La disciplina nazionale IVA sulle società di comodo al cospetto della Corte di Giustizia. Si preannuncia l’incompatibilità europea. Nota all’ordinanza della Corte di Cassazione n. 16091 del 15 maggio 2022
di Rossella Miceli
Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina IVA in materia di società di comodo. 3. La natura delle società di comodo quale necessaria premessa logica. 4. La questione pregiudiziale rimessa alla Corte di Giustizia. 5. L’assenza di soggettività passiva IVA della società di comodo e la conseguente irragionevolezza della disciplina nazionale. 6. Le incoerenze del test di operatività e il regime della prova contraria, quali ulteriori indici della incompatibilità della disciplina. 7. Conclusioni.
1. Premessa.
Con l’articolata ed approfondita ordinanza interlocutoria n. 16091 del 15 maggio 2022, la Corte di Cassazione rimette alla Corte di Giustizia europea la questione di compatibilità di alcune disposizioni relative alla disciplina nazionale sulle “società di comodo” (anche “società non operative”), recata nell’art. 30 della L. 23.12.1994, n. 724.
In tale articolo, come noto, trova espressione una delle normative più discusse e criticate del nostro sistema fiscale, tacciata più volte dalla dottrina di profili di incostituzionalità e di incompatibilità europea[1].
Nonostante le continue censure, la suddetta normativa con costanti revisioni ed innesti ha resistito indenne nel nostro sistema giuridico per circa trent’anni, nel corso dei quali non è stata mai soggetta ad un vaglio da parte delle Corte di Giustizia o della Corte costituzionale[2].
Alla luce di tali considerazioni, l’ordinanza in esame definisce una prima importante occasione di comprendere l’allineamento della disciplina sulle società di comodo ad un comparto importante dell’ordinamento giuridico, quello relativo al sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto (d’ora innanzi, IVA).
Ne consegue come il cuore della suddetta disciplina, costituito dai presupposti di accesso e dalle complesse regole di determinazione delle imposte dirette, sarà in questa sede oggetto di esame in modo incidentale, in quanto la questione (su cui si fonda l’ordinanza di rimessione) attiene, esclusivamente, alla compatibilità della disciplina IVA con i principi europei in materia.
Comprendere le ragioni dell’ordinanza della Suprema Corte e valutarne la sostenibilità impone, preliminarmente, di focalizzare il regime nazionale IVA previsto per le società di comodo e di effettuare una breve riflessione sulla ratio della disciplina recata nell’art. 30 della suddetta legge.
Si ritiene, infatti, che i problemi della materia in esame e la stessa questione di compatibilità, oggetto di analisi, discendano principalmente da una mancata chiarezza sulla ratio legis sottesa alla disciplina, aspetto che, negli anni, si è sempre più aggravato a causa di una importante stratificazione normativa.
In tal senso, le partendo dalla definizione della suddetta ratio, si procederà alla valutazione delle motivazioni espresse dalla Suprema Corte, riflettendo su quelli che si presume possano essere gli esiti della questione in sede europea.
2. La disciplina IVA in materia di società di comodo.
L’applicazione della normativa in materia di società di comodo consegue alla realizzazione di presupposti specifici stabiliti dalla legge, i quali - nella disciplina vigente ratione temporis, nel momento in cui nasceva la controversia oggi sub judice - si sostanziavano esclusivamente nel mancato superamento del così detto “test di operatività”[3].
In base a quest’ultimo, si valuta la redditività dei beni patrimoniali detenuti dalle società commerciali (di persone e di capitali) in relazione a parametri minimi individuati dalla legge; il test contiene, infatti, una predeterminazione normativa di ricavi, il cui mancato superamento attesta un’improduttività dell’ente societario.
Scopo del test stesso è quello di dimostrare che i beni patrimoniali detenuti dalla società non possiedano una redditività adeguata alla loro consistenza economica, rilevando - in tal modo - un importante indice sintomatico dell’inattività della società stessa, basato sulla massima di esperienza secondo la quale ogni bene destinato all’impresa dovrebbe contribuire alla realizzazione di congrui ricavi.
Il mancato superamento del test e l’assenza del ricorrere di cause di esclusione determinano l’applicazione di una specifica disciplina impositiva che riguarda le imposte dirette e l’IVA.
Le cause di esclusione definiscono in senso negativo l’ambito di azione della disciplina delle società non operative, individuando una serie di fattispecie in cui la disciplina in esame non è applicabile in quanto la mancata redditività è giustificata. Le cause di esclusione sono numerose e si suddividono in diverse tipologie[4].
Si prevede, inoltre, una causa generale di esclusione (ex art. 30, comma 4, ter L. n. 724/1994), idonea a ricomprendere tutte le ipotesi non riconducibili ad una delle suddette cause espressamente previste. In ossequio a tale causa generale, al contribuente è consentito dare prova di “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinato in base alla disciplina delle società non operative ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini IVA”.
