ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
46 anni fa, il golpe argentino
di Francesco Caporale
Sommario: I. 24 marzo 1976: il golpe - II. La “dottrina della sicurezza nazionale” - II. La “scoperta” di quella tragedia - IV. L’art. 8 c.p. – Il delitto politico - V. Maggio 1999. Il rinvio a giudizio - VI. Il Processo ESMA - VII. La “missione” in Argentina - VIII. Le “simboliche” condanne, e i loro effetti in Argentina.
I. 24 marzo 1976: il golpe
Il 24 marzo 1976, ormai quarantasei anni fa, un golpe militare avrebbe per sette anni, fino al dicembre del 1983, seminato il terrore in Argentina, dando vita ad una dittatura che si sarebbe rivelata una delle più grandi tragedie del Novecento.
I vertici delle Forze Armate -Jorge Rafael Videla, per l’Esercito; Emilio Eduardo Massera, per la Marina; Orlando Ramòn Agosti, per l’Aeronautica- intendevano porre fine, con quel golpe, ad un decennio particolarmente tormentato, iniziato nel 1966 con le manifestazioni operaie e studentesche contro il regime militare di Juan Carlos Onganìa, proseguite sotto i governi anch’essi militari prima di Levingston e poi di Lanusse, e, in buona parte, anche dopo il rientro in Argentina, nel giugno del ’73, di Juan Domingo Peròn.
L’Argentina – come del resto gli Stati Uniti ed un po’ tutti i paesi europei (con le uniche eccezioni, almeno in parte, dei regimi militari della Spagna del generalissimo Francisco Franco, del Portogallo di Salazar, e della Grecia dei colonnelli) – stava conoscendo, tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta, il forte vento della contestazione giovanile, solo vagamente imbevuta di utopie socialiste dal momento che l’invasione sovietica dell’Ungheria del ‘56, e, più ancora, l’invasione della Cecoslovacchia che nel ’68 stava vivendo, con Dubcek, la sua brevissima “primavera”, avevano di fatto già reso evidenti i limiti, gli equivoci ed il fallimento del socialismo reale, allontanando così, nei sogni giovanili, l’idea di un’Unione Sovietica da considerarsi modello di una società che mettesse al primo posto i valori della giustizia sociale, dell’uguaglianza e della solidarietà. E la distanza dalla ambigua utopia del cosiddetto “socialismo reale” si avvertiva, in particolare, proprio in Argentina, e nell’America Latina in generale, e non è un caso che i movimenti giovanili fossero nati, in quei paesi, in buona parte in ambienti di cultura cattolica: erano gli anni dei cosiddetti “preti terzomondisti” e della Teologia della Liberazione, che intendeva privilegiare, anche sulla scorta del Concilio Vaticano II°, la dottrina sociale del cristianesimo. Ed i giovani argentini videro in Peròn, rovesciato a sua volta da un golpe nel ’55, la loro speranza di una “patria socialista” del tutto svincolata, da una parte, dall’influenza nordamericana, e, dall’ altra, diversa e completamente autonoma dall’imperialismo sovietico: “ni yankees, ni marxistas: peronistas”, era infatti il loro orgoglioso slogan politico.
II. La “dottrina della sicurezza nazionale”
Quegli aneliti di cambiamento attraversarono, in quegli anni, tutta l’America Latina, da sempre considerata una sorta di “cortile di casa” degli Stati Uniti d’America. E in un’epoca ancora di “guerra fredda” -in un mondo rigidamente diviso in due blocchi: quello occidentale, ispirato ad una peraltro incompiuta democrazia, che vedeva negli Stati Uniti in qualche modo il proprio modello; e, dall’altro, quello orientale, rappresentato dall’Unione Sovietica e dai vari paesi dell’Est, all’epoca tutti più o meno orbitanti nell’altrettanto ambiguo “socialismo reale”- la reazione militare fu quella di intervenire con la forza delle armi, dando vita, tra la metà degli anni Sessanta e poi nei Settanta, a colpi di Stato che avevano via via interessato il Brasile, l’Uruguay, il Perù, la Bolivia, il Paraguay, il Cile, ed appunto, nel ‘76, l’Argentina. Erano i paesi latinoamericani del Cono Sur e del tristemente famoso “Plan Condor”, un piano che prevedeva la collaborazione dei rispettivi regimi militari nel dare la caccia, oltre i propri confini, agli oppositori politici che avessero cercato riparo in uno di quei paesi limitrofi.
Si era fatta strada, già dai primi anni Sessanta, in chiave dichiaratamente anticomunista, la farneticante “dottrina della sicurezza nazionale”, propugnata dagli Stati Uniti e dalla CIA, e che aveva trovato nella “Scuola delle Americhe”, la scuola interamericana di guerra con sede, allora, a Panama, il proprio fertile terreno di coltura, dove si erano non a caso forgiati tutti gli ufficiali latinoamericani poi protagonisti dei vari colpi di Stato che hanno insanguinato il Sudamerica: una “scuola di guerra” in cui figuravano come “docenti” ex ufficiali francesi che si erano tristemente distinti nelle torture praticate in Algeria, e non sorprende che addirittura un film, “La battaglia di Algeri” del nostro Gillo Pontecorvo, venisse utilizzato come “materiale didattico” per insegnare come e quali torture praticare nei confronti del “nemico”.
Il “nemico” non era più, secondo la tradizione un po’ romantica del conflitto bellico, il “paese altro” che attentasse ai propri confini, alla propria indipendenza; bensì un “nemico interno”, in realtà semplici giovani prevalentemente tra i venti e i venticinque anni, oppositori dei vari regimi militari latinoamericani, che si limitavano magari, come appunto accaduto in Argentina, ad esprimere le proprie utopie “socialiste” semplicemente insegnando a leggere e scrivere ai disperati abitanti delle cosiddette villas miserias, le degradate bidonvilles della periferia bonaerense.
A fronte di non più di due o tremila giovani che avevano in effetti abbracciato la lotta armata – chi tra le file dei Montoneros, di dichiarata fede peronista; chi nell’ERP, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo, di ispirazione guevarista –, la quasi totalità dei trentamila desaparecidos vittime della feroce repressione militare era in realtà costituita niente più che da inermi oppositori politici, come nei miei tre processi per i desaparecidos italo-argentini ho cercato di dimostrare.
III. La “scoperta” di quella tragedia
Avevo venticinque anni, quel 24 marzo del ’76. Mi ero un anno prima laureato alla “Sapienza”, ed il ricordo che ho della reazione comune alla notizia del golpe argentino è quello di una certa perplessità, se non indifferenza: niente di paragonabile alla forte emozione provata invece, solo due anni e mezzo prima, l’11 settembre del ’73, alla notizia del golpe di Pinochet in Cile, e della tragica fine di Salvador Allende nel palazzo presidenziale della Moneda.
Certo dovette influire, su questa diversa reazione collettiva, la tragica spettacolarità mediatica del golpe cileno rispetto a quello argentino: una sorta, quest’ultimo, di “golpe annunciato”, che rovesciava peraltro un governo oggettivamente di destra, quello presieduto dalla sprovveduta Isabelita, vedova di Juan Domingo Peròn che aveva fatto trionfalmente ritorno in Argentina, come ho prima ricordato, nel giugno del ’73, dopo un quasi ventennale esilio prevalentemente vissuto nella Spagna franchista, riprendendo la guida del suo paese fino al 1° luglio del ’74, data della sua morte.
L’immagine, quasi ostentata, e trasmessa in tutto il mondo, delle migliaia di prigionieri stipati nell’Estadio Nacional di Santiago del Cile, aveva indubbiamente suscitato forti emozioni, a fronte del basso profilo e dell’apparente “normalità” del golpe argentino.
Cosa fosse in realtà accaduto in Argentina, in quei drammatici sette anni tra il ’76 e l’83, l’avrei scoperto nella sua pienezza solo nel 1998, quando, da pubblico ministero a Roma, mi è toccato occuparmi di un procedimento iniziato già dal 1983, e che stava in quel momento languendo tra richieste di archiviazione e supplementi di indagine invece invocati dai difensori di parte civile.
Mi sono così imbattuto, tra le migliaia di pagine contenute in quella trentina di faldoni accumulatisi nell’arco di quindici anni, in dichiarazioni di miei coetanei, poco più che ventenni all’epoca del golpe, miracolosamente sopravvissuti dopo essere stati internati e torturati nei veri e propri lager di nazista memoria allestiti dal regime militare, di cui avevano sulla propria pelle conosciuto la ferocia.
Andavo così scoprendo l’esistenza di circa 350 “centri clandestini di detenzione” messi in piedi, in maniera occulta, dalla dittatura militare; delle torture con la picana, uno strumento utilizzato nella Pampa per il controllo del bestiame: scariche elettriche su ogni parte del corpo dei giovani internati, fino alla soglia dell’arresto cardiaco; dei “voli della morte”, la pratica decisamente più orribile: giovani scaraventati, vivi, dopo essere stati intontiti con un’iniezione di Pentothal, nelle acque del Rio de la Plata o dell’Atlantico Sur.
E ancora: il sequestro di circa 500 neonati, sottratti alle loro madri sequestrate in stato di gravidanza, uccise dopo il parto. Creature affidate “in adozione” a militari o famiglie a loro vicine, perché non crescessero con le “idee sovversive” dei loro genitori desaparecidos. Di questi bambini, grazie all’instancabile ricerca delle Abuelas de Plaza de Mayo ed agli esami del DNA, ne sono stati finora recuperati 130, oggi giovani uomini e donne tra i quaranta ed i quarantacinque anni, restituiti alla loro vera identità ed a ciò che rimane delle loro famiglie biologiche.
Ce n’era abbastanza per farmi capire quanto approssimativa fosse stata, fino a quel momento, la conoscenza, da parte mia e della quasi totalità degli italiani, sulla reale natura di quel regime militare.
IV. L’art. 8 c.p. – Il delitto politico
Il primo procedimento, come ho già prima accennato, era stato avviato fin dal gennaio del 1983, quando ancora era in piedi la dittatura militare in Argentina, che avrebbe solo a dicembre di quell’anno ceduto il passo – dopo la disfatta, nel giugno ’82, nella improvvida guerra con il Regno Unito per le Falkland/Malvinas – ad un governo democratico, quello del radicale Raùl Alfonsìn, dopo libere elezioni che avrebbero segnato il rientro dei militari nelle loro caserme.
Lo strumento normativo che aveva permesso l’apertura, in Italia, di quel procedimento – così come dei successivi due processi da me istruiti, il processo ESMA ed il processo Massera – è stato rappresentato dall’art.8 del nostro codice penale, che, nel disciplinare il cosiddetto delitto politico, prevede la punibilità, previa richiesta del Ministro della Giustizia, “del cittadino o dello straniero” che commettano, all’estero, un delitto politico, precisando poi, al terzo comma, che deve intendersi per delitto politico “ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino”, e che “è altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”.
Il limite dei giudizi in Italia su queste tragiche vicende era ed è comunque rappresentato dal fatto di poter procedere solo per quei casi che vedessero come vittime cittadini italiani, sia pure in possesso di “doppio passaporto”, come previsto dalla legislazione argentina: figli o nipoti, per lo più, di italiani emigrati fin dai primi del Novecento, o tra le due guerre, in quel paese del Sud America che, su circa quarantacinque milioni di abitanti, conta più di un terzo di cittadini di origini italiane.
Non vi era, in ogni caso, alcun dubbio che “delitti politici” dovessero considerarsi le barbare uccisioni, tra il 1976 ed il 1983, dei trentamila desaparecidos, eliminati semplicemente perché oppositori del regime militare, peraltro presente in Argentina fin dal 1966, a seguito della presa del potere da parte del generale Onganìa, e poi proseguito (prima con Levingston e poi con Lanusse) fino al 1973, a ridosso del rientro, come avanti detto, di Juan Domingo Peròn.
Di più: quanto avvenuto in quei sette anni di terrore in Argentina poteva in effetti considerarsi un vero e proprio “genocidio politico”, intendendo questo termine non già nella sua accezione tradizionale, di sterminio di un popolo per ragioni etniche, razziali o religiose, ma come annientamento, o tentativo di annientamento, di un’intera generazione, per ragioni esclusivamente politiche. Questo lasciava ragionevolmente intendere quella sorta di geografia del terrore rappresentata dalla capillare diffusione, sul territorio, di oltre 350 centri clandestini di detenzione: 350 Auschwitz, Mauthausen, Buchenwald, Dachau, messe in piedi dai generali golpisti trent’anni dopo la Shoah.
V. Maggio 1999. Il rinvio a giudizio
A maggio del 1999 il gup Claudio D’Angelo disponeva, dopo l’ennesima udienza preliminare, il rinvio a giudizio dei generali Carlos Guillermo Suàrez Mason e Santiago Omàr Riveros, rispettivamente comandanti della Zona 1 (Buenos Aires - Capital Federal, e cosiddetto “Gran Buenos Aires”) e della Zona 4 (Tigre – Campo de Mayo), nella suddivisione dell’Argentina in cinque Zone Militari, praticata con il golpe del 24 marzo ’76, ed incidentalmente entrambi affiliati, come del resto l’ammiraglio Massera, alla loggia massonica P2 di Licio Gelli.
Suàrez Mason era chiamato a rispondere dei sequestri e degli omicidi dei cittadini italo-argentini Laura Carlotto -figlia di Estela Barnes de Carlotto, presidenta delle Abuelas de Plaza de Mayo-, Norberto Morresi, Pedro Luìs Mazzocchi, Luìs Alberto Fabbri e Daniel Jesus Ciuffo, e per il sequestro del piccolo Guido, figlio di Laura Carlotto, nato in cattività quando la madre era internata nel centro clandestino di La Cacha.
E Riveros, invece, in concorso con il Prefetto Navale di Tigre, Juan Carlos Gerardi, e con quattro sottufficiali (Porchetto, Rossìn, Puertas e Maldonado), del sequestro e degli omicidi di Martino Mastinu e Mario Marras, entrambi emigrati in Argentina ancora in tenera età dalla Sardegna, con le rispettive famiglie, nei primi anni Cinquanta.
Il relativo dibattimento sarebbe iniziato nell’ottobre del ’99, dinanzi alla 2^ Corte di Assise, presieduta da Mario D’Andria.
Confesso che, assieme alla soddisfazione di aver almeno superato, con il rinvio a giudizio di tutti gli imputati, quella prima importante tappa processuale, un diverso ed opposto sentimento cominciava a farsi strada dentro di me: il timore di non disporre, al momento, di un numero di testi sufficiente, da un lato, a far comprendere ad una Corte d’Assise composta, oltre che da due giudici togati, da sei giudici popolari, tutti verosimilmente poco edotti su queste tragiche vicende, cosa avesse realmente significato il golpe del 24 marzo del ’76; e, dall’altro, di testi più specificamente in grado di riferire sui singoli casi su cui la Corte era chiamata a giudicare.
