ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quarta puntata: Toccata e... volo in Europa
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Per volere dell’onnipotente - 2. Njeem in viaggio di affari - 3. Fermo e sequestri – 4. Ritorno a Mitiga.
1. Per volere dell’onnipotente
Mi chiamo Osama, di cognome el-Masry Njeem. Le vostre autorità giudiziarie mi indicano “Njeem” nei loro atti. Da voi in Europa, dopo questa faccenda dell’arresto a Torino, sono diventato però più popolare come “Almasri”, non ho capito perché. In verità sono molte le cose che non comprendo di voi occidentali. Lo so, voi dite di avere un vostro dio, da qualche secolo siete abituati a dominare il mondo. Ma pensate anche di giudicare gli altri con gli stessi occhi con cui voi guardate il mondo, dall’alto in basso. Perciò ci attribuite i nomi che vi piacciono di più.
Nella Libia occidentale, dove il grande presidente Fayez al-Serraj è riuscito a regalarci la pace col suo Governo di accordo nazionale, posso dire di essere un’autorità anche io. E da qualche tempo la mia forza e la mia risolutezza sono apprezzati anche altrove. Devo molto al mio generale Raouf Kara, che mi ha reso uno dei capi nell’Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, quando ancora si chiamava al-Radaa.
Ma certo, posso negare che Iddio mi abbia guidato per arrivare dove sono? Non è blasfemia riconoscere la volontà dell’onnipotente nella propria buona fortuna.
Gheddafi era ormai un servo dell’occidente, tradito dall’occidente. L’Islam non può accettare la colonizzazione di chi degrada i nostri costumi, corrompe la nostra politica, toglie al nostro popolo il potere con il sotterfugio e la menzogna. Io mi sono ribellato a tutto questo.
Allo scoppio della rivoluzione ero reputato nient’altro che un commerciante ambulante di volatili. Ciò che vendevo era halal[1], nessuno si è mai lamentato, e le mie ubare[2] erano le migliori del mercato. È stato grazie a loro che ho conosciuto berberi, tuareg, tebu: questi, passato il tempo degli uccelli, mi hanno aiutato anni dopo a cacciare le milizie di Belkasim Haftar che ancora hanno l’ardire di spingersi fino ai confini della Tripolitania, a stanare le loro spie, che si annidano ovunque tra noi, a catturare gli infedeli che attraversano il deserto infestando le nostre coste e i nostri quartieri.
Avevo già tanti amici. Quando ho visto la Radaa nascere a Souk al Juma e diventare potente in tutta Tripoli, ho capito che le mie amicizie sarebbero state importanti, che la mia capacità di riunire i seguaci avrebbe rafforzato la pace imposta dal nostro presidente, che il mio coraggio sarebbe servito al popolo libico.
Ho combattuto, ho ucciso, ho dimostrato di sapere comandare una milizia e arruolare nuovi combattenti. Nessuno come me sa organizzare centri di raccolta di sbandati e assassini, di ladri, meretrici e invertiti. Nessuno come me sa ottenere il denaro e le informazioni necessari alla nostra causa. Dispongo di carceri e magazzini, comando la polizia penitenziaria e ho due milizie direttamente ai miei ordini. Da me dipende il destino di migliaia di persone, detenute o affrancate solo precariamente.
Ora che ci siamo liberati del colonnello Gheddafi e del suo mondo malato, l’Europa ha bisogno di noi più di prima. Perché oltre al petrolio abbiamo la massa di disperati che si arrogano il diritto di volere navigare due mari: quello di sabbia, che per noi è Fezzan, e quello di acqua, Mediterraneo. E l’Europa teme gli sbandati che vanno a nord tanto quanto adora il petrolio: del petrolio non sa fare a meno, dei pezzenti che vorrebbero navigare i due mari ha paura.
Devo venire ogni tanto in Europa, dunque. Ho da fare affari e assecondare il volere dell’onnipotente.
2. Njeem in viaggio di affari
6 gennaio. Njeem inaugura il 2025 con un nuovo viaggio per l’Europa. Vola da Tripoli a Londra, facendo scalo all’aeroporto di Roma. Come passeggero in transito, a Fiumicino non subisce controllo passaporti. A Londra, dove si tratterrà sette giorni, invece esibisce un passaporto della Repubblica Dominicana.
13 gennaio. Njeem si trasferisce a Bruxelles in treno. Dal passaporto dominicano risulta che l’ingresso in area Schengen è avvenuto attraverso la frontiera francese presso il tunnel della Manica[3]. Da Bruxelles poi prosegue diretto in Germania, Bonn in particolare, dove si resterà due giorni. Nell’ex capitale della Germania ovest affitta un’automobile Mercedes esibendo una patente turca e indicando come destinazione finale del viaggio Fiumicino. Queste notizie allertano l’intellingence tedesca, che nell’arco di alcune ore metterà in moto l’unità investigativa della Corte penale internazionale.
Pare che già dal 10 luglio 2024 la Corte avesse inserito una nota, diretta solo alla Germania e non visibile agli altri Paesi, che, nella codificazione del canale di comunicazione di Interpol, era finalizzata alla raccolta discreta di informazioni su dati e documenti di viaggio, telefoni e mezzi di pagamento, persone e contatti durante la presenza in Germania di Njeem, con richiesta, per le autorità tedesche, di informare immediatamente l’ufficio del procuratore della Corte medesima[4].
16 gennaio. A bordo della Mercedes Njeem lascia Bonn in direzione sud. I connazionali che viaggiano con lui ora sono tre. Prima di Monaco di Baviera l’auto viene fermata da un controllo stradale. Njeem mostra, tra l’altro, un biglietto ferroviario a suo nome da Londra a Bruxelles datato 13 gennaio. Gli agenti, non avendo motivi contrari lasciano proseguire il quartetto, che nella serata arriva a Torino.
18 gennaio. La mattina del 18 la Mercedes con targa tedesca attira l’attenzione anche di un posto di controllo di polizia italiana. A bordo vi sono tutti e quattro i libici giunti dalla Germania. Neppure stavolta l’esame dei loro documenti giustifica un qualche seguito al controllo di routine dei documenti.
Più tardi Njeem assiste alla partita di calcio Juventus-Milan. Esce dallo stadio torinese nel tardo pomeriggio. Poco prima la camera preliminare 1 della Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti[5]. Le accuse ipotizzano crimini di guerra (oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele, tortura, violenza sessuale, omicidio e stupro) e crimini contro l’umanità (detenzione abusiva, tortura, violenza sessuale, stupro, omicidio e persecuzione), tutti commessi nella prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2015 al 2 ottobre 2024. Tra le vittime, vi sarebbero 34 persone uccise e un bimbo di cinque anni violentato.
Il mandato viene trasmesso all’Italia nonché a Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, Austria e Belgio[6].
19 gennaio. Più nel dettaglio, la sala operativa internazionale della Direzione centrale della polizia criminale trasmette alla questura di Torino la nota di diffusione “rossa” della direzione centrale Interpol alla questura di Torino. Dalla consultazione della Banca Dati Interforze emergono i dati acquisiti durante il controllo nella mattinata del 18. Di qui alla banca dati dei soggetti alloggiati si perviene rapidamente all’individuazione della nota struttura alberghiera che ospita Njeem e i suoi connazionali.
3. Fermo e sequestro
Alle 3 personale della Digos e della squadra mobile torinese viene inviato nell’hotel, da cui all’alba i quattro libici vengono prelevati. Alle 9.30 in questura viene notificato a Njeem il mandato di arresto della CPI.
Vengono fermati anche gli altri tre cittadini libici, poi denunciati alla procura di Torino in stato di libertà per il reato di favoreggiamento personale. Espulsi dal prefetto, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria, i tre vengono infine rimpatriati. Njeem viene invece temporaneamente ristretto nella casa circondariale torinese Lorusso e Cutugno e, quindi, messo a disposizione della Corte di appello di Roma e della procura generale presso la corte di appello di Roma.
In questura gli sono stati sequestrati tre passaporti (uno libico, uno turco e uno dominicano), otto carte di credito tra Visa e Mastercard (due emesse da banche del Regno Unito e sei da istituti turchi). Ha inoltre una patente con il timbro di Ankara, che gli permette di noleggiare auto e guidare liberamente in tutti i Paesi europei, la carta per l’accesso in camera di un esclusivo albergo milanese di proprietà di una casa di alta moda e la tessera elettronica per accedere a uno stabile del “Mavera Park”. Si tratta di un elegante complesso residenziale costruito alla periferia di Istanbul, pensato come una piccola Dubai realizzata a pochi chilometri dal Bosforo[7].
Sui biglietti da visita che ha con sé Njeem risulta “general manager” di due società private turche: vi sono riportati, oltre al cellulare personale con numerazione di Tripoli, numeri di telefono fissi del Regno Unito e del Canada, Ontario. Njeem indossa inoltre un nuovo modello di Rolex Submariner Hulk, un orologio che, girando per i siti specializzati, può costare tra i 14 e i 24.000 euro.
C’è da chiedersi se il tenore di vita raccontato da questi oggetti sia frutto solo dei proventi dell’attività poliziesca e militare condotta in patria o anche dei rapporti d’affari internazionali che emergono da tante fonti. Le due società di cui Njeem appare essere manager sono iscritte effettivamente nella gazzetta del registro delle imprese turco e rispondono a un indirizzo unico nel distretto Başakşehir della capitale. Le attività aziendali sono indicate come “importazione, esportazione, placcatura del ferro e commercio di PVC”[8].
4. Ritorno a Mitiga
Dell’arresto eseguito nell’albergo torinese non viene data inizialmente alcuna comunicazione ufficiale. Solo nel corso della domenica gli attivisti di Refugees in Libya colgono un messaggio di un sito libico in cui la cattura di Njeem viene definita “un errore oltraggioso”. Due cronisti, Nello Scavo di Avvenire e Sergio Scandura di Radio radicale interpellano il ministro degli esteri Tajani, che si abbandona a un laconico “effettivamente ci risulta”. Dopo di ciò sulla vicenda scende il silenzio.
Martedì 21 gennaio Njeem viene rilasciato su disposizione della corte d’appello di Roma. Sentito il procuratore generale, la Corte rileva l’irritualità dell’arresto. C’è un vizio procedurale, insomma, poiché la CPI non ha precedentemente trasmesso gli atti al Ministro della giustizia[9].
