ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
QUALE GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DOPO IL CASO RANDSTAD ITALIA?
Il Comitato di redazione della sezione Diritto e Processo Amministrativo della Rivista incontra
FRANCO DE STEFANO, LUIGI MARUOTTI e RICCARDO VILLATA
per discutere della sentenza CGUE 21 12 2021 C- 497/20 – Randstad Italia spa.
L’interferenza delle regole del giudizio amministrativo impugnatorio sul giudizio di l.c. in via incidentale (nota a Corte cost., 21 dicembre 2021, n. 248)
di Flaminia Aperio Bella e Alessandra Coiante[1]
Sommario: 1.Premessa: la vicenda e la rimessione alla Corte costituzionale - 2. La dichiarazione di inammissibilità per insufficiente motivazione in punto di rilevanza - 3. Il potere del giudice di sollevare ex officio questioni di legittimità costituzionale e le peculiarità del processo amministrativo - 4. La distinzione tra atto meramente confermativo e conferma propria e i riflessi sugli oneri deduttivi del ricorrente - 5. Riflessioni conclusive: alla ricerca di un equilibrio tra oneri deduttivi e rilevabilità d’ufficio della q.l.c.
1. Premessa: la vicenda e la rimessione alla Corte costituzionale
Nella pronuncia che si annota la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile, per insufficiente motivazione in punto di rilevanza, la q.l.c. dell’art 2, co. 9, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) nella parte in cui subordina la proposizione delle azioni civili nei confronti dei commissari straordinari delle banche alla previa autorizzazione della Banca d’Italia, formula alcune interessanti considerazioni sul rapporto tra atti meramente confermativi e atti di conferma, soffermandosi sugli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente a fronte di questi ultimi e giungendo a conclusioni che producono specifici riflessi sul rapporto tra giudizio amministrativo e giudizio costituzionale con particolare riferimento al tema della rimessione d’ufficio, da parte del giudice amministrativo, di questioni di legittimità costituzionale.
La questione sottoposta all’attenzione della Corte trae origine dall’impugnazione – davanti al TAR rimettente (TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 10 febbraio 2020, n. 1770) – di due provvedimenti con cui il Governatore della Banca d’Italia aveva negato al ricorrente l’autorizzazione a procedere, richiesta ai sensi del citato art. 72, comma 9, t.u.b., nei confronti di alcuni commissari straordinari nominati dalla stessa Banca.
In particolare, con il ricorso introduttivo, il ricorrente chiedeva l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, del provvedimento con cui era stata negata l’autorizzazione, prospettando, altresì, profili di illegittimità costituzionale della suddetta disposizione.
La ricorrente, vedendosi poi respinta l’istanza cautelare, proponeva appello al Consiglio di Stato che, invece, con remand cautelare, ordinava alla Banca d’Italia il “pronto riesame” dell’istanza di autorizzazione rivoltale, alla luce dei motivi illustrati nel ricorso. Insorgendo con motivi aggiunti contro il provvedimento con cui la Banca d’Italia confermava il diniego, la ricorrente riproduceva solo in parte i motivi originari, e in particolare non riproponeva la censura di illegittimità costituzionale, incentrando le proprie contestazioni sulla violazione di legge (compresa quella dell’art 72, co. 9 cit.) l’eccesso di potere, e l’elusione dell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato.
Il TAR, esaminando il merito della questione, rigettava sia il ricorso originario che il motivo aggiunto con sentenza parziale diffusamente motivata; tuttavia, ritenendo meritevoli di “favorevole apprezzamento” le questioni di compatibilità costituzionale prospettate dalla ricorrente, sollevava contestualmente q.l.c. del richiamato art. 72, co. 9 in riferimento agli artt. 3, 24, 28, 47, 97, 101, 102, 103, 111, 113 e 117, comma 1, Cost.. Argomentando in punto di rilevanza, il giudice a quo evidenziava che gli atti impugnati «costituirebbero applicazione diretta della norma sospettata di illegittimità costituzionale» e, stante l’infondatezza delle altre censure, «l’accoglimento del gravame potrebbe derivare esclusivamente dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunciata», per caducazione della fonte normativa presupposta e conseguente illegittimità derivata degli atti impugnati.
2. La dichiarazione di inammissibilità per insufficiente motivazione in punto di rilevanza
In via preliminare, la Corte si sofferma sulla questione dell’ammissibilità della q.l.c. sollevata con sentenza parziale, rilevando che, per costante giurisprudenza della stessa Corte[2], l’utilizzo della forma della sentenza parziale (o non definitiva), in luogo dell’ ordinanza, come atto di instaurazione del giudizio di legittimità costituzionale, non influisce di per sé sull’ammissibilità delle questioni con essa proposte, sempre che il giudice a quo, indipendentemente dal nomen iuris, dopo la positiva valutazione concernente la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni stesse, da un lato, abbia disposto la sospensione del procedimento e la trasmissione del fascicolo, ai sensi dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87 e, dall’altro, non abbia, con lo stesso provvedimento, definito integralmente il procedimento principale.
Quest’ultima eventualità, infatti, ha come conseguenza l’esaurimento della potestas iudicandi del giudice rimettente, situazione che osterebbe alla proposizione della questione di legittimità costituzionale in via incidentale.
Proprio su tale ultimo punto la Banca d’Italia, costituita in giudizio, eccepiva che il TAR, essendosi già pronunciato con sentenza sulla legittimità di entrambi i provvedimenti impugnati, avrebbe già fatto applicazione della norma censurata, consumando così il proprio potere decisorio e rendendo la proposizione delle questioni inammissibile per difetto di rilevanza.
La Corte ha tuttavia dichiarato le questioni inammissibili per ragioni “parzialmente diverse e più articolate di quelle prospettate dalla parte costituita”.
In primo luogo, la Consulta ha analizzato il rapporto intercorrente tra i due provvedimenti di diniego e le censure sollevate avverso gli stessi nel procedimento principale.
Contro il primo provvedimento, infatti, la parte ricorrente avrebbe dedotto motivi volti a contestare, sia il “cattivo esercizio” del potere di autorizzazione da parte della Banca d’Italia (sotto i profili della violazione di legge e dell’eccesso di potere), sia “l’esistenza stessa del potere”, deducendo anche l’illegittimità costituzionale della norma che lo conferisce. Contro il secondo e nuovo provvedimento di diniego, invece, la ricorrente riproponeva la censura di violazione di legge ed eccesso di potere, ma non quella di illegittimità costituzionale della norma attributiva del potere, in luogo della quale veniva lamentata l’elusione dell’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato. Da ciò emergerebbe, nelle parole della Corte, la mancanza di “un autonomo motivo volto a denunciare un vizio di “illegittimità derivata”, scaturente dalla contrarietà a Costituzione della norma di cui il provvedimento stesso ha fatto applicazione”.
Proseguendo la propria argomentazione, la Consulta ha cura di precisare che, nell’ipotesi in cui nel giudizio a quo si fosse discusso esclusivamente del primo provvedimento, “sarebbe agevole osservare che la circostanza che il rimettente abbia negato, con sentenza, il “cattivo esercizio” del potere non escluderebbe che gli resti, comunque sia, da decidere sul motivo relativo all’esistenza del potere: prospettiva nella quale la potestas iudicandi del giudice a quo – contrariamente a quanto sostenuto dalla Banca d’Italia – non risulterebbe esaurita”. La presenza del secondo provvedimento di diniego, tuttavia, impedirebbe di poter concludere in tal senso.
Il TAR rimettente, infatti, avrebbe errato nel non chiarire se il secondo provvedimento avesse natura di atto meramente confermativo – con il quale la p.A. si limita semplicemente a ribadire la volontà espressa in un precedente provvedimento – ovvero di conferma in senso proprio, atto che, invece, va a sostituire in toto il provvedimento originario.
Poiché, secondo la Corte, nel caso di specie si verserebbe nella seconda ipotesi, con conseguente integrale sostituzione del primo provvedimento, il TAR si sarebbe dovuto occupare dei soli motivi proposti avverso il secondo provvedimento, non comprensivi della denuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 79, co. 9, t.u.b. e dichiarati comunque non fondati con sentenza parziale. Tale ultima evenienza avrebbe pertanto portato all’esaurimento “del potere decisorio del rimettente, il quale, non avendo più alcunché su cui pronunciare, non potrebbe sollevare ormai le questioni neppure d’ufficio”.
Di conseguenza, il giudice a quo avrebbe dovuto motivare, in sede di rilevanza, perché sarebbe stato ancora tenuto ad occuparsi – anche dopo la pronuncia di merito emessa – dell’originario secondo motivo di ricorso contro il primo provvedimento di diniego (unico motivo teso a far valere un vizio di “illegittimità derivata”). Tale lacuna si è invece tradotta “in una insufficiente motivazione in punto di rilevanza” che ha portato la Corte a dichiarare inammissibili le questioni così sollevate.
3. Il potere del giudice di sollevare ex officio questioni di legittimità costituzionale e le peculiarità del processo amministrativo
La pronuncia in commento riporta alla luce alcune questioni di particolare rilievo legate al rapporto tra il processo amministrativo, tradizionalmente considerato di tipo impugnatorio, e la possibilità per il giudice amministrativo di proporre d’ufficio questioni di legittimità costituzionale.
Non solo. Nel caso di specie, la problematicità della relazione tra giudizio amministrativo e giudizio di l.c. in via incidentale si è poi intrecciata con l’ulteriore questione della consumazione del potere decisorio del giudice rimettente, discesa da una certa lettura degli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente nel caso di impugnazione di atti di conferma c.d. in senso proprio.
Occorre, dunque, ripercorrere le richiamate tematiche al fine di verificare se i nodi posti dalla fattispecie ricordata e sciolti dalla Consulta si prestassero o meno a soluzioni alternative.
Come noto, secondo quanto stabilito dall’art. 1 l. cost. n. 1/1948 (del quale l’art. 23, comma 3, l. 87/1953 costituisce “semplice reiterazione”)[3], le questioni di legittimità costituzionale in via incidentale possono essere sollevate su istanza di parte oppure rilevate d’ufficio dal giudice.
Tuttavia, la dottrina, già prima dell’inizio del funzionamento della Corte costituzionale, aveva iniziato a interrogarsi sui riflessi che la possibilità di rilevare ex officio una q.l.c. avrebbe potuto avere sul processo amministrativo, tradizionalmente di natura impugnatoria[4].
Nel processo civile, infatti, ove vige il principio del iura novit curia (art. 113 c.p.c.), il giudice, pur essendo vincolato all’allegazione dei fatti prospettati dalle parti nel rispetto del principio della domanda (art. 112 c.p.c.), può (recte: deve) provvedere alla corretta qualificazione giuridica della fattispecie, anche in difformità dalla qualificazione della domanda dedotta dalle parti[5].
Nel processo amministrativo, invece, vi è un affievolimento del principio del iura novit curia dal momento che il giudice non può conoscere se non dei vizi dell’atto dedotti dalle parti (il ricorrente principale e, eventualmente, il ricorrente incidentale) negli atti introduttivi (salvo il caso dei motivi aggiunti), risultando così vincolato alle norme di cui le parti deducono la violazione[6]. Tale vincolo ai vizi-motivi prospettati dalle parti affievolisce, senza dubbio, il potere da detenuto dal giudice amministrativo rispetto a quello, che spetta al giudice civile, di estrarre il fatto dedotto nella causa petendi e di ricondurlo a una fattispecie normativa differente da quella indicata dalle parti.
Questa peculiarità ha catalizzato le riflessioni di dottrina e giurisprudenza nello stabilire se e in che misura la natura impugnatoria del processo amministrativo, e il ricordato affievolimento del margine di manovra del giudice amministrativo rispetto alle disposizioni oggetto del giudizio, potessero essere d’ostacolo alla proposizione d’ufficio di questioni di legittimità costituzionale.
Sul punto è intervenuta, sin da subito, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, stabilendo che il potere di rilievo ex officio di una q.l.c. è attribuito (anche) al giudice amministrativo da una norma costituzionale e il suo esercizio non può essere ostacolato dalla presenza di “principi di legge ordinaria, secondo i quali il Consiglio di Stato può decidere solo sui motivi dedotti dal ricorrente”[7], precisando anche che il suddetto potere è stato “conferito dalla norma costituzionale senza limitazione alcuna” e può essere esercitato “non solo per risolvere dubbi sulla giurisdizione o sui presupposti processuali, ma anche per risolvere quelli concernenti il merito della controversia, cioè la legittimità dell'atto impugnato”.
