1. Il tema oggetto del convegno odierno – ossia il ruolo prospettico del Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria nel nuovo sistema di giustizia tributaria – non è stato esplorato come meritava nel corso delle molteplici iniziative dedicate, nell’ultimo anno, alla riforma varata dalla Legge 31 agosto 2022, n. 130.
Meritava maggiore attenzione e approfondimenti perché di quest’ultima riforma “epocale” costituisce – a mio avviso – il perno centrale: infatti – per le ragioni che cercherò in sintesi di illustrare – il reale successo della riforma e l’effettiva affermazione della nuova giurisdizione dipende eminentemente dal ruolo concreto che il CPGT assumerà nell’autogoverno della nuova magistratura tributaria.
2. La riforma della giustizia tributaria, seppur “epocale”, risente fortemente della pressione temporale determinata dalla sua origine (ossia la necessità di raggiungere, nei rigidi termini fissati, gli obiettivi del PNRR) e, per ciò, è finita col risultare una riforma “timida” e “parziale”, negli aspetti problematici che ha affrontato, e “incompiuta” e fonte di “criticità”, per altri aspetti altrettanto urgenti e centrali dell’assetto della giustizia tributaria che non sono stati affrontati o sono stati affrontati con soluzioni di compromesso inappaganti.
Limitandomi ai profili ordinamentali, vediamo, dapprima, perché la riforma è “epocale”, e poi, in relazione alle modifiche di maggiore rilevanza, perché è anche “parziale” e “incompiuta” (e, per l’effetto, intrisa di criticità), tratteggiando il ruolo che il CPGT è chiamato ad assumere nell’attuale assetto per garantirne resistenza (se non la stessa esistenza).
3. La riforma è “epocale” perché ha determinato la nascita nel nostro ordinamento della c.d. quinta magistratura (che si affianca a quella ordinaria, amministrativa, contabile e militare), composta da giudici tributari: 1) professionali, 2) selezionati per concorso e 3) qualificati espressamente “magistrati tributari” dalla legge processual-tributaria (cfr. art. 1-bis del d.lgs. n. 545/1992)
La creazione di una vera giurisdizione speciale tributaria era attesa in Italia da circa 160 anni.
E infatti, fin dall’unità d’Italia gli organi investiti di competenza a conoscere le controversie tributarie, le “Commissioni Tributarie”, hanno dato vita a vere e proprie eccezioni rispetto al sistema giurisdizionale nel suo complesso, e rispetto al sistema di giustizia nei confronti degli atti della pubblica amministrazione in particolare.
Sfuggite alla generalizzata abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo degli Stati preunitari (realizzata con la storica legge n. 2248/1865 allegato E, per effetto della clausola di salvezza contenuta nell’art. 12 di essa), le Commissioni Tributarie hanno passato indenne anche l’introduzione della Costituzione repubblicana, per effetto di una lettura conservativa che la Corte Costituzionale ha offerto della VI disposizione finale, nel senso che i giudici speciali preesistenti non dovessero essere necessariamente aboliti, ma semplicemente riorganizzati.
Tale riorganizzazione tuttavia non avvenne, al punto che alcune pronunce della Corte Costituzionale hanno addirittura negato alle Commissioni tributarie il carattere di veri e propri giudici, ciò che avrebbe privato l’intero comparto tributario della presenza di un giudice in senso tecnico, facendo tornare la situazione alla condizione preunitaria, quando il rapporto tra il cittadino e l’amministrazione non poteva essere conosciuto da un giudice terzo e imparziale, ma soltanto da organi interni alla stessa amministrazione.
Tra gli anni ’70 e ‘90 vi è stata una miniriforma (quella di cui al d.P.R. n. 636/1972 e, poi, al d.lgs. n. 545/1992) che è stata ritenuta sufficiente per riabilitare le “Commissioni” come giudici speciali, con la conseguenza che esse si sono conservate sostanzialmente indenni con le loro radici nei sistemi preunitari.
Ciò ha comportato che, fino all’attuale riforma, le controversie aventi ad oggetto la legittimità e la fondatezza degli atti impositivi sono state decise nei gradi di merito da giudici che meritoriamente hanno svolto – e continueranno a svolgere finché la nuova riforma non entrerà a pieno regime – l’attività giudiziale nel tempo libero da altri impegni, e incardinati in una struttura organizzativa del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Quest’assetto si è tradotto in una eccessiva attenzione della giustizia tributaria verso le istanze provenienti dall’Amministrazione finanziaria, anche formali: a quest’ultimo proposito basta menzionare le circolari del MEF che indicavano ai giudici di merito gli orientamenti da assumere su certe questioni e, da ultima, a quanto mi risulta, quella contenente la direttiva di non concedere le sospensive cautelari.
