ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I nuovi condizionamenti del magistrato e altri che non passano mai.
di Riccardo Ionta
Aderire o non aderire allo sciopero, azione collettiva dell’A.N.M. di sensibilizzazione, è una scelta individuale insindacabile - il che non vuol dire “non criticabile”, avendo effetti collettivi, anche per quella collettività in nome del quale è amministrata la giustizia - l’importante è avere consapevolezza della realtà.
La riforma non modifica l’art. 101 della Costituzione per cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge e non modifica l’art. 107 per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Non modifica l’art. 104 secondo cui la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere e neppure l’art. 112 secondo cui il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale.
La riforma scolora le norme costituzionali, ne fiacca i principi. Tenta di consegnare la guida della magistratura alle inclinazioni di quel magistrato attento ai numeri, alle relazioni, propenso al carrierismo e di quel dirigente giudiziario - sempre attento ai numeri, alle relazioni - incline al dirigismo.
Un magistrato condizionabile, appartenente ad una magistratura gerarchizzata, è un magistrato debole in balia delle derive di corrente.
Sommario: 1. Il condizionamento del risultato atteso dal dirigente (ovvero del compito assegnato al magistrato); 2. Il condizionamento da parte del capo dell’ufficio e del disciplinare come strumento di organizzazione; 3. Il condizionamento del voto in pagella e del fascicolo dei numeri; 4. Il condizionamento da parte del Ministero della Giustizia; 5. Il condizionamento da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati; 6. Il condizionamento da parte degli altri (e alti) magistrati.
1. Il condizionamento del risultato atteso dal dirigente (ovvero del compito assegnato al magistrato)
1.1 Dal carico esigibile dei magistrati al risultato atteso dal capo dell’ufficio
L’art. 14 comma 1 lett. a) della riforma dispone che nei programmi di gestione* ex art. 37 in luogo dell’attuale carico esigibile** il dirigente giudiziario debba prevedere “l’indicazione, per ciascuna sezione o, in mancanza, per ciascun magistrato, dei risultati attesi*** sulla base dell’accertamento dei dati relativi al quadriennio precedente e di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 [il programma delle attività da svolgersi nel corso dell'anno, redatto dal dirigente giudiziario e da quello amministrativo], e, comunque, nei limiti dei carichi esigibili di lavoro individuati dai competenti organi di autogoverno”
* con il programma per la gestione si determinano prevalentemente gli obiettivi di riduzione dei procedimenti con specifica attenzione all’arretrato patologico la cui sostenibilità è verificata per mezzo del carico esigibile.
** il “carico esigibile” è un dato generale del settore o dell’ufficio – determinato su base statistica e adattato alla realtà - rappresentativo della “capacità di lavoro dei magistrati” che “fisiologicamente consente di coniugare qualità e quantità del lavoro in un dato periodo di tempo, da individuarsi alla luce della concreta situazione dell’ufficio” (così recita la circolare del C.S.M.).
*** il “risultato atteso” è invece un dato anche individuale determinato prevalentemente sulla base delle aspettative del dirigente giudiziario (e in parte anche del dirigente amministrativo). La diversità tra “carico esigibile” e “risultato atteso” appare chiara già dal nome. Il cambio di passo appare evidente dal momento in cui, come si vedrà in seguito, il rispetto da parte del magistrato del risultato atteso è utilizzato per la valutazione della laboriosità nelle valutazioni di professionalità: se il carico esigibile riguarda gli obiettivi di rendimento dell’intero ufficio quindi, il risultato atteso riguarda l’obiettivo di rendimento del singolo magistrato.
1.2 Il risultato atteso dal dirigente e la valutazione della laboriosità
L’art. 3 comma 1 lettera d) dispone che nelle valutazioni di professionalità, il parametro della laboriosità “sia espressamente valutato il rispetto da parte del magistrato di quanto indicato nei programmi annuali di gestione”.
Il dirigente, quindi, assegna il risultato atteso determinando la soglia raggiunta la quale il magistrato è valutabile come laborioso. E’ utile ricordare che l’attuale sistema di conferma dei direttivi è fortemente incentrato sul raggiungimento degli obiettivi numerici di definizione dei procedimenti.
2. Il condizionamento da parte del capo dell’ufficio e il disciplinare come strumento di organizzazione
2.1 Il risultato atteso dal dirigente
Si rimanda a quanto sopra detto, (ma è utile ricordarlo) pertinente anche in questa sede.
2.2 Il disciplinare per omessa collaborazione del magistrato
L’art 11 introduce l’illecito per “l’omessa collaborazione del magistrato nell’attuazione delle misure di cui all’articolo 37, comma 5-bis*, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 [ovvero i programmi di gestione], convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nonché la reiterazione, all’esito dell’adozione di tali misure, delle condotte che le hanno imposte, se attribuibili al magistrato”.
* il nuovo art. 5-bis sui programmi di gestione prevede, tra le altre cose che “Il capo dell'ufficio, al verificarsi di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati dell'ufficio, ne accerta le cause e adotta ogni iniziativa idonea a consentirne l'eliminazione, con la predisposizione di piani mirati di smaltimento, anche prevedendo, ove necessario, la sospensione totale o parziale delle assegnazioni e la redistribuzione dei ruoli e dei carichi di lavoro”.
* la norma deve esser letta con attenzione poiché non si rivolge solo al magistrato che cumula ritardi. La stessa infatti consente al capo dell’ufficio di adottare ogni iniziativa idonea che può coinvolgere anche gli altri magistrati dell’ufficio, i quali sono quindi sanzionabili se omettono di “collaborare”.
2.3 Il voto in pagella
Il voto in pagella, di cui al punto successivo, è assegnato primariamente dal dirigente dell’ufficio.
3. Il condizionamento del voto in pagella e del fascicolo dei numeri
3.1. Discreto, buono e ottimo
L’art. 2 comma 1 lettera c): “prevedere che, nell’applicazione del l’articolo 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, il giudizio positivo sia articolato, secondo criteri predeterminati, nelle seguenti ulteriori valutazioni: « discreto », « buono » o « ottimo » con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro”.
3.2 Il fascicolo dei numeri
L’art 3 comma 1 lettera h) prevede che “ai fini delle valutazioni di professionalità…e ai fini delle valutazioni delle attitudini per il conferimento degli incarichi..: 1) prevedere l’istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio, nonché ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”
3.3 Un voto anche per l’aspirante dirigente
L’art. 10 della riforma prevede che “Al termine del corso di formazione, il comitato direttivo, sulla base delle schede valutative redatte dai docenti nonché di ogni altro elemento rilevante, indica per ciascun partecipante elementi di valutazione in ordine al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, con esclusivo riferimento alle materie oggetto del corso”.
4. Il condizionamento da parte del Ministero della Giustizia
4.1 È il Ministero che gestisce i dati statistici (e i dati degli esiti dei giudizi) e cosa disse il Presidente Ciampi
Nella riforma non c’è scritto, ma è meglio non dimenticare che il detentore privilegiato dei dati statistici è proprio il Ministero della Giustizia.
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel rimettere nel 2004 alle Camere la legge delega per la riforma dell’ ordinamento giudiziario - in relazione all’articolo 2, comma 14, lettera c): “istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali;” – evidenziò che “Anche questa disposizione si pone in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione. Infatti, se si considera la finalità espressamente indicata dalla norma, risulta evidente che il monitoraggio dell’esito dei procedimenti – fase per fase, grado per grado – affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla “organizzazione” e dal “funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro. Inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione”.
4.2 Le osservazioni del Ministro ai Progetti organizzativi delle Procure (ovvero un assaggio della separazione delle carriere)
L’art. 13 comma 7 prevede che “Il progetto organizzativo* dell’ufficio è adottato ogni quattro anni…previo parere del consiglio giudiziario e valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195 “. Trasmissione e osservazioni del Ministro che riguardano anche le variazioni al progetto.