Provvidenzialmente, devo dire, l’iniezione di fiducia rappresentata da quel rinvio a giudizio fece sì che un’anziana signora, Inocencia Luca, si portasse qualche giorno dopo, dall’Argentina, personalmente nel mio ufficio, presentando una denuncia per la scomparsa di suo marito, Giovanni Pegoraro, imprenditore edile di Mar del Plata, nato in Italia ed in possesso di doppia cittadinanza, e di sua figlia Susanna, entrambi sequestrati a Buenos Aires il 18 giugno del ’77, e da allora desaparecidos, facendosi altresì latrice di una denuncia sporta presso il Consolato italiano a Buenos Aires da Dante Gullo, leader nei primi anni Settanta della Juventud Peronista, in relazione alla scomparsa della madre, Angela Aieta, nativa di Fuscaldo, in provincia di Cosenza, ed emigrata giovanissima in Argentina.
Tanto Giovanni e Susanna Pegoraro che Angela Aieta, sequestrata nell’agosto del ’76, erano stati internati all’ESMA, la Scuola di Meccanica della Marina trasformata nel maggior centro clandestino di detenzione, in cui furono ristretti tra il marzo del ’76 e la fine della dittatura militare non meno di cinquemila giovani e meno giovani.
VI. Il Processo ESMA
L’apertura di questo secondo procedimento, riguardante l’ESMA, anche questo a me assegnato dall’allora procuratore capo Salvatore Vecchione, mi portava a considerare necessaria una mia “missione” in Argentina, che mi consentisse di avvicinare, con l’aiuto delle Madres e delle Abuelas de Plaza de Mayo, i non molti sopravvissuti dell’ESMA che vi erano stati internati nel ’76 e ’77, e che avevano quindi avuto modo di conoscere Giovanni e Susanna Pegoraro ed Angela Aieta, e, più in generale, sopravvissuti degli altri centri clandestini di detenzione (La Cacha ed El Vesubio) in cui erano stati ristretti Laura Carlotto, Pedro Luìs Mazzocchi, Luìs Alberto Fabbri e Daniel Jesus Ciuffo, la cui scomparsa era oggetto del dibattimento in Assise nei confronti di Suàrez Mason, Riveros e gli altri, che sarebbe iniziato ad ottobre del ’99, e per il quale era indispensabile che fossi in grado di presentare una adeguata lista testimoniale.
Ventilai, con qualche titubanza per il timore potesse essere interpretata come becero pretesto di “turismo giudiziario”, questa ipotesi al mio procuratore capo, che la prospettò all’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, che aveva tra l’altro ricevuto poco tempo prima, in via Arenula, una delegazione di Madres ed Abuelas.
Il Ministro, persona particolarmente sensibile a questi temi, autorizzò una mia “missione” in Argentina “alla ricerca di fonti di prova”.
Non una rogatoria in senso stretto, dunque, che potesse tradursi in verbali redatti, su richiesta dell’autorità giudiziaria italiana, dai giudici argentini, né, tantomeno, in verbali di sommarie informazioni testimoniali da me redatti: il governo e l’autorità giudiziaria argentina erano infatti all’epoca decisamente restii – dopo la promulgazione delle leggi del “Punto Final” e di “Obediencia debìda”, emanate tra l’86 e l’87 in Argentina per chiudere la dolorosa vicenda dei desaparecidos- a concedere rogatorie su questo spinoso argomento, ed era tra l’altro in quel momento ancora presidente – si era nell’agosto del ’99 – Carlos Menem, che aveva già concesso una discutibilissima grazia a Videla, Massera ed agli altri componenti delle Giunte Militari condannati nel “Juicio a la Juntas” svoltosi nell’85 in Argentina, e che palesemente inseguiva un proprio decisamente improbabile disegno di “riconciliazione nazionale”, che intendeva sostanzialmente coprire con un velo pietoso, attraverso l’olvìdo, l’oblìo, i sette anni di terrore vissuti dal paese.
VII. La “missione” in Argentina
La mia “missione” in Argentina durò una decina di giorni, in quell’agosto del ’99. Lasciai un’Italia immersa in una torrida estate per passare ad un peraltro abbastanza mite inverno australe, incontrando decine e decine di persone che avrebbero finalmente arricchito la mia lista testi, sia per il dibattimento ormai alle porte che per il successivo “processo ESMA”.
Quel viaggio mi consentì di conoscere Ernesto Sàbato, grande figura di scrittore ed intellettuale che era stato presidente della CONADEP, la Comisiòn Nacionàl sobre la Desapariciòn de Personas istituita da Alfonsìn subito dopo la sua elezione, a dicembre dell’83, e che aveva a fondo indagato sulle aberrazioni della dittatura militare, poi trasfuse nel “Nunca Mas”, l’informe che dava conto della ferocia di quel regime, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti a quell’immane tragedia.
Ebbi la possibilità di confrontarmi con Julio César Strassera, “fiscal”, pubblico ministero, nel “Juicio a las Juntas” dell’85, e con il suo vice Luìs Moreno Ocampo (che sarebbe poi diventato, nel 2003, il primo procuratore capo del Tribunale Internazionale dell’Aia); di conoscere Horacio Verbitsky, autore del libro “Il volo”, nato dalle confessioni dell’ex capitano dell’ESMA Adolfo Scilingo, ed Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la Pace 1980, anch’egli sequestrato e torturato durante la dittatura militare; e poi ancora Magdalena Ruìz Guinazù, editorialista del quotidiano La Naciòn, che aveva fatto parte della CONADEP, occupandosi, al suo interno, proprio dell’ESMA; di incontrare ex militari, come Luìs D’Andrea Mohr, che avevano lasciato l’Esercito prima del golpe, non condividendone metodi e finalità; di approfondire la conoscenza di Madres ed Abuelas de Plaza de Mayo, come Lita Boitano, Vera Vigevani, Estela Carlotto, Laura Bonaparte e Taty Almeida; ma, soprattutto, di incontrare ed ascoltare sopravvissuti dei vari centri clandestini di detenzione, la cui testimonianza si sarebbe rivelata poi particolarmente preziosa per il buon esito dei miei processi.
VIII. Le “simboliche” condanne, e i loro effetti in Argentina
Il processo Suàrez Mason+altri, ed il processo ESMA, si sono poi conclusi, il primo a dicembre del 2000 ed il secondo a marzo del 2007, con la condanna di tutti gli imputati; il processo Massera ha invece dovuto arrestarsi, nel febbraio del 2011, con una declaratoria di proscioglimento per morte del reo, essendo l’ex ammiraglio deceduto nel novembre del 2010.
Si è trattato di condanne, quasi tutte all’ergastolo, rimaste soltanto simboliche, dal momento che nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione, ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro paese.
E tuttavia, la prima di queste sentenze, nel dicembre del 2000, ha avuto un effetto deflagrante in Argentina, tant’è che nel giugno del 2005, sotto il governo del presidente Néstor Kirchner, si è poi arrivati in quel paese al giudizio di incostituzionalità della legge di Obediencia debìda, con conseguente riapertura di decine di processi che hanno consentito la condanna di centinaia e centinaia di responsabili, ancora in vita, delle atrocità commesse nei sette anni di dittatura militare.
Ma, a distanza di ormai quarantasei anni da quel 24 marzo 1976, sconfortanti segnali ancora ci giungono, da varie parti del mondo, sull’attuale stato dei diritti umani, a dispetto del “Nunca Mas”, Mai più, invocato nel rapporto della CONADEP.
E le continue sparizioni, sempre per motivi politici, che ancora oggi ci tocca registrare, dal Messico alla Turchia di Erdogan, dall’Ungheria di Orbàn all’Egitto di Al Sisi, come testimoniato dalla terribile fine di Giulio Regeni, ci dicono che certe atrocità sono ancora ben lontane dall’essere solo un triste ricordo del passato.
I nuovi artt. 9 e 41 Cost.: centralità dell’uomo e limiti di revisione costituzionale
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. I nuovi artt. 9 e 41 della Costituzione - 2. La revisione della Costituzione nel dibattito in Assemblea costituente - 3. La revisione della Costituzione nella dottrina e nella Corte costituzionale - 4. È legittima la revisione costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.? - 5. La centralità dell’uomo quale valore supremo della nostra Costituzione e della nostra tradizione umanista - 6. Le riforme possibili (ma illegittime) che potrebbero discendere dalla contrapposta idea di una tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi che vada oltre la centralità dell’uomo - 7. Conclusioni.
“Sous l’amour de la nature, la haine des hommes”.
Marcel GAUCHET, La democratie contre elle-meme, Gallimard, 2002, 204
1. Premessa. I nuovi artt. 9 e 41 della Costituzione
L’8 febbraio 2022 si giungeva all’approvazione definitiva della proposta di riforma costituzionale A.C. 3156-B recante: “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”.
Votazione: 468 voti favorevoli, 1 contrario, 6 astenuti; una maggioranza talmente qualificata da non consentire il referendum confermativo ai sensi dell’art. 138, 3° comma Cost., e tale, così, da fare entrare indiscutibilmente le novità nel nuovo testo costituzionale.
A questo punto l’art. 9 Cost. aggiunge due comma che recitano: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
Parimenti l’art. 41 Cost., al primo comma, dopo aver recitato che l’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, aggiunge: “alla salute e all’ambiente”; parimenti il comma successivo, dopo aver previsto il coordinamento dell’iniziativa economica privata ai fini sociali, aggiunge: “e ambientali”.
Le ragioni della riforma sono quelle di considerare l’ambiente e la natura non più come delle res ma come dei valori primari costituzionalmente protetti.
Si dirà che non v’è niente di riprovevole a tutelare l’ambiente e la biodiversità, e certamente è vera una simile affermazione[1]; il problema, però, è che la questione non è stata affatto dibattuta (almeno per quanto mi risulta) dalla politica, dai giuristi e dall’opinione pubblica prima di arrivare a questa sua concretizzazione in Parlamento, cosicché la revisione di queste norme costituzionali appare ora come una novità della quale niente i più sapevano fino al giorno prima.
Nessuno, poi, dal 1948 ad oggi, aveva pensato di poter modificare la parte prima della Costituzione, ovvero quella parte relativa ai principi fondamentali e ai diritti e doveri dei cittadini; nessuno aveva pensato di poter intervenire su quel costrutto che i nostri costituenti, usciti dall’esperienza del fascismo, avevano faticosamente e meritevolmente messo insieme dopo la guerra.
Oggi, al contrario, abbiamo scoperto che tutto questo è invece possibile; e soprattutto abbiamo scoperto che una modifica della costituzione può avvenire, anche sui principi fondamentali, senza anteporla ad un previo, adeguato dibattito.
Credo, allora, si imponga una preliminare riflessione su quelli che sono i limiti alla revisione costituzionale, poiché alla luce di questa novità il tema non appare più una diatriba dottrinale bensì una esigenza pratica e concreta, atteso che nessuno credo voglia svegliarsi una mattina e trovarsi a vivere in uno Stato che non è più quello che aveva avuto fino alla notte precedente.
2. La revisione della Costituzione nel dibattito in Assemblea costituente
Spero dunque non si consideri una divagazione spendere qualche parola sui limiti di revisione costituzionale.
Se stiamo al dato testuale, l’unica cosa che non può essere modificata è la forma repubblicana, ai sensi dell’art. 139 Cost., perché su ciò la costituzione è stata chiara: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
Sul resto, niente dice la carta costituzionale; e tuttavia nessun costituzionalista ha mai pensato che fuori da questo limite tutto il resto possa essere modificato.
E’ evidente che in Assemblea costituente, appena usciti dalla guerra e dal fascismo, la paura del ritorno alla monarchia era forte, e questo giustificava la disposizione di cui all’art. 139 Cost., voluta tanto dalle sinistre (Togliatti)[2], quanto dai cattolici (Dossetti, Moro)[3].
Ma già in Assemblea giuristi di primo piano quali Piero Calamandrei sottolineavano come la rigidità della Costituzione non potesse ridursi al solo impedire il ritorno della monarchia, e doveva invece necessariamente estendersi alla immutabilità dei valori fondamentali della Repubblica e delle disposizioni relative ai diritti di libertà[4].
Ed così, facendo seguito alla presa di posizione di Piero Calamandrei, Lodovico Sforza Benvenuti sottoponeva all’Assemblea plenaria del 3 dicembre 1947, un art. 130 bis, che recitava: “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono e garantiscono diritti di libertà, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”[5].
L’articolo, seppur condiviso nella sostanza da tutti[6], non trovava tuttavia approvazione per ragioni formali, atteso che taluni sostenevano che la norma potesse essere fonte di dispute e dubbi interpretativi[7].
Ad ogni modo nessuno in Assemblea costituente metteva in dubbio che i diritti di libertà della persona e i principi fondamentali della Repubblica potessero essere oggetto di revisione costituzionale; ed in particolare ciò veniva sottolineato con forza in un importante intervento da Rossi[8].
3. La revisione della Costituzione nella dottrina e nella Corte costituzionale
Il tema della revisione costituzionale si rendeva poi, evidentemente, materia di dibattito dottrinale, nonché oggetto di decisione da parte della Corte Costituzionale.
Già Costantino Mortati poneva la differenza tra limiti espressi e limiti impliciti[9], e altri giuristi sostenevano parimenti che il limite di revisione della forma repubblicana implicasse inevitabilmente l’interpretazione del valore da dare al termine “repubblica”, dovendo esso essere necessariamente comprensivo dell’intero impianto fondamentale del sistema costituzionale[10].
Si sosteneva, inoltre, che questi limiti impliciti potessero poi dividersi tra limiti impliciti materiali, se ricavabili dal testo formale di altre disposizioni della carta costituzionale, e limiti impliciti sistematici, se non ricavabili direttamente da specifiche norma ma desumibili dai principi fondamentali irrinunciabili della nostra organizzazione statuale libera e democratica, ovvero ancora da “quei diritti i quali, pur non essendo esplicitamente menzionati nella costituzione, risultano implicitamente tutelati sulla base del sistema di valori che essa fa proprio”[11].
D’altronde, sarà poi questa la posizione della Corte costituzionale, per la quale: “La costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”[12].
Ovviamente, si tratta di stabilire quali siano questi “valori supremi” ai quali la Corte costituzionale fa riferimento; e tuttavia l’operazione esegetica non sembra difficile, poiché questi valori supremi sono esattamente quelli che già erano stati rilevati in Assemblea costituente da Piero Calamandrei e Lodovico Sforza Benvenuti, e che attengono alla sovranità popolare, all’ordinamento democratico, ai diritti d’eguaglianza, alla separazione dei poteri, al rispetto della dignità della persona umana, alle libertà personali ed economiche, e a tutti i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.
E spetta, se del caso, sempre alla Corte costituzionale, valutare se una revisione della costituzione sia fatta nel rispetto di questi limiti oppure oltre questi limiti, e quindi, di nuovo, in modo incostituzionale[13].
