«Il dovere è votare, tutti devono andare a votare, tutti gli uomini liberi devono votare per la libertà, contro la dittatura. Andate a votare e persuadete tutti a votare. I risultati daranno solo la misura della violenza e non quella della volontà popolare, ma il risultato deve anche dimostrare che in Italia esistono ancora degli uomini liberi rivendicanti il loro diritto di cittadinanza. Ad ogni costo».
(Giacomo Matteotti, L’Appello della direzione del partito, La Giustizia, 5 aprile 1924, 83)
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio.
Sommario: 1. Il doveroso omaggio a Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio. La situazione della magistratura italiana negli anni ’20 e il ricordo di alcuni magistrati del tempo - 2. Mauro del Giudice e l’istruttoria del primo processo per l’omicidio di Giacomo Matteotti - 3. Lodovico Mortara e l’imperversare dei decreti legge - 4. Vincenzo Chieppa, l’associazionismo giudiziario e il giornale “La Giustizia Italiana” - 5. Altre vicende giudiziarie di quel periodo: il processo a Benito Mussolini per costituzione di banda armata, i magistrati artefici del processo di Chieti, il coinvolgimento della magistratura ordinaria nel Tribunale Speciale per la difesa dello Stato - 6. Il volume: A S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia - 7. Qualche riflessione di sintesi.
1. Il doveroso omaggio a Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio. La situazione della magistratura italiana negli anni ’20 e il ricordo di alcuni magistrati del tempo
Desidero anch’io rendere omaggio a Giacomo Matteotti a cento anni dal suo infame assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924.
1.1. Mi piace ricordare, in questo contesto, e prima di ogni altra cosa, che Giacomo Matteotti si laureava in giurisprudenza nel 1907 nell’Università di Bologna, con una tesi in diritto penale dal titolo Principi generali della recidiva, e dopo aver ottenuto il primo incarico politico nello stesso anno della laurea quale consigliere comunale di Fratta (RV), e dopo aver scritto il primo libro in materia giuridica nel 1910, fu per un certo periodo combattuto tra l’intraprendere la carriera giuridica oppure quella politica[1].
Optò, alla fine, per quella politica, partecipando nell’aprile del 1914 al XIV Congresso del partito socialista, nel quale divenne poi deputato nel 1919, nel 1921, e infine nel 1924, con il nuovo partito socialista unitario (PSU).
1.2. I fatti storici sono noti.
Benito Mussolini diventava capo del Governo tre giorni dopo la marcia su Roma, ovvero il 31 ottobre 1922.
Il 6 aprile 1924 si svolgevano le elezioni politiche, in forza della recente legge elettorale detta Acerbo, 18 novembre 1923 n. 2444, che consentiva al partito di maggioranza di godere di un premio fino ai 2/3 del Parlamento.
Il partito fascista otteneva una vittoria travolgente ma le votazioni si svolgevano tra violenze e brogli, e Giacomo Matteotti denunciava, senza mezzi termini, con fermezza e completezza di dati, quanto i fascisti avevano fatto per ottenere quel risultato.
Il suo discorso si tenne alla Camera dei Deputati il 30 maggio 2024, e fu un discorso difficilissimo da portare avanti: Giacomo Matteotti veniva continuamente interrotto dai fascisti, aggredito, offeso, trattato come fosse un pazzo o un deficiente[2].
Questo discorso costò la vita a Giacomo Matteotti, che infatti veniva ucciso da una squadra di malfattori guidata da Amerigo Dumini il 10 giugno 1924.
Giacomo Matteotti aveva solo 39 anni e lasciava moglie e tre figli.
Su ciò Emilio Lussu ha scritto: “Contro le violenze elettorali prese la parola nell’Assemblea il deputato Giacomo Matteotti, rappresentante del partito socialista, e sostenne l’invalidità delle elezioni. I deputati fascisti reagirono violentemente. Per un momento sembrò che nell’aula il dibattito finisse tragicamente. L’onorevole Matteotti terminò il suo discorso tra gli urli minacciosi della maggioranza. Riprendendo il suo posto, egli disse scherzosamente ai suoi amici: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. I giornali fascisti, commentando la seduta della Camera, chiamarono imperdonabile la tolleranza dimostrata dai deputati fascisti verso l’on. Matteotti. La stessa sera Mussolini disse a un crocchio di partigiani, specialisti in rappresaglie: - Se voi non foste dei vigliacchi, nessuno avrebbe mai osato pronunziare un discorso simile-”[3].
1.3. L’assassinio di Giacomo Matteotti ebbe forte e viva indignazione nel paese.
Quattro ministri (Alberto De Stefani, Luigi Federzoni, Aldo Oviglio, Giovanni Gentile) si dimisero solo tre giorni dopo, tra il 13 e il 14 giugno 2024.
Ampi settori della borghesia e dei ceti medi, che pure avevano sostenuto il fascismo, rimasero pietrificati dall’apprendere la notizia, e il 18 giugno Giovanni Giolitti scriveva una lettera a Antonio Cefaly, asserendo che: “Non avrei mai creduto che il nostro paese potesse cadere così in basso nella stima di tutto il mondo”[4].