*Il Progetto organizzativo previsto dalla riforma deve contenere, tra le molte cose: “a) le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto dei criteri di priorità di cui alla lettera abis); b) i criteri di priorità, finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili; e) i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione dei procedimenti”;
Sarà il Parlamento ad indicare i criteri generali per l’individuazione dei criteri di priorità. L’art. 1 comma 9 lett. i) dispone inoltre di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l'efficace e uniforme esercizio dell'azione penale, nell'ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell'utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”.
Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel rimettere nel 2004 alle Camere la legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario – in particolare l’articolo 2, comma 31, lettera a),: “(Relazioni sull’amministrazione della giustizia). 1. Entro il ventesimo giorno dalla data di inizio di ciascun anno giudiziario, il Ministro della giustizia rende comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia nel precedente anno e sulle linee di politica giudiziaria per l’anno in corso…”.- rilevò che la norma approvata dalle Camere “configura un potere di indirizzo in capo al Ministro della giustizia, che non trova cittadinanza nel titolo IV della Costituzione, in base al quale l’esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è pienamente tutelato, sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni dello stesso Consiglio superiore della magistratura. Aggiungo che l’indicazione di obiettivi primari che l’attività giudiziaria dovrebbe perseguire nel corso dell’anno (“linee di politica giudiziaria”) determina di per sé la violazione anche dell’articolo 112 della Costituzione, in base al quale “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: il carattere assolutamente generico della formulazione della norma in esame crea uno spazio di discrezionalità politica destinato ad incidere sulla giurisdizione”.
4.3 Il disciplinare per l’inosservanza delle direttive
L’art. 11 modifica l’art. 2.1 lett. n) decreto legislativo n. 109/2006 prevedendo come illecito disciplinare “la reiterata o grave inosservanza…delle direttive”.
La disposizione non specifica di quali direttive si tratti e la stessa può esser interpretata come riferita alle direttive del C.S.M. ovvero alle direttive del potere esecutivo e in particolare del Ministro della Giustizia. Quest’ultima appare l’interpretazione più coerente considerando le altre disposizioni dell’art. 2.1 lett. n) - che così sanzionerebbe la “reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari, delle direttive o delle disposizioni sul servizio giudiziario o sui servizi organizzativi e informatici adottate dagli organi competenti” - e che le direttive consiliari (art. 25 del regolamento C.S.M.) sono atti di natura tendenzialmente interpretativa delle norme e non contengono specifici precetti.
4.4 Il parere del Ministero della Giustizia sugli aspiranti direttivi
L’art. 2 comma 1 lettera c) dispone per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere…dei dirigenti amministrativi…assegnati al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”.
4.5 Il risultato è atteso anche un po' dal dirigente
Il risultato atteso dei programmi di gestione, come già esposto, è determinato anche sulla base di quanto indicato nel programma di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240 [il programma delle attività da svolgersi nel corso dell'anno, redatto dal dirigente giudiziario e da quello amministrativo]
4.6 I dirigenti amministrativi nella composizione della Segreteria del C.S.M.
L’art. 25 innova la selezione dei componenti della Segreteria del C.S.M. - posta alle dipendenze funzionali del Comitato di presidenza del CSM (composto dal Vice Presidente, dal Primo presidente della Corte di Cassazione e dal Procuratore generale presso la Cassazione) – prevedendo che alla stessa possono essere assegnati massimo 18 componenti esterni (1/3 dirigenti amministrativi con almeno 8 anni di esperienza; magistrati con almeno la seconda valutazione di professionalità), selezionati mediante procedura di valutazione dei titoli e colloquio da una commissione individuata dal Comitato di presidenza. La norma, quindi, prevede l’innesto nella Segreteria dei dirigenti amministrativi, unici componenti necessari della struttura, essendo stabilita solo in loro favore una riserva di posti che potrebbe essere anche totalitaria, corrispondendo quella di un terzo alla quota minima.
5. Il condizionamento da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
5.1 Il voto degli avvocati sulle valutazioni di professionalità
L’art. 3 comma 1 lettera a) dispone di “introdurre la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari di partecipare alle discussioni e di assistere alle deliberazioni relative all’esercizio delle competenze del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari di cui, rispettivamente, agli articoli 7, comma 1, lettera b), e 15, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 [ovvero le valutazioni di professionalità], con attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione; prevedere che, nel caso in cui la componente degli avvocati intenda discostarsi dalla predetta segnalazione, debba richiedere una nuova determinazione del consiglio dell’ordine degli avvocati;”
Gli avvocati componenti dei Consigli Giudiziari e il Consiglio dell’ordine (art. 11 comma 4 lett. f) decreto legislativo n. 160 del 2006) hanno già la facoltà di segnalare qualsiasi anomalia dell’attività del magistrato al dirigente giudiziario e agli organi di autogoverno (facoltà raramente usata).
La norma non prevede alcun contrappeso al potere di voto (non è prevista alcuna forma di incompatibilità tra le funzioni di consigliere giudiziario “laico” ed esercizio della professione nel distretto e circondario; non è previsto alcun obbligo di astensione). E forse è utile ricordare le ricadute della normativa in quei circondari e distretti caratterizzati da tensioni.
Il senso di consentire “segnalazioni positive” sul magistrato in valutazione, anche laddove lo si volesse intendere come mera volontà di consentire pubbliche attestazioni di stima, è elemento di cui non si comprende l’utilità e di cui sono invece evidenti le rischiose implicazioni.
5.2 Il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sugli aspiranti direttivi
L’art. 2 comma 1 lettera c) prevede per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio”
5.3 Il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sulle conferme dei direttivi
L’ art. 2 comma 1 lettera g) dispone che nel procedimento di conferma della dirigenza si tenga conto delle “osservazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati”;
Ad oggi l’art. 75 del TU dirigenza giudiziaria già prevede che i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione debbano invitare il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, nel cui circondario è compreso l’ufficio ove presta servizio il magistrato da confermare, e, per quelli con competenza distrettuale, al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo del distretto, a far pervenire, entro 30 giorni, informazioni scritte in relazione a eventuali fatti specifici e a situazioni oggettive rilevanti per la valutazione delle attitudini direttive riguardanti l’incarico oggetto di valutazione
6. Il condizionamento da parte degli altri (e alti) magistrati.
6.1 La valutazione della capacità del magistrato dipende dal “magistrato superiore” e anche un po' dalla sorte
L’art 3 comma 1 lettera g) dispone che nelle valutazioni di professionalità, per il parametro della capacità “il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento”,
La stessa norma prevede, anche in caso di assenza di anomalia che “in ogni caso, che acquisisca, a campione, i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio;”
Ad oggi per le valutazioni di professionalità è già prevista la voce relativa alle “significative anomalie” riguardo all’esito degli affari. La norma, quindi, nella prima parte poco innova (anzi il concetto di “gravi anomalie” appare maggiormente stringente di quello di “significative anomalie”) se non imponendo agli organi di autogoverno un’attività specifica (imponderabile nei modi) di ricerca. L’innovazione effettiva e concreta è nell’estrazione a campione dei provvedimenti in relazione agli esiti nei successivi gradi di giudizio.
6.2 Il parere dei magistrati per l’aspirante direttivo
L’art. 2 comma 1 lettera c) prevede per i procedimenti per la copertura dei posti direttivi di “stabilire in ogni caso modalità idonee ad acquisire il parere…dei magistrati…assegnati al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati”
6.3 Pareri reciproci
L’art. 2 comma 1 lettera g) dispone che nella conferma dei dirigenti si tenga conto dei:
- “pareri espressi dal magistrato dell’ufficio” ma anche dei “rapporti redatti [dal medesimo dirigente in valutazione] ai fini delle valuta zioni di professionalità dei magistrati del l’ufficio o della sezione”;
- “del parere del presidente del tribunale o del procuratore della Repubblica, rispettivamente quando la conferma riguarda il procuratore della Repubblica o il presidente del tribunale”
Quale giudice?*
di Paola Cervo
Prendo la parola con grande emozione. Vorrei ringraziare il presidente Santalucia per le sue parole. Mi rappresenta, e sono fiera di essere rappresentata da lui.