La disciplina impositiva rivolta alle società di comodo si caratterizza da sempre per connotati estremamente penalizzanti.
Con specifico riferimento all’IVA, si prevedono due regimi che limitano le prerogative connesse all’ordinario meccanismo applicativo del tributo.
Il primo regime definisce una preclusione generale in relazione all’utilizzo della eccedenza IVA, in quanto l’eccedenza di imposta, pari al credito risultante in dichiarazione, non è ammessa a rimborso, non può essere compensata (ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9.7.1997, n. 241), non può essere ceduta a terzi (ai sensi dell’art. 5, comma 4 ter, D.L. 14.3.1988, n. 80, convertito in L. 13.3.1988, n. 154). Tale eccedenza può essere soltanto utilizzata a scomputo dell’IVA dovuta (ove esistente), al di fuori di tale possibilità l’unica strada possibile è quella del riporto a nuovo dell’ammontare in esame.
Il secondo regime preclude la possibilità di compensazione verticale dell’IVA a credito, rendendo tale ultimo credito sostanzialmente inutilizzabile.
La suddetta limitazione matura nel momento in cui per tre periodi di imposta consecutivi la società sia non operativa (ai sensi della disciplina) e non effettui operazioni rilevanti ai fini IVA pari almeno all’importo del reddito minimo presunto (come determinato ai fini delle imposte dirette).
Si tratta, come osservato in altra sede, di una disciplina che nel suo complesso determina un doppio livello di penalizzazioni, che operano in modo progressivo[5].
Il primo livello di penalizzazione sorge sul versante del recupero del credito emergente in dichiarazione, il cui utilizzo è soggetto alle sopra indicate limitazioni; ne consegue come per tutte le società che non hanno operazioni attive il credito risulterà inutilizzabile.
Il secondo livello designa un’indetraibilità assoluta dell’IVA sugli acquisiti di beni e servizi, ponendo il soggetto non operativo nel sistema impositivo nella stessa posizione di un consumatore finale, ma con tutti gli obblighi di un soggetto passivo. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo utilizzare il proprio credito; ciò determina la circostanza che, oltre ad assolvere ad un’imposta per ogni operazione economica, rimarrà anche inciso dall’imposta stessa, come se avesse acquistato il bene o il servizio per destinarli al consumo.
In altre parole, le preclusioni introdotte agiscono sul piano della neutralità del tributo che gradualmente viene limitata, in un primo tempo parzialmente (mancato utilizzo della eccedenza IVA) ed in un secondo tempo totalmente (indetraibilità dell’IVA sugli acquisiti), definendo un effetto analogo a quello che si realizzerebbe se la società stessa fosse un consumatore finale.
3. La natura delle società di comodo quale necessaria premessa logica.
Uno dei temi più discussi nella materia tributaria, nell’ambito della normativa sulle società di comodo, è stato quello attinente alla loro natura e qualificazione.
La stratificazione normativa e gli effetti pregiudizievoli che l’applicazione della disciplina recava in capo ai contribuenti sono stati elementi che, sin dai primi anni di operatività della legge, hanno concentrato l’attenzione degli interpreti sulla comprensione di chi fossero le società di comodo nella realtà economica[6]; la definizione di tale natura avrebbe esplicitato la ratio legis della stessa e consentito di chiarire le ragioni di un assetto così penalizzante.
Sul tema si sono registrate diverse ricostruzioni giuridiche, sostenute in modo più o meno esplicito dalle evoluzioni che la disciplina ha ricevuto[7].
Inizialmente è sembrato che alla disciplina si dovesse riconoscere una natura antievasiva in quanto la stessa pareva reprimere le società che occultavano i ricavi prodotti; in tal senso la disciplina medesima avrebbe contrastato il fenomeno dei ricavi “in nero”, perseguendo l’obiettivo di combattere l’evasione fiscale.
In un secondo tempo si è maturata l’idea che la normativa potesse avere una matrice antielusiva, finalizzata al contrasto dell’abuso dello strumento societario per finalità estranee all’attività imprenditoriale. Secondo tale ricostruzione le società di comodo costituiscono costruzioni artificiose, non sostenute da valide ragioni economiche.
Sulla scia della costruzione antielusiva si è definita un’ulteriore giustificazione che, a nostro avviso, ha reso una più idonea interpretazione dei caratteri specifici della disciplina, assumendo connotati più coerenti sul piano teorico e con il dato normativo[8]. Tale ultima ricostruzione sembra essersi imposta nel panorama giuridico, trovando una condivisione anche da parte della giurisprudenza.