Credo che oggi questo orientamento debba essere da tutti noi condiviso con forza e piena convinzione, poiché ogni altra interpretazione dell’art. 139 Cost. porterebbe al contrario a concludere che possiamo svegliarsi una mattina e apprendere che sono stati modificati, ad esempio, i diritti di libertà della persona (art. 13 Cost.) o del domicilio (art. 14 Cost.), oppure soppresso il diritto di riunione (art. 17 Cost.), o quello di libertà nella manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), o ancora quello del lavoro (art. 4 Cost.) o della iniziativa economica (art. 41 Cost.); o ancora (perché no?) quello del diritto di voto (art. 48 Cost.), o del diritto ad agire in giudizio (art. 24 Cost.) dinanzi a giudici indipendenti e terzi (art. 101 e 104 Cost.), o del diritto di accesso alle cariche pubbliche (art. 51 Cost.), ecc……..non rientrando, da un punto di vista meramente formale, alcuno di questi diritti tra quelli non soggetti a revisione ex art. 139 Cost.
Se riteniamo, dunque, che queste modifiche siano impossibili, siano solo una barzelletta che ci raccontiamo per fugare ogni paura, allora va da sé che i limiti alla revisione della Costituzione vanno ben oltre la mera forma repubblicana dello Stato, e coinvolgono invece, come sottolineato, tutti i valori supremi che la nostra repubblica ha.
4. È legittima la revisione costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.?
Ciò premesso, la domanda è evidente: questa riforma rientra tra le revisioni possibili?
Qui io credo si debba preliminarmente chiarire la portata della riforma.
Precisamente, anche prima di essa, la Corte Costituzionale aveva riconosciuto la tutela della salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona[14], e le stesse Sezioni unite della Corte di Cassazione avevano parimenti riconosciuto il diritto di tutti a vivere in un ambiente salubre[15]. La tutela dell’ambiente si trovava poi già nell’art, 117 Cost., lettera g), che prevede infatti la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.
Così, se qualcuno sostiene che la revisione costituzionale nient’altro è se non la trasformazione in legge di quello che precedentemente era un indirizzo di giurisprudenza, e quindi non introduca niente di nuovo, allora è chiaro, nulla quaestio, la revisione è senz’altro lecita.
Però, io credo che per tutelare l’ambiente e la biodiversità, per fare leggi che limitino l’inquinamento, per proteggere gli animali, non v’era bisogno di modificare la costituzione, poiché a nessuno sarebbe mai venuto in mente di ritenere incostituzionali norme o leggi ordinarie finalizzate alla tutela di questi valori, stati, appunto, anche gli orientamenti giurisprudenziali ora ricordati.
E allora penso che questa interpretazione così riduttiva della riforma lasci un po’ perplessi, poiché il sospetto, per tutti, credo sia invece quello che questa revisione sia stata portata a termine per ben altre riforme.
E potrebbe così affacciarsi l’ipotesi che la revisione fissi invece nuovi diritti e nuovi ordini di valori, e soprattutto aderisca ai costumi dell’ora attuale, che chiedono di adeguare la nostra società alla nuova filosofia ecologica.
L’uomo e la sua economia, in questi termini, non potrebbero più anteporsi all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi; l’uomo, esattamente, in quanto essere vivente e in quanto parte integrante della natura, non varrebbe più di ogni altro essere animato, pianta o animale che sia, secondo la regola per la quale “L’umain n’est supérieur a rien”[16].
Conseguentemente, gli interessi economici dell’uomo non potrebbero certo anteporsi al valore della natura e dell’ambiente, ma anzi dovrebbero sempre esercitarsi nei limiti del rispetto di essi.
È così?
Perché, se questa fosse la reale riforma, allora, par evidente, la trasformazione dell’uomo da essere umano a essere vivente, e la centralizzazione delle esigenze dell’ambiente sugli altri interessi del convivere sociale, potrebbero certo porre problemi di limiti alla revisione costituzionale, e, direi tutto assieme, suscitare forti preoccupazioni.
5. La centralità dell’uomo quale valore supremo della nostra Costituzione e della nostra tradizione umanista
Ed infatti, se c’è una cosa che non credo possa esser messa in discussione, questa è quella che la nostra Costituzione ha voluto mettere al centro di tutto proprio e solo l’uomo.
Diceva Pico Della Mirandola nella celeberrima Oratio de hominis dignitate, del 1486: “Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu potessi scorgere tutto quello che è nel mondo, perché di te stesso, libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto”.
E questa tradizione, che mette, appunto, al centro del mondo l’uomo, e che dall’umanesimo al rinascimento, e poi dall’illuminismo fino all’età contemporanea, è arrivata a noi, veniva infatti presentata in modo solenne da Giorgio La Pira in seno alla discussione sui principi fondamentali della nostra repubblica.
La Pira dichiarava in Assemblea costituente che: “È necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”[17].
Si chiedeva poi La Pira: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”[18].
Premesso questo, La Pira: “illustra l’articolazione proposta, facendo presente che nel primo articolo viene determinato il fine della Costituzione: tutela dei diritti originari ed imprescrittibili della persona e delle comunità naturali…..diritto alla libertà personale, ai giudici naturali, alla libertà di circolazione, alla libera espressione del proprio pensiero, ecc……..”[19].
Il discorso era chiarissimo: la filosofia dei diritti riflessi dovuti alla centralità dello Stato non poteva essere accolta; al centro doveva stare l’uomo, con i diritti originari ed imprescrittibili della persona, non altro.
E l’Assemblea, dopo ampie discussioni, approvava la linea dell’onorevole Giorgio La Pira, seppur liberandola dagli aspetti più strettamente religiosi nei quali La Pira l’aveva configurata, e arrivava in tal modo ad approvare l’ordine del giorno discusso da Dossetti: “Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona di fronte allo Stato? Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”[20].
La linea veniva infatti accolta anche dalle sinistre, ed in particolare da Palmiro Togliatti, il quale tuttavia chiedeva che il testo avesse forma laica, concreta e accessibile: “dal professore di diritto e in pari tempo dal pastore sardo”[21]; e fondamentale in questo contesto resterà l’intervento di Moro: “Uno Stato non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”[22].
Dunque, non v’è dubbio, al centro del nostro sistema sta l’uomo e la sua umanità[23], l’uomo con la sua specificità e la sua anteriorità rispetto ad ogni altra cosa.
6. Le riforme possibili (ma illegittime) che potrebbero discendere dalla contrapposta idea di una tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi che vada oltre la centralità dell’uomo
Se, invece, noi facciamo venir meno questo costrutto, e diciamo che non è l’uomo che sta al vertice dei valori, bensì l’ambiente e la natura, allora, si comprende, torniamo alla teoria dei diritti riflessi, e l’uomo avrebbe in questo modo solo diritti condizionati e indiretti.
Con questo, non si nega certo il dovere di tutti di tutelare l’ambiente, di non inquinare, di protegge la natura, e di fare tutto quanto è possibile per difendere il nostro pianeta; si evidenzia solo il rischio che può esservi nell’inversione di una priorità, ove si arrivasse a sostenere, a seguito di questa riforma costituzionale, che la bontà della tutela dell’ambiente non trova più la sua ragion d’essere nell’interesse dell’uomo a vivere in un ambiente salubre, bensì la trova in sé stessa, e quindi anche contro l’interesse dell’uomo, e/o anche in contrasto con i suoi diritti e la sua libertà.
Si capisce che, se le cose in futuro dovessero davvero essere lette e interpretate così, tutto allora si potrebbe rendere possibile e costituzionalmente lecito.
Si potrebbe imporre la riduzione dei consumi, e stabilire che a tutela dell’ambiente solo certi consumi sono ammessi e non altri; si potrebbe ridurre la produzione industriale e il libero commercio, e stabilire che solo alcune cose possono essere prodotte e vendute e non altre, e magari, con ciò, favorendo taluni e danneggiando altri[24]; si potrebbe impedire l’accesso a taluni luoghi, o limitare fortemente, e in modo stabile, il diritto di circolazione, sostenendo che tutto questo va a vantaggio dell’ambiente e della biodiversità, poiché al contrario la libertà di circolazione dell’uomo, con i suoi egoismi e le sue disattenzioni, danneggia il pianeta; si potrebbe imporre regole comportamentali per ragioni ecologiche, impedendo ad esempio di mangiare certe cose, oppure imponendo la nutrizione con altre, se non addirittura imponendo ulteriori trattamenti sanitari; si potrebbe vietare il fumo anche all’aperto, stabilire un certo abbigliamento, imporre degli orari nei quali è possibile tenere certi comportamenti, che sarebbero invece vietati in altri momenti; si potrebbe limitare o escludere l’uso di taluni mezzi di trasporto, auto, aerei, ecc…., sempre a tutela dell’ambiente e al fine di limitare l’inquinamento; si potrebbe dividere tutti i beni in essenziali e non essenziali, ed escludere questi ultimi, o tutto ciò che venisse giudicato superfluo, o lussuoso, o eccessivo; si potrebbe imporre grossi oneri alla proprietà privata, facendola venir meno ove questa non si conformi ai dettati dell’ecologia e del risparmio energetico, consentendo così nuove forme di espropriazioni per ragioni ambientali; si potrebbe danneggiare la cultura e l’informazione impedendo o fortemente limitando l’uso della carta; sempre nell’ottica dell’abolizione dell’uso della carta, si potrebbe poi abolire ogni forma di pagamento in contanti, anche di piccolissima misura; si potrebbe ancora limitare i mezzi di comunicazione come internet o telefoni portatili, sostenendo che il loro uso contribuisce all’inquinamento del pianeta; si potrebbe imporre la riduzione drastica di beni quali l’elettricità, il gas, i carburanti, costringendo le persone a cambiare fortemente le loro abitudini e le loro attività lavorative; si potrebbe in ogni momento prevedere decadenze giuridiche in grado di incidere sui diritti contrattuali delle parti per ragioni di tutela dell’ambiente, compromettendo in questo modo il concetto stesso di “certezza del diritto”, e creando in tal misura un danno alle relazioni commerciali ed economiche; si potrebbe fortemente aumentare le imposte sui commerci e sulla proprietà privata, sostenendo che entrambe costituiscono ostacolo all’ambiente e all’igiene del pianeta; e così di seguito.
In breve, si potrebbe sostanzialmente abolire la vita dell’uomo occidentale, sostenendo che quella vita, dunque, e finalmente, non è conforme all’esigenze dell’ambiente e della natura.
Soprattutto, il tutto verrebbe sempre e unilateralmente deciso dal Governo, cosicché, di fatto, noi avremmo una nuova, ulteriore, e assai significativa, modifica costituzionale, poiché il Governo non sarebbe più, a questo punto, secondo i criteri di Montesquieu, mero potere esecutivo, ma si trasformerebbe a tutti gli effetti in un organo che decide la nostra vita e la determinazione della nostra persona.
7. Conclusioni
Dunque, in estrema sintesi, va ribadito che se c’è un valore supremo, questo è proprio quello della centralità dell’uomo.
Questa centralità dell’uomo non può essere oggetto di revisione costituzionale; essa è il pernio intorno al quale girano tutti gli altri diritti e si forma l’organizzazione della nostra società, secondo le stesse parole della Corte costituzionale[25].
Dal che, invito tutti a riflettere su questi aspetti, sperando vi sia ampio accordo nel ritenere che la revisione costituzionale che si è avuta lo scorso 8 febbraio 2022 ha sole due chiavi di lettura:
a) o si sostiene che la revisione nient’altro sia stata se non la trasformazione in legge di quello che precedentemente era un indirizzo di giurisprudenza, e allora nulla quaestio;
b) oppure, se vogliamo andare oltre ciò, non possiamo tuttavia farlo fino al punto di sottomettere l’uomo all’ambiente, poiché ciò contrasterebbe con valore opposto della centralità dell’uomo.
Fermo il dovere di tutti noi di proteggere l’ambiente, la tutela della natura deve tuttavia sempre pensarsi nel rispetto primo degli esseri umani; e l’ambiente non può trasformarsi in uno strumento da utilizzare per limitare o negare oltre misura i diritti, ne’ può costituire una ragione (se non, in taluni casi, un pretesto) per punire e/o cancellare le libertà della persona; e deve così rimanere integro il principio secondo il quale la tutela dell’ambiente si dà perché è interesse dell’uomo vivere in un ambiente salubre, non altro.
E tutti gli uomini di buona fede, al di là di questa riforma, conoscono bene questi limiti e questi equilibri, e rispetteranno la natura senza rimanerne intrappolati.
[1] V., in questa stessa rivista AMENDOLA, L’inserimento dell’ambiente in Costituzione non è ne’ inutile ne’ pericoloso, febbraio 2022.
[2] V. infatti Palmiro Togliatti nella seduta del 29 novembre 1946, in La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1976, VI, 738.
[3] V. infatti l’intervento di Giuseppe Dossetti, ivi, cit., 741, e di Aldo Moro, ivi, cit., 743.
[4] Asseriva espressamente Piero Calamandrei che: “Se si è adottato questo sistema per le norme che riguardano la forma repubblicana, dichiarando queste norme immutabili, non credete che questo sistema si sarebbe dovuto adoperare a fortiori per quelle norme che consacrano diritti di libertà? Era tradizione, nelle costituzioni nate alla fine del secolo XVIII che i diritti di libertà, i diritti dell’uomo e del cittadino, venissero affermati come una realtà preesistente alla stessa Costituzione, come esigenze basate sul diritto naturale; diritti, cioè, che nemmeno la costituzione poteva negare, diritti che nessuna volontà umana, neanche la maggioranza e neanche l’unanimità dei consociati poteva sopprimere, perché si ritenevano derivanti da una ragione profonda che è inerente alla natura spirituale dell’uomo. Ora, se la Costituzione ha adottato questa misura di immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura anche per le norme relative ai diritti di libertà” (v. infatti Piero Calamandrei, nella seduta del 4 marzo 1947, ivi, cit., I, 166).
[5] V. infatti Lodovico Sforza Benvenuti, ivi, cit., V, 4328.
[6] Fondamentale, a mio parere, sono le ragioni in forza delle quali Lodovico Sforza Benvenuti chiedeva l’approvazione di quell’articolo. Ammoniva lo stesso: “Gli Stati assoluti, anche nel loro sviluppo parlamentare, erano sempre legittimi, quale che fosse l’apporto dato dalla volontà popolare alla vita dello Stato. La legittimità c’era sempre, il consenso si presumeva anche in mancanza di un istituto che permettesse a tale consenso di manifestarsi liberamente, coscientemente, volontariamente. Lo Stato era sempre legittimo, avesse un Parlamento o no, ammettesse il suffragio universale o no, partecipasse il popolo all’attività politica o no. In regime democratico invece la volontà sovrana dello Stato si manifesta solo per mezzo della partecipazione libera e cosciente dei cittadini. Onde, ogni revisione costituzionale dei diritti di libertà, ossia della libertà personale, della libertà di coscienza, della libertà di riunione, della libertà di espressione, della libertà di voto, colpirebbe alla radice il concetto di libertà democratica e non solo farebbe cadere l’istituto, ma distruggerebbe fondamentalmente i concetti di democrazia e di libertà costituzionale. Dovrà venir proclamata l’intangibilità, e quindi la non revisionabilità, dei diritti fondamentali senza dei quali non vi è ne’ repubblica ne’ libertà” (v. infatti Lodovico Sforza Benvenuti, ivi, cit., V, 4329).