Ringrazio, e non è di facciata, l’onorevole Bongiorno, per il coraggio con cui è venuta in una platea che poteva legittimamente presumere ostile. Lei è la benvenuta qui , lo dico a nome del comitato direttivo centrale di cui faccio parte.
Il nostro dna è la giurisdizione e la giurisdizione è contraddittorio, ce lo diciamo in aula tutti i giorni.
Però onorevole Bongiorno rispondo alla sua domanda, quando i suoi clienti vengono allo studio e le chiedono "di che corrente è il giudice?", è una frottola: noi giuriamo tutti sulla stessa Costituzione, non siamo né di destra né di sinistra. E lei come avvocato – vorrei vedere l’avvocato Vitiello, con cui ho condiviso tante udienze a Torre Annunziata ed ho avuto il piacere di tante chiacchierate nella mia angusta camera di consiglio nella distaccata di Castellammare di Stabia - lei, il presidente Caiazza, portate la toga come la portiamo noi. Qualcosa vorrà pur dire.
A me non interessa la legge elettorale, non è per questo che l’ ANM è in agitazione. A me interessa comprendere davanti a quale giudice volete tenere udienza.
Non vi fidate di noi, questo traspare.
Da quello che voi in parlamento scrivete traspare che non vi fidate di noi.
Le leggi siamo abituati a leggerle, a studiarle: voi non vi fidate di noi, e non da ora. È una stagione lunga: la frottola di cui parlavo in apertura è una frottola che fu messa in circolo da un presidente del consiglio ormai venti anni fa.
Voi non vi fidate di noi e questo ci ferisce, ci addolora.
Avete scritto questa riforma avendo in mente il processo penale, e questo forse getta una interessante luce, ci aiuta a comprendere le intenzioni di questa riforma.
Voi avete immaginato un pubblico ministero che si allontana drammaticamente dalla giurisdizione.
È questo il pubblico ministero che immaginate a garantire il vostro assistito? Io mi sono formata pensando che il Pubblico Ministero sia la prima istanza giurisdizionale dell’indagato.
E mi chiedo - superando il Pubblico Ministero ed arrivando in udienza preliminare, arrivando al Riesame, arrivando al dibattimento: avete disegnato un giudice intimorito dal combinato disposto di pagellina e disciplinare.
Vi siete chiesti che modello di giudice ci state consegnando?
Io mi sono formata in un contesto culturale in cui ho potuto – e l’ho fatto, quando ero GUP a Santa Maria Capua Vetere – disattendere le Sezioni Unite. Ho retrodatato il giorno in cui il Pubblico Ministero avrebbe dovuto iscrivere la notizia di reato, ho dichiarato gli atti inutilizzabili, ed ho emesso sentenza di non luogo a procedere. Ho potuto farlo. Se approverete la riforma lo farei ancora? Credo di no.
Quale giudice? Noi siamo abituati – non perché siamo sceriffi o ci sentiamo investiti di una missione divina – a pensarci come garanti. Per esempio, a volte nei processi dinanzi al Tribunale in composizione monocratica la difesa di ufficio viene affidata a professionisti di volta in volta diversi e la reale garanzia di quell’imputato è data dal giudice, che invece ha seguito con continuità tutto il dibattimento.
Quale giudice immaginate a garantire i diritti del vostro assistito?
Voi dovreste scioperare con noi.
*Intervento all'Assemblea generale del 30 aprile 2022, nella qualità di componente del comitato direttivo centrale dell'ANM.
Federalismo pragmatico federalismo ideale: riflessioni a partire dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950
di Pier Virgilio Dastoli
Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nel proporre al Parlamento europeo il 3 maggio la sua visione del futuro dell’Europa (This is Europe), ha messo l’accento sul federalismo pragmatico e sul federalismo ideale (ma non ideologico) che appartengono il primo all’obiettivo dell’integrazione graduale concepita da Jean Monnet secondo il metodo cosiddetto funzionalista e il secondo all’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa concepiti dai confinati antifascisti a Ventotene nel Manifesto scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il contributo intellettuale di Eugenio Colorni.
I due obiettivi furono al centro delle riflessioni nella resistenza europeista – che si svolsero essenzialmente in Italia, in Svizzera e in Francia ancor prima della fine della Seconda guerra mondiale – sui metodi d’azione che avrebbero dovuto essere adottati per garantire la pace e la democrazia sul continente sapendo che in ogni caso la costruzione di un sistema federale sarebbe dovuta passare dal superamento delle sovranità assolute e dalla fine della divisione dell’Europa in Stati-nazione.
Secondo il federalismo ideale la via da percorrere doveva passare da una mobilitazione popolare – che secondo Altiero Spinelli doveva avere caratteristiche rivoluzionarie e sfociare in un processo democratico costituente – mentre secondo il federalismo pragmatico bisognava avviare un’opera di convinzione dei governi attraverso delle realizzazioni concrete capaci di creare fra gli Stati una solidarietà di fatto.
Il passaggio dal federalismo ideale agli Stati Uniti d’Europa sarebbe stato possibile, dopo la sconfitta del nazifascismo, se le forze politiche democratiche - tornate al potere negli Stati conquistati militarmente dalle armate del Terzo Reich o dove il potere era stato conquistato dal mostro del dispotismo – avessero deciso di non percorrere la via tradizionale della restaurazione delle identità nazionali e della indipendenza dei loro cittadini ma se si fossero unite sul continente ad Est e ad Ovest per creare una nuova forma di potere democratico transnazionale coerente con l’universalismo del popolarismo cristiano, dell’internazionalismo socialista e del cosmopolitismo liberale.
Questo passaggio sarebbe stato possibile se i “corpi intermedi” ed in particolare i rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori avessero partecipato attivamente al moto nato dalla resistenza al nazifascismo che aveva individuato nello scontro fra sovranità assolute e nella divisione dell’Europa in Stati-nazione le cause delle due guerre mondiali insieme al disfacimento del ruolo dell’Europa nel mondo.
Così non è stato, l’Europa è stata divisa dopo Jalta fra l’imperialismo sovietico e l’egemonia statunitense nel quadro della convivenza della rivalità sistemica delle due nuove grandi potenze e la sconfitta del federalismo ideale ha lasciato il campo al federalismo pragmatico che, secondo i suoi sostenitori, si sarebbe realizzato fondandosi sul consenso dei governi e su atti concreti ma graduali.
Nasce da questa concezione pragmatica la Dichiarazione letta il 9 maggio 1950 dal ministro degli esteri francese Robert Schuman ma scritta quasi integralmente da Jean Monnet e rivolta prioritariamente alla Repubblica Federale Tedesca di Konrad Adenauer affinché “il loro lavoro pacifico” profittasse “a tutti gli Europei dell’Est e dell’Ovest senza distinzioni e a tutti i territori, in particolare dell’Africa, che attendono dal Vecchio Continente il loro sviluppo e la loro prosperità” come ebbe a dire Robert Schuman nel presentare la Dichiarazione.
Secondo Jean Monnet quest’atto ardito avrebbe dovuto rappresentare “la prima tappa della Federazione europea…indispensabile alla preservazione della pace”.