Come osservato in dottrina[8], a seguito di tale pronuncia, l’attenzione degli studiosi si è spostata sulla possibilità per il g.a. di sollevare d’ufficio una q.l.c. “senza limitazione alcuna”. Una prospettiva definita “più radicale”[9] giungeva a una negazione del sollevamento ex officio della questione di costituzionalità nel giudizio amministrativo, imponendo che la rimessione alla Corte costituzionale fosse sempre subordinata a una specifica doglianza contenuta nel ricorso, poiché, diversamente, si sarebbe rischiato di minare l’integrità del principio dispositivo nel processo amministrativo[10].
Altra parte della dottrina, accogliendo invece una prospettiva “più ragionevole”[11], pur negando la necessità di specifici motivi di ricorso diretti a contestare la l.c. di una data norma come presupposto per l’attivazione del controllo di costituzionalità, ha comunque evidenziato l’esistenza di possibili problemi di armonizzazione e coordinamento tra la natura impugnatoria del giudizio amministrativo e la proposizione ex officio di questioni di legittimità costituzionale[12].
Anche a fronte di queste frizioni interpretative, il giudice amministrativo, nel corso degli anni, ha riconosciuto la propria legittimazione a sollevare q.l.c. d’ufficio, tentando sempre di bilanciare tale potere officioso con la natura stessa del processo amministrativo.
Così se, da un lato, è stato affermato che l’interrogativo in questione costituisce una “anacronistica problematicità”[13], dal momento che la l. cost. n. 1/1948, non prevede alcuna distinzione tra g.a. e g.o., e che “il giudice amministrativo ha, come qualsiasi altra autorità giurisdizionale, il potere di sollevare di ufficio nel corso del giudizio la questione concernente la legittimità costituzionale della norma sulla cui applicazione si controverte”[14]; dall’altro è stato specificato che “nel giudizio amministrativo la q.l.c. sollevabile d’ufficio è solo quella la cui fondatezza può essere rivista come rilevante in quanto strumentale alla positiva definizione delle censure concretamente svolte in ricorso, mentre non può investire aspetti ulteriori che non siano stati dedotti in controversia”[15].
Dunque, se è pacifico che il giudice amministrativo possa sollevare d’ufficio q.l.c., è altrettanto pacifico che una q.l.c. potrà essere sollevata d’ufficio soltanto sulla base delle norme fatte valere nell’atto introduttivo e in eventuali motivi aggiunti e non su altre norme che tali atti non menzionano[16].
Più in particolare, sono state evidenziate due condizioni – una in positivo e una in negativo – per il corretto esercizio del suddetto potere officioso.
Si è così ritenuto che il g.a. è legittimato a sollevare q.l.c. d’ufficio ogni qualvolta debba fare applicazione della stessa norma illegittima (e quindi quando la norma è stata oggetto di un vizio di legittimità dedotto dalle parti e risulta così indispensabile ai fini della definizione della controversia), ma non può sollevare d’ufficio q.l.c. dopo aver deciso il merito del giudizio, posto che, così facendo, ossia applicando la norma sospettata d’illegittimità costituzionale, renderebbe non più rilevante la soluzione della q.l.c. per la definizione del giudizio a quo, andando così incontro a una dichiarazione di inammissibilità della questione per esaurimento del potere decisorio del giudice rimettente[17].
4. La distinzione tra atto meramente confermativo e conferma propria e i riflessi sugli oneri deduttivi del ricorrente.
Dal momento che la carenza di motivazione stigmatizzata dalla Consulta nella propria statuizione di inammissibilità muove dalla qualificazione del secondo diniego come atto di conferma e da una certa lettura degli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente in caso di relativa impugnazione, corre l’obbligo, a questo punto, di approfondire la distinzione tra atti meramente confermativi e atti di conferma propria.
La distinzione, di origine giurisprudenziale, risale alla stessa istituzione della giurisdizione amministrativa[18], rispondendo all’importante esigenza di impedire l’elusione della perentorietà del termine di ricorso[19].
È principio recepito in giurisprudenza che l’impugnazione in via principale di un atto meramente confermativo è inammissibile e tardiva, trattandosi di atto avente valore meramente dichiarativo e ricognitivo di un effetto e di una lesione già prodotti da un provvedimento precedente, che rimane comunque efficace anche dove i primi fossero annullati[20].
Altrettanto condiviso, in linea di principio, è che la distinzione tra atto meramente confermativo e atto di conferma in senso proprio riposa nello svolgimento, quanto al secondo, di una rinnovata valutazione e ponderazione, ovvero un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento[21]: in una parola, in una nuova istruttoria[22]. Segnatamente, il provvedimento di conferma ricorre quando si procede a un riesame della precedente decisione, valutando nuovamente gli elementi di fatto acquisiti ovvero acquisendone di nuovi, come pure ponderando una seconda volta gli interessi coinvolti; invece si ha atto meramente confermativo nel caso in cui è ribadita la decisione assunta nell’atto precedente, senza alcuna rivalutazione degli interessi, né nuovo apprezzamento dei fatti[23].
Caratteristica effettuale della conferma è di “sostituire l’atto confermato, rendendo improcedibile per difetto di interesse il ricorso originariamente proposto contro quest’ultimo”[24].
Senonché, al di là delle affermazioni di principio, la giurisprudenza anche recente dimostra che la distinzione tra atti meramente confermativi e provvedimenti di conferma risulti, nella pratica, tutt’altro che agevole. Così, la “mobilità” che i concetti di nuova valutazione e nuova istruttoria dimostrano di avere in concreto, in una con l’applicazione del principio per cui la natura dell’atto prescinde dal nomen utilizzato e va desunta dalle sue caratteristiche concrete, dà luogo a esiti applicativi difformi dalla (apparentemente monolitica e lineare) distinzione di principio[25].
La complessità della distinzione si aggrava quando il secondo provvedimento intervenga su ordine del giudice. In tal caso, infatti, l’ordine giudiziale (sub specie cautelare) dovrebbe fungere da parametro per verificare il margine di manovra residuo in capo all’amministrazione, incidendo sulla capacità dell’atto assunto in relativa esecuzione e riproduttivo del contenuto di quello previamente emesso a dare luogo o meno alla sostituzione di quest’ultimo.
Il tema si intreccia con il delicato nodo del rapporto tra pronunce cautelari “atipiche” e nuovo esercizio del potere[26]. È noto, infatti, che uno dei principali problemi teorici posti dalla progressiva apertura a misure cautelari diverse dalla mera “sospensiva” è stato, specialmente in riferimento alla tecnica del c.d. remand[27], quello di minare alla strumentalità propria della fase cautelare rispetto al merito, sollecitando l’adozione di un nuovo provvedimento sostitutivo del precedente e quindi potenzialmente satisfattivo dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio. Per quanto qui interessa, il problema attiene specialmente al caso in cui il provvedimento assunto all’esito dell’ordine giudiziale confermi il dispositivo del precedente, risultando, dunque, non satisfattivo per il ricorrente e suscettibile di ulteriore impugnazione. Gli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente variano, infatti, a seconda della natura che si intenda attribuire al secondo atto e, quindi, dei relativi effetti.
Come riconosciuto dalla giurisprudenza più risalente, occorrerebbe guardare all’intensità del contenuto ordinatorio della pronuncia cautelare per stabilire se la relativa esecuzione determini o meno improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso originario[28].
Con specifico riferimento alla tecnica cautelare dell’“accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame” la giurisprudenza maggioritaria si è progressivamente allineata nell’affermare che il suo proprium risiederebbe nel “rimettere in gioco l’assetto degli interessi definito con l’atto impugnato, restituendo alla pubblica amministrazione l’intero potere decisionale iniziale, senza pregiudicarne il risultato finale”[29], sicché il relativo ossequio produrrebbe sempre atti espressivi di nuove, autonome, scelte discrezionali dell'Amministrazione, in presenza delle quali non potrebbe che realizzarsi una sostituzione dell'atto impugnato, con conseguente improcedibilità del ricorso originario.
Al di là di questo orientamento più rigido, non mancano pronunce che, pur inserendosi nel filone che riconosce al remand l’effetto di rimettere integralmente nelle mani della p.A. il potere di ri-pronunciarsi alla luce dei vizi illustrati nel ricorso e ritenuti prima facie fondati, fanno salvo il caso in cui il nuovo provvedimento sia “meramente confermativo del precedente”[30], così dimostrando di disconoscere un netto automatismo tra esecuzione del remandcautelare e sopravvenuta carenza di interesse al ricorso originario. A ciò si aggiunga il recente orientamento che, con specifico riguardo all’esecuzione dell’ordine cautelare di riesaminare la vicenda alla luce della censura di difetto motivazionale, qualifica il nuovo atto alla stregua di una convalida del vizio di motivazione, con conseguente inidoneità a determinare l’improcedibilità del ricorso introduttivo[31].
In ultima analisi i riferiti orientamenti introducono dei fattori di complessità nella (apparentemente lineare) distinzione tra atto meramente confermativo e conferma propria, con specifico riferimento agli oneri deduttivi gravanti sul ricorrente.
È di tutta evidenza, infatti, che altro è proporre motivi aggiunti contro un atto che, pur confermando il dispositivo del precedente, lo abbia integralmente sostituito, con conseguente onere di riproporre specificamente tutti i vizi dedotti contro il provvedimento originario (oltre alla contestazione di eventuali vizi propri), al prezzo di non vederli trattati in sede di definizione del giudizio, altro è impugnare (cautelativamente) un nuovo provvedimento meramente ripetitivo della decisione contenuta nel primo provvedimento, che, se non destinato ad essere automaticamente caducato per effetto della caducazione del primo, quanto meno legittima a limitare le (pur tuzioristiche) censure a vizi di invalidità derivata, oltre alla eventuale contestazione di vizi propri.
5. Riflessioni conclusive: alla ricerca di un equilibrio tra oneri deduttivi e rilevabilità d’ufficio della q.l.c.
I precedenti rilievi dimostrano che l’assioma per cui un provvedimento di conferma propria determina sempre la sostituzione del provvedimento originario si dimostra, nella pratica, meno controllato e consolidato di quanto sembri. Ciò è vero anzitutto perché la distinzione tra conferma e atto meramente confermativo risulta concretamente disagevole; né il problema è risolto nel caso in cui nuovo provvedimento sia assunto a valle di remand cautelare, residuando, anche in tale ipotesi, margini per l’adozione di atti meramente confermativi. In secondo luogo, ove lo consentano il tipo di vizio denunciato nel ricorso e i caratteri del nuovo provvedimento assunto su ordine cautelare, potrebbe ricorrere una convalida, a sua volta inidonea a generare la sostituzione del provvedimento originario (e la conseguente l’improcedibilità del ricorso introduttivo).
Ne risulterebbe scalfita la nettezza dell’affermazione della Consulta che “i soli motivi di ricorso di cui il TAR rimettente doveva occuparsi erano quelli formulati in confronto [al secondo diniego, n.d.r.], ossia i motivi aggiunti”[32], a sua volta ricavata dal carattere “sostitutivo…del provvedimento originario” del nuovo provvedimento assunto su remand cautelare, per la sua natura di conferma in senso proprio.
Se si condivide tale assunto, condividendosi, perciò, che il TAR poteva considerarsi legittimato a un approccio non formalistico, considerandosi investito dell’integralità delle censure mosse contro il primo e il secondo diniego, l’atteggiamento aperturista e attento al principio dispositivo dimostrato dalla Consulta nel respingere l’eccezione di consumazione del potere decisionale per accoglimento con sentenza parziale delle censure contenute nel ricorso originario[33] non aveva ragione di venire meno per il solo fatto che la censura di illegittimità costituzionale non era stata riprodotta nei motivi aggiunti contro il secondo diniego.
La Corte finisce, invece, con l’accogliere appieno l’eccezione che dichiara di respingere, concludendo che l’infondatezza dei motivi aggiunti sancita con sentenza parziale “implicherebbe l’esaurimento del potere decisorio del rimettente, il quale, non avendo più alcunché su cui pronunciare, non potrebbe sollevare ormai le questioni neppure d’ufficio”.
Val la pena, in conclusione, mettere in luce un’aporia: o si ammette o si nega che la sentenza parziale di accoglimento dei motivi determini l’esaurimento del potere decisorio, con conseguente difetto di rilevanza. Una volta escluso tale affetto, la semplice deduzione tempestiva della violazione di una norma della cui illegittimità costituzionale il decidente dubiti, vieppiù se, come nella specie, si tratti della norma attributiva del potere, dovrebbe aprire la strada al sollevamento ufficioso della q.l.c., la cui definizione diviene ex se indispensabile per la definizione del giudizio e dunque rilevante.