È vero, in effetti, che la Digos torinese ha agito richiamando correttamente l’art. 11 della l. n. 237/2012, il quale dispone che – nei casi in cui sia già stato emesso dalla CPI un mandato d’arresto o una sentenza di condanna a pena detentiva – il procuratore generale presso la corte di appello, ricevuti gli atti, chieda alla corte stessa l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna. Tuttavia, la trasmissione degli atti al procuratore generale è affidata al Ministro della giustizia che cura in via esclusiva i rapporti con la CPI (art. 2, co., 1 l. n. 237/2012), essendo il destinatario delle richieste della CPI.
Nel caso di specie, invece, la Digos non ha atteso la richiesta del procuratore generale, ma ha agito di propria iniziativa, apparentemente ai sensi dell’art. 716 c.p.p.: tale norma, è relativa alle procedure di estradizione, in casi di urgenza, non invece all’esecuzione dei mandati d’arresto emessi dalla CPI. Di qui l’irritualità della misura[10].
Ad attendere Njeem sulla pista di Ciampino c’è, da otto ore, il jet Dassault Falcon 900, con sigla ICARG, di proprietà della Compagnia Aereonautica Italiana s.p.a.: è uno dei cinque velivoli che compongono la flotta a disposizione dei nostri servizi segreti, Aise e Aisi[11]. Alle 11.14 decolla in direzione aeroporto Caselle di Torino, dove atterra alle 12.13. La notizia della liberazione non è ancora trapelata all’esterno.
Mentre il Falcon è fermo sulla pista di Caselle, alle 15.55 esce una nota del ministro Nordio: “È pervenuta la richiesta della Corte Penale Internazionale di arresto del cittadino libico Najeem Osema Almasri Habish. Considerato il complesso carteggio, il Ministro sta valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al Procuratore generale di Roma”. Il suo collega Piantedosi, però, non gli dà tempo per studiare. Njeem, infatti, dopo essere stato riaccompagnato nel carcere delle Vallette a ritirare gli effetti personali trattenuti, alle 19 è di ritorno a Caselle.
Sono le 19.51 quando – a carteggio non ancora valutato dal guardasigilli – il Falcon si alza definitivamente in volo, stavolta diretto a Tripoli. Njeem lascia l’Italia e le piazze europee dei suoi affari economici.
La stazione di atterraggio del Falcon non poteva che essere quella di Mitiga. Sono le 21.50. Del resto, già da nove giorni anche Ita Airways ha inaugurato la linea Fiumicino-Mitiga, con due voli settimanali. Finalmente anche i passeggeri della compagnia di bandiera italiana hanno il privilegio di atterrare nell’aeroporto che ospita il quartier generale della RADAA e il carcere libico più famigerato.
Alle 22 sul sito ufficiale della polizia giudiziaria libica compaiono le foto dello sbarco di Njeem. Sulla pista di atterraggio, ai piedi dell’aereo, lo attendono decine e decine di miliziani. Alcuni lo caricano sulle spalle in trionfo, i più si spingono l’un l’altro sporgendo le braccia rivolte verso l’alto, per riprendere il memorabile festeggiamento coi propri cellulari. Soltanto l’onnipotente poteva regalare un lieto fine così rocambolesco e repentino.
[1] Permesso, secondo la religione islamica.
[2] L’otarda ubara è un uccello migratore, dal piumaggio chiaro adatto a mimetizzarsi nei colori delle aree desertiche. È una delle prede preferite dei cacciatori libici e per questo a rischio di estinzione.
[3] Informativa Ministro dell’interno Matteo Piantedosi alla Camera dei deputati il 5 febbraio 2025.
[4] Informativa M. Piantedosi, cit.
[5] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-I1/11, 18.1.2025. Il mandato è emesso a maggioranza dal collegio della CPI. Una giudice, infatti, esprime posizione di dissenso non sul merito delle accuse, ma sulla riconducibilità dei fatti alla giurisdizione della Corte nei confronti della Libia.
[6] Nell’informativa alla Camera del 5 febbraio il ministro Piantedosi riferisce che in realtà una nota “di diffusione blu” (blue notice), per l’inserimento del nominativo di Almasri Njeem nelle banche dati nazionali, era stata trasmessa soltanto a Belgio, Regno Unito, Austria, Svizzera e Francia, non anche all’Italia. Solo nella serata del 18 gennaio la Corte ha chiesto al segretariato generale Interpol di Lione di sostituire la nota di diffusione blu con una red notice, contenente cioè indicazioni per l’arresto, rivolta a questo punto anche all’Italia, unitamente agli altri Paesi. Alle ore 2,33 del 19 gennaio, il segretariato generale Interpol ha validato la nota di diffusione rossa per l’arresto provvisorio e la successiva consegna alla Corte penale internazionale del cittadino libico.
[7] N. Scavo, Arresto, rilascio, caos politico: 8 domande e risposte sul caso Almasri, Avvenire, 29 gennaio 2025.
[8] Il criminale di guerra che ha scosso l’Italia si è rivelato essere un cittadino turco, TG24 Bagimsiz internet gazetesi, 5 febbraio 2024, in t24.com.tr, consultato il 25 marzo 2025.
[9] App. Roma, sez. VI penale, ord. 21 gennaio 2025: l’esecuzione del mandato di arresto “non è stato preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale; ministro interessato da questo ufficio in data 20 gennaio, immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, e che, ad oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”.
[10] Per una rivisitazione critica di alcuni aspetti decisionali dell’ordinanza della corte d’appello romana cfr. L. Parsi, Un volo di stato chiude il caso Al Masri?, in questa rivista, 25 gennaio 2025.
[11] L. Berberi, Voli “schermati e conti in rosso: così si muove la compagnia aerea degli 007 italiani”, in corriere.it, 24 marzo 2022, consultato il 26 marzo 2025.
Sommario: 1. Formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori - 2. Come realizzare il senso della mediazione con onore - 3. Il mio pensiero sulla formazione - 4. Esiti dell’indottrinamento - 5. Oltre lo strato raggiungere il substrato.
1. Formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori.
Poco, mi pare, fin ora si sia riflettuto sulla formazione del mediatore dei conflitti e circolano proposte di formazione per gli aspiranti mediatori pericolose, imbarazzanti, costose.
Vanno fermate. Va viceversa ampliata l'offerta di proposte serie. Vanno diffusi tra chi vuole avventurarsi in questo campo, i criteri per scegliere tra le offerte formative più o meno commerciali e banali.
Questo mio contributo spera di dare un apporto alla riflessione e alla ricerca del modello di formazione idoneo a preparare seriamente questa figura professionale, nuova ed impegnativa ma utilissima, tenendo sullo sfondo la necessità di far conoscere alla società civile la natura del nuovo istituto giuridico e diffonderne la cultura.
La mediazione dei conflitti è UNA GIUSTIZIA ALTRA E ALTA. Anzi molto alta e difficile, come tutto ciò che mette al centro la persona con il suo mistero: una complicata macchina che ci tiene in affanno[1].
Si tratta quindi di una giovane scienza, che deve fare ancora tanto cammino. Quello finora avviato è niente rispetto a quello che ancora occorre. È niente rispetto alla ricerca teorica e pratica che nei secoli tanto ha riguardato la giustizia ordinaria e la sua giurisdizione. È niente rispetto alla creazione di un modello di formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori.
Siamo nella linea di pensiero che costruisce una modalità inusuale di rispondere al bisogno di giustizia della persona e questa richiede una conversione culturale. Pone il valore dell'et et, della responsabilità al posto della delega, della cooperazione al posto del potere, della competizione e della sopraffazione. Valori che contrastano molto col pensiero comune.
Per promuoverli nei confliggenti nelle sedute di mediazione ben li deve prima praticare il mondo di chi a vario titolo si occupa di mediazione.
Quindi il tema della formazione deve essere radicalmente ripensato per qualità e quantità. Lo statuto epistemologico della formazione del mediatore deve divenire un urgente oggetto di studio e di elaborazione culturale. Attualmente si potrebbe osare chiedersi: What is?
Per questo occorre darsi il coraggio di aprirsi a questa sfida che appare titanica, la più grande del nostro tempo: cambiare il concetto stesso di giustizia, farlo evolvere, completarlo.
Questa rappresenta una vera aporia, quella che Jacques Derrida ha definito «l’esperienza dell’impossibile»[2].
Senza coraggio, senza il rischio e l’impegno si consegna all’insignificanza la riforma di civiltà che introduce pervasivamente il concetto di mediazione.
2. Come realizzare il senso della mediazione con onore
Definita l’epistemologia della mediazione il passaggio successivo sarà realizzarla con onore. Si è chiamati infatti a saper gestire un setting appropriato e sempre originale, così come unico è sempre un conflitto interpersonale, qualunque sia la materia del contendere.
Quando si riesce ad offrirlo, oltre ogni protocollo predeterminato e rigido, si restituisce alle parti la possibilità di trovare da sé la soluzione alla questione che li oppone, senza delegarla ad un terzo, il giudice, il professore, il dirigente, il genitore. Si accetta di vederne il significato relazionale che lo ha generato con il suo incepparsi tanto umano quanto frequente, fatto di malintesi, di malevoli intenzioni, di soprusi, di giochi di potere, di truffe, ecc. La diversità dei punti di vista diviene dialogo, confronto ed arricchimento e quindi rielaborazione e conseguente risoluzione del conflitto. A ciò può portare la mediazione solo se ogni applicazione è di spessore e induce un’esperienza di vita, veramente umana, che consente perfino a chi è stato ‘ingiusto’ di “riaggiustare” se stesso e la propria vita. Mediare, in tutti gli ambiti, significa pertanto realizzare una giustizia, profondamente anelata da ogni essere, che pone al centro la persona in carne ed ossa e la sua relazione con l'altro.
Il percorso può essere anche difficile, ma ne vale la pena in quanto è volto a rimuovere le cause del dolore che ogni conflitto, ogni contenzioso produce. Prendendosi cura dell’uomo, la mediazione è quindi la risposta più radicale e deflattiva, forse risolutiva del problema Giustizia.
Migliora la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti.
Quindi va ben indagato il modello operativo da applicare, che la collochi in un orizzonte di valore che è interessante ricercare e perseguire perché possa essere un volano di cambiamento migliorativo della risposta al bisogno di giustizia della persona.