In effetti la costruzione graduale dell’integrazione comunitaria – nata due anni dopo la Dichiarazione con il Trattato della CECA e sviluppatasi negli anni successivi con il Mercato Comune del 1957 del Trattato di Roma e con l’Unione europea del 1993 del Trattato di Maastricht – ha garantito la pace per tutti i paesi che vi hanno aderito anche se non è stata capace di evitare le guerre nei Balcani all’inizio degli anni ’90 ed ora l’aggressione della Russia all’Ucraina oltre che le guerre non lontane dall’Europa come in Siria e nello Yemen.
Grazie all’estensione dei mercati per oltre vent’anni il livello di vita degli Europei nell’area comunitaria si è elevato con una prosperità diffusa e sono state progressivamente realizzate delle politiche nei settori dell’economia reale necessarie per garantire il funzionamento di uno spazio comune senza frontiere.
All’interno di un sistema sui generis in cui il diritto comunitario non è né diritto internazionale né diritto federale, sono stati innestati nel tempo degli elementi di carattere federale come il ruolo preminente della Corte di Giustizia, l’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo dal 1979 e l’estensione graduale dei suoi poteri legislativi e di bilancio, la moneta unica e la BCE, la Carta dei diritti fondamentali che prevale sui trattati e la creazione – seppure per ora temporanea – di debito pubblico europeo.
Ciononostante il sistema europeo è bel lungi dall’aver realizzato la Federazione europea di cui parla la Dichiarazione Schuman del 1950 ed anzi il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009, ha rafforzato la dimensione confederale del sistema europeo attraverso l’egemonia sistemica del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo e il terremoto provocato dalla guerra in Ucraina potrebbe rappresentare – se l’Unione europea non troverà la strada per una sua autonomia strategica – un Requiem per l’Europa come ha scritto Paolo Rumiz su La Repubblica.
Fallito il tentativo di realizzare la Federazione europea attraverso l’illusorio piano inclinato del federalismo pragmatico, le sfide del ventunesimo secolo mettono di nuovo al centro dell’azione europea il federalismo ideale (ma non ideologico) che richiede inevitabilmente un percorso costituzionale e la responsabilità (accountability) del Parlamento europeo.
A monte ci dovrà essere questa assunzione di responsabilità della Assemblea europea cogliendo l’innovazione della consapevolezza (empowerment) delle cittadine e dei cittadini europei che è emersa embrionalmente nella dimensione della democrazia partecipativa durante i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa.
A valle e sulla base del lavoro costituzionale della Assemblea europea, dovranno essere chiariti i confini politici della Federazione a cui potranno aderire i paesi che ne accetteranno gli elementi essenziali del superamento della sovranità assoluta degli Stati-nazione, il primato del diritto dell’Unione e il ruolo preminente della Corte di Giustizia, la moneta unica e la difesa comune, un governo federale con poteri limitati ma reali responsabile davanti al Parlamento europeo.
L’accettazione di questi elementi essenziali potrebbe avvenire attraverso un referendum pan-europeo e gli Stati che non li accetteranno potrebbero entrare in una più ampia Confederazione e in un sistema di accordi di associazione con la Federazione in attesa di una loro futura adesione al sistema federale.
In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia*
di Antonio Ruggeri
Un fatto è un sacco vuoto.
Bisogna metterci l’uomo,
la persona, il personaggio perché stia su
(Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino 1971)
“Tutto ha inizio sempre da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli, eccetera”.
A scrivere non è Sciascia – come pure si potrebbe pensare – ma Eduardo, l’immenso, inarrivabile Eduardo che confessava come nasceva in lui il germe delle sue “commedie” – come egli stesso le definiva – che però, al tempo stesso, erano anche tragedie con al centro della scena – è ancora Eduardo a parlare – “una folla di diseredati, di ignoranti, di vittime e di aguzzini, di ladri, prostitute, imbroglioni, di creature eroiche e esseri brutali, di angeli creduti diavoli e diavoli creduti angeli”[1]. Ciascuno di essi – per dirla con G. Büchner – è “un abisso, a uno gira la testa se ci guarda dentro”; un abisso la cui profondità – ha opportunamente precisato C.P. Baudelaire – “nessuno ha mai misurato”.
Le parole scritte da Eduardo su di sé mi sono rimaste scolpite nella mente sin da quando le ho lette, ormai quasi cinquant’anni addietro, per la prima volta; e non le ho più dimenticate. Mi sono subito tornate alla memoria non appena avuto in mano il libro che ora si presenta: “un libro prezioso su libri preziosi”, secondo l’efficace giudizio datone da un accreditato studioso[2]. Come per le opere di Eduardo, anche per quelle di Sciascia, non appena iniziata la lettura, non sono riuscito a distaccarmene se non dopo aver raggiunto la fine: inchiodato agli scritti ed ammaliato dalla bellezza della prosa, scarna e colorita allo stesso tempo; e, per queste opere come per quelle, ad ondate mi torna la voglia di riprenderle in mano e rimirarle, ogni volta da una prospettiva diversa, cogliendo sempre spunti dapprima non notati, dai quali hanno quindi origine ed alimento riflessioni nuove, al centro delle quali v’è una umanità dolente, composta perlopiù da persone umili, emarginate, sconfitte, stritolate da meccanismi infernali, efficienti ed inesorabili.
La giustizia è punto di riferimento costante delle pensose e disincantate pagine dello scrittore di Racalmuto come pure del teatro di Eduardo[3]. Folgorante per quest’ultimo è un episodio, dallo stesso raccontato nella introduzione-confessione della raccolta sopra cit., che lo vide giovanissimo varcare per la prima volta la soglia di un tribunale (verosimilmente di Napoli) ed assistere alla celebrazione di un processo a carico di alcuni ragazzi accusati di furto, uno dei quali in un impeto incontenibile di rabbia si ferì alla fronte con le catene ai polsi per essere obbligato a restare pur essendo già stato condannato. Un’esperienza “tremenda” per il giovane Eduardo, come lo stesso la definì, che lo segnò profondamente.
Non avrei saputo trovare titolo migliore di quello dato da Cavallaro e Conti alla loro raccolta[4], col riferimento ai tre termini prescelti e messi in una non casuale – a me pare – consecuzione sistematica: diritto verità giustizia. Termini non separati neppure da una virgola, proprio perché inseparabili, in quanto ciascuno concettualmente ed operativamente inautonomo rispetto agli altri[5].
Il diritto sta in testa perché è in esso che gli altri hanno la loro fonte: la ragion d’essere del primo è, infatti, nella ricerca della verità e, di riflesso, nel raggiungimento e nella somministrazione della giustizia. Il diritto è il mezzo, la verità e la giustizia sono il fine.
Attorno a questi termini ruotano tutti gli scritti qui riuniti, l’ultimo dei quali è di P. Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, seguiti da un’appendice dello stesso Sciascia su La dolorosa necessità del giudicare, nella quale è un’affermazione a tutta prima stupefacente, vale a dire che “la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare”, dal momento che quest’ultimo è “una dolorosa necessità … un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio” (153)[6].
Una buona parte degli scritti si deve alla penna di siciliani, magistrati (come i curatori) e docenti universitari che – come rileva D. Galliani[7] – “hanno più somiglianze che differenze, … l’attenzione alle giuste parole e l’arrovellarsi con estremo puntiglio”[8]. Considero questa scelta non casuale e felice allo stesso tempo. È come per Camilleri: chi più o meglio di un siciliano può coglierne certe sfumature e coloriture del linguaggio? O, appunto, come per Eduardo: certi ammiccamenti, sguardi parlanti anche se non accompagnati da parole, anzi ancora più eloquenti di queste ultime, ebbene chi, più e meglio di un napoletano, può intenderne il profondo, indescrivibile significato?
I personaggi di Sciascia, anche quando sono calati in un contesto affollato di persone (ed anzi, ancora più in siffatte circostanze), sono sempre, naturalmente e tragicamente, soli, maledettamente soli: con se stessi, persino all’interno della loro famiglia[9]. E così è anche – non casualmente – per quelli di Eduardo[10].