La prospettiva proposta, indubbiamente orientata ad allargare le maglie del controllo di legittimità in via incidentale, oltre a non essere estranea alla giurisprudenza costituzionale, che, con molteplici strategie, ha spesso cercato di aumentare le proprie possibilità di cancellare norme incostituzionali[34], preserva l’effettività del giudizio impugnatorio, scongiurando letture formalistiche che, in ultima analisi, aggravano l’onere deduttivo del ricorrente senza avvantaggiare il sistema.
[1] Benché il lavoro sia il frutto di una riflessione comune ed indivisa, i parr. 1-3 sono da attribuire ad Alessandra Coiante e i parr. 4 e 5 a Flaminia Aperio Bella.
[2] La Corte richiama, in particolare, le seguenti pronunce: n. 179 del 2019, n. 126 e n. 116 del 2018, n. 275 del 2013 e n. 94 del 2009.
[3] Il riferimento va, evidentemente, rispettivamente, alle “Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale” e alle “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, ove si legge che «La questione di legittimità costituzionale può essere sollevata, di ufficio, dall’autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio».
[4] V. Andrioli, Profili processuali del controllo giurisdizionale delle leggi, in Atti del I Convegno Internazionale di diritto processuale civile (1950), Padova, 1953. Per approfondimenti su tale ricostruzione v. N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, in federalismi.it, n. 6/2021, 97 ss., spec. 105 nonché amplius Id., Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, Torino, 2008, 30 ss.
[5] In altre parole, il giudice del processo civile è libero di applicare le norme di diritto che meglio ritiene adattabili al caso concreto, ossia di mutare la qualificazione giuridica o il nomen iurs ma con il limite di non sostituzione dell’azione proposta con una diversa fondata su fatti diversi o su una diversa causa petendi. Cfr. A. Carratta, C. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, XXIV ed., 99 ss.
[6] M. Nigro, Giustizia amministrativa, IV ed., 1994, 256 ss.
[7] Cons. St., Ad. Plen., 8 aprile 1963, n. 8, in Giur. Cost., 1963, 1214 ss.
[8] N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale, cit., 105 nonché Id., Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, cit., 30 ss.
[9] N. Pignatelli, Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, op.cit., 30 ss.
[10] In questo senso F. La Valle, La rilevanza nel giudizio amministrativo della incostituzionalità delle leggi, in Giur.it., 1964, 75.
[11] N. Pignatelli, ult. op. cit., 33 ss.
[12] S. Lessona, Riflessi sul giudizio amministrativo della “cessazione di efficacia” pronunciata dalla Corte costituzionale, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea costituente, Firenze, 1969, 353.
[13] TAR Lombardia, Milano, 21 ottobre 2002, n. 1510, in Trib. Amm. Reg., 2002, I, 4318.
[14] Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 1999, n. 138 in Foro Amm. 1999, 355; Cons. Stato 1999, I, 220; Giur. it. 1999, 1312, che ha poi specificato – in linea con la Plenaria richiamata – che: “Secondo l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, il cui disposto è reiterato dall'art. 23, comma III, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la questione di legittimità costituzionale può essere "rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso del giudizio". Una formulazione così ampia e incondizionata indica che il potere di sollevare d'ufficio la questione compete in eguale misura ad ogni giudice senza limitazione alcuna, e cioè non solo per risolvere dubbi su questioni pregiudiziali rilevabili d'ufficio, ma anche per risolvere il merito della controversia. Deve escludersi che l'esercizio in concreto di tale potere, che ha fonte in una norma costituzionale, trovi ostacolo nei principi di legge ordinaria, secondo i quali il giudice amministrativo decide solo sui motivi dedotti dal ricorrente. Vero è, invece, che l'ambito dei poteri di cognizione del giudice amministrativo trova definizione nel quadro normativo complessivo, quale definito, in primo luogo, dalle norme di rango costituzionale”; e che: “(…) va considerato che il giudice, quando si esprime sul provvedimento impugnato, è chiamato, sia pure in modo indiretto ed implicito, a fare applicazione della norma nella quale esso trova legittimazione. In ciò trova giustificazione sul piano sostanziale l'attribuzione del potere di sollevare d'ufficio la questione, ove sussistano dubbi sulla costituzionalità della norma, o di prendere atto della incostituzionalità già dichiarata”.
[15] Cons. Stato, sez. IV, 9 marzo 2012, n. 1349. Nel caso di specie era stato evidenziato che non poteva considerarsi ammissibile una la q.l.c. “sollevata indipendentemente dall'impugnazione dell'atto che implica attuazione della norma di legge che si assume contraria al dettato costituzionale, non essendo notoriamente consentita, nel vigente ordinamento, la diretta sollecitazione, nei confronti del giudice delle leggi, a una pronuncia di verifica della costituzionalità della norma”.
[16] Cfr. N. Pignatelli, ult. op. cit., 37.
[17] Cfr. N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, op.cit., 110 ove l’A. specifica la questione riportando il seguente esempio: “nell’ipotesi in cui il ricorrente impugni un provvedimento con il motivo I per violazione della norma x e il giudice adotti una sentenza non definitiva di rigetto del motivo I, sollevando contestualmente questione di legittimità costituzionale sulla medesima disposizione x, la questione di legittimità costituzionale dovrà ritenersi inammissibile per esaurimento del potere decisorio, posto che la suddetta disposizione x, oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, risulterebbe già applicata e quindi e irrilevante ai fini del giudizio costituzionale; in questa logica può dirsi che il giudice amministrativo non può sollevare questione di legittimità costituzionale dopo aver deciso il merito del giudizio, pur con sentenza non definitiva”.
[18] Cons. Stato, Sez. IV, 21 gennaio 1892, che dichiarò inammissibile il ricorso proposto contro “la risoluzione, provocata da una seconda istanza, la quale non sia che la ripetizione o la conferma della precedente”, citata in P. Stella Richter, L’inoppugnabilità, Molano, 1970, 237.
[19] In dottrina, R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, 2 ed., Torino, 2017, 711 ss. dove si sottolinea che la distinzione, creata dalla giurisprudenza per l’esigenza pratica di evitare l’elusione del termine di proposizione del ricorso, non manca di destare problemi applicativi.
[20] Ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2011, n. 28, in Foro amm. CdS 2011, 194; Id. Sez. V, 21 agosto 2009, n. 5018, ivi, 2009, 1737.
[21] Da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 491.
[22] Individuano il proprium dell’atto di conferma rispetto a quello meramente confermativo nell’apertura di una nuova istruttoria, ex pluribus, Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385; Cons. Stato, Sez. I, 18 febbraio 2021, n. 238; Cons. Stato, Sez. II, 12 giugno 2020, n. 3746; Id., Sez. V, 17 aprile 2020, m. 2447; Id., 11 ottobre 2019, n. 6916.
[23] Negli esatti termini Cons. Stato, Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 491. In senso similare, per l’affermazione che “ricorre un atto meramente confermativo nel caso in cui l’amministrazione ribadisca la decisione assunta nei suoi precedenti atti, senza né rivalutare gli interessi coinvolti né compiere un nuovo apprezzamento dei fatti con una nuova istruttoria; ricorre invece un provvedimento di conferma quando l’amministrazione stessa procede ad un riesame delle proprie precedenti decisioni, valutando nuovamente gli elementi di fatto acquisiti, acquisendone di nuovi, oppure riconsiderando gli interessi coinvolti” Cons. Stato, Sez. IV, 7 maggio 2021, n. 3579; Id. Sez. III, 2 novembre 2020 n. 6723; Id., 9 luglio 2014 n. 3491; Id. Sez. IV 10 dicembre 2009 n. 3491.
[24] C. cost., n. 248/2021 in commento, pt. 5. Nei medesimi termini già Cons. Stato, Sez. IV, 23 aprile 2020, n. 2570; Id. Sez. I, n. 238/2021, cit.
[25] Per l’affermazione della natura di atto di conferma autonomamente impugnabile di un provvedimento con cui l’ANAC, sollecitata a riesaminare un proprio provvedimento (su cui peraltro era disceso il giudicato), dichiarava espressamente che “non si rinviene alcuna rilevante sopravvenienza di fatto che imponga una rivisitazione del provvedimento”, aggiungendo che non “si rinvengono i presupposti per il riesame della delibera a suo tempo assunta e per l’apertura di una nuova istruttoria neppure con la sola finalità di rimodulare le sanzioni da irrogare”, cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. V, n. 491/2022 cit.
[26] Tema che, come acutamente osservato, riflette più in generale i rapporti tra giudice amministrativo e pubblica amministrazione: A. Travi,Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti fra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 1997, 168 ss. Sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, per tutti, E. Follieri, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981; F.G. Scoca, Processo cautelare amministrativo e Costituzione, in Dir. proc. amm., 1983; R. Villata, La Corte costituzionale frena bruscamente la tendenza ad ampliare la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi, in Dir. proc. amm., 1991, 619 ss.; M.A. Sandulli (a cura di) Le nuove frontiere del giudice amministrativo tra tutela cautelare ante causam e confini della giurisdizione esclusiva, Milano, 2004; Id., I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in Foro amm. TAR, 2009; Id., La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 4, 2010. Per un lavoro monografico R. Leonardi, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla l. n. 205 del 2000 al codice del processo amministrativo, Milano, 2011. Tra le opere collettanee M.P. Chiti, La tutela cautelare, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, in S. Cassese (diretto da), Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2013, pp. 153 ss., nonché, se si vuole F. Aperio Bella, Il procedimento cautelare in M.A. Sandulli (a cura di) Il nuovo processo amministrativo. Studi e contributi, II, Milano, 2013, 161 ss.
[27] Si intende fare riferimento alla prassi processuale con cui il g.a., sulla scorta della cognizione sommaria propria della fase cautelare, ordina alla p.A. di riesaminare la situazione alla luce dei motivi di ricorso. Nel rinviare, per una disamina generale delle caratteristiche di tale tecnica cautelare, alla dottrina citata supra, si veda anche C. Cacciavillani, La tutela cautelare nei ricorsi avverso il diniego di provvedimento e l'inerzia della p.A., in Dir. proc. amm., 1, 2002, 91 ss. qui spec. par. 8 nonché, per una recente analisi dei problematici riflessi che l’utilizzo del remandproduce ove solleciti il riesercizio di poteri “consumati” per decorso degli specifici termini imposti dal legislatore, M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria tra procedimento e processo, in Dir. e Soc., 2, 2020, 195 ss., qui 218-219.
[28] Così ad es. Cons. Stato, Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2838, pur resa in un caso di sospensione del provvedimento negativo, in cui si legge “come autorevolmente precisato dalla stessa Adunanza Plenaria di questo Consiglio (27 febbraio 2003, n. 3), l’improcedibilità del ricorso può discendere solo dall’adozione da parte dell’Amministrazione di provvedimenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli imposti dalla necessità di dare esecuzione alla misura cautelare; per contro, la mera esecuzione di un provvedimento cautelare, non presentando profili di discrezionalità nell’an, non comporta il venir meno della res litigiosa”. Con specifico riferimento al confronto tra le tecniche del remand cautelare e dell’ordinanza a contenuto positivo v. R. Garofoli, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in Dir. proc. amm., 2002, 4, 857 ss.
[29] In termini, ex multis, TAR Lazio, sez. II-bis, 7 aprile 2014, n. 3758, secondo cui “essendo il remand una tecnica di tutela cautelare che si caratterizza proprio per rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto gravato, restituendo, dunque, all’Amministrazione l’intero potere decisionale iniziale, senza tuttavia pregiudicarne il risultato finale (…) il provvedimento sopravvenuto deve essere inteso come espressione dell’esercizio di funzione amministrativa e non di mera attività esecutiva della pronuncia giurisdizionale (cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, 2 ottobre 2007, n. 9660; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, sent. 21 settembre 2004, n. 6570; da ultimo, TAR Lazio, Sez. II quater, sentenze 2 luglio 2007, nn. 5890 e 5891)”.
[30] Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2006 n. 5396; TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 17 maggio 2013, n. 1326, più di recente TAR Napoli, Sez. V, 9 giugno 2021, n. 3909.
[31] Così TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 14 giugno 2021, n. 7056, che, ripercorrendo l’insegnamento di Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385, in questa Rivista con nota di F. Aperio Bella, Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio, in tema di convalida del vizio di motivazione, ne fa discendere che l’integrazione della motivazione del diniego originario a opera del secondo atto “non costituisc[e] l’esito di una rinnovata istruttoria e di valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine’, essendosi l’amministrazione limitata a esplicitare ‘con maggiore chiarezza’ i fatti, già acquisti al procedimento, idonei a fondare il diniego di nulla osta”, ciò che attribuisce al provvedimento sopravvenuto la natura di atto di convalida, con conseguente necessità di verificare “la legittimità del diniego ‘come convalidato’”, senza potersi dichiarare l’improcedibilità del ricorso introduttivo.