Io studio e applico il modello umanistico-filosofico che mi consente di arrivare a livelli profondi della contesa, è un modello che evita che un procedimento, nato per consentire un confronto libero tra i protagonisti delle vicende conflittuali, condizione che permette quel sostanziale riavvicinamento che un procedimento formalizzato, qual è il giudizio, impedisce, diventi una prassi di seconda categoria. Sarebbe questa un’opportunità persa. Una risposta mancata.
Il nostro senso di responsabilità dovrebbe chiamarci tutti a sentirci coinvolti in questa svolta di civiltà che l’istituto della mediazione, ben attuato, consente. Ognuno è chiamato a conoscerla, a capirne la portata e difenderla. Tutti dobbiamo convergere verso un modello che eviti che la società abbia un servizio “povero”, orientato solo al "fare".
3. Il mio pensiero sulla formazione[3]
La formazione è un’operazione complessa che non può essere confusa con l’informazione, con una dotta lezione frontale, con il riassunto di una buona lettura fatta o di un buon testo di cui il docente è autore. Questo può essere consegnato allo studio individuale, oltretutto più proficuo: il corsista, di solito un laureato, sa bene capire quel che legge, soffermandosi, sottolineando, metabolizzando e mettendo in discussione. Non ha bisogno di un docente che gli offra una sintesi.
È inaccettabile che i cenni di operatività, ove presenti, i momenti di laboratorio, si concentrino sulle tecniche. Restino ancorati solo nel campo del fare. Spesso vengono solo presentati con slides o con qualche esercitazione imitativa.
Attualmente ci sono molti modelli operativi. Per padroneggiarli è necessario mettersi in situazione e provarsi. Utile in formazione è incontrarne più di uno. Forse occorrerebbe tutto il monte ore totale degli attuali corsi solo per scoprire le potenzialità di ognuno di questi. Certamente comunque non basta ascoltarne la presentazione. Né si tratta di addestrarsi. Ogni mediazione è un “vestito su misura”. Ogni conflitto è unico anche se i motivi oggettivi sono sempre gli stessi. Quelli soggettivi sono sempre diversi. Scoprire più protocolli operativi è certamente il modo di attrezzarsi con strumenti molteplici che poi, di volta in volta, il mediatore sfodererà e userà al momento opportuno. Una varietà da cui ciascun corsista partirà, che poi porterà a sintesi fino a giungere a costruire un proprio stile. Vanno tutti bene, nella logica del modus pensandi della mediazione: et et.
Inoltre mi piace invocare più che un modello di tecniche di mediazione, un mediatore che crea modelli di tecniche.
Quel che lascia sconcertati per la pericolosità e la banalità che sottende, è il modo prevalente di apprendere e di insegnare tali modelli nelle proposte di corsi.
Va di moda la scaletta di “istruzioni per”, tanto amate, in vero, dai corsisti che si sentono rassicurati da un elenco di pratiche vincenti, di frasi fatte che magicamente sgretolano i contrasti, di stock di procedure da imitare. Ma il formatore deve sapere resistere a questa richiesta. Assecondarla sarebbe un tranello: come dare una sicurezza illusoria e deludente a breve e a lungo termine.
Onestamente, chi ne ha letta qualcuna, può dire di essere riuscito ad applicarla ottenendo le promesse di efficacia che prometteva? È riuscito a diventare abile e ad applicare le istruzioni così lusinghiere ricevute? Di solito no, semmai ha aumentato il senso di frustrazione: “credo di sapere come si fa, eppure…”
Allo stesso modo la visione di un tutorial insinua l’idea di diventare subito esperti nella gestione delle più disparate questioni conflittuali, come se fosse ovvio ed automatico sapere come e dove “mettere le mani”.
Il giudizio su molte offerte di formazione non muta qualora a sostegno dei programmi didattici vi siano slides o filmati, né quando i corsi hanno assunto tratti più operativi, addestrando – mediante riprese video di simulazioni ‘interpretate’ dagli stessi discenti – all’acquisizione delle tecniche, indipendentemente dal modello di mediazione a cui esse si riferiscono o dall’ambito in cui le stesse dovrebbero essere applicate.
Stereotipate formule di rito riscontrabili spesso nei video che tanto copiosi, quanto ripetitivi, sono reperibili in rete o in libreria, o peggio, i software di gestione del procedimento, la cui supponente pretesa è ‘ammaestrare’ i mediatori, mostrando loro ‘come si fa”, o peggio, ‘cosa si deve replicare’.
A volte gli interessati hanno pensato perfino di poter strutturare la propria identità di mediatore e le necessarie capacità attraverso l’interazione con immagini e situazioni cui si attribuiscono in modo fabulistico ed autoreferenziale le fattezze che si desiderano, ‘giocando’ così in forma anche piacevole ed accattivante con trame che hanno l’unico difetto di essere tanto finte, quanto superficiali: dei videogames che, in definitiva, creano la falsa convinzione di acquisire tecniche di relazione serie ed efficaci. Una contraddizione in termini, un paradosso.
Simulare virtualmente può risultare, al di là di ogni ingenua speranza, un triste imbroglio autoconsolatorio.
4. Esiti dell’indottrinamento
Il risultato che ne segue è un superficiale indottrinamento, che tanto danno ha arrecato alla professionalità e all’autorevolezza che invece la collettività deve riscontrare nel ruolo di mediatore. È troppo alto il numero di mediatori inidonei in quanto sprovvisti tanto di una adeguata consapevolezza del loro delicato ruolo, quanto di una reale preparazione. Così si determina, amaramente, lo status di una professione di secondo piano, o, addirittura, di un istituto subìto che si squalifica degradandosi in un involontario ostacolo all’accesso alla giustizia. Persino può divenire uno strumento per addomesticare il riconoscimento dei diritti in nome di una salomonica ‘via di mezzo’, di rinunce più o meno pesanti magari con blandizie e manipolazioni, o semplicemente forme di sdolcinato buonismo.
In questo modo chi ha l’onore e il privilegio di elaborare l’offerta formativa, risulta protagonista, più o meno consapevole ma gravemente colpevole, dello screditamento del ruolo dei mediatori, oltre che della stessa mediazione.
Il formatore inoltre è altro dal docente. Il compito del buon formatore, e bene lo sa chi offre corsi di formazione d’eccellenza, di cui cura perfino i minimi dettagli, è di creare degli allievi non imitatori ma autonomi generatori di procedure. Per questo è auspicabile in una buona proposta formativa che il docente si astenga, non solo dal porsi come modello da imitare ma anche dal solo raccontare quello che lui ha fatto nelle varie situazioni: ciò può bloccare nell’allievo il suo processo creativo e progettuale, senza il quale non può avvenire la formazione vera.
5. Oltre lo strato raggiungere il substrato
Comunque sia il tema delle tecniche è quel che io considero lo “strato”. Oltre, e prima, c’è il “substrato”: il modo di essere nel profondo del mediatore, che attiene ai concetti dell’antropologia filosofica. Io ho raccolto i concetti più significativi e per ciascuno ho strutturato un seminario intensivo di due giornate dove le alimentazioni culturali sono solo l’input di un lavoro che poi si svolge tutto nell’interiorità, nella scoperta dei preconcetti e delle convinzioni sedimentate, delle paure e dei blocchi. Nel vivere esperienze strutturate ad hoc per far fare contatto con il proprio sé, dove ogni cosa assume una cifra diversa, una connotazione emotiva personale, una forza inibente squisitamente propria e spesso indicibile.
Infatti la consapevolezza della propria dimensione umanistica la si sviluppa e la si raggiunge non attraverso il detto ascoltato ma attraverso il proprio sentito, attraverso un fare riflessivo, attraverso un “gioco” sapientemente guidato dal formatore e delicatamente commentato nel gruppo. Il tutto frutto di una conoscenza della scienza della formazione, che tenga conto della persona umana e dei suoi vissuti soprattutto conflittuali.
Ovviamente questa formazione richiede la presenza fisica. Non può essere fatta on line. Simbolicamente è coadiuvante che il corsista “esca” da casa, interrompa il ritmo quotidiano, e “vada verso” una occasione di cura di sé, di introspezione, di riflessione, di silenzio. Che “resti” in un “luogo “protetto” dove possa guardare ed essere guardato dai compagni di questa avventura e provarsi anche in simulazioni che possono prevedere la messa in gioco del corpo, lo scambio relazionale, con più persone del gruppo o con un partner.
Uscire da, andare verso, restare nel, luogo protetto, scambi relazionali, rimandano a concetti, che altrove abbiamo già sviluppato, e che sono i pilastri della mediazione. Il luogo protetto è la stanza della mediazione, in esso si sosta nel conflitto e si prova ad uscire da sé per incontrare l’altro.
Inoltre vedo due macroaree nella formazione. La parte destruens, che svela e scardina le categorie culturali di provenienza, i motti e le regole dalla famiglia e del contesto sociale, i pregiudizi e le paure. E la parte costruens che fonda i nuovi pensieri evolutivi, le nuove mappe mentali più rispondenti alle istanze del nostro tempo.
Questo il lavoro a cui ritengo debba essere dedicato il miglior tempo concesso dalle indicazioni ministeriali. Su questa base di formazione, comune a tutti gli ambiti di applicazione della mediazione, si innesta facilmente e senza ostacoli l’apprendimento delle tecniche, specifiche e differenziate.
Ma cosa significa studiare se stesso secondo il punto di vista antropologico e filosofico?
Significa imparare a conoscere come si reagisce, non solo a livello razionale ma soprattutto emotivo ed affettivo, nella dinamica relazionale. Con se stesso e con gli altri.
Mediante gli stimoli forniti da un formatore che ben padroneggi queste manifestazioni, si impara a intercettarne gli aspetti problematici, li si sperimenta in primis sulla propria pelle. Sono molteplici, per questo la formazione richiede tempi lunghi e lenti, ha bisogno di corsi ricorrenti. Fatti di un lavoro mai ripetitivo, perché centrato sulla persona, sempre originale e quindi irripetibile; che sceglie di fare un cammino dove nessuno può barare, né con gli altri, né tantomeno con se stesso. Pena il fallimento.
Si tratta di un piano di formazione continua, che non finisce mai se è vero che occorre rinforzare quanto acquisito e rinnovarlo nel tempo, per evitare che la formazione raggiunta si isterilisca determinando una sorta di analfabetismo di ritorno.
