiaro l’orizzonte di impiego di tali risorse, soprattutto in termini di ponderazione del lavoro tra le due sponde dell’organizzazione giudiziaria (amministrativa/giudiziaria).
La pratica ci ha insegnato che quanto poc’anzi teorizzato spesso non è avvenuto: sono molteplici le esperienze, nelle varie sedi giudiziarie, che hanno visto impiegato il personale AUPP per svolgere funzioni prettamente di cancelleria. In tal senso è emblematico che addirittura esista in dottrina l’enucleazione di un modello organizzativo dell’Ufficio per il Processo denominato “Supporto alla Cancelleria”[13] applicato in quelle sedi giurisdizionali dove l’AUPP svolge per lo più compiti di supporto alla cancelleria (laddove vi sia carenza di personale di cancelleria) distogliendolo dal supporto all’attività giurisdizionale dei magistrati[14].
Con una sintesi che potrà apparire poco romantica possiamo affermare: di essere di fronte a un lavoratore inquadrato in area terza - contratto personale amministrativo del Comparto Funzioni Centrali, la cui figura professionale è definita per legge ma non ancora contrattualmente recepita e declinata; questo lavoratore, in teoria dipende per tutti gli aspetti amministrativi dalla dirigenza amministrativa ma la gestione, intesa come collocazione della risorsa all'interno dell'unità organizzativa finalizzata a un risultato, intesa come assegnazione specifica dei compiti e delle mansioni quotidiane, dell’attività lavorativa e delle specifiche sue declinazione, è prevalentemente assegnata a magistrati, come si deduce, senza mezzi termini dall'art. 3, comma 2 del D. Lgs. 151/2022: “Il capo dell’ufficio…dirige e coordina l’attività degli uffici per il processo…”[15].
La soluzione a una tale dicotomia è quella opportunamente suggerita dalla Dirigente della Corte di Appello di Brescia, Antonella Cioffi[16], la quale richiede di porre la questione sotto l’ottica della “dirigenza integrata” in quanto è demandato al capo dell’ufficio il governo della giurisdizione, la sua organizzazione e la definizione dei suoi obiettivi, restando in capo alla dirigenza amministrativa governare e organizzare le risorse necessarie all’esercizio della giurisdizione.
Dunque, chiarito che l’Addetto all’Ufficio per il Processo debba rivolgere il grosso della propria attività lavorativa al servizio dell’azione giurisdizionale, resta da indagare come possa fornire il proprio apporto e allora quale possa essere la natura di questo apporto.
Da parte di alcuni[17]occorre procedere rivolgendo specifiche politiche pubbliche, in questo caso appunto quella sviluppata in capo all’Ufficio per il processo, con un focus ancor più attento sul risanamento organizzativo e innovativo degli uffici giudiziari. Tale riforma ha previsto, e ne va sfruttata l’opportunità, un supporto diretto all’attività giurisdizionale ponendosi in quella zona “grigia” tra azione amministrativa e azione giudiziaria, coprendo un vuoto che era avvertito e cercando quindi di operare un raccordo funzionale tra le rispettive attività. È pur vero, a riguardo, come già accennato sopra, che spesso si è insistito sul rafforzamento della capacità amministrativa, mentre è evidente che l’azione deve essere diretta, nella sua potenza innovativa, alla trasversalità organizzativa, integrando la collaborazione tra le diverse posizioni, tutte dirette a migliorare efficacia, efficienza ed economicità nell’erogazione dei servizi di giustizia[18].
Potremmo, forse, allora affermare che l’efficienza della giustizia debba passare per il “nuovo” Ufficio per il processo solo se questo sarà in grado di coniugare organizzazione, attività e professionalità diventando così il baricentro dell’azione giudiziaria globalmente intesa (parte giurisdizionale e amministrativa insieme), divenendo così una sorta di “responsabile del procedimento giudiziario”, mutuando il notorio istituto giuridico del responsabile del procedimento amministrativo che negli anni novanta stravolse positivamente il mondo della pubblica amministrazione italiana.
È apparso allora a molti autori e addetti ai lavori[19] che la soluzione non si trovi nella regola del processo[20] ma piuttosto che sia stata opportuna la scelta del legislatore di intervenire sui distinti livelli della revisione della struttura giudiziaria e amministrativa attraverso la valorizzazione del ruolo delle persone, delle infrastrutture digitali, con evidente impatto sull’agire informato e la velocizzazione della trasmissione delle informazioni, e perfino dell’edilizia giudiziaria.
In questo rinnovato quadro l’Ufficio per il Processo è il modulo organizzativo e il fenomeno pratico in grado di avverare il cambiamento e il funzionario addetto all’ufficio è l’anello di congiunzione delle diverse funzioni e competenze che permette concretamente di realizzarlo. Nello svolgimento delle sue funzioni, infatti, l’addetto all’ufficio dovrebbe preparare il materiale utile al giudice per una più celere organizzazione delle sue attività; coadiuvarlo nella programmazione dell’agenda anche in considerazione delle diverse tipologie di udienza; verificare il prospetto dinamico delle cause pendenti nel ruolo del giudice, attraverso adeguate tecnologie; tenere un monitoraggio delle cause pendenti a seconda della natura della controversia, dell’oggetto della domanda e della fase processuale; creare una tassonomia dei provvedimenti giudiziari al fine di utilizzare celermente i relativi modelli; elaborare un cronoprogramma delle attività sempre aggiornato per rendere rapida, funzionale, ordinata la raccolta dei materiali, lo studio del caso, la predisposizione dei modelli e la redazione delle bozze di provvedimento.
Ferma restando la consapevolezza della, costituzionale, completa autonomia e indipendenza della magistratura e, dunque, della funzione giudicante, non si può escludere che l’attività di case management, ovvero di preparazione del processo, per tradizione svolta più o meno consapevolmente solo dal giudice, possa essere condivisa e oggetto di collaborazione[21].
In quest’ottica, ci suggerisce la Prof.ssa Paola Lucarelli, nel suo saggio Giustizia Sostenibile[22], risulta indispensabile la formazione di una nuova professionalità, quella del funzionario addetto all’ufficio per il processo che fin dagli studi universitari[23] possa acquisire le conoscenze relative agli uffici giudiziari, apprendere le basi della statistica, dell’informatica, dell’organizzazione aziendale, anche nel percorso di studio del diritto, appropriarsi, dunque, della cultura della giustizia sostenibile, efficiente e di qualità[24].
In quest’ottica di apertura e di innovazione vi è anche chi ha suggerito una delega ai funzionari di compiti “paragiurisdizionali”[25] per l'attuazione e lo sviluppo del Processo Civile Telematico, nella triplice direzione della comunicazione tra i soggetti del processo, della conduzione dell'udienza "informatizzata" e della dotazione a giudici e cancellerie di strumenti di analisi dei ruoli per la più consapevole ed efficace gestione del contenzioso. La valorizzazione delle risorse telematiche, liberando energie oggi malamente o impropriamente utilizzate costituisce anche la premessa di un generale processo di riqualificazione professionale che, come si diceva poc’anzi, potrebbe anche portare alla delega, ai funzionari UPP, di eventuali e limitati compiti di natura paragiurisdizionale, alla stregua di quanto già accade in ambito europeo,[26] verosimilmente laddove si tratti di produrre provvedimenti prettamente schematici, caratterizzati da ripetitività e automatismo (si pensi ad esempio ai decreti di liquidazione degli onorari e a tutti quei provvedimenti che si sviluppano su presupposti prettamente aritmetici).
3. Conclusioni
Questi primi tre anni passati dall’avvio del rilancio dell’Ufficio per il Processo ci permettono un’analisi più ampia e sistematica, passando dal crudo dato normativo previsionale, formale e freddo, al dato vivo dell’esperienza sul campo.
I dati del monitoraggio pubblicati nel 2025 ci rivelano che l’obiettivo intermedio è stato invero raggiunto, per lo smaltimento delle pendenze civili più risalenti, previsto per la fine del 2024. Nelle Corti d’appello l’arretrato del 2019 è praticamente eliminato. Tuttavia, il trend positivo che aveva caratterizzato i primi due anni ha subito un leggero rallentamento, quantomeno nell’ambito civile. Il massiccio apporto di risorse operato in questi anni da solo non basta.
Bene le competenze e la preparazione tecnica dei nuovi assunti ma occorre andare oltre e con l’ausilio di validi insegnanti è necessario formare lavoratori e professionisti che svolgono ruoli aperti e si identificano in professioni a larga banda: ciò è necessario, ma non sufficiente. La formazione deve essere continua e deve formare persone vere, capaci di vivere bene e non solo di lavorare bene, persone integrali, che forniscano alla propria missione un valore aggiunto, che si sentano parte di un gruppo e che avvertano il proprio lavoro come parte di un progetto finalizzato a un obiettivo grande e ambizioso.
La direzione è quella che va verso la creazione di persone che non siano un’incarnazione dell’animal laborans, ma espressione dell’homo faber[27], di cui all’incipit iniziale, ossia persone che non siano esaurite nell’oggetto prodotto o nel servizio fornito ma l’insieme di un progetto che sappia creare valore aggiungendo a un’attività basica la capacità di migliorare l’ambito in cui si sta operando[28].
E migliorare il proprio ambito, nell’ambiente giustizia, significa andare oltre le difficoltà e i limiti di un sistema che deve innovarsi per migliorare e soprattutto non ricadere più negli errori del passato, affinché il Piano Nazionale non sia solo una soluzione temporanea ai problemi della giustizia ma incida strutturalmente nel cambiamento dell’organizzazione della giustizia e ne istituisca il definitivo superamento delle più grosse criticità. Il Piano nazionale deve essere l’occasione per creare un nuovo modello di gestione della giustizia. La strada è stata intrapresa, il legislatore ne ha posto le fondamenta arricchendo i codici procedurali di questa nuova modalità di organizzazione dell’ufficio giudiziario e da qui, non si può più tornare indietro.
Il futuro dell’Ufficio per il Processo è oltre il PNRR, occorre spostare l’attenzione dalla sterile analisi dei – pur fondamentali – flussi dei dati, a quella della organizzazione e della qualità della giurisdizione[29].
Se, come detto, i nuovi funzionari UPP possono e devono radicare la propria presenza per un apporto baricentrico all’interno dell’insieme delle procedure amministrativo/giudiziarie che interessano il processo (lato sensu inteso) dall’altro lato tale apporto si compie solo con la fattiva collaborazione e il cambio di paradigma che interessa il lavoro del giudice. E su questa via a dire il vero la magistratura si è mostrata non solo propulsiva ma anche entusiasta, esprimendosi positivamente oltre che sul campo anche in tutte le occasioni pubbliche in cui ha apprezzato che, dopo tanti anni, una nuova, forte riforma potesse essere attuata e non dovesse passare solamente dal cambiamento delle regole del gioco (ergo le norme procedurali).
È allora certamente questo il momento, questa la sliding doors, a un anno dalla fine dell’apporto del PNRR, per non abbandonarsi al fato ma incidere e costruire il proprio destino, operando definitivamente il cambiamento in atto e avendo il coraggio di innovare andando anche oltre le attuali previsioni normative.