La famiglia, per il siciliano come pure per il napoletano (e il meridionale in genere), prende il posto dello Stato, che è lontano, assente e non di rado avversario, armato del suo apparato di leggi e di organi vessatorio nei riguardi del singolo. Tra Stato e mafia non c’è talora distinzione alcuna, perché la seconda non è esterna e nemica del primo bensì dentro di esso[11]. Con lucida, spietata consapevolezza, Sciascia mette a nudo e disvela una verità che è già nei Vangeli[12], rilevando che “tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e poi combatterlo”[13]. Proprio per ciò, è impresa improba sradicare la mafia una volta per tutte, dal momento che – è da temere –, al pari del peccato, essa accompagnerà e segnerà a fondo la storia di ciascun essere umano e dell’intera umanità fino alla fine del mondo. Perché la mafia, oltre (e prima ancora) che essere un’organizzazione o – romaniamente – un ordinamento giuridico, è un abito mentale e, allo stesso tempo, un fenomeno ormai profondamente radicato e diffuso nel corpo sociale, dunque endemico, come il covid-19 che da anni ormai ci affligge ed inquieta. La guerra combattuta dallo Stato contro di essa appare perciò essere senza fine, pur rinnovandosi nei mezzi e nelle manifestazioni, malgrado il nobile sacrificio di quanti si sono esposti in prima linea per essa, anche a costo della loro stessa vita: sempre a testa alta e schiena diritta, come i giudici R. Livatino, la cui memoria mi è particolarmente cara, G. Falcone, P. Borsellino e tanti, tanti altri prima e dopo di loro.
Forse, questo rassegnato giudizio è frutto della mia “sicilianità”[14], del disincanto con cui chi ha la mia età vede le cose del mondo, con un mix di realismo e pessimismo, con un sentimento altalenante che conosce, sì, anche punte di ardimentoso ottimismo alimentate dal cuore e però inframezzate a foschi e soffocanti pensieri di una ragione indomita e crudele.
Lo sconsolato giudizio che Sciascia mette in bocca a Diego La Matina, facendogli dire che “dunque Dio è ingiusto”[15], è rivelatore dell’intera Weltanschauung dello scrittore siciliano: se “Dio è ingiusto”, il mondo è sbagliato, irrecuperabile e, perciò, lo è la società nella quale ogni individuo recita, come a teatro, la propria parte, spesso improvvisando le battute, e tuttavia pur sempre consapevole che le cose cambiano col tempo solo in apparenza, allo scopo – come diceva il Principe Salina ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – di far restare tutto come prima.
Il siciliano è un solitario per vocazione, pur avvertendo – ed è una contraddizione apparente – un disperato bisogno di stare sempre con altri; il mondo non cambia perché la sua è una battaglia sovente condotta con metodi donchisciotteschi, indirizzata verso bersagli sbagliati, ombre e non corpi reali. Afflitto da pregiudizi ancestrali, piace a me dire: autentici crampi mentali, di cui non sa o non vuole liberarsi, è fatalmente condannato ad essere un perdente, anche (e, forse, soprattutto) quando cerca giustizia o si rivolge, per averla, a coloro che sono istituzionalmente deputati a somministrarla. Aspetta che le cose cambino dall’alto, come nelle antiche tragedie, per effetto della discesa dal cielo di un deus ex machina, il solo in grado di mettere ogni cosa al giusto posto dopo che gli uomini le hanno confusamente mescolate e non sanno più rimetterle in ordine. Non ha ancora maturato dentro di sé la consapevolezza che il mutamento non può venire dall’alto se prima non muove dal basso, dal corpo sociale e, prima ancora – come si diceva –, dal di dentro di ciascuno dei suoi componenti e da tutti assieme.
Come giustamente segnala N. Lipari[16], v’è in Sciascia “un continuo stimolo alla responsabilità personale, all’impossibilità di delegare ad altri, pur nei condizionamenti imposti dalla storia, la ricerca della verità e quindi l’attuazione della giustizia”.
In questa lotta impari dell’individuo contro il “sistema”, lo sconfitto, pur sapendo di essere tale, tiene ugualmente alla salvaguardia della propria dignità, dimostrando così di essere uomo di “tenace concetto”[17], che può essere libero unicamente se riesce ad esserlo da se stesso[18]; e in ciò vedo in Sciascia e nei suoi personaggi un’idea di dignità e di diritto fondamentale in genere connotata e nella sua essenza pervasa da una componente deontica indisponibile, quale a mia opinione risulta in modo fermo e chiaro rimarcata nella Carta costituzionale[19].
Lo sconfitto, infatti, è per vocazione giusto, col fatto stesso di ricercare la giustizia e, dunque, di mettere in moto la macchina preposta per la sua amministrazione. Nell’orizzonte culturale dello scrittore siciliano, non conta però tanto l’esattezza del giudizio (e, dunque, il raggiungimento della verità) quanto – come fa notare G. Mammone[20] – “il fatto che il giudizio, corretto o sbagliato, abbia avuto luogo … In altre parole, non è il giudice che tramite il processo tutela l’individuo per evitargli l’ingiusta condanna, ma è l’individuo che – innocente o colpevole, non importa – sottoponendosi al processo legittima il giudice ed i suoi apparati, comunque egli decida, anche (e soprattutto) se incorra in errore sulla colpevolezza”. L’individuo, poi, reagisce, quando e come può, alle ingiustizie che ha davanti agli occhi e che spesso patisce, magari abbandonandosi a scatti di collera o ad apprezzamenti frutto di non distaccato giudizio, come quello del cap. Bellodi a difesa dello stato d’eccezione.
Dunque, al fondo, la fiducia nello Stato non viene del tutto meno, tant’è che sovente l’individuo ricorre ai suoi organi per avere giustizia, andando tuttavia incontro a cocenti delusioni, che lo obbligano a fare i conti con una realtà discosta dal verum jus e, anzi, ad esso frontalmente, irriducibilmente ostile.
La giustizia, nel contesto culturale in cui l’amara riflessione di Sciascia si situa, richiudendosi ed imprigionandosi però in se stessa, appare essere più forte della verità, “che si può solo immaginare, ma non raggiungere, in quanto perennemente appannata da verità costruite e manipolate”[21].
Cambiano gli scenari, nel passaggio da uno scritto all’altro, ma ricorrente è l’“atmosfera di ovatta silenziante”[22], dominata sovente da figure femminili che nel regno domestico giocavano (e giocano…) un ruolo di prima grandezza, seppur in apparenza sottomesse al dominus, in un ambiente sociale ancora fortemente segnato da una strutturale diseguaglianza dei sessi. I dialoghi fra gli attori sulla scena assai di frequente non sono – come dire? – realmente comunicativi, appesantiti e deviati dal loro solco da “reciproche chiusure mentali” e “ostilità incrociate”[23].
Malgrado la cappa soffocante che, al pari dell’aria afosa di piena estate, opprime i siciliani, obbligati a vivere in un contesto segnato da atavici preconcetti ma del quale non saprebbero fare a meno, come i pesci fuori dell’acqua, e malgrado le ripetute, inesorabili sconfitte, i personaggi di Sciascia caparbiamente perseguono la verità e la giustizia assieme, non l’una disgiunta dall’altra bensì l’una all’altra inscindibilmente legate e – come si diceva poc’anzi – facendole entrambe poggiare sul diritto quale strumento privilegiato al servizio dell’uomo, dei suoi più avvertiti bisogni, della sua dignità appunto.