Le società di comodo definirebbero organizzazioni finalizzate alla mera detenzione di beni patrimoniali allo scopo di esercitarne un godimento; conseguentemente, lo spirito e il senso della normativa si rinvengono nella necessità di definire un trattamento impositivo di tali fattispecie, che - operando delle correzioni alla normativa fiscale - ne disincentivi la costituzione.
In tal modo, si compie un passaggio necessario per la materia fiscale, ove - come a tutti noto - si presume lo svolgimento dell’attività di impresa in capo a tutte le società commerciali di persone e di capitali, rivolgendo alle stesse una disciplina impositiva strutturata per le attività economiche e nota come “statuto fiscale dell’Impresa e delle società”[9].
Le ragioni che conducono a sostenere tale ultima ricostruzione si ravvedono nella circostanza che attualmente le società di mero godimento non sembrano essere (più) vietate dal sistema normativo.
Per tempo l’art. 2248 c.c. - prevedendo che la comunione a scopo di godimento non possa essere esercitata nella forma sociale, ma debba trovare la propria disciplina nelle norme in tema di comunione – ha definito un limite alla creazione di tali società.
L’evoluzione del diritto civile ha progressivamente operato una svalutazione di tale divieto con riferimento alle società semplici e a quelle di mera gestione previste dalla legge[10].
L’attuale diritto commerciale in diverse occasioni ha superato la nozione tradizionale di società per avviarsi verso una fase storica definita “pansocietaria”, nell’ambito della quale il modulo sociale può essere utilizzato anche per finalità diverse dall’esercizio dell’impresa.
Ne consegue come le società di mero godimento, oltre a non essere vietate dalla legge come anticipato, non costituiscono una espressione di abuso del diritto in senso tradizionale, né una forma di condotta fraudolenta.
Le società di mero godimento, al di là delle ipotesi tipizzate dal legislatore, qualificano fattispecie atipiche di utilizzo dello schema societario per lo svolgimento di una attività differente da quella di impresa. In ragione di ciò l’indice sintomatico che consente di rinvenire tali realtà all’interno della materia fiscale è stato individuato nella mancanza di ricavi adeguati alla consistenza patrimoniale dei beni detenuti.
L’ordinanza in esame abbraccia questa impostazione - assumendo che “la presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza secondo la quale non vi è di norma effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi” – e, coerentemente alla stessa, ammette che - “il disfavore dell’ordinamento nazionale deriva dall’incoerente impiego del modulo societario …..e trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto è preordinato”.
La circostanza che le società di comodo identifichino attualmente società di mero godimento di beni patrimoniali definisce, in tal modo, la premessa logica dell’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia.
4. La questione pregiudiziale rimessa alla Corte di Giustizia.
L’ordinanza della Suprema Corte nazionale origina da una controversia tra una società contribuente e l’Ente impositore nella quale la prima contestava la qualifica di (società di) comodo, conseguente alla contabilizzazione di operazioni attive ai fini IVA per un importo inferiore rispetto alla soglia di ricavi prevista dalla legge.
La contribuente impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale l’avviso di accertamento con il quale era assoggetta alla disciplina prevista dall’art. 30, L. n. 724/1994; a seguito di due pronunce in senso conforme nelle quali veniva respinto il ricorso della società, la controversia giungeva alla Suprema Corte dinanzi alla quale si maturava il sospetto dell’incompatibilità comunitaria della disciplina.
Nell’ordinanza di rimessione sono sviluppati numerosi argomenti che, nel loro insieme, convergono verso un unico generale quesito ovvero la compatibilità con la disciplina europea recata nella direttiva IVA (direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006) delle norme nazionali rivolte alle società di comodo.
In tal senso, si sottolinea la centralità del diritto alla detrazione nel sistema IVA e il suo diretto collegamento con la nozione di soggetto passivo, alla luce di ciò si ritiene inammissibile una limitazione del suddetto diritto in capo a soggetti IVA.
Tale compatibilità risulta, pertanto, dubbia rispetto alla disciplina della soggettività ed ai principi di proporzionalità, di neutralità e di certezza del diritto del sistema IVA.
Nel corso dell’analisi emergono anche, seppur in modo incidentale, i profili che determinano l’accesso alla disciplina e la prova contraria.
In particolare, dubbi si pongono sulla possibilità di escludere il diritto alla detrazione ad un soggetto che non supera il test di operatività, in considerazione principalmente delle caratteristiche di tale ultimo test, che impone la realizzazione di operazioni attive in misura coerente a parametri desumibili dagli asset patrimoniali posseduti e presume l’inattività di un soggetto nel caso di mancata realizzazione dei ricavi.
Allo stesso tempo, si pone in discussione che le suddette conseguenze possano essere rivolte ad un soggetto che, oltre a non aver superato il test di operatività, non sia in grado di dimostrare “l’esistenza di oggettive situazioni ostative”.