Gli aspetti problematici della relazione sono tanti e complessi. Il percorso di formazione li deve tutti sondare. Per dare un’idea dell’impegno serio e profondo richiesto ai corsisti e al formatore stesso si può avviare un parziale elenco di alcuni concetti come:
vincere/perdere/donare/ben-essere/responsabilità/diversità/dignità/autostima/spaziovitale/giusta distanza/compassione/intelligenzaemotiva/comunicazioneprofonda/silenzio/autenticità/identità/ascolto empatico/nongiudicare/nonconsigliare/fiducia/cambiamento/paura/coraggio/limite/forza/autodeterminazione/relazione/prepotenza/gelosia/invidia/aggressività/furbizia/sotterfugio/menzogna/vendetta/sopraffazione.
Sono tante le sfumature che intervengono nelle criticità della vita relazionale, dove si manifestano situazioni di luce e zone d’ombra. Fanno parte della nostra vita quotidiana e per questo non possono mancare nella formazione del mediatore che si trova ad affrontare nel suo lavoro questa complessità. Ormai è noto a tutti, anche se nella prassi sembriamo dimenticarcene, che nella comunicazione quel che conta non è quel che si dice ma quel che si è. Importante è quindi l’intenzione che sta dietro a ciò che diciamo.
Per questo il mio convincimento, correndo il rischio della ripetitività, come un mantra, è: se si sa “essere”, gli strumenti operativi diventano efficaci, come avviene per gli strumenti musicali. Le loro potenzialità si esprimono in base a chi li suona, c’è chi li suona in modo scolastico, chi da grande maestro, chi da eccellenza assoluta. Chi da apprendista stregone.
“Piuttosto che niente preferisco piuttosto” recita un detto popolare; relativamente ad un professionista mediatore che ha conosciuto solo il fare, io dico senza dubbio: “meglio il niente”.
[1] Giovanni Cosi, Potere diritto interessi. Introduzione alla gestione dei conflitti, Libreria Scientifica, 2011; L'accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, Utet 2017.
[2] Jacques Derrida, Forza di legge. Il Fondamento mistico dell'autorità, Bollati Boringhieri, 2003; Confessare l'impossibile. Pentimento e riconciliazione, Cronopio, 2018 ; Dal diritto alla filosofia, Abramo, 1990.; Al di là delle apparenze. L'altro è segreto perché è l'altro, Mimesis, 2010.
[3] Il tema è trattato più dettagliatamente nel saggio La formazione del mediatore, Utet giuridica, 2013 e in Il senso della mediazione dei conflitti, Giappichelli, 2024.
Immagine: Sebastiano del Piombo, Giudizio di Salomone, 1505-1510 circa, olio su tela, Kingston Lacy, Wimborne Minster, Regno Unito.
Sommario: 1. Blindatura – 2. Obiettivo reale – 3. Spirito riformatore.
1. Blindatura
Il disegno di legge costituzionale “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” è stato approvato in prima lettura alla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025. Diversamente da quanto accaduto con il progetto sul cosiddetto premierato, il testo non ha subìto modifiche né nell’esame in commissione né in quello in aula. Eppure, come dimostra proprio l’altra riforma costituzionale messa in cantiere in questa legislatura per iniziativa governativa, in prima lettura si possono affinare singoli aspetti della proposta, mentre nella seconda non si possono più apportare modifiche al testo.
Una linea più aperta al contributo della discussione parlamentare consentirebbe di riconsiderare l’istituzione di due consigli superiori, uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente. Si paventa infatti che il raddoppio degli organi sarebbe causa di complicazioni procedurali, a cominciare dall’attività consultiva, per la quale ci si domanda se i due consigli potranno esprimere pareri distintivi e dunque potenzialmente contradditori, ovvero coordinati. Analoghe complicazioni si temono per l’attività cosiddetta para-normativa. Aprendo a modifiche migliorative si potrebbe accedere alla soluzione delle due sezioni nell’ambito di un solo consiglio superiore, considerata più funzionale e caldeggiata anche da osservatori non ostili alla riforma costituzionale.
Si potrebbe riconsiderare anche la assai criticata scelta del sorteggio per i membri dei consigli superiori. Nel caso del sorteggio “secco” per la componente togata l’estrazione rischia di premiare magistrati che non hanno alcuna vocazione per l’attività organizzativa di cui si occupano i consigli superiori. Soprattutto, il sorteggio taglia di netto il legame fra il singolo magistrato e l’associazionismo giudiziario palesando quella che è stata definita una concezione solipsistica dell’autogoverno. Le obiezioni al sorteggio “temperato” dei componenti laici nascono dalla mortificazione del ruolo del Parlamento, che rinuncerebbe ad esercitare una scelta consapevole e di valore politico, con il collegato vulnus della logica della democrazia rappresentativa (con la sola attenuante che l’estrazione dei nomi avverrebbe nell’ambito di un elenco di eletti dal Parlamento in seduta comune). Pare significativo che alcuni deputati della maggioranza abbiano pensato di proporre un emendamento volto ad escludere il sorteggio per i componenti laici, ma poi vi abbiano rinunciato a seguito dell’intervento del Ministro della giustizia.
Proprio la decisione governativa di blindare il testo suscita serie perplessità. Secondo un’interpretazione rigorosa dei ruoli istituzionali, il Governo dovrebbe addirittura astenersi dall’intervenire nella procedura di revisione costituzionale. Invece, in questo caso, non solo ha promosso una riforma dal rilevante impatto ordinamentale, ma in più frustra il ruolo propositivo dei parlamentari, accentuando così quel processo distorsivo che nella prassi vede ornai la prevalenza dell’Esecutivo sul Legislativo.
Nondimeno, tutto lascia pensare che questa linea verrà confermata anche durante l’esame della proposta al Senato. Malgrado le attese, l’incontro del 5 marzo fra il Governo e la Associazione nazionali magistrati non ha sortito effetti positivi: nel comunicato finale si legge che il Governo “ha ribadito la volontà di proseguire con determinazione e velocità nel percorso di attuazione della riforma costituzionale, auspicando la sua approvazione in tempi rapidi”. A questo punto sembra prevedibile che si vada al referendum, posto che la maggioranza non dispone dei voti per raggiungere la soglia dei due terzi prevista dall’art. 138 Cost. In realtà, non si può affatto escludere che ci si sarebbe arrivati comunque, ma almeno in linea teorica l’apertura agli emendamenti parlamentari avrebbe potuto spingere le opposizioni a condividere un testo. Esito certamente preferibile posto che sarebbe bene che le riforme costituzionali conseguano il più largo consenso parlamentare.
2. Obiettivo reale
Ogni valutazione in merito alla proposta di revisione costituzionale dovrebbe partire dal dato di fatto per cui, in conseguenza di recenti modifiche legislative, il passaggio da una carriera all’altra riguarda ormai una minima percentuale degli appartenenti all’ordine giudiziario. Ciò fa intendere che la via più agevole per conseguire l’obiettivo della separazione delle carriere passa per un ulteriore intervento legislativo ordinario che blocchi definitivamente i passaggi (resta da vedere se sia opportuno separare anche i concorsi).
Ma evidentemente il Governo e la maggioranza ambiscono a un intervento di maggiore impatto consistente nella modifica dell’assetto ordinamentale delineato dalla Costituzione. Significativamente la relazione al disegno di legge costituzionale parla di “una rivisitazione della forma di autogoverno” (contraddicendosi peraltro quando sostiene che la riforma si pone in continuità con l’ordinamento attuale). Ciò spiega la duplicazione dei consigli superiori e l’assegnazione a una apposita corte della competenza in materia disciplinare attualmente esercitata dal CSM.
Posto che la bontà delle riforme istituzionali va valutata anzitutto in relazione agli obiettivi perseguiti, si tratta di capire quale sia lo scopo di questa rilevante modifica della “forma di autogoverno” della magistratura. Secondo la relazione al disegno di legge la riforma sarebbe una diretta conseguenza dell’introduzione del principio del giusto processo; sarebbe necessaria per completare il disegno avviato con la revisione costituzionale del 1999.
Esponenti della maggioranza hanno chiarito che l’accento cade in particolare sulla parità fra accusa e difesa nel processo. Da ultimo, l’ha affermato la Presidente del consiglio nel corso dell’incontro del 5 marzo con l’Unione delle camere penali. Tuttavia, la parità fra le parti nel processo non dipende dalle regole ordinamentali, se non in modo alquanto indiretto; piuttosto è collegata alle funzioni che vengono assegnate ai protagonisti del processo (va in questa direzione, per esempio, la proposta di rafforzare la previsione dell’art. 358 del codice di procedura penale secondo cui il pubblico ministero “svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”).
Insomma, la chiave di lettura del legame con il giusto processo non pare affatto convincente. Il che induce a pensare che l’obiettivo della riforma sia diverso da quello che la relazione enuncia. A tal riguardo, si può escludere che punti a migliorare il funzionamento del sistema giustizia. Una simile modifica costituzionale non è pensata per aumentare l’efficienza della giustizia e non offre soluzione ai suoi problemi strutturali, a cominciare dalla durata dei processi.
L’obiettivo va cercato piuttosto nella volontà di contenere la magistratura accusata di debordare dal suo ruolo. Da questo punto di vista, non è tanto lo specifico dettaglio delle misure che interessa agli autori della riforma, quanto il significato simbolico che verrebbe ad assumere davanti all’opinione pubblica. Si vuole che il cambiamento ordinamentale sia percepito come un limite al presunto strapotere della magistratura. E ciò concorrere a spiegare la contrarietà di larga parte della magistratura che ha portato allo sciopero del 27 febbraio scorso.
Per completezza va detto che tale disegno politico è favorito dal calo della fiducia dei cittadini nei confronti dei magistrati. Come sappiamo, a questo risultato hanno concorso gravi vicende interne alla magistratura, per le quali il Presidente della Repubblica ha parlato di “degenerazione del sistema correntizio” e di “inammissibile commistione fra politici e magistrati”, sollecitando “modifiche normative di legge e di regolamenti interni per impedire un costume inaccettabile quale quello che si è manifestato” (29 maggio 2020).
3. Spirito riformatore
Riguardo all’obiettivo reale della riforma si possono fare tre brevi osservazioni conclusive.
In primo luogo, che sarebbe opportuno dichiararlo in trasparenza, anche perché gli elettori potrebbero un giorno essere chiamati ad esprimersi sulla proposta di modifica costituzionale. Sarebbe meglio chiarire che la riforma non è la necessaria conseguenza del principio del giusto processo e non mira a rendere più efficiente il sistema giustizia.