[7] Tra queste eccezioni di tipo formale ricordo l’intervento di Russo Perez: “è assurda una legge che dichiara immutabile ed eterna un’altra legge” (v. infatti Guido Russo Perez, ivi, cit., V, 4330); e quello di Moro, per il quale nessun dubbio doveva darsi circa la salvaguardia dei diritti naturali, che: “noi poniamo al di sopra delle mutevoli esigenze della vita politica…..ma la norma così come formulata può essere pericolosa” (v. infatti Aldo Moro, ivi, cit., V, 4330).
[8] Paolo Rossi precisamente asseriva: “I diritti di libertà, fra i quali il diritto del lavoro, è compreso come primissimo, sono contenuti in una categoria più vasta: il diritto naturale. L’onorevole Benvenuti e l’onorevole Laconi rivendicano qui, dopo tante discussioni, il vecchio e maltrattato diritto naturale e hanno ragione. La preoccupazione che i diritti della persona umana, i diritti della dignità umana, i diritti del lavoro umano siano validamente tutelati è la preoccupazione essenziale dell'Assemblea. Per difendere questi diritti ci vuole qualcosa di più che una disposizione di carattere costituzionale, ci vuole il permanere costante e fino al sacrificio, in tutti noi, della stessa ardente volontà di essere liberi che in questo momento ha manifestato con eloquenza l’onorevole Benvenuti” (v. infatti Paolo Rossi, ivi, cit., V, 4329).
[9] MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1967, II, 974, 975.
Sui limiti impliciti Mortati asseriva che v’è da: “rispettare i principi essenziali del tipo di Stato quale risulta dall’ordinamento in atto”; e che “Altri limiti assoluti alla revisione, deducibili in via implicita dal sistema, sono quelli inerenti ai diritti fondamentali della persona, singola o associata, qualificati dall’art. 2 come inviolabili, proprio per affermare l’intangibilità, da parte di qualunque istanza costituita, del loro nucleo fondamentale”.
[10] Per questo dibattitto v. per tutti S.M. CICCONETTI, Revisione costituzionale, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1989, XL, 134.
[11] Così, espressamente, PIZZORUSSO, Commento costituzione diretto da Branca, Bologna-Roma, 1981, 72.
[12] Così Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146.
[13] Asserisce ancora la Corte costituzionale: “Non si può pertanto negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore (v. ancora Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146).
[14] V. Corte Cost. 1 aprile 1985 n. 94; Corte Cost. 27 giugno 1986 n. 151; Corte Cost. 28 maggio 1987 n. 210; Corte Cost., 20 dicembre 2002 n. 536, per la quale l’ambiente si configura: “come bene unitario, che va pertanto salvaguardato nella sua interezza”; Corte Cost. 1 giugno 2016 n. 126.
[15] V. Cass. sez. un. 6 ottobre 1979 n. 5172.
[16] B. LEVET, l’Écologie ou l’ivresse de la table rase, L’Observatoire, 2022, 145.
[17] V. infatti Giorgio La Pira, in La Costituzione, ivi, seduta del 9 settembre 1946, cit., VI, 316
[18] Giorgio La Pira, cit., 316.
[19] Giorgio La Pira, cit., 317.
[20] Giuseppe Dossetti, cit., 323.
[21] Palmiro Togliatti, cit., 319.
[22] Aldo Moro, ivi, seduta del 13 marzo 1947, cit., I, 372.
[23] Sul principio personalista v. anche TOSATO, Rapporti tra persona, società intermedie e Stato, in AA.VV., I diritti umani. Dottrina e prassi, Roma, 1982, 695.
[24] E’ vero, e non può essere messo seriamente in discussione, che l’iniziativa economica privata conosceva già dei limiti quali l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Tuttavia credo si possa affermare che, in questi anni, dal 1948 ad oggi, questi limiti sono stati piuttosto principi del diritto del lavoro, ovvero valori costituzionali ai quali gli imprenditori e i lavoratori autonomi si dovevano attenere nei confronti del personale dipendente; ma non costituivano, e non hanno mai costituito, dei veri e propri limiti all’iniziativa economica privata in senso stretto.
E credo si possa altresì dire che la Corte Costituzionale, quando si è dovuta pronunciare sui bilanciamenti tra libertà economica e limiti di diritto pubblico, ha solo prudenzialmente ribadito che il nostro è un sistema misto, così come lo si ricava dalla lettura degli artt. 41 e 42 Cost., e così come ci perviene dalla nostra storia e dalla scelta che fecero a suoi tempo i nostri costituenti (faccio, senza alcuna pretesa di completezza, riferimento alle pronunce Corte Cost. 1 aprile 1985 n. 94; Corte Cost. 27 giugno 1986 n. 151; Corte Cost. 26 luglio 1993 n. 365; Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85). E di nuovo valgono al riguardo i lavori fatti in Assemblea costituente. Ruini: “Il comunismo puro ed il liberismo puro sono due ipotesi e schemi astratti, che non si riscontrano mai concretamente nella realtà…….La realtà è sempre una sintesi”. E sull’idea di piani statuali di regolamento dell’attività economica osservava: “Piano non significa piano integrale, coattivo, alla russa, che sopprima l’iniziativa privata. Nella nostra costituzione abbiamo messo che l’iniziativa economica privata è libera. Evidentemente un piano che sopprimesse l’iniziativa privata non è ammissibile (Così Meuccio Ruini nella seduta del 13 maggio 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, cit., II, 1664).
[25] Né si può ripetere, in questo caso, la frase abusata secondo la quale “Ce lo chiede l’Europa”, poiché non è vero che l’Europa ha chiesto all’Italia, o ad altri paesi europei, una revisione costituzionale in detta materia, né esistono leggi e/o direttive europee per le quali era necessario modificare la Costituzione. V. su ciò anche G. SEVERINI – P. CARPENTIERI, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’art. 9 della Costituzione, in questa rivista, settembre 2021.
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Ida Nicotra
1. Prof.ssa Nicotra, secondo Lei, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
La lunga stagione contrassegnata dall’emergenza sanitaria ha riportato in auge il tema dei doveri. La persona si è ritrovata d’un tratto con pesanti restrizioni dei diritti fondamentali cui non era abituata. Un fardello di limitazioni imposte dal bisogno di proteggere la vita e la salute pubblica che ci ha costretto a rileggere gli enunciati costituzionali, traendone il significato più genuino.
Finita la stagione dell’ubriacatura dell’individualismo, abbiamo sperimentato sulla nostra pelle come la presunta asimmetria tra diritti e doveri sia fondata su un assunto errato, poiché non ci sono parti deboli e parti forti all’interno dei principi contenuti nella prima parte della Costituzione.
La sussistenza di ogni consociazione umana si basa su interessi complessi per il cui perseguimento occorre la partecipazione di tutti i suoi membri. La pandemia ha reso ancor più evidente che un minimo di solidarietà “conviene” poiché nessuno può bastare a sé stesso, neanche per la salvaguardia dei diritti elementari alla vita e alla sicurezza personale.
L’assetto essenziale dei rapporti tra cittadini e Stato viene descritto in maniera chiara dall’art. 2 della Costituzione italiana. Ricordo che gli enunciati contenuti in tale disposizione costituzionale avrebbero dovuto costituire il preambolo alla Costituzione. La proposta, emersa durante i lavori dell’Assemblea costituente, poi accantonata, consisteva nella elaborazione di una premessa contenente affermazioni di carattere generale e programmatico per facilitare la comprensione dei principi fondamentali, capaci di plasmare l’intera struttura dell’ordinamento statale.
Proprio la duplice natura della relazione che stringe la Repubblica alla comunità di cittadini costituisce la chiave di volta dell’intero ordinamento costituzionale. La Repubblica “riconosce e garantisce” i diritti inviolabili dell’uomo e nello stesso tempo richiede “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale”.
Eppure, il pensiero juspubblicistico si è concentrato soprattutto sullo studio della prima parte della disposizione, tralasciando di occuparsi della seconda. L’attrazione per l’insaziabile bisogno dei diritti ha condotto alla svalutazione del principio solidaristico e della sfera della doverosità, come l’altra faccia dei diritti. Come se le comunità potessero nutrirsi solo di pretese assolute e scollegate da limiti.
La lezione della pandemia ha imposto un ripensamento; la storia, dopo decenni di relativa tranquillità istituzionale, non ha seguito un percorso lineare e il tornante tragico del Covid ha spostato indietro le lancette del tempo, imponendo una riflessione anche sui doveri e sulle responsabilità individuali e collettive.
A ben guardare, la rifondazione politica e giuridica seguita al secondo conflitto mondiale è stata possibile grazie al patto di cittadinanza basato inevitabilmente sul richiamo ai doveri inderogabili e alla solidarietà politica, economica e sociale. Responsabilità e comportamenti doverosi hanno reso possibile la rinascita post – bellica.
I lavori dell’Assemblea costituente ci consegnano un affresco molto dettagliato del significato dei doveri inderogabili di solidarietà, che sembra trarre linfa anche dal pensiero mazziniano. A proposito della legge scrive Mazzini “ma i vostri più importanti doveri sono positivi, non basta il non fare, bisogna fare, non basta limitarsi a non operare contro la legge; bisogna operare a seconda della legge. Non basta il non nuocere bisogna giovare ai vostri fratelli. Purtroppo, la morale si è presentata agli uomini in una forma più negativa che affermativa (…). Pochi o nessuno hanno insegnato gli obblighi che spettano all’uomo, e il come egli debba giovare ai suoi simili e al disegno di Dio nella creazione”.
La solidarietà di cui parla l’art. 2 della Costituzione rappresenta il collante dei principi che coinvolgono la dimensione politica e sociale della persona e sembra riflettere, sotto diversi aspetti, la concezione cara a Giuseppe Mazzini. La solidarietà, infatti, non si declina soltanto con l’osservanza di obblighi giuridici ma ricomprende tutti i comportamenti volontari non dettati da calcolo utilitaristico o da imposizione di legge ma come espressione spontanea dell’aspetto di socialità che caratterizza la persona.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
La lettura dei lavori preparatori testimonia evidenti tracce dell’influenza del saggio “Dei doveri dell’uomo” sulla scrittura della Costituzione. Durante la discussione sull’art. 2 della Costituzione Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75”, sottolineò la fondamentalità di diritti e doveri “come lati inscindibili come due aspetti dei quali l’uno non si può sceverare dall’atro”. Si tratta, continua Ruini, “di un concetto tipicamente mazziniano, che si era affacciato nella Rivoluzione francese, ed è oramai accolto da tutti, è ormai assiomatico”.
L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili della personalità umana e nello stesso tempo ricorda che vi sono doveri altrettanto imprescindibili dei quali lo Stato richiede l’adempimento (AA. VV, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma 1970, 335). La persona quale sintesi di individualità e dimensione relazionale viene descritta nell’art.2 che si poggia proprio sulla constatazione della sua centralità nella vita associata. La corretta interpretazione del dato costituzionale evidenzia come il principio solidaristico risponda, anzitutto, all’esigenza di orientare verso l’altruismo e il reciproco sostegno nel gruppo sociale.
La Costituzione rappresenta un luogo di sintesi in cui trova spazio l’affermazione dei diritti fondamentali e il richiamo della responsabilità individuale che discende dall’essere parte di una vita sociale e che comporta l’assunzione di doveri reciproci per il perseguimento del benessere generale. La tecnica del bilanciamento sperimentata dalla Corte costituzionale proviene dall’esigenza di inverare i precetti costituzionali affinché nessuna situazione soggettiva meritevole di tutela venga sacrificata in assoluto. “Sarebbe erronea la pretesa che i diritti siano insuscettibili di qualunque bilanciamento – afferma la Corte nella sentenza n. 85 del 2013 - dando così vita ad una gerarchia tra valori della quale non vi sarebbe traccia in Costituzione”. Non è previsto l’annientamento di un diritto, bensì limitazioni ragionevoli e proporzionate imposti dall’esigenza di non sacrificare ulteriori diritti che con i primi si trovino in conflitto.
Concetto che la Corte ribadisce nella sentenza n. 6 del 2019, in cui a proposito dei costi derivanti dall’insularità della Regione Sardegna, afferma la necessità che lo Stato ponga in essere una leale collaborazione con le autonomie territoriali nella gestione delle politiche di bilancio. Infatti, secondo il Giudice delle leggi, nelle relazioni finanziarie tra Stato e entità periferiche la “ragione erariale” non può assumere la veste di “principio tiranno”.
Emerge chiaramente in tale ultimo filone giurisprudenziale la rilevanza del principio di solidarietà che si declina nell’adozione di meccanismi di perequazione fiscale ed infrastrutturale volti a realizzare il riequilibrio dei divari territoriali. Il principio unitario costituisce il presupposto per valutare le relazioni finanziarie tra lo Stato e i territori svantaggiati, nell’ottica della individuazione di forme di fiscalità di sviluppo che giovano a dare solidità all’impianto unitario della Repubblica.
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Lei la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Mi pare che l’interrogativo espresso da Mazzini trovi risposta proprio nella esigenza di calibrare diritti e doveri alla luce dell’interesse pubblico prevalente. La normativa introdotta per contrastare l’infezione da Covid - 19 ha previsto pesanti sacrifici ai diritti delle persone finalizzati a proteggere il bene superiore del diritto alla salute pubblica. Mi sembra un esempio evidente di come i diritti del singolo possano essere ristretti in via temporanea per soddisfare un interesse collettivo di fondamentale importanza.
La legislazione emergenziale dimostra altresì che non esistono diritti sganciati dai doveri e viceversa.
La Corte costituzionale costituisce quel giudice dei diritti cui appellarsi al fine di accertare se le restrizioni imposte al loro esercizio effettivo rispondano ai canoni di temporaneità e ragionevolezza.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “ riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Lei questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a suo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
Ritengo che si possa cogliere una stretta correlazione tra la prospettiva offerta da Mazzini e l’elaborazione del Testo costituzionale. La complementarità tra diritti e doveri – come ho già avuto modo di dire – costituisce l’essenza della disposizione contenuta nell’art. 2.
Il collegamento tra diritti e doveri è reso plasticamente dal concetto di solidarietà, che costituisce un correttivo alle teorie dell’individualismo liberale.
Del resto, il significato di solidarietà trova le sue radici nella dottrina sociale della Chiesa; nel 1891 la fratellanza acquista una proiezione giuridica e sociale, con la Rerum Novarum di Leone XIII.