[32] C. cost., n. 248/2021 in commento, pt. 6.
[33] Ragionando in termini ipotetici e ipotizzando di dover valutare esclusivamente il diniego impugnato con ricorso introduttivo la Consulta afferma, infatti “Qualora nel giudizio a quo si discutesse esclusivamente di tale provvedimento, sarebbe agevole osservare che … la circostanza che il rimettente abbia negato, con sentenza, il “cattivo esercizio” del potere non escluderebbe che gli resti, comunque sia, da decidere sul motivo relativo all’esistenza del potere: prospettiva nella quale la potestas iudicandi del giudice a quo – contrariamente a quanto sostenuto dalla Banca d’Italia – non risulterebbe esaurita” (pt. 4).
[34] Si pensi, oltre alla definizione elastica di “giudice” e di “giurisdizione” ai fini dell’individuazione dei soggetti legittimati a promuovere questioni di l.c. in via incidentale, al più recente argomento della “zona franca” o “zona d’ombra”, ossia alla necessità di non lasciare zone sottratte al controllo di costituzionalità dell’ordinamento, utilizzato dalla Consulta per espandere il proprio controllo di l.c. (per più ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali sia consentito rinviare a F. Aperio Bella, “Ceci n’est pas une note de jurisprudence”: riflessioni a margine del tentativo dell’AGCM di farsi giudice a quo, in Dir. e Soc., 2, 2018, 281 ss.).
La Corte Costituzionale ridisegna l’architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, sanando le fratture tra il volto iniquo della stessa e la società civile. (Nota a Corte Cost. Sent. n. 28/2022) Parte I
di Elena Quarta
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale n. 28/2022: volano per la riqualificazione del sistema delle pene pecuniarie - 2. Le questioni di legittimità Costituzionale per ridisegnare in modo più vitale ed umano il volto dell'art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 - 3. Il contesto normativo: 3.1. Art. 53 secondo comma e art. 58 della legge 24 novembre 1981 n. 689 - 3.2. Il criterio di ragguaglio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 cod. pen. - 4. La sentenza ridisegna in modo vitruviano la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, tassello centrale dell' Ordinamento che è il luogo dell'identità del nostro tempo - 4.1. Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 si ispira al modello dei tassi giornalieri: Significato dell’intervento della Corte costituzionale.
1. La sentenza della Corte costituzionale n. 28/2022\: volano per la riqualificazione del sistema delle pene pecuniarie
Con la sentenza n. 28 depositata il 1 febbraio 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale»[1]. La Corte Costituzionale ha perciò ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna (articolo 459, co. l-bis c.p.p), fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il Governo a modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha sottolineato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza[2]. Si tratta di un intervento che ridisegnando l'architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, di fatto, ha sanato le fratture tra il volto iniquo della stessa e la società civile, in quanto il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasformava di fatto la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti.
Per comprendere al meglio i termini della pronuncia, occorre partire dalle questioni di legittimità Costituzionale sollevate dal Tribunale di Taranto e dal Tribunale di Ravenna che hanno sollecitato l'intervento della Corte Costituzionale.
2. Le questioni di legittimità Costituzionale volte a ridisegnare in modo più vitale ed umano il volto dell'art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689
Nello specifico, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Ravenna, con ordinanza del 5 ottobre 2020, iscritta al n. 177 del r.o. 2020, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale), «nella parte in cui […] prevede che, nel determinare l’ammontare della pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva di durata sino a sei mesi, il giudice individui il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato, da moltiplicare per i giorni di pena detentiva, in un valore […] che non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 c.p., pari a euro 250,00, anziché fare applicazione dei criteri di ragguaglio di cui all’art. 459, co. 1 bis, c.p.c., ovvero poter fare applicazione dei meccanismi di adeguamento di cui all’art. 133 bis del codice penale», denunziandone il contrasto con gli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione[3]. Nel giudizio a quo era accaduto che l'imputato, attinto da decreto penale di condanna, aveva proposto opposizione chiedendo il patteggiamento ex art. 444 c.p.p., con sostituzione della pena detentiva di mesi due e giorni venti di reclusione con quella pecuniaria corrispondente (che, in virtù del ragguaglio ex articoli 53 legge n. 689/81 e 135 del codice penale, veniva ad essere computata in 20.000,00 euro: prodotto della moltiplicazione del valore minimo giornaliero di 250,00 euro per la pena da convertire pari a 80 giorni) e con l'applicazione di una pena finale, senza sospensione condizionale, di euro 22.222,00 (derivante dalla somma della pena detentiva convertita e della multa di euro 2.222,22, già risultante dall'accordo sulla pena ex art. 444 c.p.p. per la fattispecie contestata). Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Ravenna ha riscontrato l’irrazionalità della vigente disciplina normativa dei criteri di sostituzione delle pene detentive brevi in pene pecuniarie posto che, in ragione della sostituzione del valore giornaliero originariamente previsto dall'art. 135 c.p. (38 euro) con quello attuale (250 euro) anche una pena detentiva breve deve essere sostituita dal giudice con una pena pecuniaria di importo considerevole. Il meccanismo in questione risulta pertanto assai oneroso, in contrasto con gli articoli 3, comma 2 (principio di uguaglianza sostanziale) e 27, comma 3 (finalità rieducativa della pena), della Costituzione, sia in quanto costituisce un privilegio per i soli condannati abbienti sia in quanto il ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria era stato previsto come “prezioso strumento destinato a evitare, a chi fosse stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità, di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce” mentre, di fatto si è trasformato nel privilegio di cui sopra. Ha quindi evidenziato come l'art. 53 comma 2, della Legge n. 689/81 rinviando al solo art. 133 ter(in materia di rateizzazione della pena pecuniaria) e non anche all'art. 133 bis non consenta al giudice, di adeguare, nel caso concreto, l’ammontare della pena pecuniaria applicata in sostituzione di quella detentiva alle condizioni economiche effettive del reo, aumentandola o riducendola sino ad un terzo, nel rispetto dei criteri di uguaglianza sostanziale e ragionevolezza, nonché di finalismo rieducativo della pena irrogata[4].
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, con ordinanza del 14 aprile 2021, iscritta al n. 129 del r.o. 2021, ha parimenti sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, «nella parte in cui detta disposizione prevede che, nel determinare il quantum della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, il Giudice individui il valore minimo giornaliero di un giorno di reclusione nella misura della somma indicata dall’articolo 135 c.p., pari a 250,00 euro, anziché nella minor somma di 75,00 € prevista dall’articolo 459, co. l-bis c.p.p.», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). In via subordinata, la stessa disposizione è denunciata, in riferimento ai medesimi parametri, nella parte in cui «non prevede che il Giudice, nel determinare la pena pecuniaria sostitutiva di pena detentiva di durata inferiore a sei mesi, […] possa fare applicazione del criterio di adeguamento della pena pecuniaria minima previsto dall’articolo 133-bis c.p.»[5]. Nel giudizio a quo, era accaduto che l’imputato, attinto da decreto penale di condanna, aveva proposto opposizione; contestualmente l’imputato, il suo difensore ed il pubblico ministero hanno formulato istanza di applicazione della pena ex art. 444 del codice di procedura penale. Le parti hanno chiesto applicarsi nei confronti dell'odierno imputato la pena di 6.750,00 euro, in sostituzione della pena detentiva da loro stabilita in relazione al delitto di cui all'art. 610 del codice penale. Detta sanzione è stata calcolata come segue: pena base pari a quattro mesi e quindici giorni di reclusione, diminuita ex art. 444, comma 1, del codice di procedura penale sino a tre mesi di reclusione, convertita nella corrispondente pena pecuniaria ex art. 53 della legge n. 689/1981; il valore giornaliero attribuito a ciascun giorno di reclusione è individuato nella somma di 75,00 euro, dunque in misura inferiore al valore minimo di 250,00 euro previsto dal combinato disposto di cui al comma 2 dell'art. 53 della legge n. 689/1981 e all'art. 135 del codice penale[6]. Come evidenziato dalla dottrina (V. Aiuti) la comminatoria di una sanzione sostitutiva presuppone la formulazione di un ragionamento di questo tipo:
“se reato x, allora pena y”
ma “se pena y, allora sanzione sostitutiva z”
Provata la colpevolezza dell’imputato, il giudice è incaricato dalla norma penale di produrre certe conseguenze sanzionatorie, normalmente commisurate a norma dell’art. 132 e ss. Cp Se però si verificano determinati presupposti, la l. n. 689/1981 lo autorizza a non applicare le conseguenze sanzionatorie previste dal codice penale, ma quelle previste dalla legge sulle sanzioni sostitutive. Se poi la sanzione sostitutiva da applicare è pecuniaria, la commisurazione non avviene ai sensi dell’art. 133-bis Cp, ma ai sensi dell’art. 53 comma secondo l. n. 689/1981. L’applicazione di una sanzione sostitutiva, insomma, si manifesta a tutti gli effetti come un mutamento del “tipo” di conseguenza sanzionatoria previsto dal codice penale [7].
Com’è noto, nel processo penale la produzione degli effetti giuridici previsti dalle norme non è affare delle parti: nel rito ordinario, le parti possono “applicare” l’art. 133 Cp nel formulare le richieste sanzionatorie, ma da queste il giudice non è comunque mai vincolato. Nel patteggiamento, invece, le richieste delle parti «immettono nel quadro una norma speciale» [8]: il giudice non è più chiamato a valutare quale possibile sanzione deve essere applicata ad un determinato fatto, ma se ad un determinato fatto è possibile applicare una particolare norma sanzionatoria, analiticamente congegnata dalle parti. Si tratta, è evidente, di una disciplina retta dal consenso anticipato di entrambi i contraddittòri, la cui eccezionalità non ne permette l’estensione ad altri riti speciali pur dotati di elementi consensuali. La dinamica del decreto penale si presenta infatti in maniera diversa, perché in questo caso i veri “contraddittòri” sono p.m. e giudice, cui l’imputato si aggiunge solo in un secondo momento [9]. Nel caso del decreto, insomma, le parti non immettono alcuna norma speciale nel quadro decisorio, e il vincolo tra chiesto e pronunciato andrebbe riletto secondo le scansioni ordinarie: il p.m. dovrebbe limitarsi ad esplicitare gli elementi in base ai quali ritiene che, nel caso concreto (dal combinato disposto di una norma penale e dell’art. 459 co. 1-bis Cpp) vadano prodotte certe conseguenze sanzionatorie; il giudice, pur vincolato per legge a poter “applicare” solo una sanzione pecuniaria, potrebbe sempre “irrogarla” – ossia quantificarla – in misura diversa, nei limiti che il nuovo comma 1-bis gli concede. Nel caso del decreto penale di condanna ad una sanzione sostitutiva la corrispondenza tra chiesto e pronunciato sembrerebbe insomma confinata al quantum di pena detentiva richiesta e all’an della sua monetizzazione. La somma giornaliera che, in base alle condizioni economiche dell’imputato e del suo nucleo familiare, determina il costo del singolo giorno di detenzione, resta nella discrezionalità del giudice [10]. Le due ordinanze ponendo questioni analoghe sono state riunite per la trattazione e decise con unica sentenza In quanto entrambi i giudici rimettenti si dolgono in sostanza dell’eccessività del tasso giornaliero di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, che – in forza del rinvio compiuto dal censurato art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 all’art. 135 del codice penale – è attualmente pari a 250 euro. I Giudici delle Leggi hanno sostenuto l’inammissibilità delle questioni poste dall’ordinanza iscritta al n. 177 del r.o. 2020, sollevate dal GIP del Tribunale di Ravenna. La Consulta, infatti, ha ritenuto fondata l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato che aveva in proposito, eccepito l’insufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni. In sostanza ha fondato questa valutazione, sulla scorta del fatto “che il giudice rimettente aveva omesso di illustrare per quale ragione una pena pecuniaria sostitutiva di 20.000 euro in aggiunta alla multa di 2.222,22 euro – oggetto di specifica richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato, in sede di opposizione al decreto penale di condanna per il delitto di assunzione di lavoratori privi di valido permesso di soggiorno – debba ritenersi sproporzionata rispetto alle sue condizioni economiche, sulle quali lo stesso giudice a quo non fornisce alcuna informazione. Tale insufficiente descrizione della fattispecie concreta non consente a questa Corte di apprezzare la rilevanza delle questioni prospettate (sentenze n. 114 del 2021 e n. 254 del 2020; ordinanze n. 136 del 2021 e n. 147 del 2020).
La Corte Costituzionale ha poi proceduto allo scrutinio di ammissibilità delle questioni sollevate dal GIP del Tribunale di Taranto.