Per questo, il messaggio dell’uomo di Racalmuto resta, al fondo, venato da ottimismo, al di là e contro ogni apparenza, pur nelle interne lacerazioni e vere e proprie contraddizioni che affliggono l’autore, i suoi personaggi, il contesto sociale in cui vivono. In tutta la sua opera – segnalano opportunamente i curatori[24] – “l’anelito per la giustizia” si pone quale “l’autentico pendant delle innumerevoli ‘ingiustizie’” sparse qua e là nelle pagine che ci ha lasciato.
Il lascito morale di maggior pregio che è da esse pervenuto a noi e che – si può esserne certi – seguiterà a trasmettersi anche dopo di noi sta non già nell’idea del (non) possibile raggiungimento della meta – verità e giustizia assieme, veicolate dal diritto – bensì nel fatto in sé, eticamente significante, del cammino verso di essa, nella tensione morale che lo anima e sorregge, non facendo mai venir meno la speranza di poter giungere fino in fondo.
Il potere, da chiunque sia esercitato, è, sì, sopraffazione dei deboli da parte dei forti, che lo detengono stabilmente e se ne avvalgono sovente per fini inconfessabili, devianti dal diritto, dalle sue leggi, dai principi o valori cui esse s’ispirano. Ciò nondimeno, è intimamente avvertito e caparbiamente coltivato dai personaggi sciasciani il bisogno di non deviare dalla retta via della ricerca ansiosa, appassionata e allo stesso tempo sofferta, della verità e della giustizia, costi quel che costi; di farlo dunque – come efficacemente rileva G. Luccioli[25] – “con una tensione morale e secondo un percorso che esige il pagamento di un prezzo alto in termini di isolamento e di solitudine, e tuttavia indispensabile per disvelare le false apparenze che spesso nascondono la realtà dei fatti”.
Sciascia come Eduardo – per tornare, per l’ultima volta, ad un accostamento già fatto – volgono costantemente il loro sguardo amorevole e compassionevole, autenticamente solidale, verso l’uomo, le sue debolezze come pure le sue virtù, incoraggiandolo sempre a non piegarsi ed a non gettare la spugna, malgrado si senta stordito ed incerto sulle gambe come un pugile che sta per essere sconfitto sul ring. E rivolgono un fermo monito a chi invece, per sua fortuna o per merito, non è stato sconfitto nella vita (o, comunque, è stato segnato meno di altri) a mostrarsi tollerante verso le debolezze degli umili e degli oppressi e, allo stesso tempo, ad impegnarsi senza risparmio di forze – ciascuno secondo le proprie capacità ed inclinazioni, il giudice come pure lo studioso (e pur se rosi dal dubbio[26]) – per dare voce ai diritti degli ultimi, ormai afoni ed incapaci di far sentire la propria.
Gli autori di questa encomiabile raccolta lo hanno fatto: per quel che vale il mio giudizio, egregiamente.
* Presentazione di Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R.G. Conti, Cacucci, Bari 2021. Lo scritto è stato illustrato in occasione di un incontro dedicato all’opera ora richiamata, svoltosi a Palermo il 7 maggio 2022. Avverto che, in mancanza di diversa indicazione, da quest’opera sono tratti i riferimenti degli scritti di seguito richiamati.
[1] I riferimenti sono tratti dalla Nota introduttiva de I capolavori di Eduardo, I, Einaudi, Torino 1973, VII s.
[2] A. Pugiotto, Legge e letteratura, l’abbraccio sotto il segno di Sciascia, in Il Riformista, 4 novembre 2021, 9.
[3] Su La giustizia secondo Leonardo Sciascia v. il confronto svoltosi tra A. Rapomi Colombo, L. Carassai, P. Astorina, G. Fiandaca, F. Izzo, teletrasmesso da Radio radicale il 7 aprile 2018 (e disponibile anche on line); v., inoltre, ex plurimis, U. Apice, La collusione dei poteri nel Contesto di Leonardo Sciascia, in Il Quotidiano Giuridico, 10 gennaio 2020; A. Centonze, La giustizia e la ricerca della verità giudiziaria secondo Leonardo Sciascia, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 29 febbraio 2020, e, nella stessa Rivista, A. Apollonio, Il magistrato di Sciascia: eroe e anti-eroe tra “verità” e “giustizia”, 8 gennaio 2021, e G. Tona, Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità, 11 dicembre 2021; A. Mittone, Sciascia e la giustizia, in Doppio zero (www.doppiozero.com), 12 aprile 2021. Infine, E. Amodio - E.M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio, Palermo 2022.
[4] Di quest’ultimo, v., inoltre, l’ampia illustrazione delle ragioni che lo hanno portato a dare alla luce, in collaborazione con L. Cavallaro, l’opera che ora si presenta: v., dunque, di R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, Cacucci, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 2 settembre 2021. Non mi permetto di far luogo ad alcuna chiosa alle esaurienti spiegazioni addotte da uno dei curatori dell’opera qui presentata; mi limito solo a far richiamo di una indicazione di un’autorevole dottrina, secondo cui il risveglio dell’attenzione per l’opera di Sciascia, segnatamente da parte dei giuristi, può essere visto come il “sintomo di un bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia” [G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021].
[5] Lo spiega con esemplare chiarezza lo stesso R. Conti, nello scritto da ultimo cit., § 3: “l’assenza della virgola non è frutto di disattenzione ma, al contrario, ricerca di un’unità di senso tra i valori che tali espressioni incarnano”.
[6] Ferma opportunamente l’attenzione su questo passo, rivelatore della personalità di S., T. Groppi, Di fronte al potere. Considerazioni sul volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, Cacucci Editore, Bari, 2021, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 8 gennaio 2022. Quanto, poi al rapporto tra il giudice e il contesto sociale in cui esercita il munus affidatogli, giova non scordare ciò che lo stesso Sciascia ha al riguardo rimarcato, in un passo tratto da A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989, 80, opportunamente evidenziato anche da G. Fiandaca, Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare, nella stessa Rivista, 16 febbraio 2022: “quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”.
[7] Il tenace concetto per tenere alta la dignità dell’uomo. Su “Morte dell’inquisitore”, 47 ss. (e 48, per il riferimento testuale).
[8] Diverso è, nondimeno, l’angolo prospettico dal quale la realtà è osservata o – se si preferisce altrimenti dire – l’animus che ispira la osservazione stessa. Fanno tuttavia eccezione i magistrati che sono anche autori di scritti scientifici. Non saprei, ad ogni buon conto, dire se indossino questa seconda loro veste sopra la prima ovvero al posto di questa, diversamente dagli studiosi che non hanno familiarità con la pratica giuridica e le sue esigenze. Svolgimenti sul punto, qui non specificamente interessante, in altri luoghi.
[9] La “naturale e tragica solitudine del siciliano” è efficacemente resa, con magistrali pennellate linguistiche, da N. Irti, “Il giorno della civetta” e il destino della legge, 17 ss. e 21, per il riferimento testuale.
[10] Forse, la più emblematica rappresentazione di questo stato d’animo, peraltro sovente in modo esplicito e con sconsolata amarezza dichiarato, è in Sabato, domenica e lunedì.
[11] Ancora N. Irti, cit., 17.
[12] “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo” (Mc, 7, 1-8, 14-15, 21-23).
[13] Il riferimento è in N. Lipari, Diritto e letteratura in “Todo modo”, 98.
[14] … o – per dirla con lo stesso L. Sciascia – “sicilitudine” (Sicilia e sicilitudine, ora richiamato anche da R. Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia”, cit.).
[15] Il riferimento è in D. Galliani, cit., 62.
[16] N. Lipari, cit., 103. Rimarca il punto anche T. Groppi, nello scritto sopra cit.
[17] V., nuovamente, D. Galliani, cit., spec. 64.
[18] Ancora N. Lipari, cit., 106.
[19] Ho ripetutamente insistito sul punto, a mio giudizio di cruciale rilievo: di recente, ad es., nel mio Il referendum sull’art. 579 c.p.: inammissibile e, allo stesso tempo, dagli effetti incostituzionali, in AA.VV., La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p., a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 1/2022, 194 ss.