L’attuale percorso risulta tortuoso, l’ibridazione di cui si è detto lascia dubbi e incertezze interpretative, l’apporto del funzionario UPP appare incompleto se, per ogni adempimento che questi si appresta a portare avanti, sia sempre necessaria la supervisione e la definitività del lavoro del magistrato. Così facendo, pur avendo “liberato” in buona parte la risorsa giudicante/requirente per dedicarla al cuore della propria attività, risulta comunque ancora onerata da incombenze burocratiche.
Certo, immaginare competenze “paragiurisdizionali” in capo a un personale prettamente amministrativo pone non pochi interrogativi di tenuta costituzionale del nostro ordinamento, ma è pur vero che già esiste la figura del giudice onorario e che sperimentazioni in vari campi e ambiti si sono tenuti nel passato.
La discussione, in subiecta materia, sembra aperta e il dialogo interdisciplinare (tra magistratura, forze politiche, amministrazione, dottrina) siamo sicuri darà ancora risposte positive e costruttive al bisogno di una giustizia definitivamente giusta[30].
[1] V. voce FATO, in DEVOTO-OLI Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, 2024, p. 586.
[2] Articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, così come modificato dall’articolo 50 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114; decreto del Ministro della giustizia 1 ottobre 2015; decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116; articoli 10 e 10-bis della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti per il triennio 2017-2019; risoluzione su “[l]’ufficio per il processo oggi: esito del monitoraggio del CSM sulla istituzione e sul funzionamento dell’Ufficio per il processo negli uffici giudiziari: ruolo della magistratura onoraria e diritto transitorio”, approvata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 18 giugno 2018; linee guida del Consiglio superiore della magistratura in data 15 giugno 2019.
[3] Il Progetto unitario, sulla diffusione dell’Ufficio del Processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli Uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato, è stato sviluppato a cura della Direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia in collaborazione con 56 Atenei e 26 Distretti di Corte d'Appello.
La finalità del progetto era quella di potenziare le attività di modernizzazione del Sistema giustizia così come previsto dall’obiettivo 1.4 del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020 “migliorare e consolidare l’efficienza e la qualità del sistema giudiziario”.
[4] Si veda PNRR, pp. 58-59, https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf. Inoltre, si veda, prima del PNRR: ORLANDO, Ufficio per il processo: resta il nodo risorse, in Guida al diritto, 2014, 29 e 85.
[5] Sul tema si rinvia al contributo di Antonella Di Florio, già consigliera di Cassazione, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/dlgs-upp-2022.
[6] Così Antonella Di Florio, ibidem, Questione Giustizia.
[7] Per un approfondimento cfr., PAOLO BONINI E DONATO GRECO, Principi generali, in FERRUCCIO AULETTA E SILVIA RUSCIANO (a cura di), Ufficio per il processo, Commentario del Codice di Procedura Civile, Bologna, 2023, p. 14 riguardo al principio di ragionevole durata del processo che “impone alla Stato e ai suoi organi giudiziari di rispondere alle istanze di giustizia, in sede civile, penale e amministrativa, entro un arco temporale corrispondente a criteri di efficienza, lungi da una concezione puramente quantitativa, non si limita a richiedere che l'attività giurisdizionale sia esercitata in tempi rapidi, laddove un aspetto qualificante si insinua nell'elemento della ragionevolezza. Infatti, il principio rientra nel più ampio concetto di giusto processo e in esso trova anche un contrappunto, dovendo bilanciarsi con le esigenze di garanzia che informano il diritto processuale”.
[8] I primi obblighi di deposito telematico in ambito civile si sono avuti nel 2014 con la L. 24 dicembre 2012, n. 228; ancora oggi, invece, il processo penale telematico fatica a decollare.
[9] 9.560 addetti all’Ufficio per il processo laureati in scienze giuridiche ed economiche. Il dato è stato incrementato a seguito della revisione del PNRR rispetto agli originali 8.250 addetti previsti. 2.100 unità di personale amministrativo e tecnico laureati con profili IT senior, tecnico di contabilità senior, tecnico di edilizia senior, tecnico di amministrazione, tecnico statistico, analista di organizzazione. 145 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati specializzati con profili IT junior, tecnico di contabilità junior, tecnico di edilizia junior. 2.500 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati non specializzati con profilo di operatore di data entry. Al 30 giugno 2024 erano in servizio 11.999 unità di personale, di cui 8.980 Addetti all'Ufficio per il processo e 3.019 unità di personale amministrativo e tecnico. Fonte sito internet Ministero della Giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/pnrr_capitale_umano.
[10] RAFFAELE FRASCA, Presidente Titolare della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione, in GIUSTIZIA INSIEME, Pisa, 8 settembre 2022: https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/28-organizzazione-giustizia/2437-dirigenza-giurisdizionale-e-dirigenza-amministrativa-riguardo-agli-addetti-all-u-p-p-presso-la-corte-di-cassazione.
[11] Sul punto si v. ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in CLAUDIO CASTELLI (a cura di), L’Ufficio per il processo, Pisa, 2024, pp. 79 e ss.
[12] La prima, 3 novembre 2021, intitolata «Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Avvio progetto Ufficio per il processo – Informazione e linee guida di primo indirizzo sulle attività organizzative necessarie per l’attuazione», e quella del 21 dicembre 2021, intitolata «Reclutamento, mansioni, formazione e modalità di lavoro dei primi 8.250 addetti all’ufficio per il processo assunti ai sensi del decreto-legge n. 80 del 2021».
[13] Sul punto si v. GIANCARLO VECCHI, L’ufficio per il processo: i modelli organizzativi, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 58.
[14] Si v. il Documento del Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi 2024.
[15] ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 83.
[16] ANTONELLA CIOFFI, ibidem, pag. 91.
[17] Ad esempio, si veda VALENTINA CAPUOZZO, Capacità amministrativa ed efficienza dell’azione giurisdizionale: il nuovo ufficio per il processo, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, Fascicolo n. 3/2024, pp. 1-14.
[18] Sul punto si v. ex multis E. BORGONOVI, G. FATTORE, F. LONGO, Management delle istituzioni pubbliche, MILANO, 2015, pp. 199 e ss.; M. CUCCINIELLO, G. FATTORE, F. LONGO, E. RICCIUTI, A. TURRINI, Management pubblico, MILANO, 2018, PAG. 305 e ss.
[19] Tra gli altri, CLAUDIO CASTELLI, La crisi della governance del sistema giustizia, in Questione Giustizia, 2023
[20] Per un’analisi delle ragioni per le quali pure nei decenni precedenti l’inizio del secolo, nonostante i numerosi ma sempre frammentari interventi di riforma del processo civile, i numeri del contenzioso non diminuivano, anzi crescevano di anno in anno, si ricorda che è stata individuata «un’incidenza sugli obiettivi di effettività e celerità della tutela giudiziaria della ripartizione tra il giudice e le parti dei poteri nel governo del processo», ma non sembra che gli interventi sulla distribuzione di tali poteri siano stati influenti e sufficienti ai fini del raggiungimento degli obiettivi: vedi GIORGIANTONIO CRISTINA, in Questione Giustizia n. 1, 2010, p. 109, https://www.researchgate.net/publication/235930281_Le_riforme_del_processo_civile_italiano_tra_adversarial_system_e_case_management.
[21] Ficcarelli, Beatrice. 2011. Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale. Napoli-Roma: Esi.
[22] PAOLA LUCARELLI, Giustizia sostenibile, cit., p. 29.
[23] VINCENZO ANSANELLI, Uno sguardo comparato, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 179 e ss., dove si evidenzia che in molti ordinamenti stranieri sono già presenti sviluppi di una figura professionale del tutto simile al nostro AUPP: Law Clercks (in Corte Suprema sono i Pool Clercks) in America con funzione che vanno dal pre-udienza, all’assunzione di prove ora e fino alla reazione del provvedimento finale; nel Regno Unito accanto agli storici Clercks si sono sviluppati anche i Judicial Assistant con compiti molto simili ai nostri AUPP; nella Oficina Judicial troviamo il c.d. Secretario Juidicial; l’ordinamento tedesco conosce il Rechtspfleger, che in talune materie e procedure assume addirittura tutte le funzioni proprie dell’organo giudicante; è invece preclusa qualsiasi attività giudiziaria diretta ai francesi Juriste Assistants che comunque similmente ai nostri AUPP contribuiscono nella gestione dei casi.
[24] È stato opportunamente suggerito dal CUN con Parere Generale n. 22 del 7 maggio 2018, l’aggiornamento in tal senso degli obiettivi culturali delle classi all’evoluzione dei saperi, della società e delle professioni e gli sbocchi professionali delle classi all’evoluzione del mondo del lavoro.
[25] MARIA GIULIANA CIVININI, La storia: dai tirocini formativi all’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 7-8.
[26] Si rimanda a nota 23.
[27] R. Sennet, The Craftsman, New Haven-London, Yale University Press, 2008 (trad. it. L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008).
[28] Sul punto F. BUTERA, Disegnare l’Italia, Milano, 2023, p. 130.
[29] BARBARA FABBRINI, PNRR e Ufficio per il Processo: le ragioni di una scelta, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 43 e ss.
[30] Sul punto si veda ROBERTO MARTINO, Un chiarimento preliminare: il possibile conflitto tra le istanze di efficienza del sistema giudiziario e il diritto dei singoli ad una tutela giurisdizionale effettiva, in L’ufficio per il processo ai tempi del PNRR: una panacèa per la giustizia civile? Pisa, 2025, https://www.rivistailprocesso.it/2025/06/13/lufficio-per-il-processo-ai-tempi-del-pnrr-una-panacea-per-la-giustizia-civile/.
“Art. 0. (…) Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1. Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
(…)
Art. 3 Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come <<evasione buona>>. Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita.
Art. 4. Il trattamento è cammino”! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
(…)”
dal Manifesto per un carcere futurista della Compagnia SineNOmine

“Senza Titolo” è andato in scena il 2 ed il 3 luglio nella Casa Reclusione di Spoleto, parte ormai tradizionale del programma del Festival dei Due Mondi. Centinaia gli spettatori che, anche quest’anno, hanno varcato le porte del carcere per assistere allo spettacolo realizzato dalla Compagnia Sine Nomine di attori detenuti e liberi. Un impegno grande per l’istituzione, ma insieme un orizzonte di senso che coinvolge tutta la comunità penitenziaria in una attività di preparazione che riempie l’intero anno. Non intrattenimento, ma vero impegno risocializzante.
Quest’anno il testo è un omaggio dichiarato al futurismo, che ad ogni frammento sostituisce i contenuti storici del movimento, con quelli di una ricerca attiva di speranza e di prospettiva, qui e ora, proprio nel carcere del sovraffollamento e della conseguente spersonalizzazione. Senza titolo è allora titolo, e insieme provocazione che, nel lessico penitenziario, richiama una detenzione priva della stessa ragione legale che la giustifichi.
Nella rivista “Lacerba” si leggeva che “nella carne dell’uomo dormono le ali” e questo scrivono gli attori detenuti, su grandi muri bianchi, mentre il pubblico si accomoda nello spazio dell’intercinta, accolto da una scenografia che già parla della genialità di Giorgio Flamini, come sempre deus ex machina della serata.
A sinistra il bianco quasi splendente di tre celle, con insensate aperture geometriche, e insensate chiusure. A destra cinque sedie, nere ed enormi, ognuna un patibolo, ognuna una cattedra, per altrettanti attori. In mezzo un orologio enorme, che ovviamente gira al contrario.