La comprensione delle questioni giuridiche in esame si deve concentrare - a nostro avviso – sull’analisi di un tema, che risulta preliminare.
Il punto di partenza deve essere quello di comprendere la posizione della società di comodo nazionale rispetto al sistema IVA alla luce della natura riconosciuta a quest’ultima.
La circostanza che la società di comodo non possa essere un soggetto IVA risolve - a nostro avviso - tutte le questioni oggetto dell’ordinanza.
In ogni caso, una riflessione sarà effettuata anche sui temi della coerenza del test di operatività e del regime della prova contraria. Si tratta di aspetti generali e di enorme importanza nell’assetto della materia dell’art. 30 della L. n. 724/1994, che assumono rilievo anche con riferimento al caso in esame.
5. L’assenza di soggettività passiva IVA della società di comodo e la conseguente irragionevolezza della disciplina nazionale.
La normativa europea IVA – e, in particolare, l’art. 9, par. 1, lett. a) della Direttiva n. 2006/112 – sancisce la soggettività passiva dell’imposta in capo a chiunque eserciti una attività economica, quest’ultimo soggetto se realizza operazioni imponibili ha diritto alla detrazione.
Come noto, in ordine alla definizione dei soggetti IVA esiste una profonda differenza tra il sistema europeo e quello nazionale.
A livello nazionale, in capo a tutte le società commerciali si realizza un automatico assoggettamento al regime del reddito di impresa per le imposte dirette e IVA; tale regime definisce un approccio formale nella individuazione dei soggetti che sono sottoposti alla disciplina fiscale dell’impresa.
A livello europeo, il presupposto soggettivo dell’IVA è invece qualificato secondo un approccio di tipo esclusivamente sostanziale, in base al quale si ammette che l’imposta debba essere assolta da soggetti che esercitano delle attività economiche rivolte al mercato in modo indipendente ed in regime di concorrenza. Tale nozione acclude al suo interno sia le attività di impresa, che quelle di lavoro autonomo e si concentra sul requisito della effettività dell’attività svolta con riferimento ai suddetti caratteri, prescindendo da status soggettivi, da fini dell’attività o dai risultati della stessa.
Nell’ambito della nozione di attività economica, la Corte di Giustizia ha espressamente evidenziato come la mera gestione di beni non definisca operazioni rilevanti ai fini IVA[11], sancendo in via generale la non assoggettabilità all’imposta di tutte le attività che si risolvono in una mera amministrazione interna di beni patrimoniali, in quanto non rivolte al mercato e non svolte in regime di concorrenza.
La Corte di Giustizia ha pertanto sottolineato come i soggetti che esercitano tali attività non siano soggetti IVA e debbano essere trattati - con riferimento al sistema impositivo - alla stregua di consumatori finali.
Alla luce di tali orientamenti, lo stesso legislatore italiano ha proceduto ad una riforma legislativa, con cui è stato previsto il disconoscimento della soggettività IVA ad alcune società immobiliari di mero godimento dei beni, sancendo che l’attività svolta dalle suddette società non sia più considerata commerciale[12]. I principi europei hanno così conferito una maggiore elasticità alla normativa italiana che ha dovuto abbandonare in alcuni casi l’automatismo legato alla presunzione di commercialità riferita alle società.
Sulla base di tale analisi si comprende come l’attuale disciplina IVA in materia di società di comodo soffra di un primo evidente profilo di incoerenza con i principi europei.
Se un soggetto esercita un’attività di mero godimento di beni patrimoniali dovrebbe essere estromesso dalla disciplina dell’imposta e non godere – conseguentemente - né della soggettività IVA, né del diritto alla detrazione.
Secondo tale impostazione, pertanto, risulta corretta una normativa nazionale che è finalizzata a rinvenire le società di mero godimento nel sistema giuridico, ma del tutto ingiustificate appaiono le misure predisposte da quest’ultima in ordine alle prerogative del sistema IVA.
I due regimi previsti privano i soggetti IVA di alcuni diritti fondamentali della disciplina, definendo un regime “ibrido” nel quale un contribuente rimane nel sistema dell’imposta, ma con una posizione pregna di limitazioni.
Alla luce di ciò completamente irragionevole si rivela anche il doppio livello di preclusioni che si maturano progressivamente con il perdurare della mancata redditività, le quali non trovano alcuna giustificazione sul piano della logica dell’imposta.
Il doppio livello di preclusioni e la previsione di una forma di indetraibilità definiscono un quadro di dubbia compatibilità europea rispetto non solo alla disciplina sulla soggettività IVA, ma anche ai principi di neutralità e di proporzionalità.