[20] Giustizia e individuo da Kafka a “Il contesto”, 85 s.
[21] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, 125.
[22] … secondo l’efficace descrizione datane da M. Serio, Luoghi, ragione giuridica, sentimento e impegno didattico: la società siciliana di “A ciascuno il suo”, 65 ss. (e 66, per il riferimento testuale).
[23] Ancora M. Serio, cit., 67.
[24] Introduzione, 12.
[25] … nello scritto sopra già richiamato, 127.
[26] … che poi – come si sa – è la cifra identificante, la più genuinamente espressiva sia dell’attività del giudicare che della ricerca scientifica, per loro statuto non inquinate da preorientamento alcuno. Ancora G. Luccioli, op. et loc. ult. cit., lucidamente avverte del significato del dubbio “come abito mentale del giudice … atteggiamento dello spirito che attraverso il rifiuto di facili certezze tende a sottoporre le emergenze del processo allo spietato controllo della logica, vivendo in modo incessante l’inquietudine della ricerca”. Un “abito mentale” ed una “inquietudine” che – posso testimoniare per il mio personale vissuto – sono propri, pur nella diversità dei ruoli e delle responsabilità, altresì degli studiosi.
Direttivi e semidirettivi, nomine e conferme. La parola al Consiglio giudiziario
Intervista di Federica Salvatore e Riccardo Ionta a Riccardo Ferrante, Cataldo Intrieri e Giuseppe Sepe
Un professore universitario, un avvocato e un magistrato a confronto sulle rispettive esperienze e visioni relative agli incarichi dirigenziali in magistratura e al ruolo del Consiglio giudiziario. È un sommarsi di letture differenti, dove le voci laiche fanno da contrappunto ai toni del togato.
Le sembra che i Consigli giudiziari, dovendo valutare gli aspiranti a incarichi direttivi e semidirettivi, diano conto a sufficienza nei pareri di avere verificato specificamente i loro atti organizzativi del quadriennio precedente, l’esito di questi e le valutazioni di professionalità che i candidati hanno espresso per i magistrati del loro ufficio?
Ferrante In quanto componente laico non ho modo di esprimermi su questo punto con riferimento specifico all’attività del CG di cui faccio parte. Non so quanto la “cultura della valutazione” si sia poi virtuosamente concretizzata. Detto in soldoni, e per il caso specifico, quanti magistrati hanno subito effettivamente una valutazione di professionalità negativa? Sul piano generale, per converso, credo sia un tema assai delicato per tutti i rami della PA e non solo. La “valutazione” è diventata una sorta di totem contemporaneo col che spesso si agisce non tanto per svolgere le proprie funzioni secondo scienza e coscienza, ma per ottenere una valutazione positiva, rimodellando strumentalmente l’esercizio della propria funzione. Questo si traduce nei fatti in una procedimentalizzazione estrema, nella ossessione di avere le carte in ordine al di là dei reali profili di merito. Tornando ai magistrati, la delicatezza del loro compito istituzionale è tale che questo tema diventa appunto un problema di difficilissima risoluzione, come anche il dibattito di queste ultime settimane ci conferma.
Intrieri Premetto doverosamente che io non ho nessuna esperienza interna da far valere sicché il mio è il parere o meglio l’impressione di un semplice fruitore di ciò che i CG producono. L’impressione generale è che non vi siano mai nell’ambiente della magistratura critiche e censure ufficiali a condotte e comportamenti inadeguati. Non di rado si segnalano alle proprie associazioni o all’ordine comportamenti censurabili di magistrati. A mia memoria non ricordo alcun riscontro ufficiale a tali denunce, Difficile pensare che vi siano nelle valutazioni dei capi degli uffici giudiziari giudizi realmente adeguati al valore dei collaboratori. Ciò che sta emergendo dalle Procure di Milano e Roma, vedasi il processo perugino a Luca Palamara e Stefano Fava, fa emergere situazioni di grave dissidio interno di cui non vi è traccia ufficiale oltre ciò che le inchieste hanno appurato.
Sepe Ho partecipato al Consiglio Giudiziario nel quadriennio 2016-2020 nel distretto di Napoli, che gestisce circa 1000 magistrati. A mio avviso il CG è certamente in grado di valutare tutto ciò che è agli atti del fascicolo di ciascun aspirante. Il punto è allora se le fonti valutative, che ruotano principalmente attorno al rapporto del dirigente – non di rado “appiattito” sull’autorelazione – sia sufficiente a svolgere una valutazione seria e attenta delle capacità organizzative del candidato. Certamente è possibile enucleare una serie di indicatori rivelatori delle attitudini organizzative dell’aspirante e fornire, così, un giudizio individuale motivato. In molti casi, tuttavia, si valutano domande presentate da magistrati anche esperti, ma pressoché privi di precedenti esperienze organizzative in senso stretto sicché le attitudini organizzative si traggono dal positivo esercizio della giurisdizione e dalla proficua gestione del proprio ruolo: desunta dalle statistiche comparate, dalla trattazione di processi di particolare complessità, dallo svolgimento di funzioni di presidenza dei collegi, ecc. Si tenga conto che il parere del CG non è comparativo ma individuale, giacché la comparazione avviene innanzi al Csm. Ne segue che la valutazione del CG si svolge senza particolari “tensioni” perché manca il momento del “confronto” tra i vari curricula.
Si discute del ruolo marginale attualmente assegnato nell’ambito dei Consigli giudiziari ai componenti non togati. Le risulta che a oggi i Consigli dell’ordine forniscano un apporto effettivo in ordine alle segnalazioni riguardanti i dirigenti degli uffici?
Ferrante Non mi è capitato di verificare particolari prese di posizione dei Consigli dell’ordine del nostro Distretto. D’altra parte, devo dare atto che, per lo meno a quanto ho potuto verificare personalmente, non si sono mai verificate durante il mio mandato – e fino ad ora – situazioni di particolare criticità da richiedere prese di posizione formali. Qualora vi siano problemi di portata generale, in un’ottica di “vigilanza” sull’andamento degli uffici, la tendenza credo sia rivolgersi direttamente al Ministero competente, alzando il livello politico dell’istanza o forse non riconoscendo particolare competenze/autorità al CG.
Intrieri L’impressione è che la scelta dei membri non togati sia su base meramente fiduciaria dei COA: ho proposto vere e proprie candidature con valutazioni comparate ed ufficiali. Il meccanismo attuale di designazione non serve a nulla.
Sepe Durante l’intero quadriennio della consiliatura partenopea 2016-2020 non ricordo di alcuna segnalazione pervenuta dal Consiglio dell’ordine degli avvocati riguardante magistrati del distretto. Allo stato, quindi, il ruolo dell’avvocatura nella valutazione dei dirigenti (in sede di nomina così come di conferma) è alquanto marginale mentre sarebbe auspicabile un maggiore più incisivo contributo nell’evidenziare e porre in luce eventuali criticità, ove esistenti.
Da sempre si dibatte sull’ampliamento delle fonti di conoscenza e lo stesso progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario prevede la partecipazione attiva dei componenti laici alle sedute sulle valutazioni di professionalità. In quale direzione il loro apporto può essere utile?
Ferrante Naturalmente la mia risposta potrebbe essere condizionata dal fatto di essere un componente laico, ma non lo sono in quota avvocati, bensì in quota docenti universitari; dunque, in una posizione di terzietà che forse può consentire un approccio più sereno al tema. Ritengo che soprattutto in questa fase storica tutte le realtà istituzionali vadano aperte e rese trasparenti, e che anche la magistratura debba fare la propria parte. Lo dico anche come consiglio spassionato, pensando alle reazioni dell’opinione pubblica ai fatti che hanno coinvolto l’organo di governo autonomo. Lascerei perdere la retorica delle garanzie costituzionali, pure sacrosante, che tutelano lo svolgimento delle funzioni di magistrato, e che possono suonare come autodifesa corporativa. Alcuni hanno parlato di possibili ritorsioni degli avvocati su qualche magistrato “sgradito” sotto valutazione; l’argomento è assai debole, perché controvertibile, in quanto ragionando su questa linea si potrebbe pensare per converso ad atteggiamenti compiacenti, certo non meno temibili.