Nella concezione cristiana la solidarietà è espressione di “un’ontologia fondata di tutti gli uomini in Cristo” che rappresenta una risposta concreta alla crisi economico – sociale che ha caratterizzato la fine del XIX secolo.
La solidarietà tradotta in Costituzione è stata concepita in funzione di completamento del disegno di relazioni che conduce al concreto esercizio delle libertà.
Credo che in siffatta architettura costituzionale vi sia molto dell’influenza del patriota genovese.
Al riguardo, mi pare particolarmente significativo il passaggio in cui Egli ammonisce che “La libertà non è che un mezzo; guai a voi e al vostro avvenire se v’avvezzaste mai a guardarla, siccome fine! Il vostro individuo ha doveri e diritti propri che non possono essere abbandonati ad alcuno; ma guai a voi e al vostro avvenire se il rispetto che dovete avere per ciò che costituisce la vostra vita individuale potesse mai degenerare in un fatale egoismo. La vostra libertà non è la negazione d’ogni autorità, è la negazione d’ogni autorità che non rappresenti lo scopo collettivo della Nazione e che presuma impiantarsi e mantenersi sovr’altra base che su quella del libero spontaneo vostro consenso”.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo lei oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
“Se Dio non esistesse, tutto sarebbe permesso” scriveva Dostoevskij.
In realtà, il collegamento tra doveri etici e religione trova spazio anche in una Costituzione che si definisce laica, come quella repubblicana.
La laicità dello stato, infatti, quale emerge dagli artt. 2,3,7,8,19 e 20 della Costituzione, è concetto complesso e implica la non indifferenza dello Stato dinanzi al fenomeno religioso. Quanto piuttosto garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale. La Corte costituzionale riconosce che il genus, valore della cultura religiosa, e la species, principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano, concorrono a delineare la vocazione laica dello Stato – comunità che si pone al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini (sent. n. 203/1989).
La Corte, dunque, asseconda la linea favorevole al fenomeno religioso che emerge dagli enunciati costituzionali. Laicità non è sinonimo di laicismo che implica separatezza e disinteresse dello Stato verso la religione. Viceversa, la laicità quale principio supremo dell’ordinamento, va letto nell’ottica di collaborazione tra sfera temporale e sfera religiosa nell’interesse esclusivo della realizzazione della personalità umana.
La disobbedienza civile trova una traduzione pratica nell’ordinamento giuridico italiano nel particolare istituto dell’obiezione di coscienza, ossia nel diritto della persona a comportarsi in modo coerente e conforme alle proprie convinzioni, rifiutandosi di obbedire ad un comando dell’autorità ritenuto ingiusto.
La situazione, però, diviene complessa allorquando i propri convincimenti entrano in conflitto con gli obblighi imposti dall’ordinamento. Per cui considerando che la tutela della libertà in esame si basa sulla lettura sistematica degli artt.2,3,19 e 21 Cost. si prevede che nessuno possa sottrarsi al compimento dei propri doveri prescritti per legge, richiamandosi alla volontà di obbedire ai dettami della propria coscienza, tranne quando sia il legislatore a consentirne l’esonero, attraverso clausole più o meno ampie (Corte Cost. sent. n. 43/1997).
In proposito un esempio emblematico è quello dell’obiezione di coscienza al servizio militare, la cui normativa risale al 1972, più volte modificata fino alla l. n. 230 del 1998. Oggi il problema sostanzialmente non si pone essendo sospeso l’obbligo del servizio di leva (l.n. 226 del 2004). Si aggiunga l’obiezione di coscienza alla vivisezione che consente agli obiettori del personale sanitario di non prendere parte agli interventi diretti alla sperimentazione animale. Ancora l’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza, alla procreazione assistita e al suicidio assistito.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Lei, come può concretizzarsi questa riflessione?
Credo che ci siano molte tracce delle suggestioni del pensiero di Mazzini nella formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” che trova compiuto svolgimento nell’art. 4 secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
In tali enunciati costituzionali si sintetizza la relazione indissolubile tra diritto e dovere. Nella seduta del 22 marzo 1947, a proposito dell’art. 1, Fanfani osserva “dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche un diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale, quindi (…) affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali”. Per Costantino Mortati nella formula “Repubblica fondata sul lavoro” risiede il legale tra centralità della persona e centralità del lavoro, poiché nel lavoro trova composizione – prosegue l’insigne costituzionalista – la sintesi tra principio personalistico che implica la pretesa ad una attività lavorativa e quello solidaristico che attribuisce a tale attività carattere doveroso. Il fondamento della Repubblica sul lavoro valorizza il progetto costituzionale dei diritti sociali, ove il singolo si avvantaggia del lavoro di tutti e offre all’intera collettività il proprio contributo. Anche con riferimento al voto il Costituente utilizza la duplice qualificazione di diritto e dovere. Il concorso del cittadino all’assunzione di una decisione pubblica si riconnette alla democraticità degli ordinamenti costituzionali contemporanei. La Costituzione configura il voto come dovere civico per evidenziare la funzione pubblica attribuita agli elettori. Dunque, l’esercizio del diritto di voto va considerato doveroso in vista della sua finalità pubblicistica.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritiene dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
I giorni che stiamo vivendo con una guerra che si combatte nel centro dell’Europa ripropone con grande forza l’idea di Patria. La strenua resistenza del popolo ucraino contro l’aggressione unilaterale e indiscriminata da parte delle armate russe dimostra quanto sia attuale l’ideale di difesa della Patria, dei confini territoriali, della sovranità nazionale.
L’immagine di un contesto europeo caratterizzato solo da relazioni pacifiche si è infranta nell’invasione russa della vicina Ucraina.
Il dovere della Patria che la Costituzione italiana, non a caso, definisce “sacro” è fortemente intriso di valori etici che creano nei confronti del cittadino un sentimento di indivisibile appartenenza verso la Patria. In situazioni di massimo pericolo per l’integrità politica, al cittadino è richiesta la massima dedizione per salvare il proprio Paese da attacchi esterni.
L’aggettivo “sacro” mira ad attribuire all’adempimento del dovere di difesa un valore etico tanto forte da esigere persino il rischio per la vita e l’incolumità fisica. Si tratta del dovere più alto previsto nelle Costituzioni perché legato alla sopravvivenza stessa della Nazione e della sua sopravvivenza.
Il termine Patria si presenta come un concetto complesso in cui vi è una componente ideale rappresentata dai valori basilari che trovano ospitalità nella parte dei principi fondamentali della Costituzione e una componente sostanziale che è il territorio sede di sviluppo dei diritti e dei doveri e di esercizio della sovranità nazionale.
Questa idea di Patria si ritrova propria nell’opera di Mazzini: “La Patria è una comunione di liberi e di eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. La Patria non è un aggregato è un’associazione. Non v’è dunque veramente Patria senza un diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi e d’ineguaglianze”. E ancora “non vi sviate dunque dietro speranze di progresso materiale che, nelle vostre condizioni dell’oggi, sono illusioni. La Patria sola, la vasta e ricca Patria italiana che si estende dalle Alpi all’ultima terra di Sicilia, può compiere queste speranze Voi non potete ottenere ciò che è vostro diritto se non obbedendo ciò che vi comanda il Dovere. Meritate ed avrete”.
Similmente, il concetto di Patria quale inseparabile vicinanza tra cittadini e il proprio Paese si ritrova nelle parole di Calamandrei che parla di “Patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra i nati nello stesso Paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria questo senso di vicinanza e intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professioni diverse e che pur si riconosco per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro”.
La stessa Corte costituzionale si è espressa affermando che il dovere di difesa della Patria è “una necessità fondamentale e suprema all’esistenza e difesa dello Stato” ed è condizione prima della conservazione della comunità nazionale.
Ciò include anche la doverosità di una guerra difensiva per la protezione del territorio e dei suoi confini proveniente da un nemico esterno.
Dinanzi alla storia che sembra ripetersi all’infinito, assistiamo ad una mobilitazione dell’Italia e l’Unione europea, nel segno della solidarietà e della cooperazione, per aiutare l’Ucraina a respingere l’invasione russa. Proprio nel segno dell’art. 11 della Costituzione italiana e dei documenti internazionali che impongono di sostenere la resistenza di uno Stato aggredito ingiustamente attraverso le azioni diplomatiche ma anche le sanzioni finanziarie nei confronti degli aggressori e attraverso l’invio di armi per far cessare il conflitto, senza un intervento militare diretto.
L’art. 11 infatti ripudia la guerra come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli e apre ad una logica multilaterale e a limitazioni di sovranità, proprio perché l’idea di sovranità illimitata aveva portato alle guerre mondiali. Ciò implica che si esclude la guerra di aggressione, ma nello stesso tempo è doveroso supportare chi viene aggredito. Altrimenti si rischia di finire in una posizione isolazionista di ripudio della guerra per noi stessi ma di accettazione di un’aggressione perpetrata contro altri popoli.
L’organismo preposto ad operazioni di peacekeeping, consistenti in interventi condotti da forze armate internazionali allo scopo di far cessare, contenere o prevenire l’insorgenza di conflitti aventi carattere interno o internazionale è l’Onu che, come noto, è basato sul potere di veto di uno dei cinque Stati permanenti, tra cui vi è la Russia di Putin.
Da tempo sono state avanzate proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel senso di limitare il diritto di veto, considerato oramai un anacronistico ed ingiustificato vantaggio e di prevedere un’adeguata motivazione a supporto del voto contrario.
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni le suscita, da accademica impegnata su diversi fronti della società civile?
In questa frase con cui chiude la sua opera “Dei doveri dell’uomo”, si trova la modernità dell’opera di Mazzini. La centralità del ruolo della donna nello sviluppo armonioso della società. L’importanza del lavoro femminile trova ampio spazio negli enunciati costituzionali (artt. 3, 37, 51, 117) e oggi anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il Piano dedica una missione apposita al tema dell’inclusione sociale e della emancipazione femminile.
La democrazia paritaria è un cammino, ad ostacoli. Come in un’altalena di eventi. Ancora più frastagliato e pieno di insidie nel nostro Sud. Se ne accorta anche l’Europa che tiene insieme Mezzogiorno e parità di genere come in un abbraccio strettissimo nel Netx Generation Eu.
Nonostante tutte le difficoltà, le donne sono state protagoniste, dall’Unità d’Italia, di importanti mutamenti sociali ed economici. E grazie a loro se oggi l’eguaglianza sia stata sostanzialmente raggiunta.
Ma lo stereotipo che vuole uomini e donne in percorsi professionali differenziati resiste ancora.
Il Piano nazionale di Resilienza accelera proprio sul potenziamento delle competenze Stem per assicurare uguali chances alle studentesse nella formazione di competenze digitali, tecnologiche, ingegneristiche. La crisi sanitaria ha comportato un gravissimo impatto sull’occupazione, specialmente delle donne. Il divario di genere nei tassi occupazionali in Italia è tra i più alti d’Europa. Una disoccupazione selettiva con un forte aumento delle diseguaglianze.
Secondo l’Istat il Meridione è ultimo per lavoro femminile. La Sicilia è la regione con la più bassa percentuale di donne occupate. Con importanti gap salariali nel lavoro privato e un numero scarso di donne in posizioni apicali, anche nel settore pubblico.
La riduzione dei figli per donna è un fenomeno ricollegato storicamente alla crescita dell’occupazione femminile. La riduzione del tasso di natalità e la posticipazione della nascita del primo figlio, sovente destinato a rimanere unico, sono legate alla crescita delle donne nel lavoro e nelle professioni. Il lavoro costituisce una dimensione identitaria fondamentale.
Eppure, negli anni contrassegnati dalla pandemia, il decremento della natalità si accompagna al crollo dell’occupazione delle donne.
I formidabili cambiamenti nella legislazione italiana nel corso dei 75 anni di storia repubblicana hanno sollecitato un’evoluzione qualitativa nei comportamenti sociali e nel rapporto tra uomini e donne. Ma c’è ancora molto da fare.
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a suo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
Per prima cosa occorre sottolineare la larghissima maggioranza raggiunta per l’approvazione in via definitiva del disegno di legge di iniziativa parlamentare che ha introdotto la tutela dell’ambiente tra i principi fondamentale, con 468 voti favorevoli e un solo voto contrario (Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n.1 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.44 del 22 febbraio 2022). Nella quarta e ultima lettura ha trovato conferma il consenso da parte di tutte le forze politiche che aveva caratterizzato l’iter di approvazione anche nelle precedenti fasi. L’ampia convergenza sulla modifica dell’art.9 della Costituzione produce l’entrata in vigore immediata della revisione, subito dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Senza dover ricorrere al referendum confermativo previsto dall’art. 138, quale eventualità, qualora non si raggiunga la maggioranza qualificata.
Ma non è soltanto una questione procedurale: il successo ottenuto dalla legge di revisione dimostra la diffusa consapevolezza di quanto sia urgente e improcrastinabile prendersi cura dell’ambiente e degli ecosistemi anche nell’interesse delle generazioni future. L’affermazione di una solidarietà intergenerazionale delinea un modello in cui le scelte politiche fondamentali devono tener conto dei diritti delle generazioni future.
Uno sguardo al panorama europeo e internazionale dimostra il forte ritardo dell’Italia sulle tematiche ambientali; la Costituzione italiana era tra le pochissime sguarnite di una norma a protezione dell’ambiente. Nel corso degli ultimi decenni, la Corte costituzionale ha sopperito a tale grave carenza normativa attraverso una serie di fondamentali decisioni che hanno ricavato i principi di salvaguardia ambientale dal contesto nazionale ed europeo.
La revisione odierna introduce un nuovo comma nell’art. 9 in base al quale si attribuisce alla Repubblica, accanto al compito di tutelare il paesaggio storico e artistico della Nazione, anche quello di proteggere l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi.
Inoltre, viene inserita una previsione sui diritti degli animali, attraverso una riserva di legge statale che ne disciplini le forme e i modi.
Ulteriormente viene rivisitato l’art.41 che regola l’esercizio della iniziativa economica privata. Si stabilisce che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno alla salute e all’ambiente. Si rimette alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica, pubblica e privata, anche ai fini ambientali, oltre che sociali.
Tali previsioni assumono il preciso significato di rafforzare il principio solidaristico per realizzare la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; sicché dinanzi ad altri beni egualmente meritevoli di apprezzamento costituzionale (come, ad esempio, l’iniziativa economica) occorre operare di volta in volta un concreto bilanciamento, per minimizzare i rischi per l’ambiente e la salute.
Il nuovo contenuto dell’art.9 della Costituzione va collegato strettamente con il programma di transizione ecologica contenuto nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’intera seconda missione del PNRR è dedicata alla rivoluzione verde e alla economia circolare. Il Piano prevede il rafforzamento della messa in sicurezza del territorio, per attenuare i rischi idrogeologici e salvaguardare le aree verdi e la biodiversità, con interventi di forestazione urbana e digitalizzazione dei parchi.