La mancanza di giudici tributari professionali di merito ha generato conseguenze anche nel giudizio di legittimità: in cassazione, infatti, la materia tributaria è trattata da magistrati ordinari, e dunque professionali, ma che nella loro vita giudicante si sono trovati, nella maggior parte dei casi, a trattare tutt’altre materie ed erano privi di esperienza specifica in materia tributaria.
4. La legge di riforma ha risolto le problematiche illustrate solo in misura “parziale”, finendo addirittura con l’accentuare talune criticità pregresse, tanto che – come tutti sappiamo – lo scorso 31 ottobre la Corte di Giustizia tributaria di I grado di Venezia (ordinanza n. 408/1/22) ha già chiesto l’intervento e il vaglio delle nuove norme introdotte dalla riforma da parte della Corte Costituzionale.
Cos’è stato fatto dalla riforma è noto a tutti.
Ha previsto – come detto – l’introduzione di magistrati tributari professionali e a tempo pieno,
la selezione dei nuovi giudici tributari per concorso pubblico annuale bandito dal MEF, previa deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, a cui possono partecipare i laureati in giurisprudenza, ma anche quelli in economia, in nome (formalmente) dell’elevato tecnicismo della materia tributaria.
Nell’anno 2029, a regime, il numero complessivo dei magistrati tributari è previsto in 576 unità (numero che, invero, mi sembra molto limitato se la mole di lavoro dei giudici tributari rimane quella attuale: si consideri che gli attuali giudici tributari onorari sono 2.300 circa e, notoriamente, sono in affanno) e il loro trattamento economico è, ora, equiparato a quello dei giudici ordinari.
Gli organi giudicanti non si chiamano più “Commissioni tributarie”, ma “Corti di Giustizia tributaria”, a segnalare la nuova, piena natura “giurisdizionale” (che sarebbe stata segnalata in modo sicuramente più appropriato dall’uso di “Tribunali tributari”, espressione vagliata dalla commissione di riforma ma ingiustificatamente respinta per volere di una parte dei suoi componenti).
Se questo è, in sintesi, ciò che è stato fatto, vi sono limiti, mancanze e criticità che la rendono – come detto – una riforma “parziale” e “incompiuta”.
4.1. Innanzitutto, la riforma non prevede l’accesso dei magistrati tributari di carriera alla Suprema Corte, limite, questo, presente fin dalle prime bozze della riforma e divenuto invalicabile nel testo definitivo per la prevista possibilità di avere giudici tributari con laurea in economia.
Nel nuovo assetto riformato avremo magistrati tributari di merito con una formazione specialistica, le cui sentenze saranno vagliate da una Suprema Corte costituita in netta prevalenza (tolti i giudici di legittimità che, fino ad oggi, hanno operato anche nei gradi di merito) da magistrati privi di una formazione altrettanto specialistica, per le ragioni che ho detto all’inizio.
La situazione è aggravata da altre due previsioni a regime:
- per la prima, i magistrati di cassazione non possono più essere anche giudici delle nuove Corti tributarie, con conseguente perdita di questa fonte di apprendimento sul campo della materia tributaria;
- i magistrati ordinari che decidono di optare per la magistratura tributaria non possono tornare indietro, precludendosi così la possibilità di accedere alla Corte di Cassazione, dove potrebbero portare (se potessero rientrare nella magistratura ordinaria) la preparazione tecnica specificamente acquisita quali giudici delle Corti tributarie di merito.
Insomma, si crea un giudice tributario di merito professionale e specializzato, ma si lascia la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, istituita dalla stessa legge di riforma (art. 3, L. n. 130/2022), in mano a giudici ordinari provenienti da altre sezioni, e dunque, in principio, non specializzati.
E ciò in un contesto – qual è quello attuale – in cui la giurisprudenza di legittimità ha assunto un ruolo para-legislativo, con orientamenti che stanno assumendo, de facto, valore di “precedente vincolante” come nei sistemi di common law.
4.2. Ma vi è un’ulteriore mancanza che rende assai critico l’assetto ordinamentale varato: non è stato reciso il legame col Ministero dell’Economia e delle Finanze, che anzi è divenuto ancora più forte e penetrante, mettendo a serio rischio indipendenza, terzietà e autonomia dei nuovi magistrati tributari.
Il problema esisteva già prima ed è noto a tutti.
La giustizia tributaria ha fatto sempre capo gerarchicamente al MEF, e non al Ministero della Giustizia o alla Presidenza del Consiglio, ossia al Ministero che, tramite la gestione dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, è titolare dei rapporti di debito-credito oggetto della maggior parte delle controversie tributarie, con il cortocircuito che le cause tributarie sono state decise da un giudice incardinato nella struttura organizzativa di una delle parti in causa.