Urlano onomatopee, gli attori, tra il pubblico, ma tra i suoni della velocità, tipici del futurismo, tra le sillabe insensate e bambine, anche tante parole. Insensate, ma non per il luogo in cui siamo: Cellante, Aria, 9999, Appuntà…
Dove siamo? È un carcere, e quindi le regole di senso: “aperti, poi chiusi, poi cancellati…” hanno logiche tutte loro. Se ci facciamo accompagnare capiamo tutto. Cosa ci offrono gli attori detenuti? “Piatti di libertà immaginata”, intelletti “affamati di futuro”, “ottimismo a luci spente”.
Si incontrano i dialoghi, dolorosi e umanissimi, di uomini che sognano l’esterno e non si abbandonano ad essere uomini in scatola, anche se qui le loro membra sono letteralmente inscatolate in scena, e gli scambi arguti, e artisticamente difficilissimi, dei cinque attori sul ring o in cattedra, che restituiscono in una dimensione di sogno tutto il non sense in cui è immersa la nostra realtà.
A fine spettacolo sapremo che è un autore detenuto, Rinnegato, che molti applausi giustamente raccoglie, ad aver immaginato la parte dei testi per il Ring, come sempre poi rielaborati in un lavoro di gruppo della Compagnia SIne NOmine. Nel resto si alternano frammenti che riprendono Giardina e Marinetti, e poi ricordano Sergio Lenci, l’architetto che fu vittima del terrorismo, per aver immaginato un carcere, proprio a Spoleto, che dialogasse con il mondo. Un carcere che ancora oggi, con le parole di “Senza Titolo”, deve “disimparare a chiudere”.
I regali però non sono terminati. A inizio spettacolo ci è consegnata la tessera di un domino. È stata dipinta a mano, e non ce n’è una uguale all’altra, ma il gioco si potrebbe fare solo mettendole tutte insieme. Non c’è bisogno di dire di più su individualizzazione dei percorsi e benefici per la collettività.
Lo slancio futurista tocca il culmine con un vero e proprio manifesto, manco a dirlo lanciato sul pubblico, e poi distribuito. Vi si parla di un carcere mirabile, che fa della persona e della dignità il suo centro. Utopia? Le parole scritte dalla Compagnia sono splendide, cariche di una poesia visionaria, ma i contenuti sono in definitiva solo Costituzione.
“Voglio vivere così, col sole in fronte…” cantano tutti, sulla registrazione storica di Carlo Buti, e anche il meraviglioso coro diretto dal Maestro Francesco Corrias, che ha accompagnato il cammino del pubblico, si unisce festosamente. “Voglio vivere così, col sole in fronte…” Può esserci paradosso più grande che cantare così in un carcere?
Nel tempo dello schianto del cuore e del pensiero, di fronte ai suicidi, alle carenze di risorse, che affliggono ogni luogo, è questo il gesto rivoluzionario che ci è offerto, non per coprire il dramma, ma per metterlo a nudo.
Si tratta di continuare a immaginare un futuro e a immaginarci nel futuro.
È corale un ringraziamento agli attori detenuti, a Giorgio Flamini, a Pina Segoni e Sara Ragni, impegnate con lui nella ideazione, nella regia e nell’adattamento dei testi, al Festival dei Due Mondi che di nuovo entra in carcere e mette nel suo programma lo spettacolo, a fianco di quelli della migliore produzione internazionale, alla Casa Reclusione che non spegne i riflettori sull’arte. Andando via, nell’intercinta, mentre le luci delle camere detentive sono tutte spente, e il caldo della notte (figurarsi il giorno!) è soffocante, è ancora illuminata una grande installazione in cui la parola “ARTE” campeggia.
L’auspicio è che resti sempre accesa. perché “la legge deve tendere alla bellezza” (art. 17 del manifesto) e il teatro in carcere è detonatore (art. 18) di energie di cambiamento, gesto politico e umano fondamentale.
Recensione di Il dolore della guerra di Bảo Ninh (2025 Neri Pozza Editore, Vicenza)
L’autore di questo romanzo ha quasi 73 anni, è nato ad Hanoi e, come si legge nella terza di copertina, a diciassette anni si è unito all’Esercito popolare del Vietnam del Nord ed ha combattuto fino all’ultima battaglia all’aeroporto di Saigon, il 30 aprile del 1975.
Quella guerra fu un conflitto ingiusto e brutale, che costò al Vietnam – secondo le cifre rilasciate dal Governo – oltre 5 milioni di vittime, in grandissima parte civili, mentre gli Stati Uniti persero circa 60mila uomini appartenenti alle forze armate.
Ma la storia, in questo romanzo scritto nel 1991, è raccontata da altra visuale, quella dei vincitori che però non vi sono affatto descritti come eroi, al punto da smontare i trionfalismi della propaganda vietnamita e da determinare la reazione negativa del governo dell’epoca che ne vietò la pubblicazione: il libro circolò a lungo solo in forma clandestina prima di diventare un best seller internazionale e di essere insignito dell’Indipendent Foreign Fiction Prize nel 1994, importante premio letterario inglese. Solo nel 2006, quindici anni dopo la sua pubblicazione, il divieto del libro fu revocato e l'edizione inglese apparve nelle librerie e nelle edicole in Vietnam.
Il romanzo si apre con una rappresentazione di soldati in missione nel dopoguerra, nel 1976, per raccogliere le ossa dei compagni caduti da seppellire. Così inizia la narrazione di Kien, il soldato nordvietnamita durante la guerra del Vietnam, che inizia a riflettere sul suo passato e racconta la sua perdita di innocenza, il suo amore e la sua angoscia per i ricordi della guerra.
La ricerca dei resti dei soldati caduti si svolge nelle zone impervie degli altipiani ed in quella che Kien immagina come la "giungla delle anime urlanti", ove 500 soldati del suo 27° Battaglione sono stati annientati dal napalm, ad eccezione di una decina di sopravvissuti tra cui lui stesso. I suoi flashback legano insieme il romanzo e spesso sono incentrati sull'amore tra Kien e la sua fidanzata d'infanzia, Phuong con cui ha nuotato in un grande lago fino a sera mentre altri studenti scavavano trincee nei cortili e dalla quale si è separato durante un drammatico viaggio a sud verso la linea del fronte, poco prima di iniziare a combattere.
Kien decide di scrivere un romanzo sulla vita vissuta, ma poi cambia idea e cerca di bruciarlo. Una ragazza muta che Kien conosce quando è ubriaco ed alla quale esprime i suoi pensieri, ottiene il testo dopo la sua partenza per destinazione incerta. Kien, nel libro, riflette sulle sue esperienze, sui molti sacrifici non riconosciuti, come quello della donna-guida militare Hoa che, vicino al Lago dei Coccodrilli, rinuncia alla sua vita per salvarlo dai soldati americani insieme ai suoi compagni feriti («Qualcuno muore perché qualcun altro sopravviva. Niente di più naturale, niente di più banale»), ma ricorda anche la sua prima uccisione personale, che avviene dopo aver assistito allo stupro di Phuong. Il romanzo si conclude con il racconto di un nuovo narratore, che spiega di aver ricevuto il romanzo di Kien dalla ragazza muta.
Il Dolore della Guerra – ha osservato un giornalista inglese - si eleva al di sopra delle rappresentazioni culturali della guerra del Vietnam, sia americane che vietnamite, piene di romanticismo e stereotipizzazione: «Si muove avanti e indietro nel tempo, e dentro e fuori dalla disperazione, trascinandoti giù mentre l'eroe-solitario ti guida attraverso il suo inferno privato nelle Highlands del Vietnam centrale, o sollevandoti quando il suo spirito si innalza. È un ottimo romanzo di guerra e un libro meraviglioso.» Il romanzo è stato spesso paragonato a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque ed è stato anche definito “un romanzo di guerra e soprattutto di dopoguerra”, il cui protagonista, Kien, è certamente l’alter ego dell’autore: entrambi vogliono raccontare il dolore a chi vorrà ascoltarlo.
Kien – si legge nel romanzo - «scrive della guerra in modo personale, come se fosse stata una guerra sua e soltanto sua» e rammenta le parole che un vecchio gli rivolge quando sta per partire volontario: «Dunque parti per la guerra? Non che voglia dissuaderti, io sono vecchio, sappi solo che il dovere di un essere umano su questa terra è vivere, non immolarsi».
Dopo molti anni dalla fine della guerra, Kien torna ad Hanoi, «la città che cambiava volto di ora in ora, che tornava sé stessa di notte sotto la pioggia» ed inizia a frequentare un bar sul lago Hoan Kiem, ove si incontravano gli ex militari del “Club dei reduci”. Perché? Perché, spiega Kien come anche Bao Nihn avrebbe detto, «Mi aspetta una nuova vita..devo andare avanti. Ma la mia anima è ancora in tumulto. Il passato mi perseguita e mi imprigiona».
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Vita e opere di Gaetano Vardaro, intellettuale giuslavorista
Sommario: 1. La vita – 2. Le opere – 3. L’intellettuale giuslavorista – 4. Vardaro dopo Vardaro – 5. Minima personalia.
1. La vita
Gaetano Vardaro nacque a Montefalcione (AV) il 2 luglio 1949. Il padre, Libero, incarnava la tipica figura – oggi praticamente scomparsa – dell’erudito meridionale, conversatore colto e affascinante, e, tra l’altro, sensibile studioso di cose storiche; esercitò molta influenza sul figlio, che gli era legatissimo. Laureatosi in Giurisprudenza nel 1973 a Napoli, specializzatosi in diritto del lavoro nel 1975 a Roma, dove beneficiò di un contratto di ricerca, G.V. fu nel 1976 assegnista e nel 1981 ricercatore nell’Università di Salerno, inserendosi nel gruppo guidato da Fabio Mazziotti. Lì conobbe Anna Rita Marchitiello, che presto sarebbe divenuta sua moglie, dandogli l’unico figlio, Libero come il nonno.
In un’epoca nella quale la mobilità accademica era favorita e non ostacolata, nel 1982 si trasferì all’Università di Roma “La Sapienza”, per poter lavorare a più stretto contatto con Gino Giugni, da qualche anno suo imprescindibile referente scientifico e accademico, che lo aveva chiamato a far parte della redazione della rivista da lui fondata, il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, della quale G.V. divenne in breve colonna portante e alla quale avrebbe regalato preziosi contributi.
Sempre da ricercatore, su sollecitazione di Umberto Romagnoli, l’altro studioso che ne aveva subito intuito le doti di studioso brillante e appassionato e al quale G.V. avrebbe costantemente fatto riferimento, approdò nel 1983 come professore a contratto nella Facoltà di Economia e commercio dell’Università di Urbino, primo docente non di scuola bolognese a insegnarvi il diritto del lavoro. La stagione urbinate fu breve, ma intensissima: G.V. vi lasciò un’impronta indelebile, il cui momento culminante fu l’organizzazione di uno straordinario seminario internazionale e interdisciplinare sul rapporto tra diritto del lavoro e corporativismi vecchi e nuovi (28-30 aprile 1986), che vide la presenza di alcuni dei più importanti giuslavoristi, sociologi, storici e scienziati politici italiani e stranieri: erano tempi in cui gli esperimenti di concertazione sociale avviati in Italia sembravano delineare un nuovo scenario delle relazioni industriali, trovando un referente teorico nel dibattito sul neocorporativismo; e in cui sembrava giunto il momento di avviare una riflessione critica sul ruolo svolto dalle dottrine corporative nella formazione e negli sviluppi del diritto del lavoro, soprattutto in un’Italia che, «in omaggio ad un antifascismo talvolta solo di maniera, aveva preferito rimuovere questo “peccato originale”» (Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Franco Angeli, 1988; qui l’introduzione, 15-30).