In secondo luogo, che si pone il tema della proporzionalità delle misure proposte: una cosa è cercare soluzioni per i seri problemi della giustizia, altra cosa è cercare di indebolire l’ordine giudiziario alterando l’assetto ordinamentale.
Infine, che il nuovo assetto spingerà verosimilmente i pubblici ministeri ad organizzarsi nel consiglio della magistratura requirente secondo logiche autoreferenziali. Sarebbe un classico caso di eterogenesi dei fini: la riforma, che punta a indebolire la magistratura, finirebbe con il rafforzare la componente dei pubblici ministeri.
Tutto ciò suggerirebbe una maggiore ponderazione. L’esperienza insegna che non sempre le riforme istituzionali hanno migliorato la situazione. Il riformismo è fondamentale per aggiornare le istituzioni ai tempi nuovi, ma bisogna essere accorti quando si mette mano ai meccanismi istituzionali. Nel caso della giustizia sarebbe necessario un atteggiamento pragmatico, volto a migliorare il servizio per i cittadini piuttosto che a ridefinire i confini fra i poteri dello Stato.
I nominativi dei sottoscrittori di una petizione (nota a TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 11 ottobre 2024, n. 329).
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. Una sentenza «inquietante»? – 2. Le ragioni favorevoli all’accesso nella pronuncia del TAR. – 3. I nominativi dei firmatari tra pubblicità e tutela dei dati personali. – 4. Strumentalità e limiti dell’accesso difensivo.
1. Una sentenza «inquietante»?
È possibile conoscere i nomi dei firmatari di una petizione rivolta a un consiglio regionale? La risposta sembrerebbe scontata, dal momento che chi firma una petizione si espone personalmente a sostegno di una causa, che proprio dalla somma delle sottoscrizioni individuali trae la propria forza. Quando però a chiedere la lista dei sottoscrittori è un’impresa che prospetta azioni legali nei loro confronti può sorgere qualche dubbio.
Ha destato infatti un certo clamore la decisione del TAR Friuli che ha concesso a un’impresa l’accesso ai nominativi dei firmatari di una petizione indirizzata al Consiglio regionale e rivolta a contestare la costruzione di un nuovo stabilimento siderurgico. È facile intuire quanto sia rischiosa, per il funzionamento di questo istituto di partecipazione popolare, la consapevolezza che la sottoscrizione possa esporre il cittadino firmatario a future azioni giudiziarie.
Un’analisi distaccata della sentenza richiede, però, di guardare alle norme e alle posizioni soggettive fatte valere in giudizio, per inquadrare correttamente la pronuncia e capire se davvero la si possa definire “inquietante”[1]. L’occasione è certamente utile perché un caso tanto singolare permette di riflettere sui limiti del diritto di accesso e, in particolare, del c.d. accesso difensivo.
Per maggiore chiarezza, occorre prima di tutto riassumere la vicenda, che ruota attorno alla ipotesi di costruzione di una acciaieria in una zona industriale che si affaccia sulla laguna di Grado. A fronte di una iniziale apertura alla realizzazione del progetto, la Giunta regionale friulana aveva ritenuto a settembre del 2023 di non darvi più corso, volendo prediligere altri tipi di investimento nell’area. Il progetto di acciaieria era stato nel frattempo avversato da alcuni Comuni del territorio e da comitati di cittadini contrari alla costruzione. Nell’ambito di queste proteste si era inserita anche una petizione (“Petizione contro l’acciaieria”), presentata nel luglio del 2023 al Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia e sottoscritta da più di ventimila cittadini.
L’impresa che in qualità di appaltatrice avrebbe dovuto realizzare l’impianto ha proposto quindi istanza di accesso, ai sensi della legge n. 241 del 1990, allo stesso Consiglio regionale per conoscere la lista dei sottoscrittori della petizione, ritenendo di aver subìto un danno dalla stessa, non solo perché alla petizione è almeno in parte imputata l’interruzione del progetto ma anche per il suo contenuto potenzialmente diffamatorio. L’istanza è stata respinta dal segretario regionale del Consiglio sulla base di due ragioni: in primo luogo, i documenti richiesti rientrano in un procedimento (l’iter delle petizioni presentate al Consiglio regionale) che non è destinato a concludersi con un provvedimento amministrativo e dunque esulerebbero dall’ambito applicativo del diritto di accesso; in secondo luogo, ragioni di riservatezza impedirebbero di rivelare i dati personali dei sottoscrittori della petizione.
La motivazione della sentenza è incentrata su due punti: il regime di pubblicità dei dati di chi sottoscriva una petizione e la strumentalità di questi dati rispetto alla tutela degli interessi giuridici dell’impresa che richiede l’accesso. Si tratta di aspetti logicamente consequenziali: se infatti i nominativi richiesti fossero di per sé pubblici, non ci sarebbe bisogno di sindacare la legittimazione dell’impresa a domandarli. Nel commento ci soffermeremo su entrambi, per capire quanto sia condivisibile la soluzione data dal TAR e, più in generale, per capire se possa trovarsi un equilibrio ragionevole tra l’esigenza di conoscenza e quella di riservatezza.
2. Le ragioni favorevoli all’accesso nella pronuncia del TAR.
Come detto, il Consiglio regionale ha fondato il diniego all’accesso anzitutto sulla natura non amministrativa del documento richiesto. Si tratta tuttavia di un argomento debole, che comprensibilmente il TAR non condivide. La legge n. 241 del 1990 dà infatti una definizione molto ampia di documento amministrativo ai fini del diritto di accesso, comprendendovi «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale» (art. 22, c. 1, lett. d)[2].
Per essere accessibile, dunque, il documento non deve necessariamente rientrare in un procedimento amministrativo: ciò che conta è invece che esso sia “detenuto” da una pubblica amministrazione, quale certamente è il Consiglio regionale, e che concerna attività di pubblico interesse. Non sembra quindi rilevante, per escludere le petizioni dall’ambito dell’accesso, che il procedimento non sia destinato a concludersi con un provvedimento amministrativo ma con l’esame della petizione da parte del Consiglio regionale. Da questo punto di vista, è istruttiva l’esperienza dell’ordinamento dell’Unione europea, nel quale – anche in ragione della distinzione non sempre netta tra funzioni esecutive e legislative[3] – il diritto di accesso è esercitato sia nei confronti dei documenti amministrativi, sia nei confronti di quelli in senso lato “legislativi”[4], che sono addirittura sottoposti a un regime di pubblicità rafforzato[5].
Stabilito che le petizioni rivolte al Consiglio regionale sono soggette alla normativa sul diritto di accesso, diviene allora decisivo capire se siano conoscibili i nomi dei sottoscrittori e, pertanto, quale sia il regime di pubblicità di questi dati. Qui sta uno dei profili di interesse della pronuncia.
Ad avviso del TAR l’elenco dei sottoscrittori è un documento pubblico «per la sua intrinseca natura». Ciò per due motivi: il primo riguarda il fatto che le petizioni, essendo dirette a «promuovere o sollecitare interventi “concernenti comuni necessità” o per la “soluzione di problemi di interesse della collettività regionale”», attengono alle funzioni di indirizzo e controllo politico del Consiglio regionale e «all’attività e ai processi decisionali dell’amministrazione», che sono «in toto governati dai principi di pubblicità e trasparenza dei relativi atti».
Vi è poi un motivo sostanziale che spinge verso la pubblicità dei nomi dei sottoscrittori: secondo il TAR, l’obiettivo delle petizioni è quello di «influenzare e arricchire il processo decisionale pubblico attraverso richieste e proposte che traggono la loro legittimazione proprio dai soggetti che le supportano». Prosegue il TAR affermando che è «la stessa indicazione dei sottoscrittori, non solo nel loro numero, ma anche nella loro precisa individualità – quali soggetti portatori di specifici interessi, conoscenze responsabilità – che conferisce “forza” persuasiva alla petizione e, in definitiva, ne connota i tratti». Dal punto di vista dei sottoscrittori, la firma della petizione comporterebbe dunque l’accettazione, «seppur implicitamente e in ragione della natura dell’atto che controfirmano», della pubblicazione del proprio nominativo.
I sottoscrittori rinuncerebbero cioè alla protezione dei dati personali rendendoli «manifestamente pubblici», circostanza che determina la liceità del trattamento dei dati ai sensi dell’art. 9, par. 2, lett. e) del GDPR[6].
Nella tesi del TAR, i sottoscrittori della petizione si troverebbero in una situazione analoga a quella degli autori di un esposto alla pubblica amministrazione[7], per i quali non esisterebbe un diritto all’anonimato: il principio di trasparenza consente infatti all’interessato di conoscere l’intero contenuto delle segnalazioni di cui è stato oggetto, inclusi i nomi dei segnalanti e fatta eccezione per le sole ipotesi in cui da tale conoscenza possano sorgere «azioni discriminatorie o indebite pressioni»[8].
In effetti, si riscontravano in passato due orientamenti nella giurisprudenza amministrativa: l’uno, favorevole alle ragioni della trasparenza, riteneva accessibile il nome del segnalante, che si “espone” nei confronti della pubblica amministrazione[9]; l’altro, favorevole alla riservatezza, negava invece l’accessibilità del nominativo, dal momento che l’esposto è solo un atto di impulso che resta formalmente estraneo all’attività amministrativa[10]. Sembra prevalere oggi un orientamento mediano[11], lo stesso cui aderisce il TAR nella sentenza in commento, in base al quale l’accesso al nominativo non è si per sé escluso né consentito: occorre, per poter concedere l’accesso, che il richiedente dimostri che la conoscenza del nominativo è necessaria e strumentale rispetto a una propria esigenza difensiva. Quest’ultimo orientamento fa corretta applicazione delle indicazioni offerte dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in materia di diritto di accesso c.d. difensivo: in base all’art. 24, c. 7, legge n. 241 del 1990, che garantisce «comunque» l’accesso ai documenti «la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici», l’amministrazione deve compiere un «rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità» tra documento e interesse che si intende tutelare ma, allo stesso tempo, le è preclusa ogni «ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto» nell’eventuale successivo giudizio instaurato dal richiedente[12]. L’accesso difensivo è pertanto precluso solo nei casi di «evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990».