La disciplina in esame, infatti, altera il regime di neutralità dell’imposta e non rispetta alcuna proporzionalità, assumendo - invece - caratteri sanzionatori e finalità punitive verso le società di mero godimento.
Aver previsto un regime di limitazione alla detrazione configura, inoltre, anche una espressa violazione delle disposizioni europee della direttiva IVA (artt. 176, 177, direttiva n. 112/2006) che recano le deroghe al diritto alla detrazione che gli Stati membri possono introdurre.
Le deroghe in esame sono ammissibili in caso di motivi congiunturali, di ragioni finalizzate alla semplificazione della riscossione o giustificate dall’esigenza di evitare frodi o abusi.
Nel caso analizzato non ci troviamo in nessuna delle ipotesi suddette, avendo del tutto escluso che le società di comodo si collochino nell’area delle violazioni fiscali o delle condotte fraudolente.
Ne emerge, conseguentemente, come la disciplina IVA prevista per le società di comodo presenti evidenti profili di incompatibilità europea.
6. Le incoerenze del test di operatività e il regime della prova contraria, quali ulteriori indici della incompatibilità della disciplina.
Una questione di fondo che ricorre nei motivi sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia si rinviene nella comprensione dell’attitudine del test di operatività a dimostrare la qualità di società di mero godimento dell’ente e di sostenere le conseguenze giuridiche che seguono a tale qualifica.
Si tratta di una questione di ampio respiro che trascende gli aspetti IVA e coinvolge la disciplina generale delle società di comodo[13]. La questione si sostanzia, infatti, nella ragionevolezza del test ovvero nella sostenibilità del giudizio inferenziale sottostante la presunzione di ricavi.
Nella formulazione dei quesiti si rinviene anche una ulteriore prospettiva, anch’essa di rilievo generale. Si chiede, infatti, se le conseguenze del test siano sostenibili anche nel caso in cui il contribuente non sia in grado di dimostrare “l’esistenza di oggettive situazioni ostative”. Si comprende, quindi, come implicitamente sia chiamato in causa il regime della prova contraria.
Entrambi gli aspetti sono fondamentali nella materia delle società di comodo e da sempre molto discussi; una loro trattazione specifica coinvolge differenti principi generali della materia tributaria e - come tale - esula dalle finalità della presente riflessione.
Alla luce di ciò si effettueranno alcune brevi considerazioni che possono migliorare l’inquadramento della questione oggetto di cognizione.
I due temi indicati sono differenti ma risultano ontologicamente collegati, dal momento che l’idoneità del test a dimostrare l’esistenza delle società di comodo appare rinforzata se esiste un adeguato regime della prova contraria; in senso opposto, senza un effettivo sistema di difesa, i problemi del test si acuiscono in quanto le risultanze dello stesso assumono caratteri di incontrovertibilità in capo ai contribuenti.
Con riguardo specifico al test, sono state messe in luce nel tempo alcune lacune, relative soprattutto alla base logica ed alle modalità con cui lo stesso è stato costruito.
Sono emersi dubbi sull’esistenza effettiva di una connessione così diretta tra beni patrimoniali detenuti dall’impresa e ricchezza prodotta dagli stessi nonché sulla possibilità di esprimere tale connessione attraverso una presunzione di redditività costante[14].
In tal senso numerose critiche sono state rivolte soprattutto ai coefficienti utilizzati, ritenuti privi di alcuna ragionevolezza e attendibilità dimostrativa.
Più in particolare, il test di operatività è stato messo a punto con una costruzione giuridica di tipo inferenziale che - partendo da un dato noto, costituito dai beni patrimoniali detenuti dalla società - ha definito un livello di ricavi presunto, attraverso la tecnica della predeterminazione normativa[15].
Il risultato che ne è conseguito costituisce un valore presunto di tipo logico e di fonte normativa, cioè desunto in base a calcoli e valutazioni numerico probabilistiche. La predeterminazione è stata definita secondo criteri di medietà e di apoditticità ovvero i beni patrimoniali sono computati al loro valore medio, stabilito con riguardo all’esercizio in corso ed ai due precedenti (medietà) ed a tali valori sono poi applicati coefficienti individuati dalla legge che esprimono la misura della possibile redditività ritraibile dai beni patrimoniali.
Tali percentuali non risultano collegate rispetto ad accadimenti esterni o ad elementi reali riferibili ai valori presi in esame; in questo senso si qualificano come apodittici, in quanto sono posti dalla legge senza un collegamento con il fatto imponibile[16]. Il procedimento descritto ha destato molte critiche, in relazione soprattutto alla sostenibilità logica e giuridica del risultato prodotto al suo esito.
Si comprende, pertanto, come - anche in relazione a tale aspetto - i dubbi sollevati dalla Suprema Corte siano condivisibili.