G.V., comunque, abitava sempre ad Avellino, sottoponendosi a faticosi spostamenti per raggiungere le Marche. E nella sua città, a cui era molto legato, viveva molto intensamente, continuando – come meglio si dirà in seguito – a dimostrarsi persona di cultura “a tutto tondo”.
A metà degli anni Ottanta, G.V., forte di due monografie appena pubblicate, partecipò contemporaneamente ai concorsi per professore associato e per professore ordinario. Il primo gli avrebbe consentito di consolidare la sua posizione all’Università di Urbino, che aveva bandito il posto, ma, com’era nell’ordine delle cose, arrivò subito, agli inizi del 1986, la vittoria in prima fascia. Perciò, dopo diverse vicissitudini accademiche, che lo amareggiarono non poco, fu chiamato da “straordinario” (come si diceva allora) all’Istituto universitario navale di Napoli, l’odierna Università “Parthenope”. Mantenne, però, a costo di notevoli sacrifici, una supplenza nell’amata Urbino. Anche in quel bel palazzo in riva al mare accanto al Maschio Angioino, dove rimase per pochissimi mesi, G.V. lasciò un segno profondo, organizzando nella primavera del 1988 un memorabile convegno internazionale sullo sciopero nei servizi pubblici in Europa, tema caldissimo di quel momento (Sciopero e servizi pubblici in Europa, Esi, 1989), incurante tra l’altro delle critiche che gli piovvero addosso perché di lì a pochi giorni il congresso nazionale dell’Associazione italiana di diritto del lavoro avrebbe avuto ad oggetto proprio il tema del conflitto collettivo.
Nell’estate del 1988 G.V. si recò a studiare negli Stati Uniti, quasi a seguire le orme del suo maestro di elezione, Gino Giugni, che alla fine degli anni Cinquanta, frequentata la scuola dell’istituzionalismo economico nell’Università del Wisconsin, aveva poi gettato le basi per il rinnovamento metodologico del diritto del lavoro italiano. Purtroppo, invece, per G.V. il ritorno dalla “Harvard” precedette di poco il gesto estremo con cui si chiuse la sua breve e intensa esistenza il 25 ottobre 1988.
2. Le opere
La produzione scientifica di G.V. si concentra in una dozzina d’anni, dal 1976 al 1988. Essa, comunque, appare estremamente ricca e poliedrica, sempre proiettata alla ricerca delle radici ideali e culturali del diritto del lavoro, che affondavano soprattutto nell’esperienza weimariana. Fin da subito, infatti, le coordinate della ricerca di G.V. furono costituite dalla storia del pensiero giuridico e dalla straordinaria passione per la cultura tedesca e per i giuristi weimariani in particolare. Primo terreno di elezione su cui sondare le direttrici di tale progetto scientifico fu la tematica dell’inderogabilità del contratto collettivo, i cui risvolti in termini di politica del diritto G.V. indagò con cura – e con grande attenzione al dibattito tedesco –, relativamente all’epoca liberale e a quella corporativa, in due importanti saggi usciti sulle riviste di Gino Giugni e di Giovanni Tarello (L’inderogabilità del contratto collettivo e le origini del pensiero giuridico-sindacale, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1979, 537-584; Le origini dell’art. 2077 cod. civ. e l’ideologia giuridico-sindacale del fascismo, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1980, 437-469).
Lo studio dei classici weimariani indusse G.V. a tradurli e a farli conoscere in Italia, dove allora davvero in pochi ne avevano presente il ruolo, se non addirittura l’esistenza. Si trattò innanzitutto di importare il fecondissimo – e talvolta spigoloso – dibattito scientifico che i giuslavoristi della “Repubblica incantata” ingaggiarono prima di disperdersi per il mondo all’avvento del nazismo. Con Gianni Arrigo, G.V. curò pertanto l’antologia Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista (Edizioni Lavoro, 1982), assolutamente aliena dall’azzardare simmetrie o profezie fuori luogo e allo stesso tempo portatrice di una linea diversa rispetto alla (forse tardiva) riscoperta che stava contemporaneamente avvenendo in una Repubblica federale tedesca troppo propensa a dimenticare in fretta, se non a rimuovere: l’originalità stava già nella scelta, oltre che dei “classici” (Sinzheimer, Fraenkel, Neumann, Kahn-Freund), anche di brani di autori scomodi e polemici come Karl Korsch. I contorni di quel substrato ideologico e scientifico all’interno del quale il “corporativismo” costituiva espressione di autonomia e pluralismo, lungi evidentemente dalle deviazioni semantiche che lo avrebbero legato necessariamente alle esperienze fasciste, emergeva forse ancora più nitidamente nella corposa antologia che l’anno successivo G.V. dedicò specificamente a uno dei giuslavoristi tedeschi dai percorsi più problematici, Franz Neumann (Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura, Il Mulino, 1983).
Subito dopo per G.V. iniziò una fase di grande concentrazione, in vista della pubblicazione di quel lavoro monografico che ne potesse corroborare un successo concorsuale. Il tema era quello prediletto del contratto collettivo, e di libri ne uscirono due. Il primo (Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene, 1984) era originale in maniera sorprendente, perché applicava al tema le teorie dei sistemi elaborate da Niklas Luhmann, sottoponendole a costante confronto con le prospettive ordinamentali di Gino Giugni: un libro difficile e duramente dogmatico, dalle premesse e dagli sviluppi sicuramente discutibili. L’altra monografia (Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Franco Angeli, 1985), al confronto, era molto più tradizionale: eppure in essa, sempre seguendo il fil rouge “storico” dell’inderogabilità, G.V. chiudeva mirabilmente il cerchio delle sue ricerche sul tema, proponendo conclusioni mai scontate, quando non esplicitamente innovative.
In quella metà degli anni Ottanta, uno dei temi trainanti il dibattito giuslavoristico fu quello dell’impatto dell’innovazione tecnologica nel mondo del lavoro, alcune delle cui certezze sembrarono vacillare di fronte alla velocità e alla portata dei cambiamenti. G.V. non si sottrasse certo a queste discussioni; anzi, vi contribuì con un saggio memorabile, di taglio praticamente monografico (Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1986, 75-140), nel quale l’approccio storico e la profondità teorica si fondevano a comprendere il nuovo tema in modo davvero singolare, in un affascinante viaggio tra realtà passate, situazione del momento e prospettive future.
Salito in cattedra, G.V. non tirò affatto i remi in barca, come accade a tanti in quella situazione. Anzi, se possibile, intensificò ancor più i ritmi di lavoro, che si fecero convulsi, scoprendo nuovi oggetti di indagine, senza però tralasciare di coltivare il tradizionale filone storico. Suo nuovo punto di riferimento divenne allora Paolo Grossi e la sua scuola fiorentina, sulla cui rivista pubblicò un’acuta indagine, scritta con Bruno Veneziani, sugli inizi della giuslavoristica italiana ricostruiti attraverso le pagine di uno dei più noti periodici dell’epoca (La «Rivista di diritto commerciale» e la dottrina giuslavorista delle origini, in Quaderni fiorentini, 1987, 441-483), mentre in una collana della stessa rivista uscì – postumo – un volume che raccoglieva gli scritti dell’ennesimo giurista polemico, Thilo Ramm, sulle diverse tappe della storia del diritto del lavoro tedesco (Per una storia della costituzione del lavoro tedesca, Giuffrè, 1989).
La ricerca instancabile, a volte frenetica, di nuovi percorsi di studio portò G.V. a frequentare maggiormente il mondo anglosassone e a sconfinare nei campi della sociologia e delle relazioni industriali, sempre coniugate con il suo tradizionale retroterra storico-giuridico.
Ne vennero fuori una lezione dal profondo impianto teorico all’Istituto universitario europeo di Fiesole sul rapporto di lavoro nelle società collegate, lette come forma organizzativa degli interessi imprenditoriali (Before and Beyond the Legal Person: Trade Unions, Group Enterprises and Industrial Relations, in Sugarman, Teubner, eds., Governance in Group Enterprises, Nomos, 1990, 217-251), al di fuori dei falsi pericoli delle teorie della persona giuridica (Chi ha paura della persona giuridica?, in Il progetto, 1988, 48, 102-106); e gli originali studi sulla giuridificazione, innanzitutto con un intervento breve ma molto denso, nel quale G.V. si preoccupava di portare chiarezza su un tema viziato da polemiche ed equivoci ingeneratisi tra studiosi nordamericani e tedeschi (Giuridificazione, colonizzazione e autoreferenza nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1987, 601-610); per poi applicare originalmente queste categorie teoriche a un classico tema tecnico del rapporto di lavoro, quale il potere disciplinare (Il potere disciplinare giuridificato, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1986, 1-42).
La mai abbandonata attenzione allo studio dei percorsi dei giuslavoristi weimariani si spostò, infine, su un tema molto particolare, cioè la verifica dell’esistenza – ed eventualmente dell’importanza – di radici ebraiche del diritto del lavoro. Il programma era già stato scritto («Arbeitsverfassung» ovvero la stella dell’assimilazione, in Sociologia del diritto, 1987, 17-39) e la tesi di fondo era – come d’abitudine – affascinante, provocatoria e discutibile. La ricerca necessitava ovviamente di approfondimenti, per cui G.V. accettò di buon grado – e con molto orgoglio – l’invito a recarsi per quel soggiorno di studi alla “Harvard”, al termine del quale tutto finì.
Il suo percorso si trasformò anch’esso in quello Holzweg heideggeriano – una viuzza di montagna stretta e infida, metafora di un (troppo) breve attraversamento – al quale egli volle paragonare l’itinerario giuslavoristico di Franz Neumann (Oltre il diritto del lavoro: un Holzweg nell’opera di Franz Neumann, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1983, 505-537).
3. L’intellettuale giuslavorista
G.V. «non è stato – in realtà – un giuslavorista, ma un erudito geniale che nel suo breve percorso esistenziale ha incontrato il giuslavorismo». L’affermazione di Luigi Mariucci (Il diritto del lavoro e il suo ambiente, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, I, Giuffrè, 1998, 335-356) coglie assolutamente nel segno. Lo studio del diritto del lavoro non era mai per G.V. un fatto meccanicamente tecnico, ma costituiva una splendida occasione per approfondire la cultura europea delle idee. Nel tema trattato, egli trasfondeva naturalmente l’enorme curiosità intellettuale derivata dalle sue letture, testimonianza di un’erudizione fuori dal comune, imbevuta per lo più di studi extragiuridici (la sua biblioteca personale era ricchissima di libri, ben ordinati tematicamente, di discipline disparate, delle quali era capace di individuare legami insospettabili).