In sintesi, il richiedente è tenuto a dimostrare che il documento gli è necessario per tutelare i propri interessi, cioè che sussiste un nesso di strumentalità tra il documento e la sua esigenza difensiva; l’amministrazione può (e deve) sindacare soltanto in astratto simile strumentalità, senza spingersi a giudicare la rilevanza del documento rispetto alla ammissibilità o alla fondatezza di una successiva iniziativa giurisdizionale[13].
Ecco quindi che, in materia di esposti, la giurisprudenza più recente tende a concedere l’accesso al nominativo di chi ha presentato un esposto all’amministrazione qualora il richiedente riesca a dimostrare che il nominativo è necessario per intraprendere un’azione giudiziaria, per esempio per presentare una querela o per domandare il risarcimento del danno prodotto dall’esposto. In assenza del nesso di strumentalità, l’accesso deve invece essere negato, rischiandosi altrimenti di dar tutela a una pura curiosità o, peggio, a un intento ritorsivo[14].
La stessa ricostruzione viene trasposta dal TAR Friuli al caso in questione: i «principi di trasparenza e responsabilità non possono quindi ammettere la preclusione all’accesso alle petizioni e ai relativi documenti accompagnatori, salvo che, in particolari situazioni, i sottoscrittori documentino, quale conseguenza della pubblicazione della loro sottoscrizione, possibili azioni discriminatorie o indebite pressioni a loro danno».
Nel caso di specie, ad avviso del TAR, le potenziali azioni giudiziarie prospettate dalla ricorrente costituiscono il «legittimo esercizio di un diritto» e non invece «pretestuose intimidazioni» o «minaccia di un male ingiusto». Il TAR riconosce, invece, che l’impresa ha dimostrato il proprio interesse specifico e attuale rispetto al documento e ai nominativi dei firmatari «in connessione con l’impatto che la stessa può aver avuto sugli esiti dei procedimenti amministrativi relativi all’acciaieria»; inoltre, la stessa impresa ha pure «connotato […] il proprio interesse ostensivo anche in chiave difensiva, ai sensi dell’art. 24, c. 7, della l. n. 241/1990 […]: la conoscenza dei nominativi dei soggetti da convenire in giudizio è infatti indispensabile quale che sia l’azione da instaurare».
L’idea che i nominativi dei sottoscrittori debbano essere resi noti è, poi, rafforzata dall’analisi delle norme riguardanti la pubblicità degli atti del Consiglio regionale, che si rinvengono nel Regolamento interno del Consiglio regionale friulano. In particolare, l’art. 179 bis, c. 1 bis, di tale regolamento dispone che alcuni atti, tra i quali quelli che il Presidente del Consiglio riceve per sottoporli all’esame degli organi consiliari, devono essere direttamente e integralmente pubblicati sul sito internet istituzionale. Vero è che lo stesso comma stabilisce anche delle ipotesi di deroga all’obbligo di pubblicazione: in particolare, il Presidente del Consiglio può disporre la non pubblicazione totale o parziale di atti «contenenti dati personali non divulgabili a norma della disciplina a tutela della riservatezza dei dati personali»; la disposizione aggiunge inoltre che «gli atti prodotti da soggetti esterni nell’ambito delle procedure di consultazione delle Commissioni sono pubblicati con le modalità di cui al primo periodo, salvo che l’interessato non comunichi il proprio diniego alla pubblicazione». Tuttavia, rileva il TAR, nel caso in questione nessuna di queste deroghe è stata attivata e, in particolare, nessuno dei sottoscrittori ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla pubblicazione.
Nella circostanza l’elenco dei sottoscrittori non era stato allegato al documento sottoposto all’esame della commissione consiliare: per il TAR si tratta comunque di una «evenienza di mero fatto» che non altera la natura pubblica del documento (e del resto è lo stesso art. 134, c. 2, del citato regolamento a stabilire che le petizioni siano accompagnate dalle autocertificazioni di nascita, residenza e cittadinanza italiana dei firmatari).
Dalla ricostruzione della motivazione emerge come la sentenza sia ampiamente argomentata e ragionevole e, a prima vista, anche condivisibile. A un più attento esame, però, sembrano esservi ragioni per discostarsi dalla ricostruzione del TAR, sia con riguardo al regime di pubblicità dei nominativi dei sottoscrittori di una petizione, sia con riguardo all’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 24, c. 7, della legge n. 241 del 1990. Proveremo a indicare queste ragioni nei prossimi paragrafi.
3. I nominativi dei firmatari tra pubblicità e tutela dei dati personali.
La prima questione da affrontare riguarda il regime di pubblicità dei nominativi dei sottoscrittori della petizione: come infatti accennato in premessa, se la lista dei firmatari fosse di per sé pubblica avrebbe poco senso guardare all’applicazione del diritto di accesso difensivo (sarebbe del resto esercitabile, senza bisogno di motivare l’istanza, il diritto di accesso civico)[15]. Come detto, i giudici friulani ritengono che la lista dei firmatari sia pubblica e non sia stata allegata alla petizione soltanto per una «evenienza di mero fatto». La mancata allegazione può invece fondarsi su argomenti giuridicamente rilevanti, collegati alla tutela dei dati personali.
In primo luogo, s’è visto come lo stesso regolamento interno del Consiglio regionale contempli ipotesi di non pubblicazione, totale o parziale, di documenti consiliari, quando questi contengano dati personali non divulgabili. È vero, come affermato dal TAR, che il Consiglio o il Presidente non hanno formalmente “attivato” una delle ipotesi di deroga alla pubblicazione, tuttavia l’attivazione potrebbe ritenersi implicita nella mancata allegazione dell’elenco dei sottoscrittori alla petizione. Così pure il fatto che i sottoscrittori non abbiano manifestato il loro dissenso rispetto alla pubblicazione (ma, ci si potrebbe domandare, ne erano consapevoli?) non comporta con certezza che essi li abbiano resi «manifestamente pubblici». In altre parole, sicuramente la sottoscrizione di una petizione comporta il sostegno personale e non anonimo di una causa; ma la sottoscrizione non implica anche il consenso alla pubblicazione dei dati personali da parte dell’istituzione a cui la petizione è diretta[16].
Con ciò si intende dire che sono possibili petizioni anonime? Tutt’altro: si è da sempre sostenuto che una petizione deve essere firmata, «apparendo evidente l’assurdità di una istanza coperta dall’anonimato»[17]. D’altronde è sufficiente cercare sui siti istituzionali le petizioni presentate alle Camere ai sensi dell’art. 50 Cost. per rendersi conto che esse sono sempre accompagnate dai nomi dei proponenti. Bisogna semmai domandarsi quale sia il senso della sottoscrizione della petizione: proseguiva l’autore poc’anzi citato dicendo che la firma serve «anche perché occorre accertare la titolarità di esercizio di tale diritto»[18]. Ebbene, così come accade per le formalità stabilite dalla legge per la raccolta delle firme a sostegno dei referendum previsti dalla Costituzione[19], il fatto che le sottoscrizioni delle petizioni in oggetto debbano essere accompagnate dalla autocertificazione dei firmatari non ha tanto il senso di rendere pubbliche le loro generalità, bensì di renderle verificabili. L’autocertificazione non è rivolta a tutti gli altri cittadini ma è rivolta all’istituzione (nel nostro caso il Consiglio regionale) che potrà valutarne l’autenticità, così da esser sicura della genuinità del sostegno popolare a una certa causa. Per tornare al parallelo con l’esperienza europea, si consideri che nel caso delle petizioni presentate al Parlamento europeo ai sensi degli artt. 227 del TFUE e 44 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, è espressamente prevista la possibilità di renderle anonime[20].
Vi è poi un altro elemento di cui tener conto: almeno una delle firme che accompagnano la petizione al Consiglio regionale friulano dev’essere autenticata[21], il che sembra costituire una garanzia minima sulla sicura provenienza dell’atto da (almeno) un titolare del diritto di petizione. Se, come sostiene in maniera condivisibile il TAR, la legittimazione delle petizioni è tratta dalla «precisa individualità» dei sottoscrittori, tale individualità deve essere presente alla istituzione e non, qualora si oppongano ragioni di tutela dei dati personali, anche all’esterno di essa. Del resto, la petizione in oggetto è un atto di mero impulso, rivolto proprio e solo al Consiglio regionale, che rimane del tutto libero riguardo al seguito da dare (o non dare) alla stessa.
A dispetto, quindi, di una immediata percezione che spinge a ritenere di per sé pubbliche le firme in calce a una petizione, emerge un quadro più complesso che sembra andare nella direzione opposta.
4. Strumentalità e limiti dell’accesso difensivo.
Veniamo allora alla seconda questione: posto che i nomi dei sottoscrittori non sono per loro natura pubblici, occorre capire se siano accessibili ai sensi dell’art. 24, c. 7 della legge n. 241 del 1990. S’è detto che il diritto di accesso difensivo consente «comunque» al richiedente di ottenere i documenti che siano necessari al fine di curare o difendere i propri interessi giuridici. È quindi direttamente il legislatore a stabilire – qualora ricorra tale strumentalità difensiva del documento – la prevalenza dell’accesso sulle contrapposte esigenze di riservatezza, così che all’amministrazione è preclusa ogni attività di bilanciamento[22]. Nel caso di specie, ad avviso del TAR, la dimostrazione della strumentalità dei dati richiesti è stata fornita dalla società ricorrente («sebbene soltanto nel presente giudizio in termini chiari e precisi») e a nulla varrebbe, per negare l’accesso, l’eventuale dissenso dei sottoscrittori[23].
Eppure, a fronte di elementi all’apparenza univoci, esistono ragioni che inducono a ritenere recessivo il diritto di accesso difensivo.
Anzitutto, il fatto che il legislatore abbia stabilito la prevalenza di quest’ultimo rispetto a eventuali interessi contrari[24] non significa che si tratti di un diritto privo di limitazioni[25]: anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 21 del 2020), pur riconoscendo che la fattispecie dell’accesso difensivo possa operare «quale eccezione al catalogo di esclusioni» previste per il “normale” accesso documentale, ha parlato di «opportuni temperamenti in sede di bilanciamento in concreto dei contrapposti interessi»[26]. E occorre altresì notare come lo stesso comma 7 prosegua stabilendo che «nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale». Tra i dati sensibili, rispetto ai quali l’accesso è possibile solo in casi di “stretta indispensabilità”, rientrano anche quelli idonei a rivelare le opinioni politiche[27]: forse non è il caso della petizione in questione, tuttavia il diritto di petizione è inquadrato da tempo come diritto politico[28]. Da un lato, una simile connotazione dovrebbe indurre a garantire al diritto di petizione una tutela forte (considerato peraltro il legame che sussiste con la libertà di manifestazione del pensiero[29]), anche nei confronti del diritto di accesso[30]. Dall’altro, la natura politica del diritto sembra allontanare il caso delle petizioni da quello degli esposti alle pubbliche amministrazioni: questi ultimi sono, infatti, rivolti a organi amministrativi, generalmente sottoscritti da un singolo privato e indirizzati nei confronti di altri privati precisamente individuati.