La riforma dovrà fare da cornice all’adozione di regole sul clima. L’estate più torrida di sempre costituisce un ammonimento per le società contemporanee: agire subito per frenare i cambiamenti climatici già in atto che avranno gravi ripercussioni sui diritti elementari delle persone; dal diritto all’acqua al diritto a non essere costretti ad abbondonare il luogo in cui si nasce, a causa della siccità, con le migrazioni climatiche.
L’approvazione della norma costituzionale a difesa dell’ambiente segna un passo in avanti sul piano precettivo e su quello pedagogico per azioni reali che consentano di giungere alla neutralità climatica e mitigare le minacce legate agli eventi naturali estremi.
Certamente per rendere davvero effettiva la consacrazione costituzionale occorre che il precetto si faccia regola concreta di comportamento improntato alla solidarietà peri gli attori istituzionali e per i cittadini.
La Costituzione italiana ha dimostrato ancora una volta di saper guardare al futuro, costruendo un ponte tra generazioni, nel segno del principio di solidarietà.
L’affermazione dell’aspettativa da parte delle generazioni future poggia sul c.d. rispetto tra le generazioni, in ossequio al principio di solidarietà ed a quello di eguaglianza sostanziale per preservare una parte equa di risorse naturali a favore di coloro che verranno, ponendo limiti alla loro utilizzazione. In definitiva, la tutela del patrimonio ambientale si lega al valore essenziale della perpetuazione del gruppo sociale contro il serio rischio di “autodistruzione dell’umanità”. Nel significativo valore della continuità ogni generazione assicura l’accesso all’”eredità” delle generazioni precedenti, conservandolo integro per quelle future.
Le ragioni di un’inammissibilità. Il grande equivoco dell’eutanasia
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. Le ragioni di un’inammissibilità - 2. Non configurabilità del diritto ad ottenere la morte per mano di un terzo - 3. Conclusioni.
1. Le ragioni di un’inammissibilità
Molte polemiche ha suscitato la decisione della Corte Costituzionale, resa subito nota con un comunicato stampa, di dichiarare inammissibile il quesito referendario relativo al fine vita: l’insistito richiamo alla libertà’ della persona di disporre della propria esistenza in presenza di situazioni di salute intollerabili, amplificato da una comunicazione mediatica male informata, ha lasciato passare il messaggio di una pronuncia ingiusta e lontana dal comune sentire dei cittadini.
La disinvoltura con la quale spesso si trattano, senza alcuna consapevolezza del loro significato e della intrinseca diversità dei fenomeni evocati, termini ed espressioni come consenso informato, autodeterminazione, accanimento terapeutico, suicidio assistito, omicidio del consenziente, eutanasia ha aumentato la confusione e certo non ha aiutato ad analizzare razionalmente i molti problemi sul tappeto.
Pur dopo il deposito della sentenza n. 50 del 2022, che ha fatto chiarezza sui termini della questione e sulle ragioni della inammissibilità del quesito, si continua a denunciare da alcuni commentatori e da certa stampa l’arbitraria negazione ai cittadini del diritto di esprimersi su un tema così sentito e coinvolgente.
È pertanto necessario, per una seria analisi dei problemi sollevati, esaminare quella motivazione con gli occhiali del giurista laico, scrutinando insieme alla Corte la portata del quesito referendario e gli effetti che sarebbero derivati sul sistema dalla sua ammissione.
La Corte Costituzionale, con la bella penna del professor Modugno, ha osservato che il quesito in discorso, costruito con la cosiddetta tecnica del ritaglio, ossia con la richiesta di abrogare frammenti della disposizione attinta producendo la saldatura delle parti residue, avrebbe sortito l’ effetto di riconoscere la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte per mano altrui, così da rendere lecito l’ omicidio del consenziente a prescindere da ogni ragione che possa indurre il soggetto a fornire detto consenso.
La Corte delle leggi ha al riguardo richiamato il proprio costante orientamento volto a ravvisare ulteriori limiti all’ utilizzazione dello strumento referendario, oltre quelli espressamente previsti dall’art. 75, comma 2, Cost., desumendoli dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione e richiamando a tal fine la necessità di verificare se il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’ applicazione di un precetto costituzionale. Più specificamente, ha ricordato che sin dalla sentenza n. 16 del 1978 la giurisprudenza costituzionale ha escluso l’ammissibilità di referendum confliggenti con valori di ordine costituzionale da tutelare ed ha chiarito che tra le disposizioni legislative ordinarie non suscettibili di abrogazione per via referendaria vanno ricomprese quelle la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione.
Nella specie il giudice delle leggi ha appunto ravvisato l’esistenza di un limite siffatto, in quanto la norma oggetto del quesito referendario è posta a tutela di un valore che si colloca in posizione apicale nell’ ambito dei diritti fondamentali della persona: vietando ai terzi di farsi esecutori della morte di soggetti richiedenti o soltanto assenzienti la norma penale assolve allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita non soltanto delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.
Tali argomentazioni appaiono pienamente condivisibili.
Occorre innanzi tutto tener presente che l’ art. 579 c.p. per effetto della parziale soppressione referendaria avrebbe recitato così: Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’ omicidio (575-577) se il fatto è commesso:
1) contro una persona minore degli anni diciotto;
2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
Per contro, secondo l’attuale configurazione dell’art. 579 c.p., mentre in presenza delle circostanze sopra elencate la condotta del terzo che ha determinato la morte integra la fattispecie di omicidio volontario, sanzionato dagli artt. 575 e ss. c.p., l’ ambito di configurabilità dell’omicidio del consenziente è circoscritto a quelle azioni dirette a provocare la morte di altri sostenuta - e per questo intesa come meno grave - da un valido consenso dell’interessato. E’ peraltro noto che l’ art. 579 c.p. non richiede neppure la richiesta, essendo sufficiente il consenso: la non necessità della richiesta preventiva comporta che l’ iniziativa della condotta possa essere assunta dal suo stesso autore.[1]
È dunque evidente che l’esito abrogativo non avrebbe affatto, come da molti si sostiene, escluso l’eutanasia nei casi in cui ricorrano le circostanze di cui ai n. 1, 2 e 3 sopra richiamati, consentendola ove dette circostanze non sussistano, ma avrebbe totalmente soppresso la fattispecie dell’omicidio del consenziente, atteso che la parte residua non incisa dal referendum sarebbe rientrata nell’ambito dell’omicidio volontario. Ciò vale a dire che il risultato così conseguito della totale depenalizzazione dell’art. 579 c.p. avrebbe avuto una portata ben diversa e ben più estesa della mera depenalizzazione di condotte dirette alla soppressione di malati terminali o sottoposti ad indicibili ed intollerabili sofferenze.
Si sarebbe per tale via determinato un regime di piena disponibilità della vita di chiunque sia orientato, anche per i motivi più improbabili o contingenti, a consentire alla fine della sua esistenza per mano di terzi.[2]
È altrettanto certo che la nettezza del quesito e la forza del suo effetto abrogativo escludevano la possibilità di trasferire all’ omicidio del consenziente le condizioni e le limitazioni poste dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 relativamente all’ aiuto al suicidio, così da subordinare l’ esenzione da responsabilità al rispetto di dette condizioni e limitazioni: lo strumento referendario è invero diretto ad abrogare norme che il popolo rifiuta, non a sostituire la disciplina vigente con una nuova e diversa normativa, trasformando l’ abrogazione in legislazione positiva.
Ne sarebbe così derivato il risultato paradossale che mentre in forza della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 l’aiuto al suicidio non è punibile solo ove ricorrano le quattro condizioni enunciate dalla stessa Corte (esistenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, capacità di prendere decisioni libere e consapevoli), in assenza delle quali l’ autodeterminazione della persona non trova spazi di legittimazione, l’ intervento di terzi diretto a provocare la morte del consenziente sarebbe stato in ogni caso lecito, così da potersi configurare una sorta di licenza di uccidere.
È dunque evidente che nel caso di specie il solo taglio di parole, senza poterne cucire altre, non consentiva di ottenere un testo finale corrispondente al risultato perseguito dai promotori e che nel tentativo di centrare un bersaglio si è fatto fuoco su un obiettivo diverso, senza tener conto delle gravissime conseguenze in termini di razionalità e di tenuta complessiva del sistema, e prima ancora di coerenza costituzionale, che ne sarebbero risultate.
È pertanto del tutto infondata l’accusa rivolta alla Corte di aver spostato la riflessione dall’immensità del dolore di alcune persone causato da una legge ingiusta ad una questione di pura forma, provocando l’effetto perverso di rafforzare sul piano sociale la propensione all’ indifferenza che non si fa carico del dolore degli altri.
Va inoltre rilevato che la motivazione resa a sostegno dell’inammissibilità si pone non in contrasto, ma in stretta continuità con la sentenza della Corte n. 242 del 2019, che aveva richiamato l’esigenza di evitare vuoti di tutela che avrebbero generato il pericolo di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità. La Corte Costituzionale aveva in quella pronunzia osservato che l’ art. 580 c.p. assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare il diritto alla vita delle persone, soprattutto le più deboli e sofferenti, proteggendole da una scelta estrema e irreparabile. Ed è appunto alle persone più fragili che fa riferimento la decisione di inammissibilità del quesito nel punto in cui afferma che le situazioni di vulnerabilità e debolezza non si esauriscono nella minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di diversa natura, anche affettivi, familiari, sociali o economici, ricordando altresì che l’ esigenza di tutela della vita umana da scelte autodistruttive non adeguatamente ponderate va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili.
2. Non configurabilità del diritto ad ottenere la morte per mano di un terzo
Nel censurare la decisione della Corte si continua a sostenere, anche da fonti autorevoli, che ponendosi in discussione il diritto fondamentale di disporre della propria vita - massima espressione del principio di autodeterminazione - la forza primaria di detto diritto avrebbe dovuto prevalere sui limiti dello strumento referendario, così da consentire o imporre una diversa interpretazione del quesito o anche un intervento correttivo su di esso o sugli effetti del suo possibile accoglimento.
Sulla stessa linea i medesimi promotori del referendum si erano lungamente soffermati nelle memorie illustrative presentate alla Corte, verosimilmente consapevoli di aver fatto un uso improprio dello strumento referendario: essi avevano nei loro scritti sostenuto che ben poteva la Corte superare possibili criticità del quesito o profili di illegittimità costituzionale della normativa di risulta, non solo in quanto non pertinenti rispetto al giudizio di ammissibilità a lei spettante, ma anche perché detto quesito mirava ad eliminare, a fronte della perdurante inerzia del legislatore, la punibilità di una condotta che, seppur diversa da quella di aiuto al suicidio, è ad essa molto simile, stante l’ analogia tra la condizione in cui versa la persona che chiede ad un terzo di porre termine alla propria vita e quella di chi chiede ed ottiene solo un aiuto a darsi la morte.
L’assunto è infondato innanzi tutto nelle sue premesse. La Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza Englaro, ha escluso l’esistenza nell’ordinamento di un diritto a morire, ben evidenziando che il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari anche al prezzo di perdere la vita si fonda sull’esistenza non di un diritto generale ed astratto ad accelerare la morte, ma del diritto all’ integrità del proprio corpo. Ed anche la Corte di Strasburgo 29 aprile 2002 nel caso Pretty c. Regno Unito, riguardante appunto un’ipotesi di aiuto al suicidio, ha negato la sussistenza di un diritto siffatto.
Allo stesso modo la legge n. 219 del 2017, fissando il principio del consenso libero e informato che unicamente legittima ogni trattamento sanitario e che comporta la facoltà per il paziente di rifiutare o di interrompere in ogni momento tutte le cure cui è sottoposto, ha inteso il consenso non quale espressione del diritto di morire, ma come manifestazione del diritto di rifiutare tutte le cure, non solo quando non vi è più speranza di guarigione, ma anche se le condizioni del mantenimento in vita sono divenute intollerabili nella percezione del malato. È del tutto evidente che il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari lasciando che la malattia segua il suo corso è cosa diversa da un presunto diritto al suicidio, esprimendo esso piuttosto la possibilità della scelta tra il curarsi o il non curarsi, tra il sottoporsi o non sottoporsi a determinati trattamenti, che il medico ha il dovere giuridico di rispettare.[3]
Ed anche la Corte Costituzionale, prima nell’ordinanza n. 207 del 2018 e poi nella sentenza n. 242 del 2019, ha considerato come punto acquisito che nel sistema normativo italiano ed in quello convenzionale il diritto di vivere non si converte nella banalità del suo contrario, il diritto di morire, atteso che gli artt. 2 Cost. e 2 della CEDU pongono il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, non quello di riconoscere a ciascuno la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Non sembra inutile peraltro ricordare che nel quadro tracciato dalle richiamate pronunce del giudice delle leggi la richiesta di aiuto formulata dal malato in presenza delle condizioni date non pone al medico l’ obbligo, ma solo la facoltà di esaudirla, così risolvendosi il diritto a morire in modo conforme alle proprie scelte individuali tramite aiuto al suicidio in una mera libertà di esprimere una richiesta non vincolante per il sanitario.
Tanto meno è configurabile il diritto ad ottenere la morte per mano di altri.
È d’altro canto evidente che il potere di fatto di ciascuno di porre termine volontariamente alla propria vita nulla ha a che vedere con il diritto di cui si pretende l’esistenza.
In secondo luogo la tesi è infondata nella sua parte propositiva, atteso che i quesiti, una volta formulati e passati al vaglio dell’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di Cassazione, rimangono l’unico testo di riferimento, mentre restano nella sfera dell’irrilevanza l’intenzione e gli obiettivi dei proponenti non consacrati nei quesiti stessi. La Corte Costituzionale ha sul punto correttamente osservato, ribadendo un orientamento assolutamente consolidato, che la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e che l’obiettivo dei sottoscrittori va desunto non dalle loro dichiarazioni o dalle tesi esposte in sede di giudizio di ammissibilità, ma esclusivamente dalla finalità incorporata nel quesito, ossia dalla finalità oggettivamente desumibile dalla sua formulazione e dall’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento. Ciò vale a dire che il quesito deve incorporare l’ evidenza del fine intrinseco dell’atto abrogativo, ossia la puntuale ratio che lo ispira.
3. Conclusioni
Mai come in questa occasione lo strumento referendario ha mostrato i propri limiti, in quanto rivolto ad interferire con temi delicatissimi riguardanti la vita, la morte e le scelte di fine vita, che richiedono di essere trattati con cura, in un attento bilanciamento tra interessi contrapposti.[4]
Al contrario, alla base del quesito referendario è possibile cogliere una cultura individualistica non conforme ai valori personalistici che innervano la Carta fondamentale, che per tale ragione non poteva trovare legittimazione in sede di ammissibilità.