Per i più “puristi”, naturalmente, ciò poteva anche non costituire un pregio; essi, però, tendevano a dimenticare che G.V. si era brillantemente confrontato più volte anche con le tecnicalità più spinose della materia; e che – per dirla con Umberto Romagnoli – quella «vivacità degli interessi culturali ai limiti della sregolatezza», che «lo predestinava a esibire di sé l’immagine dell’irrequieto intellettuale del Sud», era stata invece disciplinata e indirizzata dall’incontro con Giugni (Ricordando Weimar con Gaetano Vardaro, in Giuristi del lavoro nel Novecento italiano. Profili, Ediesse, 2018, 251-259 e 333-334).
G.V è stato, dunque – continuando con Romagnoli –, un «giurista atipico», perché appartenente a «una generazione inquieta […] che le rassicuranti certezze dogmatiche del passato, prossimo o remoto, riescono appena a sfiorare, ma che – figlia di una società “senza vertice e senza centro”, secondo la formula luhmaniana assai cara a Vardaro – sa di essere a sua volta incapace di produrne di nuove, vincenti o convincenti. Cosa di cui soffre, e si vede» (Gaetano Vardaro, un giurista atipico, in Zanelli, a cura di, Gruppi di imprese e nuove regole, Franco Angeli, 1991, 21-33).
G.V. è sempre stato agli antipodi rispetto all’immagine dello studioso chiuso nella turris eburnea: sentiva anzi il bisogno di socializzare, di discutere ogni sua idea. Questa sua vocazione di “propagandista” culturale lo portò a essere assiduo frequentatore di convegni, mai per semplici passerelle. Qui emergeva un altro fondamentale tratto costitutivo della personalità di G.V., cioè il suo essere profondamente anticonvenzionale, caratteristica che si riverberava naturalmente anche nella dimensione professionale.
Perciò, se in generale la sua produzione scientifica fu largamente eterodossa, i suoi interventi ai convegni, forzatamente ristretti in angusti limiti di tempo, furono sempre particolarmente incisivi e spregiudicati (si possono ricordare, per tutti, l’incontro bolognese sulla rappresentanza sindacale: Nuove regole dell’organizzazione sindacale, in Lavoro e diritto, 1988, 218-234, e il convegno trentino sulla subordinazione: Subordinazione ed evoluzionismo, in Pedrazzoli, a cura di, Lavoro subordinato e dintorni, Il Mulino, 1989, 101-109), molto spesso polemici e provocatori, come ad esempio quello al convegno Aidlass di Fiuggi del 1988 (Verso la codificazione del diritto di sciopero, in Aa.Vv., Lo sciopero: disciplina convenzionale e autoregolamentazione nel settore privato e pubblico, Giuffrè, 1989, 221-228). Naturalmente, non appena ebbe la forza accademica per farlo, G.V. i convegni iniziò a organizzarli “in proprio”, come si è visto a proposito di quello urbinate sui corporativismi e di quello napoletano sullo sciopero.
Un’altra caratteristica che va sempre tenuta presente per cercare di comprendere la personalità umana e scientifica di G.V. è costituita dalle sue radici.
Vivere in “provincia” ha avuto per lui innanzitutto il risvolto positivo dell’attaccamento alla città, con la conseguenza di diventare persona sensibilmente impegnata nel suo contesto sociale, attiva politicamente (nel partito socialista di unità proletaria, che nel 1972 confluì nel partito comunista) e assai entusiasta e competente nell’organizzazione di manifestazioni culturali, per lo più nel campo musicale: per Avellino, fin dagli anni Settanta, grazie a lui passarono mostri sacri della musica classica come Claudio Abbado, Maurizio Pollini, Bruno Canino, Luciano Berio, Luigi Nono, Severino Gazzelloni, o del jazz come Giorgio Gaslini, o del rock come Lou Reed. Sull’altro versante, invece, le origini lo hanno sempre segnato nel suo sentirsi un outsider (oggi si direbbe un underdog), facendogli vivere ogni sua affermazione in termini di sofferta rivincita del self-made man nei confronti di chi invece partiva già da solidi piedistalli. In uno dei suoi ultimi contributi, G.V. ripercorse la vicenda di un illustre avellinese, il meridionalista Guido Dorso, delineando i tratti del suo rapporto conflittuale col mondo del diritto, relegato in una sfera nascosta e particolare della sua vita, ed evidenziandone quindi l’emigrazione “interna”, tanto simile – a suo dire – a quella degli studiosi weimariani (Guido Dorso giurista: ovvero Kafka in provincia, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1989, 503-515).
G.V. aveva così – forse inconsapevolmente – scritto la sua autobiografia di “studioso di provincia”: la stessa autobiografia, problematica e lacerante, che è andato scrivendo quando ha studiato Weimar o l’ebraismo.
Alla fine, nessuno meglio di Gino Giugni ha tratteggiato un ritratto autentico di G.V., quando ne pianse la scomparsa coi lettori della sua rivista: «Gaetano Vardaro non parteciperà più agli incontri della nostra redazione. Non leggeremo più i suoi saggi su questa rivista, che si onora di aver ospitato i primi di essi, quelli che subito lo imposero all’attenzione della comunità scientifica. Ci ha privato della sua impegnata collaborazione, della sua entusiastica fiducia nella ricerca e del suo appassionato rigore filologico, della sua eccezionale fantasia progettuale, della sua rara capacità di accumulare una sconfinata cultura storico-filosofica, e precipitarne il concentrato nell’analisi del diritto positivo. […] è stato un autore originale e forse unico, per la sua innata tendenza ad osservare il fenomeno particolare nella totalità culturale, in questo certamente degno erede della miglior tradizione intellettuale del nostro Mezzogiorno. Per questo possiamo anche affermare che ha rappresentato un tipo di giurista sui generis, non facilmente riproducibile» (Ricordo di Gaetano Vardaro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1988, VII-VIII).
4. Vardaro dopo Vardaro
L’impatto della prematura scomparsa di G.V. sul mondo del diritto del lavoro fu piuttosto forte. Anche chi era più lontano dal suo modo di approcciare il diritto del lavoro, spesso criticamente provocatorio, ne riconosceva comunque la cultura e la genialità. Numerosi furono i ricordi pubblicati a caldo sulle riviste da parte di chi gli era stato più vicino. Chi scrive, insieme con Anna Rita Marchitiello, curò subito un’antologia dei suoi scritti, non a caso intitolata Itinerari (Franco Angeli, 1989): un esplicito invito a continuare a percorrere i suoi sentieri impervi, bruscamente interrotti ma sempre aperti per chi avesse avuto desiderio di seguirli.
A poco più di un anno dalla morte, il 1° dicembre 1989, la “sua” Università di Urbino volle commemorare G.V. con un convegno su uno degli ultimi temi da lui trattati (Zanelli, a cura di, Gruppi di imprese e nuove regole, cit.). Così come fece dieci anni più tardi, il 23 aprile 1999, con un incontro aperto da un intervento di Umberto Romagnoli, che sottolineava l’importanza dei suoi studi e delle sue soluzioni anche a distanza di tempo (L’opera di Gaetano Vardaro, oggi, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1999, 1-8; poi compreso tra i profili dei Giuristi del lavoro nel Novecento italiano, cit.). Più tardi, G.V. venne annoverato tra i maestri che avevano illustrato l’Ateneo urbinate nel secolo scorso (Pascucci, Gaetano Vardaro, in Tonelli, a cura di, Maestri di Ateneo. I docenti dell’Università di Urbino nel Novecento, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, 2013, 547-553).
Col trascorrere degli anni, venne il tempo delle riletture. Il 4 e 5 marzo 2010, all’Università di Brescia si svolse un convegno dedicato alla memoria di G.V., nel quale si discusse del tema a lui più caro, l’autonomia collettiva (gli interventi in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2010, 303-399); in quell’occasione, Roberto Romei dedicò un’approfondita analisi al riesame delle due monografie di G.V. sul tema, ripercorrendo poi criticamente gli sviluppi dottrinali successivi (L’autonomia collettiva nella dottrina giuslavoristica: rileggendo Gaetano Vardaro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2011, 181-223).
Il 14 giugno 2014, l’associazione “SU & giù – giuslavoristi di Siena e Urbino”, fondata da chi scrive, organizzò a Urbino una rilettura del saggio di G.V. sui rapporti tra tecnologia e diritto del lavoro, affidandola a Luca Nogler, che pose in luce la perdurante attualità delle sue riflessioni sull’impatto che l’evoluzione della tecnica esercita sulla gestione del tempo della vita delle persone (Tecnica e subordinazione nel tempo della vita, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2015, 337-357). Più di recente, il ciclo di “letture e riletture” promosso da Oronzo Mazzotta all’Università di Pisa ha visto il 19 aprile 2023 Marco Novella analizzare in profondità gli scritti di G.V. sull’inderogabilità del contratto collettivo, dei quali ha evidenziato le inevitabili obsolescenze ma anche le significative eredità metodologiche e culturali (Gaetano Vardaro e l’inderogabilità del contratto collettivo, in Mazzotta, a cura di, Introduzione al diritto sindacale. Letture e riletture. Volume 2, Giappichelli, 2024, 19-37).
È interessante da ultimo ricordare che quando, a maggio 2025, è rinata – sotto la direzione di Antonio Di Stasi – una rivista giuslavoristica che negli anni Ottanta del Novecento aveva interpretato un importante ruolo di contropotere culturale, si è potuto scoprire che il suo articolo di apertura consisteva in un lungo inedito di G.V. sulle sanzioni civili e sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, ripescato da Anna Rita Marchitiello tra le carte del marito e donato a Giorgio Fontana (Rivista critica di diritto del lavoro, 2025, 11-62).
La cosa più importante, però – e lo sottolinea Fontana, cui non fa sicuramente velo l’origine irpina –, è che ancora oggi «continuiamo a leggere, amare ed utilizzare» le opere di G.V. Non è frequente, infatti, che saggi di quaranta e più anni fa, il cui autore non c’è più da quasi altrettanto tempo, continuino a essere ampiamente citati dagli studiosi di diritto del lavoro, che ormai solo in pochissimi casi hanno conosciuto chi li ha scritti.
Le monografie sul contratto collettivo restano ancora una lettura obbligata per chi intenda occuparsi della materia, mentre il saggio sulla tecnologia è diventato ormai un classico, che sta peraltro rivivendo un suo momento d’oro in tempi di intelligenza artificiale; chiunque, anche solo di passaggio, accenni al diritto del lavoro di Weimar non può prescindere dal ricordare chi ebbe il merito di farne conoscere i protagonisti al pubblico italiano; e anche i suoi scritti più severamente teorici, per non dire di quelli di taglio squisitamente storico, continuano a figurare costantemente nelle citazioni.
Eppure, tutta la produzione di G.V. non è certo il classico esempio di “dottrina dominante”, ma esprime praticamente sempre un pensiero critico e anticonformista: opinioni originali, che definire “minoritarie” è poco.
5. Minima personalia
Gli autori di questo ricordo sentono di essere in qualche modo gli unici allievi lasciati da G.V., senza che naturalmente lui ne sia mai stato consapevole. L.G., ancora studente a Salerno, ne divenne subito «amico e compagno di percorsi», venendone indirizzato agli studi storici e alla conoscenza del mondo tedesco; P.P. venne attratto inesorabilmente nella sua orbita, diventandone il braccio destro a Urbino e ricevendone l’incoraggiamento a prendere la strada della ricerca universitaria.