In secondo luogo, per quanto riguarda la strumentalità dell’accesso difensivo, si è già detto che il sindacato dell’amministrazione (e del giudice) non possa attenere alla fondatezza delle iniziative che il richiedente voglia intraprendere, cionondimeno deve trattarsi di un sindacato rigoroso. E allora, come già avvenuto nella giurisprudenza amministrativa, il giudice può valutare l’astratta connessione dei documenti richiesti rispetto alla proponibilità di un’azione giudiziaria. In questo caso, la società ritiene di essere diffamata dal contenuto della petizione e deve quindi esserle concesso di attivare la tutela giurisdizionale, ai sensi dell’art. 24 Cost., sia in sede penale che in sede civile.
La mancata conoscenza dei nomi dei sottoscrittori non appare, però, un ostacolo insormontabile per l’accertamento della responsabilità penale. È ben possibile, infatti, sporgere comunque querela e qualora «l’Autorità Giudiziaria dovesse riscontrare fattispecie penalmente perseguibili attribuibili a soggetti individuati, sarebbe doveroso all’esito del procedimento formulare un’imputazione dandone avviso alla parte offesa»[31].
Per quanto riguarda la responsabilità civile, questa sembra doversi escludere per ciò che riguarda la mancata realizzazione dell’impianto (il TAR parla invece dell’«impatto che la stessa [petizione] può aver avuto sugli esiti dei procedimenti amministrativi relativi all’acciaieria»): essa sembra infatti esser dipesa dalla volontà politica espressa dagli organi della Regione, che può essere stata condizionata solo in via di fatto dal contenuto della petizione[32]. Analogamente, la giurisprudenza ha escluso l’accessibilità del nome dell’autore di un esposto quando i danni che il richiedente riteneva di aver subìto non discendevano dall’esposto ma dalla successiva attività posta in essere dall’amministrazione[33].
Resta, però, che i nominativi dei sottoscrittori sono necessari per poter intraprendere un’azione civile per i danni eventualmente patiti in conseguenza del contenuto diffamatorio della petizione[34]: per quanto complessa possa apparire un’azione nei confronti di tanti soggetti, essa è certamente astrattamente proponibile e ciò dovrebbe essere sufficiente ai fini del rilascio dei documenti richiesti. Tuttavia, è da dire che una simile azione non è di per sé esclusa, perché la società ricorrente conosce i nomi di alcuni almeno dei sottoscrittori della petizione (i nomi dei proponenti sono pubblici e comunque vi sono dei controinteressati costituiti nel giudizio di fronte al TAR): dunque, il fatto che l’azione non sia in radice negata pare escludere una lesione del diritto di difesa dell’art. 24 della Costituzione, che può essere soddisfatto bilanciandolo con gli altri diritti rilevanti che emergono nella vicenda (e senza considerare che il processo civile conosce forme di integrazione del contraddittorio). Come detto, il diritto di accesso non è privo di limiti e richiede presupposti – la cui esistenza deve essere rigorosamente vagliata – che nel caso di specie non sembrano sussistere.
[1] https://verdisinistra.it/gruppo-danieli-zanella-inquietante-sentenza-tar-fvg-contro-regione-spero-consiglio-di-stato-ripari-vulnus/.
[2] Sul tema si può rinviare, in generale, a A. Corrado, Il principio di trasparenza e i suoi strumenti di attuazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, IV ed., Milano, 2023, 192 ss.
[3] Proprio con riferimento alla trasparenza, v. P. Leino, Secrecy, Efficiency, Transparency in EU Negotiations: Conflicting Paradigms?, in Politics and Governance, 3/ 2017, 9.
[4] Si tratta dei documenti formati o ricevuti dalle istituzioni europee nel corso di una procedura legislativa, i quali dovrebbero essere resi direttamente accessibili in forma elettronica o attraverso un registro (art. 2, par. 6, Reg. (CE) n. 1049/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2001; si veda anche il considerando n. 6 dello stesso regolamento, secondo cui «Si dovrebbe garantire un accesso più ampio ai documenti nei casi in cui le istituzioni agiscono in veste di legislatore […]»).
[5] In proposito, e per ulteriori riferimenti, sia consentito rinviare a I. Piazza, Un altro passo verso la trasparenza del processo legislativo europeo, in Giorn. dir. amm., 2023, 499 ss.
[6] Reg. UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016.
[7] Sul tema sia consentito rinviare a I. Piazza, Accesso difensivo e tutela dei dati personali: il caso dei nominativi nelle segnalazioni alla p.a., in questa Rivista, 2022. Il richiamo alla giurisprudenza su segnalazioni ed esposti è effettivamente necessario, data la difficoltà di rinvenire precedenti sullo specifico tema delle petizioni: per un accenno, si può vedere TAR Lombardia – Brescia, 7 marzo 2005, n. 128, che riguardava comunque la peculiare ipotesi di diritto di accesso dei consiglieri comunali rispetto agli atti detenuti dal Comune.
[8] Il TAR cita in proposito la recente pronuncia del Cons. St., IV, 1 marzo 2022, n.1450.
[9] Tra altre, v. Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132, TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898, TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584.
[10] Si vedano, per esempio, TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 17 ottobre 2018, n. 772 e TAR Veneto, sez. III, 20 marzo 2015, n. 321.
[11] Si veda Cons. St., IV, 1 marzo 2022, n. 1450 e, in precedenza, Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717.
[12] Cons. St., Ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4, sulla quale si vedano V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, in Foro it., 10/2021, 550 ss., M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile. Una nuova sentenza dell’adunanza plenaria, in Riv. dir. proc., 2021, 1412 ss. e G. Delle Cave, L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice, in questa Rivista, 2022.
[13] Da ultimo, v. Cons. St., VI, 6 dicembre 2024, n. 9780. Lo stesso TAR Friuli, nella parte conclusiva della sentenza, sottolinea che «la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione della fondatezza o ammissibilità delle prospettate azioni giudiziarie o delle iniziative che l’istante intende percorrere, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso». Sul tema, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, spec. 23.
[14] In tal senso, Cons. St., n. 1717/2021; TAR Emilia Romagna – Bologna, II, 8 febbraio 2022, n. 136.
[15] Che, come noto, spetta a «chiunque» (art. 5, c. 2, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33). Sul diritto di accesso civico generalizzato (c.d. FOIA) la letteratura è vasta: qui si rinvia unicamente ai volumi di A. Corrado (a cura di), Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, Napoli, 2018, G. Gardini, M. Magri (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Bilancio a tre anni dall’introduzione, Sant’Arcangelo di Romagna, 2019, e, per una prospettiva comparata, di B.G. Mattarella, M. Savino (a cura di), L’accesso dei cittadini. Esperienze di informazione amministrativa a confronto, Napoli, 2018.
[16] Sul trattamento dei dati personali in materia di propaganda elettorale e comunicazione politica, inclusi i dati raccolti in occasione di iniziative come petizioni e richieste di referendum, si veda il Provvedimento del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 18 aprile 2019.
[17] G.P. Meucci, Petizione (Diritto di), in Noviss. Dig. It., vol. XIII, Torino, 1966, 6.
[18] G.P. Meucci, Petizione (Diritto di), cit., 6.
[19] Legge 25 maggio 1970, n. 352.
[20] https://www.europarl.europa.eu/petitions/it/faq/pdf. Sulle petizioni al Parlamento europeo, v. G.E. Vigevani, Art. 50, in S. Bartole, R. Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 514 s.
[21] Art. 134, c. 2, del Regolamento interno del Consiglio regionale.
[22] Sul punto, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva, cit., 18 s.: «Nell’ipotesi dell’accesso gergalmente detto defensionale, la regola di composizione di un ipotetico conflitto è dunque fissata direttamente dal legislatore e non è pertanto più rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione; con la conseguenza che l’Amministrazione non ha più il potere di stabilire essa quale sia l’interesse prevalente nel caso concreto. […] La regola è quindi che l’accesso, strumentale – si ripete – al soddisfacimento di un bisogno di tutela proprio di una situazione giuridica soggettiva, prevalga. L’eccezione è che rimanga insoddisfatto. Perché venga impedito è necessario che si contrapponga un interesse di “pari rango”, che vi sia cioè una eccezione espressamente contemplata sul piano normativo; e non già una semplice esigenza discrezionalmente apprezzabile da parte della pubblica amministrazione». Di «obbligo» per l’amministrazione parla espressamente M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Bari, 2020, 102 s.: «Il comma 7 dell’art. 24, l. n. 241/90 introduce dunque una norma di chiusura del sistema: esso pone un preciso limite alla discrezionalità della pubblica amministrazione obbligando la stessa ad accordare l’accesso pur a fronte di esigenze di riservatezza che si opporrebbero all’ostensione dei documenti richiesti. A fronte della pretesa conoscitiva del richiedente (in presenza delle dimostrate necessità defensionali o, nel caso di interessi sensibili e giudiziari, in presenza di “stretta indispensabilità”) si configura dunque un obbligo in capo alla pubblica amministrazione di provvedere in senso favorevole all’istante (consentendo allo stesso il più ampio “accesso” a fronte della mera “visione” dei documenti, contemplata nella formulazione previgente della disposizione normativa) senza che possa essere operato alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso procedimentale e pur a fronte di eventuali indicazioni contrarie provenienti dal controinteressato che abbia segnalato la sussistenza di eventuali profili ostativi all’accesso».
[23] Sui rapporti tra disciplina dell’accesso e tutela dei dati personali nell’attività dell’amministrazione, v. F. Francario, Protezione dei dati personali e pubblica amministrazione, in questa Rivista, 2021; Id., Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse, sempre in questa Rivista, 2021; F. Cardarelli, Commento all’art. 2-ter, D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in R. D’Orazio, G. Finocchiaro, O. Pollicino, G. Resta (a cura di), Codice della privacy e data protection, Milano, 2021, 1012 ss.