La riforma ha aggravato la situazione, portandola, forse, a un punto di rottura.
Adesso:
- i nuovi magistrati tributari sono formalmente “dipendenti” del MEF,
- il concorso è bandito con decreto del MEF, che gestisce le procedure concorsuali;
- la nomina a magistrato tributario dei concorrenti risultati vincitori avviene con decreto del MEF, che ha totale competenza in ordine allo status giuridico ed economico dei magistrati tributari;
- il MEF, tramite un’apposita Direzione, supporta l’Ufficio ispettivo che è stato istituito presso il CPGT;
- il nuovo Ufficio del Massimario Nazionale, istituito sempre presso il CPGT, deve avvalersi delle risorse e dei servizi del MEF, e le massime elaborate devono alimentare la banca dati della giurisprudenza tributaria di merito gestita dal MEF.
4.3. In questo nuovo contesto si può ancora affermare che la giustizia tributaria è autonoma, terza e indipendente?
Questa domanda se l’è posta anche la Corte di giustizia tributaria di I grado di Venezia, che, con l’ordinanza n. 408 del 30 ottobre 2022, ha sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale e di compatibilità con l’art. 6 della CEDU (che prevede una serie di garanzie in tema di equo processo) delle nuovissime norme sulla magistratura tributaria.
Nell’ordinanza di rimessione, i giudici tributari veneti hanno sottolineato le differenze che derivano dal nuovo assetto ordinamentale, denunciando che – se in occasione della precedente ordinanza della CTP di Reggio Emilia dichiarata inammissibile si poneva una questione di “apparenza” di indipendenza – oggi si pone una questione di indipendenza tout court, alla luce delle circostanze evidenziate (rapporto di lavoro dipendente con il MEF in esclusiva, con gestione completa dello status giuridico ed economico dei magistrati, ecc.).
Non credo, per evidenti ragioni, che la Corte Costituzionale giungerà a demolire la nuova disciplina della giustizia tributaria, ma sarebbe dovere del legislatore rispondere alle domande poste con l’ordinanza di rimessione. E basterebbe poco: una legge che ponga la giustizia tributaria sotto l’ombrello gerarchico del Ministero della giustizia o, meglio ancora, della Presidenza del Consiglio.
5. Se questo è il quadro generale, il ruolo del Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria è cruciale nel contesto della giustizia tributaria riformata, essendo evidente che solo un CPGT forte e autonomo può tamponare il vulnus ai principi di terzietà e indipendenza che l’attuale assetto della giustizia tributaria si presta a generare.
Rispetto al passato, il CPGT è chiamato a realizzare un netto cambio di passo.
In presenza di una compenetrazione così forte tra gli organi di giustizia tributaria e il MEF – e non essendo verosimile immaginare (per motivi che tutti conosciamo) la trasmigrazione della giurisdizione tributaria sotto il Ministero della Giustizia o la Presidenza del Consiglio, su iniziativa del legislatore o come conseguenza di un intervento della Corte Costituzionale – è ben evidente che solo un CPGT robusto, resistente e autorevole, che esercita appieno e senza timore reverenziale le prerogative concesse dalla legge, può garantire l’indipendenza effettiva dei giudici tributari (che è prevista dall’art. 108, secondo comma, Cost. anche per i giudici speciali) – e l’equilibrio generale del nuovo “sistema” della giustizia tributaria: nel nuovo contesto, e in breve, il CPGT deve ergersi a “barriera invalicabile” (utilizzando la felice espressione dell’attuale Presidente Antonio Leone) tra i magistrati tributari (che soggiacciono e devono soggiacere soltanto alla legge, come prevede icasticamente l’art. 101 della nostra Costituzione) e il MEF (loro datore di lavoro e, insieme, parte in causa!).
È per queste ragioni che – come ho detto in apertura – è dal ruolo concreto che il CPGT assumerà nell’autogoverno della nuova “magistratura tributaria” che dipende il reale successo della riforma e l’effettiva affermazione della nuova giurisdizione, nella prospettiva di un ritrovato equilibrio sostanziale tra l’interesse di parte pubblica al contrasto dell’evasione e il diritto dei contribuenti a subire una “giusta imposizione”.
[1] Testo dell’intervento introduttivo svolto dall’A. al convegno “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e la sua Agenda”, svoltosi presso l’Università L. Bocconi in data 27 giugno 2023.
*Professore ordinario di diritto tributario nell’Università L. Bocconi, Milano