Con riguardo alla disciplina della prova, si precisa che quest’ultima è stata oggetto di continue modificazioni negli anni[17].
Si premette che l’area normativamente prevista in ordine ai contenuti della prova contraria risulta astrattamente ampia ed articolata; si ricorda, infatti, come siano previste diverse tipologie di cause di esclusione espresse, al cui ricorrere la società è estromessa automaticamente dall’area delle società di comodo. A queste ultime si affianca anche una causa generale, dal contenuto non predeterminato, destinata a consentire la dimostrazione di tutte quelle fattispecie verificabili nella realtà che non sono oggetto di una causa espressa.
In tal senso, partendo da un assetto normativo potenzialmente congruo e ragionevole, i problemi che si sono registrati negli anni hanno riguardato le diverse discipline che hanno regolato le modalità di dimostrazione della prova contraria in sede procedimentale e le interpretazioni rigorose che si sono consolidate in seno alla giurisprudenza ed alla Amministrazione finanziaria in relazione al contenuto della prova stessa.
Focalizzando la nostra attenzione sul momento in cui si è sviluppata la controversia in esame, si ritiene che la possibilità di rendere una prova contraria da parte della società appaia pregiudicata da alcuni fattori.
Nella suddetta fase storica era previsto un obbligo di presentazione dell’istanza di interpello per tutti coloro che intendessero fornire la suddetta prova contraria, senza ulteriori possibilità nel caso in cui il contribuente non avesse inoltrato tempestivamente l’istanza o avesse ricevuto un diniego espresso. Il regime era molto limitativo e riduceva le possibilità di tutela delle società. Attualmente tale assetto è stato superato da una normativa maggiormente garantistica[18].
Allo stesso tempo, nella medesima fase storica, si era consolidata un’interpretazione sul contenuto della prova contraria molto limitante, che faceva leva sul dato letterale (previsto dalla norma) relativo alle circostanze “oggettive” che avevano causato i mancati ricavi.
L’Amministrazione finanziaria sosteneva che la natura oggettiva delle circostanze (che valevano ad escludere una società dall’ambito di applicazione della disciplina) qualificasse solo fattispecie in cui non si riscontrasse in alcun modo una volontà della società nel mancato ottenimento dei traguardi imprenditoriali. Nelle diverse circolari sull’argomento, si rilevava come risultasse essenziale dimostrare che l’incapacità di produrre ricavi non fosse dipesa da scelte antieconomiche del contribuente ma da eventi o circostanze oggettive, anche successive nel tempo[19].
Anche in sede giurisprudenziale si era sposata questa ricostruzione, sottolineando la necessità che l’assenza di ricavi non discendesse da scelte imprenditoriali del contribuente[20].
La suddetta posizione portava all’ammissione nell’ambito della disciplina in esame di imprese commerciali nelle quali si erano effettuate scelte non virtuose da un punto di vista economico, che avevano determinato risultati scarsi in termini di realizzazione di presupposti di imposta.
L’evoluzione della disciplina connessa ai problemi dell’economia italiana - che da decenni vive momenti di recessione - ha condotto da qualche anno ad un superamento definitivo di tale posizione[21].
Attualmente le situazioni oggettive costituiscono elementi e fatti di ogni tipo che siano oggettivamente verificabili e discendano sia da fattispecie indipendenti dalla volontà delle parti, sia da scelte effettuate dall’imprenditore che si siano rivelate non virtuose o antieconomiche.
Ne consegue come, con riferimento alla disciplina vigente al momento in cui si è verificata la fattispecie oggetto di cognizione, sia le modalità di dimostrazione della prova contraria che le interpretazioni consolidate in sede giurisprudenziale definissero un sistema presumibilmente lesivo del canone dell’effettività, secondo la prospettiva europea.
Tale assetto sostiene le riflessioni raggiunte in precedenza, ammettendo che il sistema di accesso alla normativa delle società di comodo e il regime della prova potevano definire conseguenze inaccettabili in capo alle società contribuenti, che realizzavano evidenti violazione dei principi di soggettività, di proporzionalità e di neutralità IVA.
7. Conclusioni
La normativa sulle società di comodo recata nell’art. 30 della L. n. 724/1994 - se finalizzata ad individuare le società di mero godimento di beni patrimoniali, come si ritiene - risulta registrare con riguardo all’IVA dei presunti profili di incompatibilità europea, come l’acuta ordinanza della Corte di Cassazione pone in luce.
Le società di mero godimento non possono essere soggetti IVA; pertanto, se l’esito del test di operatività conferma la natura di godimento, le medesime società dovrebbero essere estromesse dal campo di applicazione dell’imposta.