La scomparsa del comune punto di riferimento significò per entrambi un distacco insopportabile, che li costrinse, però, nella ricerca di una precoce autonomia, a camminare più saldamente solo con le proprie gambe sostenendosi a vicenda. Col tempo, quella ferita difficilmente rimarginabile significò per loro il cementarsi di una profonda e duratura amicizia, non limitata alla sola sfera privata, ma fatta anche di ricerche comuni, di solidarietà e affinità istintive, di pubblicazioni “a quattro mani”, di inserimento in circuiti accademici e scientifici condivisi, della costituzione di una benemerita associazione. Quel che siamo stati dopo, lo siamo stati “per” lui (Gaeta, Pascucci, Da Salerno a Urbino “per” Avellino. Un ricordo comune di Gaetano Vardaro, Aras, 2010).
Successione a titolo particolare nel diritto controverso e trasferibilità dell'interesse legittimo. Il caso della cessione di esercizio farmaceutico (nota a Consiglio di Stato, Sezione III, 8 gennaio 2025, n. 104)
di Clotilde Angela Caforio
Sommario: 1. Premessa; 2. I fatti di causa; 3. Posizioni della dottrina; 4. Considerazioni finali.
1. Premessa
La sentenza in esame merita di essere segnalata per una interessante applicazione dei principi in tema di trasferibilità dell’interesse legittimo[i] e della conseguente successione a titolo particolare[ii] ex art. 111 c.p.c[iii].
Nell’affermare che la regola generale è quella della non trasferibilità dell’interesse legittimo e che la stessa è tuttavia passibile di eccezioni, la sentenza muove dalla considerazione secondo cui, al fine di ammettere o negare la trasferibilità dell’interesse legittimo, occorre innanzi tutto distinguere l’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale legittimante l’iniziativa processuale, dalla posizione sottostante cui esso inerisce, potendo essere costituita anche da una situazione di diritto soggettivo. Precisa poi come, per aversi translatio, sia necessario che l’interesse legittimo sia relativo al patrimonio giuridico del disponente in cui sono possibili fenomeni di successione e, dunque, sussista una stretta inerenza dell’interesse legittimo alla situazione soggettiva sottostante. Solo in questa eventualità, secondo la decisione, sarà possibile la veicolazione della titolarità della medesima situazione di interesse legittimo già esistente nel patrimonio del soggetto coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo a favore del terzo successore.
Muovendo da tali premesse, il Consiglio di Stato esclude l’applicabilità dell’art 111 c.p.c. perché ritiene che il trasferimento della titolarità di farmacia integri una fattispecie mista o complessa, che si perfeziona non soltanto con l’atto di cessione tra privati, ma richiede necessariamente anche l’atto amministrativo di assenso: l’interesse legittimo, si legge nella sentenza, non transita «unitamente o simultaneamente alla titolarità del bene o diritto soggettivo sottostante (la proprietà dell’azienda farmaceutica), poiché esso in realtà si estingue in capo al soggetto cedente e si ricostituisce in una consistenza nuova e diversa in capo al cessionario, per effetto delle verifiche di idoneità soggettiva che l’Amministrazione è tenuta a compiere prima di autorizzare il trasferimento dell’autorizzazione».
2. I fatti di causa
Al fine di meglio comprendere l’importanza del principio affermato, è opportuno ricostruire la vicenda che è all’origine della pronuncia e lo svolgimento del giudizio di primo e di secondo grado.
La parte ricorrente in primo grado, già titolare della sede farmaceutica, impugnava una serie di atti, tra cui il diniego al trasferimento adottato dalla Regione Campania in considerazione del fatto che i locali individuati per l'esercizio dell'attività farmaceutica non coincidevano più con quelli originari. Il Tribunale amministrativo dichiarava improcedibile il ricorso, ravvisando la perdita dell’interesse ad agire attuale e concreto al trasferimento della sede farmaceutica, in quanto il ricorrente aveva ceduto il diritto alla sede farmaceutica ad altri e per questo non avrebbe potuto più trarre alcuna utilità dalla definizione del giudizio, sottolineando l’impossibilità della trasmissibilità di un eventuale interesse legittimo pretensivo per atto “inter vivos” in capo al nuovo titolare.
Secondo il giudice di prime cure, infatti, in caso di successione a titolo particolare nel rapporto controverso il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 comma 1 c.p.c., ma non sarebbe sotto questo profilo possibile assimilare un diritto soggettivo ad un interesse legittimo, in quanto si tratta di posizioni giuridiche diverse che hanno pertanto distinti riflessi sul piano della trasmissibilità[iv]. Nell’ipotesi in cui in pendenza di termine per il ricorso giurisdizionale avverso provvedimento amministrativo il titolare dell'interesse legittimo venisse a mancare, secondo il giudice di prima istanza sarebbe da escludere la possibilità che i suoi aventi causa siano legittimati all'impugnazione dell'atto tutte quelle volte che l’oggetto della causa si presenti come mera utilitas - cioè possibilità di ottenere dall'esercizio del potere amministrativo un “risultato utile” - senza incidere su situazioni giuridiche già consolidate nel patrimonio del soggetto istante e non potrebbe, pertanto, ammettersi l’esercizio del potere di azione a tutela dell'interesse legittimo pretensivo, proprio perché vi sarebbe intrasmissibilità di tale posizione giuridica.
Il TAR ha conclusivamente ritenuto che, anche se fosse ammissibile la trasmissibilità della posizione di interesse legittimo in capo ad eredi o aventi causa del titolare originario, considerato il grado di autonomia di cui gode il rapporto amministrativo, sarebbe in ogni caso da escludere che ciò possa avvenire in modo automatico. Il lato, per così dire, esterno dell'interesse legittimo - cioè la relazione tra soggetto e pubblica amministrazione, avente come riferimento un bene della vita - distinto dal suo lato interno - cioè il rapporto tra un soggetto ed il medesimo bene - potrà essere soggetto di un’automatica successione tutte volte in cui l'individuazione del successore avvenga in applicazione di criteri predefiniti, come in caso di successione mortis causa in universum ius o di fallimento. Quando, invece, la vicenda circolatoria trovi causa in un atto espressione di autonomia negoziale inter vivos, occorre che, attraverso una manifestazione espressa di volontà, il nuovo titolare confermi il carattere attuale dell'interesse legittimo. La possibilità di prosecuzione del giudizio tra le parti originarie, quale effetto della successione a titolo particolare nel rapporto controverso, è stata conseguentemente esclusa in base al carattere personale e diretto dell’interesse legittimo, che ne determinerebbe l’intrasferibilità[v].
La decisione di primo grado è stata confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato oggetto della presente nota, che, come già accennato, ha precisato come il trasferimento di farmacia dia luogo ad una fattispecie complessa che si perfeziona non con il solo atto di cessione tra privati, ma richiede anche l’intervento dell’atto amministrativo di assenso; con conseguente esclusione della possibilità di ritenere che l’interesse legittimo transiti automaticamente unitamente alla titolarità del bene sottostante.
Nella pronuncia, il Consiglio di Stato dà atto che quello della trasferibilità dell’interesse legittimo e della conseguente configurabilità della successione a titolo particolare ex art 111 c.p.c. sono temi assai controversi in giurisprudenza[vi]richiamandola[vii].
In primis viene richiamata la sentenza del Consiglio di Stato n. 1403 del 2013, che considera regola generale la non trasferibilità dell’interesse legittimo, in quanto «l’interesse è personale» e «si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare»[viii]. Tuttavia, questa regola ammetterebbe eccezioni in virtù delle quali è necessario distinguere «tra casi in cui il “contatto” tra interessato e potere amministrativo è intervenuto in riferimento ad aspetti del suo patrimonio giuridico in cui sono possibili fenomeni di successione, da casi in cui tale contatto attiene a profili personali, e non trasmissibili, dello stesso patrimonio giuridico»[ix].
La pronunzia in commento riporta, poi, anche indirizzi giurisprudenziali che ammettono la “cessione a titolo particolare” dell’interesse legittimo, sia isolatamente che unitamente al trasferimento di un diritto soggettivo sottostante.
Vengono richiamate da una parte, la pronuncia Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520, la quale precisava che le fattispecie considerate non trasmissibili in base all’orientamento del 2013 si spiegano «non nella logica del divieto di cessione quanto per la normale mancanza dell’interesse a ricorrere»[x], e dall’altra, pronunce[xi] che, ritenendo l’art. 111 c.p.c. applicabile anche nel processo amministrativo, implicitamente risolvono in senso favorevole la questione pregiudiziale dell’ammissibilità di una successione a titolo particolare anche nella titolarità dell’interesse legittimo.
Visto tutto ciò, il Consiglio ha ritenuto di condividere l’impostazione data in Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, ritenendo che sono proprio i tratti caratteristici della fattispecie in questione che giustificano la soluzione come prospettata in primo grado, anche se in base ad un percorso motivazionale parzialmente differente da quello del TAR.
Il primo giudice aveva basato la propria decisione partendo dall’assunto secondo cui è necessario distinguere l’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale che legittima l’iniziativa processuale, dalla posizione sottostante cui esso inerisce e che può essere costituita anche da una situazione di diritto soggettivo: negli esempi riportati nella sentenza n. 1403 del 2013 nei quali si ammette la trasmissibilità dell’interesse legittimo, come la successione nella proprietà di un’area interessata da un esproprio, ciò che viene trasmesso è in realtà detta posizione sottostante, cioè il diritto soggettivo sul bene immobile interessato dalla procedura espropriativa. Dunque, la traslazione in capo al cessionario dell’interesse legittimo è soltanto una conseguenza del fatto che, per effetto della successione, è mutato il soggetto che sarà interessato e coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo.
Allo stesso modo, il Consiglio prendeva in analisi il caso trattato in Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 7520, il cui oggetto era un’impugnativa di diniego di autorizzazione paesaggistica alla recinzione del fondo, dove si verificava analoga successione nell’interesse legittimo pretensivo unitamente e come conseguenza del trasferimento del diritto soggettivo avente ad oggetto il bene interessato dall’intervento di recinzione.
Considerato tutto questo, ciò che rileva secondo la pronunzia in commento è che, ai fini di detta translatio, ci sia una stretta inerenza tra l’interesse legittimo e la posizione giuridica sottostante, poiché è solo questa stretta inerenza al bene/diritto trasferito che determina la veicolazione in via immediata e diretta della titolarità della medesima situazione di interesse legittimo già esistente nel patrimonio del soggetto coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo.
Per quanto attiene alla fattispecie in analisi, il giudice ritiene di non concordare con la parte appellante, che sostiene come l’interesse legittimo dovrebbe intendersi trasferito per effetto del trasferimento del “bene farmacia”, e che, dunque, andrebbe applicato l’art 111 c.p.c., avendo così la prosecuzione del giudizio nei confronti dell’originario ricorrente.
Questo perché, in primis, oggetto della cessione è l’autorizzazione all’esercizio dell’attività farmaceutica[xii] e non la sola azienda farmaceutica[xiii]. Inoltre, ai fini del valido trasferimento della titolarità della farmacia, occorrono ex lege sia il contestuale trasferimento dell’azienda ovvero della sede farmaceutica sia l’autorizzazione al trasferimento da parte dell’Amministrazione, rilasciabile all’esito della verifica di idoneità del farmacista subentrante.