Nello specifico la Corte, in primis, ha ritenuto non fondata l'eccezione dell'Avvocatura generale dello Stato che aveva eccepito l’inammissibilità di tali questioni, in difetto di una soluzione costituzionalmente obbligata ai vulnera denunciati.
A sostegno della valutazione di infondatezza la Corte analizza proprio la sentenza n. 214 del 2014, invocata dall’interveniente. In particolare nella suddetta sentenza la Consulta aveva invero ritenuto l’inammissibilità di una questione sollevata sulla stessa disposizione, con la quale il rimettente chiedeva a questa Corte di fissare a 97 euro, anziché a 250, il tasso di conversione giornaliero della pena detentiva in pena pecuniaria. La Corte aveva allora rilevato come la soluzione proposta non fosse «costituzionalmente obbligata», ritenendo necessario un intervento da parte del legislatore in una materia riservata alla sua discrezionalità.
La Consulta partendo da quella sentenza individua come punto di arrivo e di snodo i successivi sviluppi della Giurisprudenza Costitutuzionale. A tal riguardo una ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte, successiva a quella sentenza, non ritiene più che l’impossibilità di individuare un’unica soluzione costituzionalmente obbligata al vulnus denunciato costituisca un ostacolo insuperabile all’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale, ben potendo questa Corte reperire essa stessa soluzioni costituzionalmente adeguate, già esistenti nel sistema e idonee a colmare temporaneamente la lacuna creata dalla stessa pronuncia di accoglimento della questione; ferma restando poi la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, una diversa soluzione nel rispetto dei principi enunciati da questa Corte. E ciò tanto in materia di dosimetria sanzionatoria (sentenze n. 185 del 2021, n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018, n. 236 del 2016), quanto altrove (ex multis, sentenze n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 242 del 2019 e n. 99 del 2019)[11].
In tal senso, il GIP del Tribunale di Taranto aveva indicato in rapporto di subordinazione, due possibili soluzioni a suo avviso costituzionalmente adeguate:
1) la prima consiste nella sostituzione del tasso di 250 euro giornalieri, previsto dall’art. 135 cod. pen., con quello minimo di 75 euro già previsto dall’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale in materia di decreto penale di condanna;
2) la seconda, dall’addizione alla disposizione denunciata della possibilità per il giudice di diminuire sino a un terzo il valore giornaliero di 250 euro in relazione alle condizioni economiche del reo, sulla base di quanto già previsto dall’art. 133-bis cod. pen.
La Corte ha ritenuto altresì non fondata l'eccezione dell'Avvocatura generale dello Stato che aveva eccepito l’aberratio ictus nella quale sarebbe incorso il giudice a quo, il quale erroneamente non avrebbe esteso le proprie censure all’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti): e dunque proprio alla disposizione che ha espunto dal testo della disposizione censurata il riferimento all’art. 133-bis cod. pen., che lo stesso giudice mirerebbe ora a ripristinare mediante la propria domanda formulata in via subordinata.
La Corte ha evidenziato infatti come il Gip del Tribunale di Taranto ha correttamente individuato la disposizione che stabilisce – attraverso il richiamo all’art. 135 cod. pen. – il meccanismo di conversione oggetto delle proprie censure.
D’altra parte, con il petitum formulato in via subordinata il rimettente non mira ad ottenere una – problematica – reviviscenza del frammento normativo che richiamava l’art. 133-bis cod. pen., abrogato dalla legge n. 134 del 2003, come sembrerebbe implicare l’eccezione formulata dalla difesa statale[12]
La Corte altresì in tema di reviviscenza di disposizioni a seguito di sentenze di illegittimità costituzionale, richiama la sentenza n. 7 del 2020 e ivi ulteriori riferimenti. Specificamente nella sentenza n. 7 del 2020 si evidenzia che: “Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate «non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate» (sentenza n. 13 del 2012) ….. In particolare, l’ipotesi della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che sia meramente abrogativa di una norma precedente, la quale torna per ciò stesso a rivivere (sentenze n. 255 del 2019; n. 10 del 2018; n. 218 del 2015),[13] Nella sentenza n. 255 del 2019 si precisa che rientra l’abrogazione di «disposizioni meramente abrogatrici, perché l’unica finalità di tali norme consisterebbe nel rimuovere il precedente effetto abrogativo» e così facendo, in sostanza, il legislatore assume «per relationem il contenuto normativo della legge precedentemente abrogata» (sentenza n. 13 del 2012).[14] Nella sentenza n. 13 del 2012 si specifica altresì che: “l’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé non solo nella giurisprudenza di questa Corte (peraltro, in alcune pronunce, in termini di «dubbia ammissibilità»: sentenze n. 294 del 2011, n. 74 del 1996 e n. 310 del 1993; ordinanza n. 306 del 2000) e in quella ordinaria e amministrativa, ma anche in altri ordinamenti (come quello austriaco e spagnolo). Tale annullamento, del resto, ha «effetti diversi» rispetto alla abrogazione – legislativa o referendaria – il cui «campo […] è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale» (sentenza n. 1 del 1956)”. [15]
Come evidenziato dalla Corte Costituzionale, infatti, il Gip del Tribunale di Taranto individua chiaramente nella facoltà di diminuire sino a un terzo la pena pecuniaria minima prevista dall’art. 133-bis cod. pen. una soluzione normativa già esistente nel sistema, la quale – una volta estesa anche all’istituto della sostituzione della pena detentiva – sarebbe in grado di ricondurre a legalità costituzionale la disposizione censurata.
Dunque si configura una richiesta che la Corte ritiene pienamente ammissibile, alla luce delle considerazioni poc’anzi svolte.
Differentemente invece la Corte dichiara d’ufficio inammissibile la sola questione formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, non avendo il rimettente chiarito per quali ragioni la disciplina censurata ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea: ciò che condiziona in via generale, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, l’operatività dei diritti riconosciuti dalla Carta, e di conseguenza la stessa possibilità di invocarli quali parametri interposti nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 213, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021). Il che naturalmente non esclude la possibilità che i diritti della Carta possano essere utilizzati come strumenti interpretativi nella lettura delle stesse disposizioni costituzionali corrispondenti (come, ad esempio, nelle sentenze n. 33 del 2021, n. 102 del 2020, n. 272 del 2017 e n. 236 del 2016) [16].
3. Il contesto normativo:
3.1. Art. 53 secondo comma e art. 58 della legge 24 novembre 1981 n. 689
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 28 del 2022 si sofferma sul contesto normativo in particolare parte dal ribadire il contenuto della norma che è motivo di doglianza in punto di legittimità e specificamente afferma che “l’art. 53 della legge n. 689 del 1981 prevede che le pene detentive brevi possano essere sostituite dal giudice con le pene sostitutive della semidetenzione, della libertà controllata e della pena pecuniaria entro i limiti massimi, rispettivamente, di due anni, un anno e sei mesi”. Non dimentica tuttavia di evidenziare la collocazione della suddetta norma a livello sistematico facendo riferimento al successivo art. 58 che “disciplina l’esercizio di tale potere discrezionale da parte del giudice. Sulla base dei generali criteri per la commisurazione della pena indicati dall’art. 133 cod. pen., il giudice valuta anzitutto se sostituire la pena, essendo tenuto a non farlo allorché presuma che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato, oltre che in presenza delle cause ostative enumerate dall’art. 59 della stessa legge n. 689 del 1981; nel caso poi in cui opti per la sostituzione, «sceglie quella più idonea al reinserimento sociale del condannato»”[17].
Nel prosieguo la Consulta si sofferma sull'ultima modifica dell'art. 53 ad opera dell’art. 4 della legge n. 134 del 2003, che ha fatto sì che la disposizione preveda, in particolare, un sistema di determinazione della pena pecuniaria sostitutiva per tassi giornalieri, la lettera della norma infatti recita: il giudice «individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva», tenendo conto – ai fini della determinazione di tale valore giornaliero – «della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare». Tale valore giornaliero non può peraltro «essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare». La pena pecuniaria complessiva risultante può, infine, essere soggetta al beneficio della rateizzazione previsto dall’art. 133-ter cod. pen., pure richiamato dalla disposizione in esame[18].
3.2. Il criterio di ragguaglio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 cod. pen.
Le censure del GIP del Tribunale di Taranto si appuntano sul limite minimo del tasso di conversione giornaliero che il giudice è tenuto a stabilire: limite minimo determinato mediante il rinvio, pacificamente considerato come “mobile”, all’art. 135 cod. pen. [19].
La Consulta ha poi richiamato la sentenzache ha ben individuato la genesi del problema, ossia la sentenza n. 214 del 2014 da cui emerge che “ il criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen. – il quale consente di impostare in termini matematici una proporzione fra entità, in sé, palesemente eterogenee – nella versione originaria del codice penale, era contenuto in in cinquanta lire di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva”, ha dovuto assumere le forme della contemporaneità, soprattutto a seguito del passaggio dalla Lira all'Euro. Il risutato è stato, come emerge nero su bianco dalla sentenza n. 214 del 2014 che “il criterio di ragguaglio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive di cui all’art. 135 cod. pen. – e, con esso, l’importo minimo delle pene pecuniarie applicabili dal giudice in sostituzione delle pene detentive brevi – è stato, come detto, quasi quintuplicato, con un aumento in termini reali stimabile nel 349,64% e, quindi, enormemente superiore” [20].
La Consulta specifica altresì che, l'importo di “cinquanta lire di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. “ è stato oggetto di reiterati interventi di adeguamento, sollecitati dalla progressiva perdita del potere di acquisto della moneta, cui ha fatto da contraltare un contemporaneo aumento delle pene pecuniarie previste dalle singole norme incriminatrici, sulla base di un moltiplicatore talora identico (artt. 3 e 6 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 679, recante «Modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale»; artt. 101 e 113 della legge n. 689 del 1981), talaltra più o meno significativamente differenziato (artt. 5 e 7 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 21 ottobre 1947, n. 1250, recante «Aumento delle sanzioni pecuniarie in materia penale»; artt. 1 e 3 della legge 12 luglio 1961, n. 603, recante «Modificazioni agli articoli 24, 26, 66, 78, 135 e 237 del Codice penale e agli articoli 19 e 20 del regio decreto-legge 20 luglio 1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935 n. 835») [21].
La sentenza n. 214 del 2014 richiama inoltre le molteplici modifiche che hanno ridisegnato la norma in modo disarmonico, nello specifico afferma che “...in particolare, l’art. 101 della legge n. 689 del 1981 innalzò da 5.000 a 25.000 lire per ogni giorno di pena detentiva tale coefficiente, che fu ulteriormente elevato a 75.000 lire dalla legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135 del codice penale: ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive); somma poi arrotondata a 38 euro in seguito all’introduzione della moneta unica.
Infine, la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha drasticamente innalzato il criterio di ragguaglio alla misura oggi oggetto delle censure del rimettente, pari a 250 euro giornalieri: con una modifica che, come sottolineato ancora nella sentenza n. 214 del 2014, «torna a vantaggio dell’imputato, allorché sia la pena pecuniaria a dover essere ragguagliata alla pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della fruibilità dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale); mentre va a suo discapito nell’ipotesi inversa, così come tipicamente avviene quando si discuta dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 53 della legge n. 689 del 1981»” [21].
A seguito di questa attenta disamina la Corte Costituzionale nella sentenza n. 28 del 2022 dichiara la fondatezza delle questioni sollevate dal GIP del Tribunale di Taranto sull’eccessività di tale limite minimo, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., sono fondate [22].
4. La sentenza ridisegna l'architettura della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, tassello centrale dell'Ordinamento che è il luogo d'identità del nostro tempo
La sentenza n. 28 del 2022 ribadisce altresì che “ Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (per una più estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019), ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012, n. 409 del 1989, n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 136 e 73 del 2020, n. 284 e 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 341 del 1994). Il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità.Il limite costituzionale in parola non può non valere anche per la pena pecuniaria, che è una sanzione criminale a tutti gli effetti, seppur con una precisazione imposta dalla sua stessa natura”. [23].
Emerge dunque da questo passaggio che la parola Proporzione, una parola che, nella Grecia Classica era segno di perfezione.
Si ricordi infatti che Vitruvio, architetto e scrittore romano, autore del De architectura, unico Trattato di Architettura dell'antichità pervenutoci, nel libro terzo scrive che «La composizione del tempio è una simmetria; il cui calcolo gli architetti debbono scrupolosamente conoscere e applicare. La simmetria nasce dalla proporzione, in greco ἀναλογία. E la proporzione è la commisurabilità di ogni singolo memebo dell'opea e di tutti i memebri nell'insieme dell'opera, per mezzo di una determinata unità di misura o modulo; questa commisurabilità costituisce il calcolo o sistema delle simmetrie. È infatti chiaro che nessun tempio potrebbe presentare un sistema di costruzione senza simmetria e senza proporzione; se cioè non abbia avuto un esatto calcolo delle sue memebra, come nel caso di un uomo ben formato.» [24]
Dunque la parola Proporzione continua nella modernità a preservare il significato di perfezione divenendo anche la parola chiave del sistema sanzionatorio.