[24] Circostanza che ha indotto la giurisprudenza a interpretare in modo particolarmente serio l’accertamento dei requisiti che legittimano l’esercizio del diritto e, in particolare, del nesso di strumentalità tra documento richiesto ed esigenza difensiva: si rinvia sul punto a I. Piazza, Accesso difensivo e tutela dei dati personali, cit., § 4.
[25] E. Carloni, Il paradigma trasparenza. Amministrazioni, informazioni, democrazia, Bologna, 2022, 173: «È una formulazione, quella dell’art. 24, c. 7, che va letta in rapporto con i limiti previsti dallo stesso articolo, anche se sul punto la giurisprudenza ha assunto posizioni prevalentemente più restrittive: sicuramente riferibile al limite «relativo» della protezione dei dati personali, questo contro-limite è talvolta inteso come applicabile a tutti i limiti relativi, ma pare più persuasivo in un’ottica sistematica ritenerlo altresì applicabile a tutti i limiti, sia «relativi» che non, sempre però in un’ottica di bilanciamento e proporzionalità». Lo stesso A. aggiunge (ivi, nota 96): «Affermare la forza dell’accesso documentale non significa, in ogni caso, sancirne la prevalenza assoluta e indiscriminata, rispetto a qualsivoglia limite».
[26] Si rimanda ancora a E. Carloni, Il paradigma trasparenza, cit., 173, che ricorda come il problema dei limiti dell’accesso difensivo si sia posto anche in un caso particolarmente delicato, nel quale veniva in questione la riservatezza delle fonti giornalistiche: il riferimento è alla pronuncia del TAR Lazio, III, 18 giugno 2021, n. 7333 (sulla quale v. M. Sinisi, L’accesso defensionale a materiali e contenuti informativi in possesso della RAI (il caso Report), in questa Rivista, 2021) e alla successiva sentenza del Cons. St., VI, 11 aprile 2022, n. 2655.
[27] Art. 9, Reg. UE 2016/679.
[28] In tal senso, tra altri, G.P. Meucci, Petizione (Diritto di), cit., 8: «È con l’invio e con la presa in esame della petizione che il cittadino si inserisce, partecipandovi, alla funzione di indirizzo politico in quanto viene a far presenti istanze di carattere generale che le Camere sono tenute ad esaminare dopo che le Commissioni hanno riferito». Sulla natura del diritto di petizione, oltre che per un inquadramento in chiave comparata dell’istituto, v. R. Orrù, La petizione al pubblico potere tra diritto e libertà. Evoluzione storica e profili comparatistici, Torino, 1996, spec. 216 ss.
[29] P. Stancati, Petizione (dir. cost.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 599. Si veda anche A. Coccia, Art. 50, in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Rapporti politici, Tomo I, art. 48-52, Bologna-Roma, 1992, 53: «[…] anche la petizione rivolta alle Camere rientra, in quanto tale, nelle libere espressioni del pensiero individuale o collettivo e, per questo aspetto, si trova accomunata nella medesima disciplina di carattere costituzionale e legislativo». Sul diritto alla segretezza delle proprie opinioni e, in generale, sul tema della libertà di manifestazione del pensiero ci si limita al rinvio a P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, spec. 435 ss.
[30] Sul rapporto tra petizioni e privacy, v. già P. Stancati, Petizione (dir. cost.), cit., 605.
[31] In questi termini, nel caso di un esposto alla pubblica amministrazione, la già citata sentenza del TAR Emilia Romagna – Bologna, II, 8 febbraio 2022, n. 136.
[32] Con riferimento alle petizioni ex art. 50 Cost., ma con ragionamento valido anche per il nostro caso, v. P. Stancati, Petizione (dir. cost.), cit., 601 s.: «Se si esclude, infatti, che la stessa iniziativa legislativa produca un vincolo nei confronti del Parlamento, deve, a maggior ragione, escludersi che lo produca la petizione. Pertanto l’iter procedimentale suscitato dalla petizione trova in questa solo una causa «occasionale» non giuridica, ed è direttamente e formalmente imputabile alle Camere e non al titolare del diritto in esame. Solo in senso latissimo potrebbe dunque l’attività delle commissioni dirsi provocata dalla petizione». Allo stesso modo, v. P. Caretti, De Siervo, Diritto costituzionale e pubblico, V ed., Torino, 2023, 151 s., che parlano, anche riguardo all’esperienza regionale, di «scarsissima utilità» rivelata dall’istituto delle petizioni.
[33] Si veda ancora TAR Emilia Romagna – Bologna, II, 8 febbraio 2022, n. 136.
[34] La relativa azione potrebbe anche essere esercitata in sede penale: varrebbe allora il discorso fatto poco sopra circa la possibilità di arrivare a conoscere gli autori della diffamazione attraverso l’autorità giudiziaria.
Una polpetta avvelenata è il dono che il governo Meloni riserva alle donne per l’8 marzo 2025. Lo schema di disegno di legge governativo appena diffuso è un dono a costo zero (la chiamano invarianza finanziaria!) perché consiste – per l’ennesima ulteriore volta, come documentiamo da tempo nella nostra Cronologia critica delle fonti legislative – nella modifica di norme di natura penale, sempre più repressive e severissime (“cattivismo legislativo”) senza un filo conduttore organico. Il fulcro qui è la previsione dell’ergastolo per chiunque (soggetto neutro) uccide “una donna”. Tale previsione è ammantata dalla innovazione linguistico/normativa dell’introduzione per la prima volta nella legge penale del lemma “femminicidio”. Il Governo ne ha formulato una definizione d’imperio, alla faccia di tutte le discussioni in proposito, in ambito politico/criminologico/giuridico: è riferito solo alla donna, in una logica rigidamente binaria, con rinvio – senza fornire alcuna specificazione definitoria – ai concetti di “discriminazione”, “odio”, “in quanto donna”, “espressione della sua personalità”. Nessuna chiarezza e precisione, come le norme penali invece esigerebbero. E, comunque, nessuna considerazione di abolizionismo, giustizia trasformativa, giustizia riparativa, diritto penale minimo… e, men che meno, del principio di funzione rieducativa della pena.
Nessuna attenzione preventiva. Eppure il problema attuale non è certo nominare e punire il femminicidio, ma farne diminuire i numeri, evitarlo e prevenirlo con politiche strutturali, che agiscano sul piano sociale e culturale. Il piano simbolico penale non ha alcun effetto di deterrenza: la penalistica seria e sovranazionale lo dice e dimostra da anni. Ma l’exploit governativo serve a distrarre dai problemi vitali, dalle torsioni antidemocratiche e spinge a parlar d’altro; è un esercizio di falso attivismo che, rafforzando logiche securitarie già da tempo praticate con nuove (mal scritte, e poi mal corrette) ipotesi di reato, aumenti delle pene, nuove aggravanti, riduzione dei bilanciamenti tra circostanze accessorie, norme penalistiche d’eccezione, rinfocolano e attizzano il desiderio di carcere senza la chiave, prospettata come soluzione risolutiva, ovviamente destinata solo a chi disturba il potere politico/finanziario e offende il suo “decoro”.
La pretesa e rigida tutela delle vittime (nel titolo del Ddl) si ritorce come un boomerang contro corpi e menti liberi, inquadrandoli in schemi eterodeterminati. Procedibilità d’ufficio, interventi forzosi e accelerazioni dei tempi in nome di tensioni vittimologiche, che nella effettività non sempre sono desiderate dalle protagoniste, se considerate nella loro soggettività e individualità. Ormai il potere esecutivo procede in via legislativa in modo del tutto frammentario (prima stalking, poi mutilazioni genitali, e poi matrimonio forzato, e poi ancora diffusione di immagini sessualmente esplicite e oltre; ora – sempre separatamente – violenza sessuale, molestie, e adesso femminicidio) e soprattutto in modo disorganico. Invano la Prima Presidente della Corte di Cassazione chiede il “fermo biologico” di simile metodo di novellazione a singulto, almeno per stabilizzare il panorama normativo.
Per parte nostra da tempo segnaliamo la necessità di una rivisitazione organica di tutta la materia della violenza contro le donne basata sul genere, per usare la dizione della Convenzione Istanbul 2011 (nel titolo del Ddl. si dice violenza “nei confronti” delle donne?!). Da tempo contestiamo la proclamata “completezza” del nostro sistema penale, che costituisce il presupposto per valorizzare la richiesta di moltiplicare l’impegno sulla attività di formazione professionale degli operatori tutti coinvolti. Anche in questa bozza non manca una norma in tema di formazione, e in particolare dei magistrati (ovviamente sempre a costo zero!).
Non manca nella bozza un incremento dei già numerosi obblighi previsti per legge di comunicazione alla parte offesa nel corso delle varie fasi processuali. È questa l’ultima in ordine cronologico di una serie di disposizioni sulle comunicazioni (già nel codice rosso e nel codice rosso rafforzato), ma possiamo prevedere che non sarà il definitivo. In ogni caso consideriamo che questo susseguirsi legislativo – che prosegue ad oggi dal 2009 dello stalking – sia la dimostrazione migliore della “non completezza” del nostro sistema giuridico, nella parte in cui regola la emersione di fatti di violenza (contro le donne basata sul genere) che si risolvono in un processo penale o del lavoro o civile/separativo (e minorile).
Non servono scoop governativi a cadenza mediatica, e tantomeno nel caso di leggi penalistiche. Neppure ci convince il sistema in corso in Parlamento, quello delle audizioni, perché opera su linee parallele che non si confrontano. Riusciamo invece a promuovere una modalità di ampio respiro politico-culturale, che consenta di addivenire a una riforma seriamente elaborata e discussa trasparentemente in tutte le sedi coinvolte e autorevoli? Intendiamo non solo Parlamento e Governo e Accademia, ma gli operatori tutti, pubblici e privati, singoli e associati, che agiscono sul campo, mettendo insieme tutti i vari Osservatori e Tavoli, ormai presenti in tanti territori.
Contributo già apparso sulla Rivista Studi sulla questione criminale online: Virgilio, M. (2025), “Nominare il femminicidio. Non in nostro nome”, in Studi sulla questione criminale online, al link https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/03/10/nominare-il-femminicidio-non-in-nostro-nome/.
Immagine: particolare da Suzanne Valadon, Portrait de Marie Coca et sa fille, olio su tela, 1913, Musée des Beaux-Arts de Lyon.
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