Dunque, il trasferimento del bene aziendale costituisce una mera vicenda negoziale privata, rilevante quale presupposto per l’esercizio del potere amministrativo, ma è solo per effetto di quest’ultimo impulso pubblicistico che un soggetto diverso da quello originario può subentrare nella titolarità dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività farmaceutica. Il Consiglio definisce le fattispecie come questa miste o complesse, in quanto si perfezionano al ricorrere di un atto di cessione privata e di un atto amministrativo, che riguarda la qualità soggettiva del subentrante.
Ciò porta ad escludere che l’interesse legittimo transiti unitamente o simultaneamente alla titolarità del bene o diritto soggettivo sottostante (la proprietà dell’azienda farmaceutica), in quanto esso si estingue in capo al soggetto cedente e si ricostituisce in una consistenza nuova e diversa in capo al cessionario per effetto delle verifiche di idoneità soggettiva che l’Amministrazione compirà prima di concedere il trasferimento dell’autorizzazione.
L’esclusione dell’applicabilità dell’art. 111 c.p.c. consegue, quindi, al fatto che nel corso del giudizio non c’è stato il trasferimento del medesimo interesse legittimo in origine sussistente in capo al ricorrente, ma quell’interesse si è estinto ed è venuto ad esistenza un interesse nuovo in capo al suo avente causa.
Tutto ciò, peraltro, non porta a negare la presenza di strumenti di tutela in capo a quest’ultimo, poiché proprio l’effetto novativo di questa vicenda traslativa abilita il subentrante a far valere la sua posizione soggettiva, originaria e non derivata, attraverso la proposizione di una autonoma istanza di trasferimento e successivi eventuali strumenti di tutela giudiziale, senza che le sue ragioni siano pregiudicate dalle iniziative precedentemente assunte dal suo dante causa.
3. Posizioni della dottrina
La diversità di orientamenti sul tema della trasferibilità dell’interesse legittimo non è un problema soltanto della giurisprudenza, ma contraddistingue anche la teorizzazione dottrinale.
Una delle principali ragioni per cui parte della dottrina e della giurisprudenza ha sostenuto l’indisponibilità e, dunque, l’intrasferibilità dell’interesse legittimo è la contrapposizione dei caratteri dell’interesse legittimo rispetto a quelli del diritto soggettivo[xiv]. Ciò, nonostante il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo[xv], che ha attenuato le differenze tra le due situazioni giuridiche soggettive.
Tra le tesi che negano la trasferibilità dell’interesse legittimo si possono distinguere almeno due orientamenti che sottolineano la presenza di differenze tra diritti soggettivi e interessi legittimi.
In primis, l'indisponibilità dell'interesse legittimo viene ricondotta alla sua qualificazione come posizione giuridica soggettiva di natura strumentale[xvi], finalizzata alla tutela dell'interesse pubblico e caratterizzata da una dimensione essenzialmente processuale, piuttosto che sostanziale[xvii]. Tale impostazione - invero datata - si allinea alle teorie che descrivono l'interesse legittimo come una situazione giuridica protetta in maniera indiretta o meramente occasionale[xviii]. Da questa concezione discende la conseguenza che la protezione dell'interesse legittimo sia subordinata alla realizzazione dell'interesse pubblico perseguito dal potere amministrativo.
L'idea di una correlazione tra gli interessi tutelati dall'amministrazione e l'interesse legittimo appare coerente con il principio della non transigibilità dei rapporti giuridici amministrativi nei quali il potere amministrativo e l'interesse legittimo risultano inscindibilmente connessi[xix]. Questa prospettiva interpreta il rapporto tra interesse legittimo e potere amministrativo come due aspetti complementari di un medesimo fenomeno, entrambi orientati alla salvaguardia dell'interesse pubblico e alla legittimità dell'azione amministrativa. Di conseguenza, l'indisponibilità dell'interesse legittimo si fonda sulla stessa logica che caratterizza l'indisponibilità del potere amministrativo[xx]: poiché quest'ultimo è vincolato al perseguimento dell'interesse pubblico, anche l'interesse legittimo non può essere considerato disponibile, essendo tutelato solo in maniera riflessa attraverso il rispetto dei principi di legalità e buon andamento dell'azione amministrativa.
A questo orientamento se ne contrappone un altro che, invece, si basa sulla natura personale e/o diretta della posizione giuridica soggettiva, impostazione seguita da chi sostiene il carattere infungibile del rapporto cittadino-amministrazione[xxi]. In base a ciò, una parte della dottrina, pur senza negare espressamente la trasferibilità dell’interesse legittimo in capo a un terzo, evidenzia tuttavia come, quando mutano le parti di un procedimento amministrativo, mutano anche gli interessi privati coinvolti in esso. Dunque, tranne che al momento della cessione, l’interesse legittimo in capo al terzo non sarebbe lo stesso, ma «si conformerebbe autonomamente, proprio in quanto il momento di confronto con il potere non può essere indifferente se rapportato alla sfera soggettiva di un soggetto piuttosto che di un altro»[xxii].
Ciò, di fatto, significa sostenere che l’interesse legittimo non sia davvero trasmissibile, in quanto personale, posto che il terzo diverrebbe titolare di una posizione giuridica autonoma rispetto a quella originaria. Alla luce di questo, nell’ambito di un procedimento amministrativo in corso, il potere amministrativo dovrebbe confrontarsi con un soggetto diverso dall’iniziale destinatario dei suoi effetti.[xxiii]
A questi orientamenti se ne contrappongono altri favorevoli alla trasferibilità dell’interesse legittimo.
Un filone della dottrina, se da una parte afferma che le posizioni giuridiche di vantaggio degli amministrati non si trasferiscono, dall’altra accetta che se vi è consenso dell’amministrazione e se il “sottraente” ha i requisiti per la posizione giuridica in questione, sia possibile il passaggio ad un terzo delle posizioni di vantaggio “a fondo patrimoniale”. Chi afferma ciò ritiene pure che esistano delle posizioni di vantaggio ob rem, connesse alla titolarità di un diritto su una cosa, rispetto alle quali la circolazione si compie insieme al trasferimento della cosa stessa[xxiv].
La miglior dottrina accetta la trasferibilità dell’interesse legittimo[xxv] in modo indipendente rispetto alla cessione del rapporto giuridico sostanziale sottostante[xxvi]. Dunque, il fatto che non sia possibile disporre dell’interesse legittimo non ne esclude la sua trasferibilità[xxvii].
Sempre secondo questo orientamento, il trasferimento dell’interesse legittimo, insieme all’interesse di fondo al quale è finalisticamente legato, è cosa ovvia che dipende dalla natura strumentale dell’interesse legittimo e dal suo essere una situazione dinamica, che si colloca nello spazio dell’esercizio del potere unilaterale altrui, allorché questo “intercetta” l’interesse sostanziale del suo titolare[xxviii].
Secondo l’indirizzo in esame l’interesse legittimo è sì “personale”, ma non più di qualsiasi diversa situazione giuridica soggettiva, cioè in quanto collegata ad un soggetto che ne è il titolare. Da tale carattere “personale” della situazione soggettiva non può, dunque, farsi derivare alcuna intrasferibilità[xxix].
L'ammissione di eccezioni da parte di chi sostiene l’intrasmissibilità dell’interesse legittimo finisce per attenuare la portata della tesi stessa, trasformandola in una teoria dell’intrasmissibilità relativa. In quest’ottica, si ammette l’esistenza sia di interessi legittimi trasmissibili sia di interessi legittimi intrasmissibili, e il criterio distintivo risiederebbe nella consistenza dell’interesse che sta alla base dell’interesse legittimo.
Tale dottrina sottolinea, comunque, che l’interesse legittimo, in quanto situazione dinamica, è altresì strumentale rispetto a situazioni aventi ad oggetto beni della vita; pertanto, la sua trasferibilità sarà possibile solamente quando tale situazione è in corso, ossia nei limiti dell’esercizio del potere unilaterale altrui[xxx].
In breve, secondo la dottrina esaminata, il fatto che l’interesse legittimo sia finalisticamente legato all’interesse di fondo sotteso giustifica l’appartenenza della situazione giuridica soggettiva al patrimonio del singolo[xxxi] e la sua trasmissibilità[xxxii].
Tale orientamento si appoggia sulla teoria “strumentale” dell’interesse legittimo che si contrappone alla teoria “finale”. Partendo da quest’ultima, altra parte della dottrina ha invece ritenuto ammissibile la trasmissibilità dell’interesse legittimo, a condizione che risultino cedibili sia la posizione legittimante sia, se è in questione un interesse pretensivo, il bene della vita da acquisire.[xxxiii]
Questo indirizzo parte dal presupposto che il fine dell’interesse legittimo è il bene della vita, che in caso di interessi oppositivi inquadra anche la posizione legittimante e, dunque, «se si reputa trasferibile tale posizione perché di carattere non strettamente personale […] risulterà per ciò solo trasferibile anche l’interesse legittimo»; invece, in caso di interessi pretensivi il bene della vita «non è ancora acquisito al patrimonio di chi lo richieda e non costituisce parte della posizione legittimante. Sicché non basta la trasferibilità di tale posizione legittimante, ma è necessario che il test sul carattere strettamente personale o meno vada esteso anche alla relazione con detto bene»[xxxiv].
Un’ulteriore corrente dottrinale ammette in modo implicito la trasferibilità degli interessi legittimi basandosi sul riconoscimento ex lege della circolazione dei diritti edificatori[xxxv] in modo autonomo rispetto al diritto di proprietà sottostante[xxxvi]. Ciò in base all’art. 2643, n. 2 c.c.[xxxvii] che prevede la trascrizione dei relativi atti di cessione[xxxviii].
4. Considerazioni finali
Dall’adesione o meno alla teoria della successione a titolo particolare dell’interesse legittimo derivano significative conseguenze sia in ambito procedimentale, che processuale[xxxix].
Per quanto riguarda il procedimento, se si muove dalla considerazione che ciò che viene ceduto è il medesimo interesse legittimo, si compirà il subentro nella stessa posizione dell’originario titolare della situazione giuridica ed anche il potere amministrativo, che ha già iniziato ad essere esercitato, rimarrà lo stesso. Per questo, tutti gli atti endoprocedimentali già posti in essere continueranno ad avere effetto anche nei confronti del nuovo titolare[xl]. Se, invece, si rifiuta la possibilità di un “acquisto a titolo derivativo” dell’interesse legittimo, ma si prospetta, al massimo, un acquisto “a titolo originario”, si escluderà una successione nella stessa posizione giuridica e si potrà, al limite, accettare l’assunzione di titolarità di un nuovo ed autonomo interesse legittimo. In quest’ultimo caso, tuttavia, l’originario potere non potrà continuare ad essere esercitato e il procedimento già iniziato non proseguirà, ma dovrà essere ripetuto dall’inizio.
Dal punto di vista del processo, invece, è solo nel caso in cui si accetti la trasferibilità dell’interesse legittimo che si potrà ammettere l’applicabilità degli artt. 110 e 111 c.p.c. anche nel giudizio amministrativo[xli], con le annesse conseguenze processuali, e dunque, ad esempio, la possibilità per il successore di intervenire o di essere chiamato in giudizio e di estromettere l’alienante, l’estensione anche al successore a titolo particolare della legittimazione ad agire, la decorrenza dalla stessa data del termine decadenziale per l’impugnazione del provvedimento e degli effetti della sentenza definitiva del giudizio già pendente.