Per sottolineare l'importanza del binomio proporzione e pena pecuniaria la Corte richiama la sentenza n. 131 del 1979 in cui si ribadisce che “ la pena detentiva comprime la libertà personale, che è «bene primario posseduto da ogni essere vivente», mentre la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che «non inerisce naturalmente alla persona umana»; di talché la pena pecuniaria naturalmente «comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati». Dunque, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato. Di qui, aveva proseguito questa Corte, la ricerca da parte di molti legislatori contemporanei «di rimedi, atti a salvaguardare l’efficacia e la concreta uguaglianza dell’effetto della pena pecuniaria, mediante meccanismi d’adeguamento alle diverse condizioni economiche dei condannati».
Un tale adeguamento, come rileva l’odierno rimettente, deve ritenersi imposto dal principio di eguaglianza, da cui discende il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3, secondo comma, Cost.).
Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, il vaglio che questa Corte è chiamata a compiere sulla manifesta sproporzione della pena pecuniaria non potrà che confrontarsi con il dato di realtà del diverso impatto del medesimo quantum di una tale pena rispetto a ciascun destinatario. Tale diverso impatto esige di essere “compensato” attraverso uno di quei rimedi cui aveva fatto cenno la sentenza n. 131 del 1979, in modo che il giudice sia posto nella condizione di tenere debito conto – nella commisurazione della pena pecuniaria – delle condizioni economiche del reo, oltre che della gravità oggettiva e soggettiva del reato [25]. La Corte Costituzionale conscia delle necessità di considerare il diritto comparato ossia storie ed esperienze sedimentate degli altri ordinamenti, ricorda - in riferimento alla illegittimità costituzionale di pene pecuniarie suscettibili di risultare gravemente sproporzionate rispetto alle concrete condizioni economiche dei singoli condannati -, la sentenza della Corte Suprema del Canada del 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault, 3 SCR 599)” [26].
La sentenza Corte Suprema del Canada del 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault,infatti nel caso di specie ha dichiarato incostituzionale la sovrattassa obbligatoria per le vittime prevista a carico di tutti i condannati per un crimine. La suddetta pratica, trasformatasi da opzionale ad obbligatoria per il Magistrato a partire dal 2013, aveva sì uno scopo nobile ma veniva attuata senza considerare che la maggior parte del tessuto sociale inquinato dalla criminalità vive in condizioni di indigenza [27].
Questo passaggio fa capire l'enorme importanza della sentenza n.28 del 2022 che ridisegna in modo vitruviano la pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva, ossia un aspetto importantissimo del sistema sanzionatorio. La scrivente, in tal senso evidenzia che il sistema sanzionatorio è il cuore dell'ordinamento giuridico che è il luogo della nostra identità ed oggi più che mai è luogo per eccellenza del nostro tempo. Non occorre dimenticare, infatti che il codice è molto di più di un luogo di conservazione ed esposizione di norme. È importante staccarsi dal concepire il sistema normativo come se fosse un Museo. Appunto, come poc'anzi affermato, è un luogo di identità, un luogo che rispecchia la civiltà della nostra Nazione. Come affermato da autorevole dottrina (VG. Severini, P. Carpentieri) l'ordinamento è specchio di una società e del suo sistema di valori, nel diritto non esiste bene giuridico, materiale o immateriale, che non sia preso in considerazione come tale e dunque regolato per un “valore” che lato sensu è comunque culturale: ossia per quanto questo esprime, e merita di essere disciplinato, nelle relazioni intersoggettive, che di loro sono “culturali” perchè espressione di una data Kutur [28].
Preso atto della inadeguatezza del sistema carcero-centrico, la scrivente è convinta che è possibile ripensare il sistema carcerario attraverso dei piccoli correttivi al sistema delle pene pecuniarie. Lo studioso Bosch affermava: “il legislatore Rocco non utilizzando le potenzialità politico-criminali della pena pecuniaria, ha fatto invecchiare di mezzo secolo il codice penale in uno dei suoi punti decisivi” [29].
Solo riformando le pene pecuniarie è possibile restituire al carcere la sua originaria funzione che è quella di custodire gli uomini, non punitiva. Un aspetto ben descritto da Ulpiano che sulla scia dei precetti della normazione Imperiale, biasimava l'abitudine di alcuni governatori di erogare condanne a pene detentive:
I governatori delle province sono soliti condannare al carcere o ai ceppi: ma non è opportuno che infligga non simili punizioni, poiché è fatto divieto di erogare pene di questo tipo. Il carcere, infatti, è destinato a custodire gli uomini, non a punirli (Dig 48.19.8.9) [30].
4.1. Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 si ispira al modello dei tassi giornalieri: significato dell’intervento della Corte costituzionale
La Corte Costituzionale altresì richiama la famosa sentenza n. 131 del 1979, attraverso la quale “il diritto comparato mostra poi che numerosi ordinamenti hanno adottato in via generale – proprio per meglio assicurare l’eguaglianza “sostanziale” – il sistema cosiddetto dei tassi giornalieri, caratterizzato dalla scomposizione del processo di commisurazione della pena pecuniaria in due fasi distinte: una prima fase, nella quale si stabilisce, sulla base della gravità oggettiva e soggettiva del reato, il numero delle quote giornaliere che il condannato è tenuto a pagare; e una seconda fase, in cui viene fissato il valore di ciascuna quota, sulla base delle condizioni economiche del condannato stesso – e in particolare della quota di reddito giornaliero che si presume egli possa ragionevolmente impiegare per il pagamento della pena pecuniaria, tenuto conto anche dell’ammontare del patrimonio di cui risulti disporre [31].
Secondo Boaventura de Sousa Santos, sociologo e antropologo del diritto portoghese, il pluralismo giuridico è il concetto chiave della concezione post – moderna del diritto. Non si tratta , secondo lo studioso, del pluralismo giuridico inteso come esistenza di diversi ordinamenti giuridici “ concepiti come entità separate presenti nel medesimo spazio politico-sociale”, ma di una concezione secondo la quale “ spazi giuridici sono imposti, e intrecciati nella nostra mente e nelle nostre azioni giuridiche”. ( B. de Sousa Santos, “Law. A Map of Misreading. Toward a Postmodern Conception of Law” in Journal of Law and Society, 1989) Sousa Santos mette in luce la molteplicità e insieme l’intreccio di norme di origine diversa- statale, transnazionale, consuetudinaria, religiosa , familiareche influenzano le azioni e le scelte delle persone, dando luogo a ciò che egli definisce interlegalità. Sostiene lo studioso che “ Forse più di ogni altra epoca , viviamo in un tempo di porosità e, pertanto anche di porosità giuridica, di diritto poroso costituito da molteplici reti di giuridicità che ci obbligano a costanti transizioni e trasgressioni. La vita socio-giuridica di fine secolo è, così, costituita dalla interazione di differenti linee di frontiera giuridiche, frontiere porose e, come tali, simultaneamente aperte e chiuse. Questa intersezione io la chiamerei interlegalità, dimensione fenomenologica del pluralismo giuridico”. (B. de Sousa Santos, “Stato e diritto nella transizione post-moderna, Per un nuovo senso comune giuridico” in Sociologia del diritto, 3, 1990). Il pluralismo giuridico non è dunque , secondo Sousa Santos, una realtà , ma una teoria, la rappresentazione fenomenica della quale è l’interlegalità, ove il soggetto opera continuamente scelte tra norme prodotte da ordini diversi [32].
La stessa Corte nella sentenza n. 22 del 2022, in riferimento al sistema dei tassi giornalieri, tenendo ben presente questo concetto suggestivo degli “ spazi giuridici...intrecciati nella nostra mente e nelle nostre azioni giuridiche”. elaborato dal sociologo Boaventura de Sousa Santos, cita a livello esemplificativo immagini estemporanee di altri ordinamenti europei contemporanei l’art. 131-5 del codice penale francese” [33], il § 40 del codice penale tedesco, il § 19 del codice penale austriaco, l’art. 50 del codice penale spagnolo, l’art. 47 del codice penale portoghese[34] )” [35] .
La Consulta partendo da questa premessa sulla disposizione oggetto di doglianza (Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689) specifica che “si ispira, in effetti, al modello dei tassi giornalieri, stabilendo che per ogni giorno di pena detentiva sostituita il giudice debba individuare il «valore giornaliero cui può essere assoggettato l’imputato», tenendo conto «della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare»”. Nel prosieguo evidenzia il relativo punto debole ossia che la norma scrutinata “prevede altresì che tale valore giornaliero non possa essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 cod. pen., che, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 94 del 2009, è oggi pari a 250 euro. E tale limite minimo è attualmente da intendersi come inderogabile, non essendo più possibile la diminuzione sino a un terzo che in precedenza era consentita dal richiamo all’art. 133-bis cod. pen., ora eliminato dal testo della disposizione censurata per effetto delle modifiche introdotte dalla legge n. 134 del 2003” [36]. La Corte Costituzionale in questa lucida analisi ci restituisce un'immagine non astratta, ma molto concreta e della società contemporanea affermando che “ Una quota giornaliera di 250 euro è, all’evidenza, ben superiore a quella che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare, in relazione alle proprie disponibilità reddituali e patrimoniali. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone, sol che si consideri ad esempio – come già osservato nella sentenza n. 15 del 2020 – che «il minimo legale della reclusione, fissato dall’art. 23 cod. pen. in quindici giorni, deve oggi essere sostituito in una multa di almeno 3.750 euro, mentre la sostituzione di sei mesi di reclusione (pari al limite massimo entro il quale può operare il meccanismo previsto dall’art. 53, comma 2, della legge n. 689 del 1981) dà luogo a una multa non inferiore a 45.000 euro»” [37].
D’altronde nello stesso comunicato del 1 febbraio 2022 la Corte Costituzionale pone in evidenza quello che è l'emblematico caso esaminato dal Tribunale di Taranto, ossia “una persona condannata per violenza privata, per il parcheggio dell’auto davanti a un passo carraio, aveva patteggiato la sostituzione della pena di tre mesi di reclusione e quindi, in base alla norma censurata, avrebbe dovuto pagare ben 22.500 euro, molto più dei suoi redditi annui.”[38]. Nel prosieguo ribadisce il drammatico quadro già emerso nella sentenza n. 15 del 2020, ossia una presa d'atto che una quota giornaliera di conversione così elevata «ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce». Al tempo stesso, la disposizione censurata ha finito per «trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti», in contrasto con l’art. 3 Cost [39]. Come evidenziato dalla Corte infatti, è proprio in risposta a queste invisibili escussioni continue che, rompendo la dicotomia tra preservamento ed avanguardia è stato posto il “criterio stabilito dall’art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), con cui si delega il Governo a prevedere che il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato il condannato in caso di sostituzione della pena detentiva, debba essere individuato, nel minimo, «in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale», così da «evitare che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del condannato»”[40]. La Corte dunque prende atto del cortocircuito che si pone nel sistema sanzionatorio ed a due anni dal monito contenuto nella sentenza n. 15 del 2020 pone in essere un intervento commentativo. Un intervento che da commentativo diventa operativo e conscio delle ricadute a livello sociale, vuole evitare gli effetti nocivi che potrebbe avere “la semplice ablazione della disposizione censurata renderebbe impossibile la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria”, in quanto ciò avrebbe come diretta conseguenza il pregiudizio della “ funzionalità di uno strumento importante, anche se oggi sottoutilizzato proprio in ragione dell’incongruità della disciplina censurata, per «contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria» (sentenza n. 179 del 2017): ciò che determinerebbe un «insostenibile vuoto di tutela» per interessi costituzionalmente rilevanti (sentenza n. 185 del 2021, nonché sentenza n. 222 del 2018)”[41]. Ed è questo punto che la Corte prendendo atto della vulnerabilità dell'ordinamento che non riesce a dare tutte le risposte, offre una narrazione che ridisegna l'architettura dell'ordinamento. Nello specifico ridisegna l'architettura dell'ordinamento adeguandola alle richieste di giustizia della società civile, affermando in tal senso la necessità di “reperire nel sistema soluzioni normative già esistenti, che consentano di porre almeno provvisoriamente rimedio agli accertati vizi di legittimità costituzionale, assicurando al contempo la perdurante operatività della sostituzione della pena detentiva. Al riguardo, questa Corte non può allo stato che ricorrere alla soluzione – suggerita dal petitum formulato in via principale dal giudice rimettente – consistente nella sostituzione del minimo di 250 euro con quello di 75 euro per ogni giorno di pena detentiva sostituita, stabilito dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in relazione al decreto penale di condanna; soluzione che peraltro poco si discosta, nell’esito pratico, da quella – prospettata attraverso il petitum formulato in via subordinata – di ripristinare la possibilità per il giudice di diminuire sino a un terzo la pena pecuniaria minima, prevista in via generale dall’art. 133-bis, secondo comma, cod. pen. (ciò che condurrebbe a fissare a circa 83 euro il minimo del valore giornaliero))Non è invece necessaria – né è richiesta dal rimettente – alcuna modifica relativa al massimo del valore giornaliero, che deve pertanto rimanere ancorato alla misura – fissata dal legislatore – pari a dieci volte l’ammontare stabilito dall’art. 135 cod. pen., e dunque, oggi, a 2.500 euro; ciò che consente di mantenere una differenza di regime tra l’ordinaria sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, disciplinata dalla disposizione censurata, e quella speciale prevista dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in materia di decreto penale di condanna, che prevede un valore giornaliero massimo pari a tre volte la somma di 75 euro (e cioè pari a 225 euro)”[42].