Costituisce certamente una lacuna del sistema la mancanza di una normativa diretta a disciplinare la situazione di chi, trovandosi nelle condizioni richieste dalla Corte Costituzionale per rendere non punibile l’aiuto al suicidio, non è in grado di togliersi la vita da solo, per essere privo anche di quel minimo di autonomia che gli consentirebbe - premendo quel pulsante o iniettandosi quel farmaco - di percorrere l’ultimo tratto del cammino verso la morte. Si tratta indubbiamente di una situazione assai simile a quella di chi può ottenere di essere aiutato a morire secondo i dettami della Corte, ma la sua regolamentazione non poteva essere affidata allo strumento referendario, ontologicamente diretto, come già osservato, a cancellare, e non a creare nuove norme di diritto.
Come ha rilevato il giudice delle leggi nella parte conclusiva della motivazione qui in esame, discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dal legislatore con una diversa normativa, ma non possono essere semplicemente abrogate, perché non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano.
È pertanto ancora una volta nella responsabilità del Parlamento dettare una disciplina volta a regolare le situazioni drammatiche che stanno dietro a quel milione e duecentomila firme che avevano dato il senso di una partecipazione politica collettiva da tempo smarrita: si tratta di un tema che merita un serio dibattito parlamentare, da condurre con coraggio e con autentico spirito laico, lontano da steccati ideologici e da posizioni preconcette.
È tuttavia doveroso rilevare che una regolamentazione siffatta non è neppure ravvisabile nel testo unificato all’ esame del Parlamento, diretto soltanto a disciplinare il suicidio assistito, completando la trama di regole e di requisiti tracciata dalla Corte Costituzionale.[5]
Resta comunque salva la strada, forse più agevole, della proposizione della questione di costituzionalità dell’art. 579 c.c., secondo il percorso già seguito in relazione all’ art. 580 c.p.
[1] Va ricordato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza è configurabile omicidio volontario, e non omicidio del consenziente, in ogni caso in cui il soggetto passivo sia affetto da una patologia che incida sulla piena e consapevole formazione del consenso alla propria eliminazione fisica (v. per tutte Cass. pen. 2008 n. 13410).
[2] Per una diversa valutazione della portata del quesito, da intendere come diretto ad aprire un varco al principio di indisponibilità della vita sulla falsariga dell’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 242, v. RE, Sugli effetti penali e politici del referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 c.p. in tema di eutanasia legale, in Giur. Pen. web, 2022, 2.
[3] Sia consentito il rinvio a LUCCIOLI, Consenso informato, legge n. 219 del 2017 e sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 nella prospettiva del giudice civile, in Giustizia Insieme, 20 gennaio 2021.
[4]Nel senso che il referendum non deve e non può assumere una ennesima funzione di supplenza del Parlamento e che alcune cautele si impongono, come quelle relative alle leggi da sottrarre ad esso, a garanzia dei diritti fondamentali di libertà, v. MARTINES. Diritto Costituzionale, 1992, p. 411.
[5] Sono passati 38 anni da quando Loris Fortuna presentò, nel 1984, la prima proposta di legge per la legalizzazione dell’eutanasia.
Reclamabilità in Corte d’appello dei provvedimenti pronunciati dal Giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno. Nota critica a Cass. S.U. n. 21985/2021 e (in)superabilità della distinzione tra provvedimenti gestori e decisori, anche de iure condendo
di Chiara Ilaria Risolo
Sommario: 1. Il caso che ha portato all’emersione del contrasto: il rimedio avverso il decreto con il quale il Giudice tutelare ha scelto e nominato un amministratore di sostegno - 2. La normativa e i due orientamenti - 3. La motivazione delle S.U. per punti e corrispondenti osservazioni - 4. Ipotesi di riforma che potrebbe superare il principio di diritto enunciato e attualità della distinzione tra provvedimenti decisori e provvedimenti gestori pronunciati da Giudice tutelare.
1. Il caso che ha portato all’emersione del contrasto: il rimedio avverso il decreto con il quale il Giudice tutelare ha scelto e nominato un amministratore di sostegno
La questione portata all’attenzione della Suprema Corte sorge da un reclamo proposto dinanzi al Tribunale di Siracusa, in composizione collegiale, con il quale il figlio una beneficiaria si doleva del provvedimento con cui il Giudice tutelare, nel dichiarare aperta l’amministrazione di sostegno a favore della madre, designava quale amministratore un terzo professionista, stante il contrasto insorto tra i parenti intervenuti in quel procedimento. Il Tribunale di Siracusa dichiarava inammissibile il reclamo, indicando la competenza a pronunciarsi sullo stesso della Corte d’Appello territoriale, sostenendo la specialità della previsione di cui all’art. 720-bis c.p.c. rispetto al combinato disposto di cui agli artt. 739 c.p.c. e 45 disp. att. c.c. La Corte d’Appello di Catania, per contro, chiedeva d’ufficio regolamento di competenza, assumendo l’erronea declaratoria di competenza in capo alla Corte territoriale da parte del Tribunale, evidenziando che il reclamo non investiva l’intero decreto con cui veniva anche disposta l’apertura della misura, ma esclusivamente la designazione dell’amministratore di sostegno, escludendo così l’applicazione dell’art. 720-bis, secondo comma, c.p.c. La Sesta Sezione Civile disponeva la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, atteso che analoga divergenza si era manifestata tra diverse pronunce nomofilattiche, cui si sono attenuti rispettivamente gli uffici giudiziari di merito menzionati[1]. All’esito le Sezioni Unite hanno pronunciato il seguente principio di diritto: “I decreti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno sono reclamabili ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2 c.p.c. unicamente dinanzi alla corte d’appello, quale che sia il loro contenuto (decisorio ovvero gestorio)”. L’approfondimento dei passaggi salienti della decisione e dei temi processuali e sostanziali connessi, condotto nei paragrafi successivi, consentirà di osservare la persistente problematicità del tema e l’affatto pacifico approdo degli ermellini con la risoluzione del contrasto.
2. La normativa e i due orientamenti
L’art. 720-bis c.p.c. è stato inserito nel capo II del Titolo II del Libro IV del codice di procedura civile, dedicato ai procedimenti in materia di famiglia e di persone, dalla medesima legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno, in particolare dall’art. 17, comma secondo, della legge 9 gennaio 2004, n. 6. La disposizione normativa disciplina il procedimento in materia di amministrazione di sostegno richiamando alcune delle norme già scritte nel codice in materia di rito relativo all’interdizione e all’inabilitazione, salva la clausola della compatibilità.
Al secondo comma, la disposizione stabilisce che contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c.
Il quesito che si è posto sin da subito, in ordine all’interpretazione di tale precetto, è se il riferimento generico al “decreto” del giudice tutelare riguardi tutti i provvedimenti assunti nella forma di decreto oppure se il singolare sia tutt’altro che accidentale e faccia riferimento, invece, al decreto di accoglimento del ricorso (o di rigetto) e solo a quello.
Mentre tra i commenti della dottrina appare essersi affermata la posizione secondo la quale tutti i decreti pronunciati dal giudice tutelare dovrebbero essere reclamati davanti alla Corte d’appello, a meno che non riguardino l’attività istruttoria[2], in giurisprudenza si è invece andato consolidando l’orientamento secondo il quale la reclamabilità in appello del decreto del giudice tutelare era ritenuta limitata ai soli provvedimenti aventi natura decisoria, come ad esempio il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno oppure quello di chiusura o di revoca della stessa. Stando all’interpretazione letterale della norma, il legislatore avrebbe utilizzato il termine “decreto” al singolare e ciò starebbe a significare che soltanto il decreto circa l’an della procedura sarebbe oggetto di reclamo dinanzi alla Corte d’Appello; stando alla ratio della disposizione di legge, le garanzie del reclamo in Corte d’appello (e del ricorso in cassazione) sarebbe riservato ai soli provvedimenti in grado di incidere sui diritti fondamentali e sulla capacità di agire della persona.
Secondo le prime pronunce di legittimità, a una simile conclusione doveva pervenirsi in considerazione della particolare natura del decreto in esame, che, pur essendo adottato all'esito di un procedimento camerale[3], non sarebbe assimilabile a quelli con cui il giudice tutelare provvede in ordine al compimento degli atti di amministrazione o di disposizione dei beni di soggetti incapaci, ma alle sentenze con cui viene dichiarata l'interdizione o l'inabilitazione; esso, infatti, in quanto attinente ad una controversia avente ad oggetto diritti soggettivi o status della persona, avrebbe carattere decisorio e sarebbe destinato ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus, essendo revocabile e modificabile solo nel caso in cui vengano meno i relativi presupposti o si modifichi la situazione di fatto posta a fondamento della decisione[4]. La riprova di una simile lettura sarebbe data, sempre secondo questo orientamento, dall'art. 720 bis, comma 3, c.pc., il quale prevede che contro il decreto della corte d'appello pronunciato ai sensi del comma 2, può essere proposto ricorso per cassazione[5], che resta invece escluso dall’art. 739 c.p.c. per i decreti pronunciati dal tribunale in sede di reclamo.
L’orientamento si è praticamente consolidato per un decennio, estendendosi anche a provvedimenti autorizzativi del giudice tutelare che, in virtù della distinzione sopra tracciata, anche se apparentemente pronunciati nell’ambito dell’amministrazione in corso e nella gestione della stessa, hanno tuttavia per oggetto diritti personalissimi del beneficiario, come, per citare alcuni significativi esempi, il divieto di contrarre matrimonio[6] e l’autorizzazione a esprimere consenso o rifiuto di cure mediche[7], con conseguente competenza a conoscere il relativo reclamo alla Corte d’appello. La tesi della distinzione tra carattere decisorio e carattere ordinatorio dei decreti del giudice tutelare è stata ribadita anche in pronunce che si sono espresse circa l’ammissibilità o meno del ricorso per cassazione per i provvedimenti che hanno deciso sui reclami avverso i decreti del giudice tutelare[8].
Più di recente si è palesato un orientamento di segno contrario, secondo il quale in materia di amministrazione di sostegno, ai fini della ricorribilità per cassazione del provvedimento emesso dalla corte d'appello, in sede di reclamo avverso il decreto adottato dal giudice tutelare, non occorre indagarne il carattere decisorio e definitivo, perché l'art. 720 bis, comma 3, c.p.c. ammetterebbe espressamente, e in ogni caso, detta impugnazione[9]. Secondo tale orientamento, la disposizione di cui all’art. 720-bis c.p.c. avrebbe carattere speciale e, come tale, sarebbe prevalente su quella generale risultante dagli artt. 739 c.p.c. e 45 disp. att. c.c. e non suscettibile di diversa interpretazione se non quella di dover ammettere al reclamo dinanzi alla Corte d’appello tutti i decreti del Giudice tutelare, senza alcuna necessità di indagare sulla natura decisoria o ordinatoria dei decreti medesimi.
3. La motivazione delle Sezioni Unite per punti e corrispondenti osservazioni
Così può schematizzarsi la motivazione delle Sezioni Unite:
dell’art. 720-bis c.p.c. deve prediligersi una interpretazione letterale; la lettera della norma è il limite al quale deve arrestarsi anche l’interpretazione costituzionalmente orientata, dovendosi semmai sollevare incidente di costituzionalità;
il legislatore ha espressamente previsto quale rimedio ai decreti del Giudice tutelare pronunciati nell’ambito dell’amministrazione di sostegno il reclamo alla corte d’appello; né potrebbe essere data considerazione dirimente al fatto che il secondo comma dell’art. 720 bis c.p.c. faccia riferimento al “decreto del giudice tutelare”, e non ai “decreti del giudice tutelare”, non potendosi inferire dall’uso del singolare o del plurale una sottintesa volontà di individuare in tal modo solo il decreto con il quale si apra la procedura di amministrazione di sostegno;
viene così soddisfatta l’esigenza di assicurare un controllo del giudice tutelare da parte di un ufficio giudiziario diverso da quello cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, un tanto anche quale conseguenza della riforma del giudice unico, in forza della quale furono trasferite al tribunale le competenze delle preture, tra le quali anche quelle del giudice tutelare;
ne derivano plurimi vantaggi sul piano della semplificazione, giacché tale interpretazione assicura immediata individuazione del giudice cui indirizzare la richiesta di controllo del provvedimento impugnato;
per contro, vi sarebbe l’inconveniente della duplicazione dei mezzi di impugnazione, specialmente nel caso in cui la parte intendesse impugnare diverse parti del decreto, di diversa natura;
rimane salva dall’affermazione del principio di diritto sostenuto dalle S.U. per i provvedimenti reclamati suscettibili di ricorso per cassazione, poiché a tal fine la lettera della legge impone in ogni caso la verifica del carattere della decisorietà, quale tradizionalmente elaborato dalla giurisprudenza della Corte.
Dividendo i punti motivazionali in due gruppi, un primo comprendente le lettere a) e b) e un secondo comprende le rimanenti c), d), e) e f), laddove il primo gruppo attiene all’interpretazione letterale e la ratio della disposizione normativa di cui all’art. 720-bis, secondo comma, c.p.c., mentre il secondo gruppo concerne le ulteriori considerazioni che ne derivano sul piano sistematico, possono muoversi le seguenti osservazioni.
a)- b) Per quanto concerne l’interpretazione letterale e la ratio della disciplina.
Il procedimento per l’amministrazione di sostegno è disciplinato dagli artt. 407 c.c. e 720-bis c.p.c., quest’ultimo, oltre a prevedere la reclamabilità del “decreto” del Giudice tutelare dinanzi alla Corte d’appello, richiama altresì le disposizioni relative procedimento per l’interdizione e l’inabilitazione che si applicano a quello per l’amministrazione di sostegno in quanto compatibili (e cioè gli artt. 712, 713, 716, 719 e 720, c.p.c.). La scelta del singolare da parte del legislatore, nell’indicare il provvedimento reclamabile (“il decreto”) non appare casuale né può considerarsi un refuso; nell’ambito delle norme che disciplinano il procedimento, la menzione del “decreto” all’interno della disposizione che ne disciplina la reclamabilità non può che riferirsi al provvedimento che conclude quel procedimento poco prima disciplinato, e cioè appunto il decreto di apertura o di revoca. Se ne trae conferma esaminando l’altra disciplina, quella di cui all’art. 739, c.p.c., in materia di reclamabilità dei decreti pronunciati dal Giudice tutelare all’esito non di un procedimento speciale in materia di protezione di persone prive in tutto o in parte di autonomia, come quello di cui agli artt. 407 e 720-bis c.p.c., bensì di un procedimento in camera di consiglio, previsto per quanto interessa il giudice tutelare per i procedimenti normalmente unilaterali, cioè destinati ad avere efficacia nei confronti di una sola parte, nei quali non sussiste alcuna situazione di conflitto di interesse e tramite i quali si chiede al giudice di effettuare una valutazione di mera opportunità in ordine ad un affare. L’art. 45 disp. att. c.c., infatti, stabilisce cha la competenza a decidere dei reclami avverso i decreti del giudice tutelare spetta al tribunale ordinario quando si tratta dei provvedimenti indicati negli articoli 320, 321, 372, 373, 374, 376, secondo comma, 386, 394 e 395 del codice. A parte i primi due articoli, che trovano come ambito di applicazione esclusivamente la responsabilità genitoriale e la rappresentanza e amministrazione di minore, e gli ultimi due, che concernono esclusivamente l’inabilitazione, gli altri (cioè gli artt. 372, 373, 374, 376, secondo comma, 386, c.c.) sono disposizioni che, anche se scritte con riferimento alla tutela di minori, sono applicabili anche in materia di tutela di interdetti, in forza del richiamo operato dall’art. 424 c.c., così come gli artt. 374, 376 e 386, c.c., sono applicabili anche in materia di amministrazione di sostegno, per espresso richiamo dell’art. 411, c.c., ove si prevede, tra l'altro, che tutti i provvedimenti autorizzativi (dunque anche quelli di cui all’art. 375, c.c., che nell’ambito della tutela di minori e di interdetti sono di competenza del tribunale), siano invece pronunciati dal giudice tutelare.