Ne consegue l’assoluta incoerenza degli attuali regimi IVA (riferiti alle società di comodo) che limitano una parte delle prerogative dell’imposta in capo a società che rimangono a tutti gli effetti soggetti IVA. Tale disciplina definisce, al contempo e per le medesime ragioni, una lesione dei principi di neutralità e di proporzionalità dell’imposta.
L’assetto descritto risulta ancora più irragionevole se si valuta la coerenza logica del test di operatività e l’effettività della disciplina della prova contraria nella fase storica in cui si è originata la controversia. Tali fattori qualificavano, nella loro coesistenza ed alla luce di interpretazioni consolidate (ed oggi superate), un sistema ove poteva risultare complesso per le società contribuenti dimostrare le ragioni della non operatività, con la conseguenza - ancora più grave - che imprese commerciali rischiavano di restare imbrigliate nelle maglie della disciplina delle società di comodo.
Si configurava una situazione in cui il test di operatività e la disciplina della prova contraria non erano in grado di identificare effettivamente le società non operative nel mondo giuridico, determinando - quale effetto – un’ulteriore, e ancor più grave, violazione dei principi di soggettività, di neutralità e di proporzionalità IVA.
La disciplina analizzata, infatti, risulta irragionevole ed incoerente se rivolta alle società di mero godimento, ma assume effetti persecutori e vessatori se riferita a società commerciali.
Nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia non si può quindi far altro che condividere la posizione della Suprema Corte, che con la presente ordinanza fotografa solo alcune delle incoerenze di una normativa da sempre discussa e molto problematica.
[1] La disciplina in materia di società di comodo è stata oggetto di critiche e censure da parte di unanime dottrina. Tra i numerosi contributi sul tema, cfr. F. Tesauro, Prefazione, in Le società di comodo. Regime fiscale e scioglimento agevolato, all. il fisco, 1995, n. 22, p. 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, in G. Falsitta, Per un fisco civile, 1996, p. 12; L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., in Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, p. 5; M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 78; R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, p. 59; R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dialoghi dir. trib., 2006, p. 1097; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in riv. dir. fin. sc. fin, 4/2010, p. 501; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi dir. trib., 2006, p. 1325; R. Miceli, Società di comodo e Statuto fiscale dell’impresa, Ospedaletto (Pisa), 2017, passim.
[2] Come evidenziato nella pronuncia in esame, l’unica valutazione europea in merito alla disciplina recata nell’art. 30, L. 23.12.1994, n. 724 si rinviene in una interrogazione alla Commissione (n. P-9064/2010) alla quale è stata fornita la risposta del 30.11.2010, P-9064/10IT. In tale sede si è ritenuto che la circostanza in base alla quale l’ammissione al regime non fosse automatica, ma basata su accertamenti compiuti dalle autorità giudiziarie, rendesse tale disciplina allineata al principio di proporzionalità. Si è, tuttavia, trattato di una mera risposta della Commissione sulla base del dato normativo, in merito alla quale non è stata effettuata una istruttoria sul punto.
[3] Si precisa che attualmente la disciplina si è modificata ed i presupposti di accesso sono, oltre a quello relativo al mancato superamento del test di operatività, quello della chiusura di cinque periodi di imposta con una perdita di esercizio nonché quello della medesima chiusura di quattro esercizi consecutivi con una perdita di esercizio e il mancato raggiungimento del valore del reddito minimo per il quinto periodo di imposta. Cfr. art. 30, L. 23.12.1994, n. 724; art. 2, comma 36 decies e undecies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148.
[4] Si annoverano, infatti, le cause di esclusione stabilite dalla legge; le cause di disapplicazione sancite dai decreti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate; la causa generale di non applicazione (ex art. 30, comma 4 ter, L. n. 724/1994).
[5] Cfr. R. Miceli, Società di comodo e Statuto fiscale dell’impresa, cit., pp. 87, 110, 183.
[6] Si rileva come vi siano state diverse difficoltà di definire una ricostruzione convincente della disciplina delle società di comodo, in quanto la stessa sembrava raccogliere diverse finalità, talora anche fra di loro contrastanti. In tal senso si è anche ammesso che la disciplina fiscale sulle società di comodo potesse rispondere ad una pluralità di funzioni, rappresentando un caso di “polimorfismo normativo”. Cfr. M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 78. Secondo altra prospettazione la disciplina in esame, presentando diverse incoerenze di fondo, sarebbe stata espressione di esigenze di cassa dello Stato basate su un esclusivo interesse fiscale. Cfr. R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 59; D. Stevanato, “Società di comodo” un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, p. 2889; Id., Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in Dialoghi trib., 2014, p. 133.
[7] In particolare, F. Tesauro, Prefazione, cit., p. 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, cit., p. 12; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., p. 501; L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit, p. 52; R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit., p. 1097; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, cit., p. 1325.