La risoluzione della questione in analisi è meritevole di attenzione in quanto utile a molteplici finalità. In base alla soluzione data, sarà possibile stabilire se, in caso di successione, il nuovo titolare può subentrare automaticamente nel processo amministrativo o se sia necessaria una nuova impugnazione dell’atto amministrativo lesivo; valutare come la successione influenzi il rapporto tra il nuovo titolare dell’interesse legittimo e la Pubblica Amministrazione, soprattutto in materia di concessioni, autorizzazioni o appalti pubblici, ma anche approfondire se la successione dell’interesse legittimo sia coerente con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e buona amministrazione[xlii].
Ammettere la trasferibilità dell’interesse legittimo ha indubbi vantaggi ai fini del buon funzionamento del processo e del procedimento, se solo si considerano la speditezza e i vantaggi in termini di economicità di tempo e mezzi che ne deriverebbero. La soluzione appare anche coerente con l’essenza dell’interesse legittimo, intesa come posizione giuridica di vantaggio condizionata dall’esercizio del potere amministrativo attraverso la quale il privato può far valere il principio di legalità ottenendo la tutela giurisdizionale o risarcitoria nei confronti della Pubblica Amministrazione[xliii]. Se è vero, infatti, che l’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva personale e diretta, ciò non ne impedisce la disponibilità e, di conseguenza, la cedibilità a titolo particolare ai sensi dell’art. 111 c.p.c., anche qualora non ci sia stretta inerenza tra il suddetto interesse e la posizione giuridica sottostante. Tutto ciò richiamando la teoria “finale” dell’interesse legittimo[xliv], che porta ad accettare la possibilità della sua trasmissibilità in tutti i casi in cui risultino cedibili la posizione legittimante e, qualora sia in questione un interesse pretensivo, il bene della vita da acquisire[xlv].
[i] Per una disamina dell’interesse legittimo e dei suoi profili più rilevanti si veda: F. G. SCOCA, L’interesse legittimo Storia e teoria, Giappichelli, Torino, 2017.
[ii] Per approfondire l’argomento ex multiis: M. BOVE, Lineamenti di diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, pp. 359 ss., A. P. PISANI, Profili dogmatici e valori costituzionali nella successione a titolo particolare nel diritto controverso, in Rivista di diritto processuale, 3/2022, pp. 807-820, A. D'ADDAZIO, M. PAGNOTTA, B. LIMONGI, Il processo esecutivo e la successione nel diritto controverso, in Rassegna dell'esecuzione forzata, 2/2020, pp. 533-541.
[iii] Art. 111 c.p.c.: “Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie.
Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto.
In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l'alienante o il successore universale può esserne estromesso.
La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull'acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”.
[iv] L. FERRARA, Diritto soggettivo e interesse legittimo: una distinzione sfumata del tutto?, in L'amministrazione nell'assetto costituzionale dei poteri pubblici. Scritti per Vincenzo Cerulli Irelli. Tomo I, Giappichelli, Torino, 2021, p. 83-102.
[v] TAR Campania, Napoli, sez. III, 12 marzo 2024, n. 3777.
[vi] Decisioni conformi: Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2024, n. 9333; Cons. Stato, sez. V, 18 marzo 2024, n. 2606; Cons. Stato, sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1403. Decisioni difformi: Cons. Stato, sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520 secondo cui l’interesse legittimo può essere normalmente, oggetto di trasferimento a titolo universale o particolare, con conseguente successione nel rapporto giuridico; Cons. Stato, sez. II, 26 aprile 2021, n. 3342; Cons. Stato, sez. III, 26 giugno 2020, n. 4103 che, ritenendo il disposto dell’art. 111 c.p.c. applicabile anche nel processo amministrativo, implicitamente risolve in senso favorevole la questione pregiudiziale dell’ammissibilità di una successione a titolo particolare anche nella titolarità, oltre che del diritto soggettivo, anche dell’interesse legittimo.
[vii] Sono richiamate e necessariamente da citare per la tesi a sostegno dell’intrasferibilità dell’interesse legittimo anche Cons. Stato, sez. II, 5 novembre 2024, n. 9333 e Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2024, n. 2606.
[viii] Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, depositata 7 marzo 2013, punto 6.
[ix] Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, depositata 7 marzo 2013, punto 7.
[x] Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 7520, punto 4.
[xi] Cons. Stato, sez. VI, 24 marzo 2015, n. 3727 e Cons. Stato, sez. III, 11 giugno 2020, n. 4103 e, infine, Cons. Stato, sez. II, 27 ottobre 2020, n. 3342, pubblicata 26 aprile 2021 .
[xii] Ai sensi dell’art. 12 della legge 2 aprile 1968, n. 475.
[xiii] Intesa come complesso di beni organizzato all’esercizio dell’impresa, coincidente con i locali adibiti all’esercizio farmaceutico e con le dotazioni ad essa afferenti.
[xiv] Capacità o attitudine del diritto soggettivo ad essere trasferito da una sfera giuridica per essere imputato ad un’altra sfera giuridica. Cfr. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2024, pp. 139 ss.
[xv] Cass., Sez. Unite, sent. 500 del 1999. Per approfondire: A. ORSI BATTAGLINI, C. MARZUOLI, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999; R. CAROCCIA, Risarcimento dell'interesse legittimo - Chance, tutela dell'affidamento e regole di validità e responsabilità, Giappichelli, Torino, 2022.
[xvi] Per approfondire: R. ALESSI, Interesse sostanziale e interesse processuale nella giurisdizione amministrativa, in Arch. giur., 1943, pp. 132 ss.
[xvii] E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Cedam, Padova, 1986, p. 249.
[xviii] V. SPAGNUOLO VIGORITA, Principio individualistico nel processo amministrativo e difesa dell’interesse pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, p. 635.
[xix] E. GUICCIARDI, Le transazioni degli enti pubblici, in Arch. dir. pubbl. 1936, 71/134, secondo cui «la connessione esistente tra l’interesse delle parti e l’interesse pubblico (...) rende inammissibile in tali casi una composizione transattiva».
[xx] M. D’ARIENZO, Trasferibilità dell’interesse legittimo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017, p. 90.
[xxi] A. NICOLUSSI, Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale fra diritto privato e diritto pubblico, in Colloquio sull’interesse legittimo - Atti del Convegno in memoria di Umberto Pototsching (Milano, 19 aprile 2013), Jovene, Napoli, 2014, p. 76, secondo cui «L'interesse legittimo si inserisce in modo infungibile e indisponibile nel rapporto amministrativo tra p.a. e soggetto privato coinvolto, in quanto l’interesse tutelato del soggetto privato è quello e soltanto quello su cui insiste l’atto amministrativo».
[xxii] M. DELSIGNORE, La compromettibilità in arbitrato nel diritto amministrativo, Giuffré, Milano, 2007, pp. 191-192.
[xxiii] A. DI CAGNO, Riflessioni sul problema della trasmissibilità dell’interesse legittimo: profili ricostruttivi e prospettive di analisi, in Federalismi.it, 26/2023, pp. 51 ss.
[xxiv] A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1980, p. 158.
[xxv] F.G. SCOCA, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Giuffrè, Milano, 1990, p. 37.
[xxvi] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 468.
[xxvii] F.G. SCOCA, Contributo, cit., p. 37. La circolazione dell’interesse legittimo separatamente dal trasferimento delle
«condizioni sostanziali che lo avevano generato» è stata interpretata, sul piano teorico, come trasformazione dell’interesse legittimo in una situazione soggettiva «astratta, quasi cartolare», che possa circolare «a prescindere dalla circolazione del rapporto sottostante» (C. RUSSO, Trasmissibilità a terzi del risarcimento del danno, in www.treccani.it, 2014, p. 6).
[xxviii] La trasferibilità dell’interesse legittimo è ipotizzabile, chiaramente, ove esso sia presente; quindi, quando viene esercitato il potere dell’amministrazione, cioè dal momento in cui si apre il procedimento a quando si chiude.
[xxix] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 470.
[xxx] Op. cit., p. 471-475.
[xxxi] F.G. SCOCA, Attualità dell’interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., 2011, 2, pp. 379 ss.
[xxxii] F.G. SCOCA, Contributo, cit., p. 37.
[xxxiii] G. GRECO, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino, in Foro amm., 2014, pp. 585 ss.
[xxxiv] G. GRECO, Il rapporto amministrativo e le vicende, cit., p. 619.
[xxxv] A. BARTOLINI, Profili giuridici del c.d. credito di volumetria, in Riv. giur. urb., 2007, p. 305.
[xxxvi] M.C. D'ARIENZO, Trasmissibilità dell'interesse legittimo e circolazione dei diritti edificatori tra previsioni codicistiche e suggestioni giurisprudenziali, in Diritto e processo amministrativo, 2016, pp. 965 ss.
[xxxvii] Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione: […] 2) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di superficie, i diritti del concedente e dell'enfiteuta.
[xxxviii] G.P. CIRILLO, La trascrizione dei diritti edificatori e la circolazione degli interessi legittimi, in Riv. notariato, 2013, 3, pp. 601 ss.
[xxxix] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 459, ove l’interesse legittimo appare come «l’interesse all’esito favorevole dell’esercizio del potere precettivo altrui, tutelato mediante facoltà di collaborazione dialettica, dirette ad influire sul merito della decisione (precetto) finale, esperibili lungo tutto il corso dell’esercizio del potere».
[xl] La dottrina che pare ammettere la successione nel rapporto procedimentale ritiene che «tutte le situazioni che si formano dialetticamente e progressivamente nel procedimento […] diventano (immediatamente) riferibili anche al successore (come, ad es., il possesso di determinati requisiti per l’ottenimento di un determinato bene della vita) »; cfr. F. GASPARI, Successione a titolo particolare nel diritto controverso nel processo amministrativo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2020, p. 67.
[xli] Come sembrerebbe riconoscere la giurisprudenza, tra cui Cons. Stato, Sez. VI, 28 luglio 2015, n. 3727; Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1842.
[xlii] Artt. 24 e 97 Cost., art. 6 CEDU.
[xliii] Ex multiis E. CASETTA, L'interesse legittimo: una situazione giuridica a “progressivo rafforzamento”, in Dir. Ec., 2008, 1, pp. 7-16; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2022, pp. 132-135.
[xliv] Teoria che pare ormai accolta pacificamente dalla giurisprudenza civile (ex multiis: Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, punto 5, Cass., Sez. Un., 4 settembre 2015, n. 17586), amministrativa (ex multiis, Cons. Stato, ad. plen. 29 luglio 2011, n. 15, punto 6.4.1; Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011, n. 3, punto 3.1.) e persino della Corte costituzionale. Infatti, è stato da ultimo riconosciuto, anche dalla Corte costituzionale, che «gli artt. 24, 103 e 113 Cost., in linea con le acquisizioni della giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno posto al centro della giurisdizione amministrativa l’interesse sostanziale al bene della vita» (Corte cost. 13 dicembre 2019, n. 271, punto 11.2). Cfr. G. GRECO, Interesse legittimo ed effettività della tutela (a proposito della sentenza 1321/19 del Consiglio di Stato), pubblicato il 14 gennaio 2020 in sito giustizia amministrativa - dottrina.
[xlv] G. GRECO, Il rapporto, cit., pp. 585 ss.
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