Non è dato comprendere, pertanto, per quale ragione per i provvedimenti autorizzativi e gestori nell’ambito di una tutela di interdetto sia prevista la reclamabilità dei decreti del Giudice tutelare dinanzi al tribunale, mentre invece per i provvedimenti autorizzativi o comunque gestori pronuncianti dal Giudice tutelare nell’ambito dell’amministrazione di sostegno in corso non possano leggersi le disposizioni legislative applicabili, come sopra richiamate, nel medesimo senso, ossia nel non ravvisarvi carattere decisorio, in quanto non vi è la risoluzione di controversie relative a diritti e status (come invece lo è il decreto che conclude il procedimento ex art. 407 c.c. e art. 720-bis c.p.c.), ma la mera gestione di interessi dell’amministrato.
Ne deriverebbe evidentemente una minore gravosità in termini procedimentali per i provvedimenti gestori pronunciati in una tutela di interdetto, che saranno reclamabili dinanzi al tribunale ordinario, mentre quelli di amministrazione di sostegno, stando al principio di diritto enunciato dalle S.U. saranno invece sempre reclamabili solo alla corte d’appello.
Considerata la diffusione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e la sua vocazione, pacificamente riconosciuta dalle stessa giurisprudenza di legittimità, di essere uno strumento flessibile ed elastico, modellato a misura delle esigenze del caso concreto e che dovrebbe comportare una limitazione dell’amministrato rispetto a determinate attività espressamente previste, senza che ne derivi l’incapacità totale o parziale, l’ultima interpretazione offerta sull’art. 720-bis, secondo comma, c.p.c. implicherebbe che – ad esempio – qualora si voglia reclamare un provvedimento di diniego autorizzativo/gestorio del Giudice tutelare, vi sia nel caso dell’amministrazione di sostegno il maggior onere di rivolgersi alla Corte d’Appello, mentre nel caso di interdizione rimane la prossimità e la semplificazione derivante dalla competenza del tribunale ordinario.
c), d) e) e f) Altre riflessioni di natura sistematica.
Il procedimento per l’apertura dell’amministrazione di sostegno è peculiare, trattasi cioè di un rito a natura mista, dove prevalgono gli elementi della volontaria giurisdizione con prevalente vocazione ad una efficace gestione di interessi, ma possono innescarsi, a seconda dei casi e dato il sistema di rinvii operato dal legislatore, procedimenti contenziosi con i quali si incide sui diritti soggettivi della persona, motivo per cui la difesa tecnica non è di regola necessaria, a meno che, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, incida sui diritti fondamentali della persona, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio[10]. L’opportunità di una distinzione tra provvedimenti decisori, resi all’esito di procedimento che assume carattere prevalentemente contenzioso con le dovute garanzie, e provvedimenti gestori, pertanto, permane anche a voler individuare come giudice competente la sola Corte d’appello, dal momento che il procedimento con cui si decide sul reclamo assumerà anche in quella sede le caratteristiche del procedimento in camera di consiglio, in caso di affari non contenziosi, oppure i principi generali del processo di cognizione in caso di affari di natura contenziosa, come la delimitazione dell’ambito del riesame alle sole questioni devolute con i motivi di gravame, il principio del contraddittorio, il diritto di difesa. L’immanenza di tale distinzione, ove opportunamente tracciata in favore degli operatori che gravitano attorno all’istituto, anche non professionalizzati, avrebbe consentito di semplificare in termini di costi e tempi del procedimento il riesame dei provvedimenti non decisori, mediante un più semplice accesso alla domanda di riesame e una più efficiente gestione degli interessi del beneficiario.
4. Ipotesi di riforma che potrebbe superare il principio di diritto enunciato e attualità della distinzione tra provvedimenti decisori e provvedimenti gestori pronunciati da Giudice tutelare
L’amministrazione di sostegno di sostegno veniva pensata dal legislatore di alcuni anni fa come misura di protezione volta a valorizzare il concreto grado di autonomia che ciascun soggetto che versasse in una condizione, anche temporanea, di cd. “fragilità”, poteva conservare in misura proporzionale alle proprie difficoltà, con lo scopo di limitare il più possibile la limitazione di capacità. La relativa disciplina processuale ne risulta peculiare, scritta in parte mediante regole appositamente pensate per quell’istituto e in parte mediante un rinvio fisso alle norme processuali in materia di interdizione (rinvio operato anche per le norme sostanziali), cercando, laddove possibile, di conciliare l’efficace gestione di interessi (ambito di applicazione dell’istituto, vedi art. 404 c.c.) con la piena tutela giurisdizionale dei diritti inviolabili della persona umana quando questi siano suscettibili di essere compressi da tale gestione. Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, se può offrire una risposta ad esigenze di semplificazione in un contesto di sempre maggior diffusione della misura, con diverse letture territoriali, e ampliamento delle situazioni in cui, anche nella fase gestoria, possa emergere la necessità di tutelare i diritti della persona, rischia, tuttavia, di trascurare la vocazione originaria dell’amministrazione di sostegno di prevalente gestione e composizione di interessi, con le semplificazioni che ne derivano anche in punto di reclamo (sia per la competenza, sia per il procedimento) ove si tratta di discutere solo di questi e non di diritti.
Non è detto, tuttavia, che il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite sia destinato ad affermarsi nell’ordinamento giuridico, se sarà attuata anche per i decreti del giudice tutelare la delega al Governo sulla riforma del processo civile, in quanto il comma 13, lett. a) dell’art. 1 della relativa legge delega il Governo a modificare i procedimenti in camera di consiglio, prevedendo la riduzione dei casi di competenza del tribunale in composizione collegiale e consentendo sempre il rimedio del reclamo di cui all’art. 739 c.p.c. avverso i decreto emessi dal tribunale in composizione monocratica, ma competente per il giudizio di reclamo sarà in ogni caso il Tribunale in composizione collegiale e non la Corte d’appello. Stabilisce infatti l’art. 1, comma 13, lett. a, legge 26 novembre 2021, n. 206: “Nell'esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) ridurre i casi in cui il tribunale provvede in composizione collegiale, limitandoli alle ipotesi in cui è previsto l'intervento del pubblico ministero ovvero ai procedimenti in cui il tribunale è chiamato a pronunciarsi in ordine all'attendibilità di stime effettuate o alla buona amministrazione di cose comuni, operando i conseguenti adattamenti delle disposizioni di cui al capo VI del titolo II del libro IV del codice di procedura civile e consentendo il rimedio del reclamo di cui all'articolo 739 del codice di procedura civile ai decreti emessi dal tribunale in composizione monocratica, individuando per tale rimedio la competenza del tribunale in composizione collegiale”.
Vi è da osservare che, se anche il legislatore intende estendere effettivamente tale delega ai decreti pronunciati dal tribunale monocratico in funzione di giudice tutelare, stabilendo anche per questi ultimi la competenza del tribunale in composizione collegiale per provvedimenti di qualsivoglia natura, si avrebbero indubbi vantaggi, già richiamati sopra, non solo in tema di semplificazione del procedimento, ma anche a garanzia del cd. principio di prossimità della giurisdizione a favore del beneficiario, sia nel caso quest’ultimo richieda il riesame del provvedimento sia nel caso in cui ne rappresenti la parte controinteressata, dovendosi tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste; allo stesso tempo, l’eventuale futura individuazione della competenza per il reclamo del tribunale in composizione collegiale, non implicherebbe il venir meno della distinzione tra provvedimenti decisori e provvedimenti aventi carattere gestorio/amministrativo, dovendo prendere il giudice del reclamo in considerazione, chiunque esso sia, quali siano i principi processuali applicabili e le garanzie imprescindibili a seconda della natura degli interessi in gioco.
[1] Cass. civ., ord. 26.8.2020, n. 17833.
[2] Cfr., tra i tanti contributi, Cipolla, Commento all’art. 720-bis, in Picardi Nicola (a cura di), Codice di Procedura Civile, Milano, 2004; Campese, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. e dir., 2004, p. 137; Chizzini, in Bonilini-Chizzini, L’amministrazione di sostegno, 2007, p. 370; Jannuzzi-Lorefice, La volontaria giurisdizione, Milano, 2006,256; Cozzi, L’amministrazione di sostegno, in Punzi, Il processo civile, Sistema e problematiche, I procedimenti speciali e l’arbitrato, 2010, 121; Pretti, Amministrazione di sostegno e provvedimenti impugnabili con ricorso per cassazione, in Fam e diritto, 2012, X, p. 912; Tommaseo, Amministrazione di sostegno: quale giudice per i reclami?, in Famiglia e diritto, 2017, XII, p. 1099; Bonilini - Tommaseo, Dell'amministrazione di sostegno, II ed., Milano, 2018, 130 ss., 600 ss.; Ficcarelli, Le impugnazioni dei provvedimenti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno, in Il giusto processo civile, 2018, 125 ss.; Nascosi, Amministrazione di sostegno e decreti resi dal giudice tutelare: la parola alle Sezioni Unite, in Nuova Giur. Civ., 2020, VI, p. 1278.
[3] Cass., Sez. lav., 28 ottobre 2003, n. 16223: 22 giugno 2002. n. 9146; 28 novembre 2001, n. 15071.
[4] Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 18634 del 29/10/2012; conforme Sez. 1 - , Sentenza n. 784 del 13/01/2017. In realtà già con la sentenza Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 10187 del 10/05/2011, con nota di Pretti, Amministrazione di sostegno e provvedimenti impugnabili con ricorso per Cassazione, in Famiglia e diritto, 2012, X, p. 912, si è fatto strada questo orientamento, sebbene la questione affrontata in via principale fosse la ricorribilità in cassazione del decreti pronunciati in sede di reclamo avverso provvedimenti del giudice tutelare in materia di amministrazione di sostegno: “E’ inammissibile il ricorso per cassazione, a norma dell'art. 720-bis, ultimo comma, cod. proc. civ., avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di rimozione e sostituzione ad opera del giudice tutelare di un amministratore di sostegno, avendo tali provvedimenti carattere meramente ordinatorio ed amministrativo e dovendo riferirsi tale norma soltanto ai decreti, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, di contenuto corrispondente alle sentenze pronunciate in materia di interdizione ed inabilitazione, a norma dei precedenti artt. 712 e seguenti, espressamente richiamati dal primo comma dell'art. 720-bis”; conforme Sez. 1 - , Sentenza n. 22693 del 28/09/2017; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 3493 del 13/02/2018; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 9839 del 20/04/2018; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 32071 del 12/12/2018.
[5] Ibidem, “In tale contesto, diversamente da quanto affermato nel decreto impugnato, il richiamo dell'art. 739 contenuto nell'art. 720 bis, comma 2, va correttamente riferito alla disciplina del procedimento dinanzi alla corte d'appello, che si svolge nelle forme e con l'osservanza dei termini previsti per il reclamo avverso i provvedimenti in camera di consiglio: l'impossibilità di estendere al procedimento per la nomina dell'amministratore di sostegno l'intera disciplina dettata per l'impugnazione di tali provvedimenti trova d'altronde conferma nell'art. 739, u.c., il quale esclude l'ulteriore impugnabilità dei decreti pronunciati dal tribunale o dalla corte d'appello in sede di reclamo, salvo il caso in cui la legge disponga diversamente”.
[6] Cassazione civile, sez. VI, 22/02/2021, n. 4733.
[7] “Nei procedimenti in tema di amministrazione di sostegno, avverso il decreto con cui il giudice tutelare si sia pronunciato sulla domanda proposta dall’amministratore di sostegno di autorizzazione ad esprimere, in nome e per conto dell’amministrato, il consenso o il rifiuto alla sottoposizione a terapie mediche, è sempre ammesso il reclamo alla corte d’appello, ai sensi dell’art. 720-bis, comma 2, c.p.c., trattandosi di provvedimento definitivo avente natura decisoria su diritti soggettivi personalissimi”, Cassazione civile, sez. I, 07/06/2017, n. 14158
[8] “È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il decreto emesso dalla corte d'appello all'esito del reclamo su un provvedimento reso dal giudice tutelare in tema di autorizzazione alla riscossione di somme capitali, ai sensi dell'art. 374, comma 1, n. 2) c.c., da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, assimilabili alle sentenze di interdizione od inabilitazione, senza estensione a quelli aventi carattere gestorio” Cassazione civile, sez. VI, 13/02/2018, n. 3493; È inammissibile il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di designazione o nomina di un amministratore di sostegno che sono emanati in applicazione dell'art. 384 c.c. (richiamato dal successivo art. 411, comma 1, c.c.) e restano logicamente e tecnicamente distinti da quelli che dispongono l'amministrazione, dovendosi limitare la facoltà di ricorso ex art. 720 bis, ultimo comma, c.p.c., ai soli decreti di carattere decisorio, quali quelli che dispongono l'apertura o la chiusura dell'amministrazione, assimilabili, per loro natura, alle sentenze di interdizione ed inabilitazione, senza estendersi ai provvedimenti a carattere gestorio. Cassazione civile, sez. I, 16/02/2016, n. 2985; Cassazione civile, sez. VI, 23/06/2011, n. 13747.
[9] Cass. civ., Sez. 1 - , Sentenza n. 32409 del 11/12/2019, in Famiglia e diritto, 2020, VII, 707, con nota di Tommaseo. Tra la giurisprudenza di merito Corte appello Bologna, sez. I, 21/10/2014; Tribunale Modena, sez. II, 27/04/2012, n. 718; Corte appello Palermo, 10/02/2011
[10] Cass. civ. Sez. 1, Sentenza n. 6861 del 20/03/2013, con nota di Mercuri, Autonomia di scelta del giudice tutelare, anche in relazione alla presenza del difensore, nel procedimento dell'amministrazione di sostegno, Rivista del Notariato, 2013, VI, 1412; conforme, Cass. civ. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 7241 del 13/03/2020.
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