In definitiva la Corte restituisce centralità all'individuo ed alla società civile tutta affermando che , “la disposizione censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui, al quarto periodo, prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale»”[43]. In sostanza la Corte restituisce vivibilità al sistema sanzionatorio che, nel momento in cui l'individuo sbaglia, altri non è che un luogo dell'incontro tra lo stesso individuo e lo Stato.
Art. 53 secondo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689
(…) La sostituzione della pena detentiva ha luogo secondo i criteri indicati dall'articolo 57. Per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale puo' essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell'ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condi-zione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non puo' essere inferiore alla somma indicata dall'articolo 135 del codice penale e non puo' superare di dieci volte tale ammontare. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l'articolo 133-ter del codice penale.
| (…) La sostituzione della pena detentiva ha luogo secondo i criteri indicati dall'articolo 57. Per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale puo' essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell'ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condi-zione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non puo' essere inferiore a 75 euro e non puo' superare di dieci volte tale ammontare*. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l'articolo 133-ter del codice penale.
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*Art. 459. Casi di procedimento per decreto. Codice di procedura penale
1-bis. Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell’ammontare di cui al periodo precedente il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma di euro 75 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non può superare di tre volte tale ammontare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del codice penale. () Comma inserito dall’art. 1, comma 53, L. 23 giugno 2017, n. 103.
[1] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[1] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[2] Comunicato del 1 febbraio 2022 dell'Ufficio stampa della Corte Costituzionale, Troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria, consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20220201123330.pdf
[3] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[4] A. LARUSSA, Pena detentiva breve sostituita con pena pecuniaria,Altalex , 10/02/2021 consultabile al seguente indirizzo url https://www.altalex.com/documents/news/2021/01/07/sostituzione-di-pena-detentiva-in-pena-pecuniaria-questione-rimessa-alla-consulta
[5] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[6] Ordinanza del 14 aprile 2021 del G.I.P. del Tribunale di Taranto consultabile al seguente indirizzo url https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-09-15&atto.codiceRedazionale=21C00188
[7] V. Aiuti, Condanna per decreto alla pena pecuniaria sostitutiva, La legislazione penale, 16.12.2017, consultabile al seguente indirizzo url http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/12/V-Aiuti-Condanna-per-decreto-alla-pena-pecuniaria-sostitutiva.pdf ; L’Autore cita G. Giostra, Formalità e garanzie nell’applicazione delle «nuove» sanzioni sostitutive, in PD 1982, 279; G. Paolozzi, Il procedimento alternativo, cit., 208 – 211; L. Marafioti, In tema, cit., 201; G. Piziali, Il procedimento, cit., 522. La “traccia” di questo percorso logico è contenuta nel dispositivo della sentenza, che deve menzionare (art. 61 l. n. 689/1981) sia la sanzione che avrebbe dovuto essere applicata a norma del codice, sia quella che viene applicata in concreto grazie alla disciplina sulle sanzioni sostitutive.
[8] V. Aiuti cita F. Cordero, Procedura penale Milano 2012
[9] V. Aiuti, Condanna per decreto alla pena pecuniaria sostitutiva, La legislazione penale, 16.12.2017 evidenzia che: “«Nel nuovo codice l’emissione del decreto penale è frutto di un confronto dialettico tra chi il provvedimento ha chiesto e chi il provvedimento deve emettere» (E. Selvaggi, sub art. 460 Cpp, in Commento Chiavario, cit., 873, corsivi nostri). Questo ritardo è però compensato sul piano degli effetti, visto che le scelte dell’imputato possono ricusare del tutto la soluzione monitoria della vicenda (è la memoria difensiva sulla Natura giuridica dell’opposizione al decreto penale di condanna di G. Vassalli di fronte a C. cost. 18.3.1957 n. 46 a definire l’opposizione, sulla scia di G. Delitala [Il divieto della reformatio in pejus nel processo penale, Milano 1927, 11], come un modo dell’imputato per «ricusare una forma di procedimento che per il suo carattere di sommarietà ha portato al sacrificio dei suoi diritti di difesa» [in GCos 1957, 587, corsivo nostro]))”
[10] V. Aiuti, Condanna per decreto alla pena pecuniaria sostitutiva, La legislazione penale, 16.12.2017, consultabile al seguente indirizzo url http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/12/V-Aiuti-Condanna-per-decreto-alla-pena-pecuniaria-sostitutiva.pdf
[11] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[12] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[13] Corte Cost. n. 7 del 2020 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[14] Corte Cost. n. 255 del 2019 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[15] Corte Cost. n. 13 del 2012 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[16] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[17] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[18] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[19] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[20] Corte Cost. 09 luglio 2014 n. 214 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[21] Corte Cost. n. 214 del 2014
[22] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[23] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[24] Vitruvio, Architettura, Introduzione di Stefano Maggi, testo critico traduzione e commento di Silvio Ferri, BUR, 2002
[25] La Corte nella sentenza n. 28 del 2022 evidenzia altresì che “ A questa esigenza è ispirato, nell’ordinamento italiano, l’art. 133-bis cod. pen., che, al primo comma, impone al giudice di tenere conto delle condizioni economiche del reo nella determinazione dell’ammontare della multa e dell’ammenda e, al secondo comma, prevede la possibilità di un aumento sino al triplo del massimo stabilito dalla legge, nonché di una diminuzione sino a un terzo del minimo, allorché il giudice ritenga «che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa». Analogamente, in materia di sanzioni amministrative pecuniarie, l’art. 11 della legge n. 689 del 1981 dispone che, in sede di determinazione di tali sanzioni, si debba tenere conto, oltre che della gravità della violazione e di eventuali condotte compiute dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle sue conseguenze, anche della personalità e delle condizioni economiche dell’agente medesimo; mentre, nel settore specifico delle violazioni in materia di tutela dei mercati finanziari – caratterizzato da sanzioni pecuniarie amministrative di natura punitiva e di impatto potenzialmente assai significativo – l’art. 194-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) parimenti dispone che nella determinazione dell’ammontare delle sanzioni debba tenersi conto, tra l’altro, della «capacità finanziaria del responsabile della violazione» (comma 1, lettera c).”
[26] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[27] Corte Suprema del Canada, sentenza del 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault,consultabile al seguente indirizzo url https://scc-csc.lexum.com/scc-csc/scc-csc/en/item/17416/index.do
[28] VG. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convezione di Faro “ sul valore del patrimonio culturale per la società”: : politically correct vs. tutela dei beni culturali? In AAVV Scritti in onore di Bruno Cavallo, Giappichelli, Torino, 2021 pag. 320
[29] L. GOISIS, Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it
[30] B. SANTALUCIA, La giustizia penale in Roma antica, Il Mulino, Bologna, 2013, pag. 110
[31] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[32] L. MANCINI, Introduzione all’antropologia giuridica, Giappichelli, Torino 2015 pag. 41-42
[33] La studiosa L. Goisis Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it specifica in tal senso che ”Ferma restando la tradizionale tripartizione dei reati in crimini, delitti e contravvenzioni, rimane immutata anche la distinzione fra peines criminelles (per i crimini), peines correctionnelles (per i delitti) e peines contraventionnelles (PONCELA 2001). Nell’ambito di tale tripartizione, trova ampio spazio la pena pecuniaria (amende), la quale viene innovativamente prevista anche quale pena criminale, oltre che come pena per le persone giuridiche (personnes morales). Oltre all’amende, è previsto altresì l’istituto della jours-amende (pena per tassi giornalieri) (ROURE 1996) . L’amende resta tuttavia la principale pena in materia correzionale (e contravvenzionale) (art. 131-3 c. pén.). Il catalogo delle pene correzionali – ampliato ad opera del nuovo codice penale proprio con il fine di far sì che la pena dell’arresto in materia correzionale non sia che una delle sanzioni possibili – prevede quali pene alternative all’arresto (emprisonnement) e all’ammenda (amende), oltre alle importanti pene privative o restrittive di diritti e al lavoro socialmente utile (travail d’intérêt général), anche la jours-amende, ossia la pena pecuniaria commisurata secondo il sistema dei tassi giornalieri, anche detta ammenda giornaliera. Si tratta di una pena pecuniaria a tempo, sul modello della Laufzeitgeldstrafe tedesca: essa dura per il tempo determinato dal numero dei tassi giornalieri e l’esigibilità dell’ammontare globale dell’ammenda è possibile solo allo scadere del termine corrispondente al numero dei jours-amende inflitti. Ciò al fine di rendere maggiormente afflittiva la sanzione, mantenendo vivo nel tempo l’effetto intimidativo della pena (GOISIS 2008). L’ordinamento francese dal punto di vista della prassi della pena pecuniaria, a dispetto della ampia previsione legislativa della pena pecuniaria, si segnala (anche se i dati sono scarni) per un ruolo marginale (36%, INSEE 2017) svolto dalla pena pecuniaria e un tasso di riscossione della pena contenuto (25%) (BERNARDI 1990), ma la ragione di ciò sembra da ricondurre alla negativa convivenza fra i due sistemi di commisurazione, a somma complessiva e per tassi giornalieri”.
[34] La studiosa L. Goisis Le pene pecuniarie. Storia, comparazione, prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 22 novembre 2017, consultabile al seguente indirizzo url https://www.penalecontemporaneo.it specifica in tal senso che "In definitiva, l’archetipo scandinavo del modello per tassi giornalieri è oggi accolto con successo, soprattutto in termini di effettività della sanzione, in numerosi Paesi europei – Germania, Austria, Polonia, Ungheria, Spagna, Portogallo, Francia, Italia (solo sul terreno della pena pecuniaria sostitutiva), Slovenia, Croazia e Svizzera, cosicché, sotto questo aspetto, la disciplina dell’istituto a livello europeo si presenta maggiormente uniforme. Con ciò non si intende affatto ignorare che il modello per tassi giornalieri presenta nella legislazione dei diversi Paesi considerati significative divergenze di disciplina – basti pensare alla diversità e alla varietà dei criteri per la valutazione delle condizioni economiche e personali del reo e per la determinazione dell’ammontare del tasso giornaliero in Germania (reddito netto), in Spagna (capacità media giornaliera di consumo del reo, che dovrà essere ridotta fino al minimo necessario per il suo sostentamento), in Francia (quanto il reo possa risparmiare in un giorno, tenendo conto degli oneri familiari e del suo tenore di vita), in Polonia (le entrate che residuano dopo la soddisfazione dei bisogni primari quale base del calcolo) – e che esso non è stato accolto ovunque in via esclusiva, poiché in molti Paesi il sistema per tassi giornalieri convive ancora con il sistema a somma complessiva (si pensi alla Spagna e all’Italia) con esiti sanzionatori contraddittori e irrazionali, e in altri (la Francia e ancora l’Italia) esso è accolto nella sola commisurazione della pena pecuniaria quale sanzione sostitutiva della pena detentiva breve. Tali divergenze non sono tuttavia in grado di inficiare una linea tendenziale di adeguamento della disciplina relativa alla commisurazione della pena pecuniaria verso il modello commisurativo che più ha dato buona prova di sé e che la unanime dottrina europea ed internazionale addita da lungo tempo ormai quale modello, perfettibile, eppure ideale, capace di garantire sia la cd. opfergleicheit, ossia l’uguaglianza nella sofferenza, sia l’effettiva riscossione della pena in denaro (GOISIS 2008).