[8] Cfr. L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit., p. 52; R. MICELI, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., p. 192.
[9] Nel nostro sistema fiscale l’applicazione dello statuto dell’impresa (ovvero della disciplina del reddito di impresa) è fisiologica per tutte le società di tipo commerciale in virtù della presunzione di commercialità e del principio di attrazione (ex artt. 6 e 81, TUIR, D.P.R. n. 917/1986); si comprende pertanto perché sorga la necessità di un correttivo per le società che detengono patrimoni e sono improduttive di presupposti compatibili con la ratio impositiva del reddito di impresa.
[10] In tale assetto viene ammessa, in recepimento di una consolidata normazione tributaria, la società semplice di mero godimento dei beni, che costituisce la presa d’atto di un fenomeno, ormai ineliminabile nel sistema giuridico, di gestione di patrimoni attraverso la forma della società.
[11] In particolare, le note pronunce CGUE 20 giugno 1991, C-60/90, causa Polisar e successivamente, CGUE 27 novembre 2001, C-16/00, causa Cibo Partecipation che hanno definito tale posizione, oggi consolidata. Cfr., le più recenti, CGCE 13.6.2019, C-420/18; CGCE 20.1.2021, C-655/19, causa AJFP Sibiu e DGRFP Brasov.
[12] La riforma è stata attuata con il D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313, in applicazione della delega contenuta nell’art. 3 della L. 23 dicembre 1996, n. 662, che ha condotto all’introduzione del comma 5 dell’art. 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 63.
[13] La questione in esame, infatti, è da sempre analizzata con riferimento alle imposte sul reddito la cui determinazione è effettuata in ossequio alla stessa disciplina del test di operatività e sulla base dei valori numerici che emergono da quest’ultimo. I problemi del test, pertanto, coincidono con quelli relativi alla determinazione delle imposte dirette.
[14] Così L. Tosi, Relazione illustrativa: la disciplina delle società di comodo, cit., p. 6, il quale evidenzia come la disciplina del test di operatività si basi su passaggi – logici, economici, giuridici – privi di una reale dimostrazione. Si tratta di “coefficienti molto rozzi, che non hanno alcun supporto dimostrativo”, “tali coefficienti non sono il frutto di alcuna indagine scientifica o vero studio statistico”. Nel medesimo senso M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, cit., p. 716.
[15] Cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Torino, 1999, p. 14.
[16] Cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., p. 19.
[17] Per un excursus su tale tema, cfr. R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., cap. 3, p. 66.
[18] Nel 2015 a seguito della riforma generale dell’istituto dell’interpello (Titolo I, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156), sono state apportate modifiche alla disciplina delle società di comodo. Attualmente il contribuente, nei cui confronti non ricorrano le cause di esclusione espresse (cause di esclusione previste dalla legge ovvero cause di disapplicazione contenute nei provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate), che ritenga comunque di non essere destinatario della disciplina delle società di comodo, in quanto nei suoi confronti opera la causa generale relativa alle oggettive situazioni ha facoltà di adire l’Amministrazione finanziaria, utilizzando il procedimento di interpello probatorio ex art. 11, comma 1, lett. b) della L. 27 luglio 2000, n. 212 ovvero di non applicare la disciplina, rilevando la ricorrenza della suddetta causa in sede di dichiarazione. Il contribuente può, altresì, non applicare la normativa anche laddove ad esito del procedimento di interpello probatorio sia stato emesso un diniego espresso. Il diniego di interpello non preclude, infatti, la facoltà di non applicare la disciplina in dichiarazione e, in caso di avviso di accertamento, emesso a seguito di indagini da parte dell’Amministrazione finanziaria, rimane sempre possibile l’impugnazione dinanzi alle Commissioni tributarie.
[19] Le circolari che hanno affrontato il tema del contenuto delle oggettive situazioni sono: circ. 2 febbraio 2007, n. 5/E; circ. 9 luglio 2007, n. 44/E; circ. 26 febbraio 1997, n. 48/E. Sul punto si sottolinea che nella Relazione ministeriale di accompagnamento all’art. 27, del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella L. 22 marzo 1995, n. 85 (relativo alla prima versione della norma sulle società di comodo), si stabiliva che “la prova contraria deve essere sostenuta da una situazione oggettiva ed essa non è determinabile dalla volontà dell’imprenditore, neppure attraverso la contabilità di supporto”.
[20] Cfr., ex pluribus, Cass. 21 ottobre 2015, n. 21358.
[21] Cfr. R. Miceli, La disciplina delle società di comodo e il rilievo delle scelte imprenditoriali, in Riv. trim dir. trib., 2020, p. 213. Il cambiamento di rotta avviene nel 2019 con Cass. 12.2.2019, n. 4019.