Se c’è un concetto piuttosto chiaro circa la “valutazione” è che debba essere fatta da soggetti terzi, il più possibile lontani dal valutando. Che proprio in quell’occasione, dal CG siano allontanati i laici – appunto perché “estranei” – è una illogicità evidente, e non credo proprio possa essere giustificata rivendicando i valori dell’indipendenza e dell’autogoverno, che non devono apparire sinonimi di autoreferenzialità.
Intrieri L’avvocato esprime un punto di vista personale ma utilissimo: egli è in grado di valutare autorevolezza, preparazione ed equilibrio del magistrato con cui si misura. Ed anche la capacità produttiva. Comprendo i dubbi, ma la partecipazione attiva degli avvocati alle valutazioni è indispensabile. Dire che vi è il pericolo di commistioni e conflitti di interesse non può costituire uno sbarramento. Come ogni ambiente anche quello della giustizia ne presenta diversi. E’ il criterio generale che deve prevalere.
Sepe Il tema è molto discusso e vi sono sensibilità diverse nella magistratura associata. La componente laica è integrata nei Consigli giudiziari secondo le proporzioni stabilite dalla legge di modo che la sua partecipazione al circuito decisionale sulla professionalità dei magistrati non dovrebbe, in linea di principio, destare perplessità trattandosi di soggetti, particolarmente qualificati, in grado di esprimere un’opinione informata, desunta dalle fonti di conoscenza tipizzate dalla vigente circolare del Consiglio Superiore. Tuttavia il fatto che gli avvocati che compongono i Consigli giudiziari continuino a esercitare la professione negli uffici in cui prestano servizio i soggetti da valutare è discutibile, poiché ne può risultare un certo rischio di condizionamento dei magistrati in verifica (così come può esservi il rischio opposto, perché l’avvocato a sua volta “lavora” con i magistrati e tenderà ad evitare rapporti conflittuali).
In concreto, l’emendamento governativo alla delega al Governo per la riforma dell’O.G. aggiunge la possibilità, per la componente degli avvocati, di esprimere un voto unitario in sede di deliberazione sulla valutazione di professionalità dei magistrati, nel caso in cui il consiglio dell’ordine abbia effettuato segnalazioni sui magistrati in verifica, ai sensi del comma 1, lett. a, della Delega al Governo per la riforma ordinamentale della magistratura. Si tratta, dunque, di una innovazione che avrà, a mio avviso, una limitata incidenza posto che, ad oggi, scarsi sono i casi di segnalazione dei COA.
Frequentemente i provvedimenti organizzativi dei dirigenti degli uffici ritenuti dai Consigli giudiziari non corretti, anziché annullati, vengono, anche più volte, rinviati a loro per consentire le modifiche dei punti in cui si riscontrano carenze. Questa prassi consente alla fine del quadriennio una corretta valutazione dell’attività compiuta dal dirigente? In che misura tale interlocuzione risulta dal fascicolo personale del dirigente?
Ferrante Non posso rispondere per i motivi sopra esposti. Credo comunque lo dovrebbero essere senza dubbio. Il tema dell’organizzazione giudiziaria è spinosissimo, e con ciò quello della formazione dei magistrati alla dirigenza, come ho potuto verificare nel mio mandato nel Direttivo della SSM. Il magistrato non può essere per natura omnisciente; la dirigenza di un ufficio giudiziario non corrisponde pienamente alla categoria della “organizzazione aziendale”, ma ci va vicino e bisogna rassegnarsi. E con ciò rassegnarsi a essere formati, e a fare proprie le competenze relative. Questo avviene nella maggioranza dei casi? Non ci giurerei. Gli atti che passano dal CG sono in effetti un’ottima cartina tornasole; basta farne uso.
Sepe Ritengo che il dialogo tra CG e dirigente dell’ufficio costituisca espressione di un principio di leale collaborazione istituzionale nel cd. “circuito” dell’autogoverno sicché, ferma restando la discrezionalità sulle scelte organizzative che spetta interamente al dirigente dell’ufficio, è corretto che vi sia una continua e feconda interlocuzione con il CG sulle questioni più tecniche (es: interpretazione delle circolari), onde assicurare uniformità nell’applicazione delle circolari all’interno del distretto, evitando pareri contrari e le successive “non approvazioni”. Il rischio che la circolarità tra provvedimenti del dirigente e valutazione del CG possa incidere sulla corretta valutazione dell’attività del dirigente è, a mio modo di vedere, limitato».
Tra i compiti dei Consigli giudiziari vi sono anche funzioni di vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto. Tali compiti vengono realmente svolti dai CG e con quale frequenza, per quanto le consta? In che modo viene dato seguito alle eventuali segnalazioni provenienti dai magistrati dell’ufficio? I dati raccolti in queste procedure vengono inseriti nelle periodiche valutazioni di professionalità?
Ferrante Ripeto che il mio ruolo di componente laico mi impedisce di sapere come si formi in concreto il fascicolo personale e come incidano i vari fattori in gioco sulle valutazioni di professionalità. Detto questo, il CG svolge la verifica minuta delle singole pratiche che gli vengono via via sottoposte (per lo più di natura tabellare), e per quello che ho potuto verificare, con grande serietà. Vi è certamente una necessitata polverizzazione del lavoro. Una valutazione d’assieme, dunque la “vigilanza” in senso proprio, richiederebbe un impegno analitico molto attento, lavorando sullo storico per una corretta valutazione prospettica, con un investimento di tempo nei fatti arduo o che comunque richiederebbe una determinazione esplicita da parte del CG. Non posso dare testimonianza di disfunzioni sull’andamento di qualche ufficio del Distretto che abbiano stimolato una segnalazione al Ministero della Giustizia (salvo un problema circa l’applicazione della normativa di tutela per l’emergenza Covid-19); voglio credere che se nei fatti si fossero verificate, il CG di cui faccio parte avrebbe avuto modo comunque di prenderne atto, quantomeno nei casi eclatanti, e di agire di conseguenza.
Intrieri A queste ultime due domande non so rispondere: non sono mai stato chiamato a ricoprire l’alto incarico dal mio COA.
Sepe Nei distretti di maggiori dimensioni le attività di vigilanza sono svolte da un’apposita commissione istituita in seno al CG (Commissione di Vigilanza). Questa Commissione ha il compito di monitorare l’andamento dell’attività giudiziaria nei vari uffici del distretto, accertare l’esistenza di criticità o disfunzioni, ascoltare, in apposite riunioni, i dirigenti e i magistrati degli uffici, proporre rimedi, soluzioni organizzative, possibilmente concordate con la dirigenza, ai problemi più urgenti; infine segnalare l’esistenza di disfunzioni al Ministro. La Commissione ha dunque un positivo ruolo di analisi, consultazione e di proposta, di rimedi organizzativi atti a rimuovere eventuali criticità. Dopo le modifiche apportate nel 2007 il CG non ha più compiti di vigilanza sul “comportamento dei magistrati” in servizio presso gli uffici né di segnalazione di eventuali fatti suscettibili di rilevanza disciplinare: la norma attributiva di tale competenza, ossia l’art. 15, lett. c), della legge 25/2006, venne abrogata ad opera della legge 111/2007. Quindi non vi è modo che le verifiche disposte in sede di vigilanza transitino nelle valutazioni di professionalità.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.