[35] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[36] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[37] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28
[38] Comunicato del 1 febbraio 2022 dell'Ufficio stampa della Corte Costituzionale, Troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria, consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20220201123330.pdf
[39] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28; Corte Cost. del 2020 n. 15 consultabile al seguente indirizzo url https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
[40] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28;
[41] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28;
[42] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28;
[43] Corte Cost. 1 febbraio 2022, n. 28.
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto - Editoriale
Perché andare a ricercare, oggi, all’interno delle biblioteche, la verosimilmente impolverata opera Dei Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini?
Quale il senso di riportare, ai nostri tempi, al centro della riflessione una categoria, quella dei doveri, decisamente scomoda, a fronte di quella decisamente più accattivante e friendly dei diritti?
La pandemia che ha sconvolto il mondo nel 2020 ha sicuramente fatto la sua parte ed i tragici eventi che stiamo vivendo con l’invasione dell’Ucraina hanno anch’essi, ancora una volta inaspettatamente, stimolato una riflessione sempre più forte sui fondamenti delle democrazie contemporanee, sui limiti che occorre necessariamente porre all’espansione dei diritti quando se ne intenda salvaguardare in via esclusiva e prevalente la dimensione egoistica e solitaria, perdendo di vista la dimensione sociale delle persone e, con essa, l’esistenza della comunità e del benessere collettivo che, con fatica, merita di essere considerato e protetto proprio per consentire l’espansione massima delle persone e dei loro diritti.
Le restrizioni subite nei periodi di lockdown hanno forse prodotto qualche fiore inaspettato e, molto più banalmente, hanno dato il via a questa riflessione a più voci con studiosi e giuristi del nostro tempo di diversa estrazione e di generazioni diverse.
La ricorrenza del 150° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini è allora solo l’occasione per riportare al centro della riflessione un lavoro affatto recente verso il quale, tuttavia, molte generazioni del dopoguerra dovrebbero nutrire un sentimento di riconoscenza se solo si ponga mente a quanto alcune delle prospettive coltivate nell’Opera ebbero a trovare ampio risalto nella Costituzione.
Ma, ed il punto che la Rivista ha inteso focalizzare è proprio questo, alla lettura pur accorta dell’operatore sembra utile affiancare, in quest’idea di rivitalizzazione ed attualizzazione dello scritto mazziniano la voce di giuristi di notevole spessore, tutti testimoni del nostro tempo e capaci di offrire una visione più approfondita, più “culturale” e meno epidermica che appunto possa accompagnare delicatamente i lettori.
Per questo si è pensato di rivolgere ad Ida Nicotra, Lara Trucco, Alessandro Morelli, Renato Rordorf e Luigi Salvato alcune domande, affidando ad Antonio Ruggeri il compito di svolgere una riflessione finale, tirando le fila del forum.
Le interviste saranno pubblicate a partire dal 10 marzo 2022.
Apertura di borse senza l’autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente: la soluzione delle Sezioni Unite (Cass. Civ., Sezioni Unite, sentenza n. 3182 del 2022)
di Ginevra Iacobelli
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a pronunciarsi sulla legittimità delle prove acquisite dai verificatori, in sede di verifica fiscale, hanno statuito che “… il consenso libero, reso in assenza di alcuna costrizione, né diretta né indiretta perché correlata alla prospettazione di conseguenze sfavorevoli, del contribuente alla consegna della borsa sia idoneo a soddisfare le ragioni che il legislatore ha inteso tutelare nel richiedere il provvedimento autorizzativo” specificando che “ai fini della valida espressione del consenso alla apertura della borsa non è necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica”.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state chiamate a risolvere i seguenti principi di diritto: “se, in caso di apertura della valigetta reperita in sede di accesso, la mancanza di autorizzazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3, possa essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto; se, nel caso in cui si dia risposta positiva alla prima questione, il consenso può dirsi libero ed informato anche qualora l'amministrazione finanziaria non abbia informato il titolare del diritto della facoltà, di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 2, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria; se, infine, l'eventuale inosservanza del suddetto obbligo di informazione ed il conseguente vizio del consenso del titolare del diritto comporti l'inutilizzabilità della documentazione acquisita in mancanza della prescritta autorizzazione”.
Il Supremo Consesso, richiamando le questioni poste dall’ordinanza di rimessione (per il commento si rinvia a https://www.giustiziainsieme.it/it/news/126-main/diritto-tributario/1742-apertura-di-borse-senza-autorizzazione-della-procura-della-repubblica-ma-con-il-consenso-del-contribuente-la-questione-al-vaglio-delle-sezioni-unite?hitcount=0) muove dall’individuazione del quadro normativo, richiamando l’art. 52 del d.P.R. n. 633 del 1972 e l’art. 12 della legge n. 212 del 2000 (d’ora innanzi, Statuto del contribuente) .
In particolare, la prima norma richiamata prevede che “Gli uffici possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica. In ogni caso, l’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato. 2. L’accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni. 3. È in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità Giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’articolo 103 del codice di procedura penale”.
La previsione normativa, come osservano le Sezioni Unite, contiene una disciplina composita che riguarda gli accessi, le ispezioni e le verifiche dell’amministrazione fiscale: i primi due commi dell’art. 52 riguardano la possibilità di accesso nei locali destinati all’esercizio dell’attività, o dell’abitazione promiscuamente adibita anche a tale attività o presso l’abitazione stessa del contribuente; il terzo comma, invece, disciplina il compimento di atti istruttori tra loro non omogenei, tra cui perquisizioni personali, apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, ecc.
Il comma 3, nel dettaglio, con riguardo all’autorizzazione del P.M. o dell’autorità giudiziaria per il compimento di atti diversi, contempera l’esigenza dell’amministrazione di esercitare proficuamente i poteri necessari a garantire la pretesa impositiva con l’esigenza del contribuente un pregiudizio alle libertà costituzionali che vengono di volta in volta in rilievo.
Nel dettaglio, le Sezioni Unite tratteggiano i diritti che entrano in gioco in caso di acquisizione coattiva di borse durante l’accesso nel corso della verifica fiscale e non concordano con quella parte della dottrina, richiamata dall’ordinanza di rimessione, che individua il parametro costituzionale di riferimento nell’art. 15 Cost. che tutela la segretezza delle comunicazioni.
La segretezza delle comunicazioni, infatti, presuppone l’esistenza di uno scambio della corrispondenza che non viene in rilievo in caso di apertura di borse. Quel che entra in gioco è, piuttosto, un’esigenza di “segretezza” insita nella libertà della persona o del domicilio.
In tal senso, la sentenza in commento distingue il caso in cui la borsa costituisca elemento intrinsecamente collegato ed a stretto contatto con l’individuo che la indossa, in modo da costituire parte della persona stessa, da quella della borsa rinvenuta nei locali oggetto di accesso e, dunque, all’interno di essi. Nel primo caso, il Supremo Consesso ritiene applicabile l’art. 13 Cost. a tutela della libertà personale; nel secondo caso viene in gioco la protezione che l’ordinamento appresta al domicilio, nel senso ampio del termine che si desume dal comma 3 dell’art.14 Cost., costituendo la tutela apprestata dall’ordinamento alla borsa diretta espressione e proiezione di quella riconosciuta al domicilio.
Tirando le fila, i parametri costituzionali di riferimento, a fronte dell’esercizio di poteri istruttori in materia di acquisizione coattiva di borse, sono gli articoli 13 e 14. L’art. 14 Cost., che viene in rilievo in casi, come quello all’esame delle Sezioni Unite, in cui la borsa non è rinvenuta sulla persona, ma nei locali adibiti a sede dell’attività, dopo aver dichiarato inviolabile il domicilio, al comma 2 dispone che “(nel domicilio) non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale" e al comma 3 specifica che "gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali".
Il comma terzo dell’art. 14 Cost., allora, demanda al legislatore di settore l’individuazione di un corretto bilanciamento tra i valori in gioco. In tal senso, l’art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 richiede l’autorizzazione del P.M. per i soli casi di “apertura coattiva” di borse, plichi e documenti.
Così tratteggiato l’ambito di riferimento, le Sezioni Unite hanno definito compiutamente il rilievo del consenso espresso del contribuente all’apertura di borse, nel corso della verifica fiscale, e le modalità di espressione dello stesso.
Preliminarmente, la sentenza chiarisce che “la disciplina normativa introdotta dall’art.52, c.3, d.P.R. 633/1972 e quelle ad essa sovrapponibili- nel prevedere che l’autorizzazione del P.M. del giudice sia richiesta solo per i casi di apertura coattiva- vada risolta nel senso secondo cui il consenso libero, reso in assenza di alcuna costrizione, né diretta né indiretta perché correlata alla prospettazione di conseguenze sfavorevoli, del contribuente alla consegna della borsa sia idoneo a soddisfare le ragioni che il legislatore ha inteso tutelare nel richiedere il provvedimento autorizzativo”.
In caso di opposizione del contribuente, l’accesso al contenuto della borsa richiede l’autorizzazione del P.M., ma, in caso di assenza di opposizione, viene meno la coattività, presupposto richiesto dalla norma per la necessità dell’autorizzazione.
L’assenza di opposizione è certamente desumibile dal consenso, quale atto di autonoma collaborazione del privato, espresso da quest’ultimo consapevolmente e liberamente.
Ma, sottolineano le Sezioni Unite, che il consenso debba considerarsi mancante non solo nelle ipotesi di costrizione materiale, ma anche nel caso di minaccia o coazioni implicite e ambientali. In tal caso, spetta al giudice di merito, nell’esercizio dei suoi poteri valutativi, accertare la sussistenza o meno di un consenso all’apertura di borse libero e spontaneo.
Gli orientamenti opposti, richiamati dall’ordinanza di rimessione, a ben vedere, si occupano di fattispecie varie e diversamente disciplinate dal legislatore, riferendosi ad ipotesi di perquisizioni presso il domicilio del contribuente senza autorizzazione del P.M. o a perquisizioni personali eseguite anch’esse senza autorizzazione del P.M., per le quali è comunque richieste l’autorizzazione del P.M. dall’art. 52 del d.P.R. 633/72.
In definitiva, condividendo, il passaggio espresso nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui “il diritto alla segretezza, quale declinazione del diritto alla libertà personale, abbia natura di diritto disponibile, sicché se l’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili e simili, avvenga con il valido consenso del titolare del diritto di libertà oggetto di compressione, pur in assenza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, non dovrebbe derivare alcuna sanzione di inutilizzabilità dei documenti”, le Sezioni Unite definiscono il principio per cui “il contegno del contribuente che presta volontariamente il consenso all’apertura della borsa rinvenuta nei locali rende possibile l’acquisizione del suo contenuto da parte dell’Ufficio in assenza dell’autorizzazione di cui al c.3 dell’art.52 d.P.R. n.633/1972”, considerandosi, in tal caso, l’acquisizione ex se legittima.
È poi specificato che, diversamente da quanto prospettato dall’ordinanza di rimessione, non esiste alcun indice normativo dal quale desumere che il consenso del contribuente, in tema di apertura di borse, sia condizionato all’adempimento di un obbligo informativo.
Più chiaramente, “la circostanza che il consenso prestato in sede di rinvenimento della borsa debba esser preceduto, per poter essere considerato valido, dall’assolvimento dell’obbligo di informazione da parte degli accertatori, vuoi della possibilità di rifiutare la consegna, vuoi della necessità dell’autorizzazione del P.M. in caso di assenza di consenso, non è affatto menzionata nel dettato vigente della norma in esame, né può desumersi aliunde, attingendo a parametri costituzionali o normativi altri rispetto al ricordato art.52, c. 3.”. Tale obbligo, secondo le Sezioni Unite, non è desumibile nemmeno dall’art. 12 dello Statuto del contribuente che dispone “Quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche”, non apparendo plausibile un’immediata relazione tra l’informazione circa la facoltà di farsi assistere da un professionista in sede di verifica da una parte, e la validità del consenso prestato all’apertura della borsa, dall’altra e nemmeno rilevando l’obbligo di informare il contribuente dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche che pure compare nell’art.12, c.2, dello statuto del contribuente.
La mancata informazione circa gli aspetti di cui sopra potrà eventualmente assumere solo valenza indiziaria al fine della verifica giudiziale in ordine alla condizione di piena libertà del contribuente al momento di esprimere il consenso all’acquisizione non coattiva della borsa sollecitata dai verificatori.
In definitiva “In tema di accertamento delle imposte, con riguardo all'apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prevista in materia di IVA dall'art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, ai fini della valida espressione del consenso alla apertura della borsa non è necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, non rinvenendosi un obbligo in tal senso nell’art. 52 cit. e neanche nell’art. 12, comma 2, della legge 212/2000”.
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