Il 27 giugno 2024, 130 deputati dell’opposizione decisero di non partecipare più ai lavori della Camera, ritirandosi “Sull’Aventino delle loro coscienze”.
Le opposizioni, però, non riuscirono ad andare oltre la condanna morale: parimenti non intervenne il Re, né niente fece il Papa; gli stessi liberali temevano che una rivolta contro il governo fascista potesse aprire le porte alle sinistre.
Mussolini, quindi, non fece altro che prendere tempo, fino ad arrivare al giorno del 3 gennaio 1925, quando tenne alla Camera il discorso di chiusura della vicenda Matteotti.
Con assoluta arroganza e strafottenza Mussolini disse: “Dichiaro qui al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto accaduto…….Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere….Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza”.
Da quella data, e con quel discorso, iniziava la dittatura.
Possiamo qui ricordare altresì le parole di Gaetano Salvemini: “Quanto lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della sua morte. Lui aveva fatto tutto il Suo dovere e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini.”[5]
1.4. L’antifascismo di Giacomo Matteotti, e poi il suo assassinio di 100 anni fa, e poi ancora i due processi che ne seguirono, uno negli anni 1924/26, l’altro dopo la guerra nel 1944/47, sono stati oggetto di ampi studi fra gli storici[6], e certo non sarei io in grado di aggiungere niente a quanto non sia già stato studiato e scritto.
Qualche anno fa (2020) è stato altresì ritrovato un libro bianco, scritto da Giacomo Matteotti nel periodo compreso tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, con il quale egli, con precisione di date, di luoghi e di nomi, denunciava senza mezzi termini, e con parole chiare e semplici, tutti i misfatti fascisti, le violenze perpetuate, i feriti e i morti causati[7].
Il volume veniva dato da Giacomo Matteotti alle stampe alla fine del 1923 e circolava quasi clandestinamente a partire dal 1924 e “costituì parte di un impegno verso la difesa delle libertà democratiche che contraddistingue la vita di Matteotti e trova compimento nelle coraggiose denunce dei risultati elettorali del 1924”[8].
Quando fu assassinato, Giacomo Matteotti stava lavorando ad una ristampa corretta e aggiornata di quel volume, il quale però, evidentemente, non trovò mai la luce.
Recentemente sono stati poi ripubblicati scritti vari di Giacomo Matteotti, sempre compresi tra il 1922 e il 1924[9].
È assai interessante leggere quei documenti, che testimoniano quanto Giacomo Matteotti sia stata persona lucida, coraggiosa, assolutamente determinata a contrastare il regime che stava imponendosi con la forza: “Amante della libertà come valore e come principio di umanità. Matteotti incarna lo spirito e la testimonianza estrema della lotta per quella libertà che è tua se è anche degli altri, di quella libertà intesa come condizione umana di dignità e di rispetto”[10].
Ebbene, chi voglia approfondire la storia e la personalità di Giacomo Matteotti non può che leggere i suoi scritti ritrovati, nonché i lavori che gli storici gli hanno dedicato, anche solo in questo 2024 a 100 anni da quel tragico fatto[11].
Mia intenzione, qui, non è quella di entrare in questi aspetti, bensì quella di raccontare, direi da giurista e non da storico, la situazione della magistratura italiana in quei difficili anni, caratterizzati dal trapasso tra la democrazia liberale di inizio secolo alla nuova dittatura fascista.
E poiché anche sui rapporti tra magistratura e fascismo sono state fatte pregevoli ricerche storiche[12], la mia più modesta idea è semplicemente quella di raccontare la vita di qualche valoroso magistrato di quel periodo, e poi egualmente richiamare alcune vicende riguardanti la magistratura comprese tra il 1919 e il 1926.
A ciò sono dedicate le pagine che seguono, ed è questo il mio modesto contributo per rendere memoria e onore a Giacomo Matteotti.
2. Mauro del Giudice e l’istruttoria del primo processo per l’omicidio di Giacomo Matteotti
Il primo magistrato da non dimenticare è, a mio sommesso parere, Mauro Del Giudice.
Nato a Rodi Garganico (FG) 20 maggio 1857, fece gli studi liceali a Molfetta e poi si laureò in giurisprudenza all’Università di Napoli.
Nell’aprile del 1888 sostenne il concorso a Pretore ed arrivò primo classificato; pretore, dunque, a Cerchiara di Calabria nel 1889, giudice del Tribunale di Trani nel 1901, Presidente del Tribunale di Caltanissetta nel 1910, infine Consigliere della Corte di Appello di Roma.
Il 10 giugno 1924 Mauro Del Giudice ricopriva l’incarico di presidente della Sezione istruttoria di accusa; aveva, all’epoca, 67 anni.
Il Primo Presidente era il magistrato Donato Faggella.
Arrivato il caso Matteotti sul loro tavolo, si dice che Donato Faggella chiese a Mauro Del Giudice: “Che intendi fare?”
Mauro Del Giudice, considerata la sua età, poteva benissimo assegnare la pratica ad altro magistrato del suo ufficio, ma ritenne moralmente doveroso assumersi personalmente la responsabilità e il compito di quell’inchiesta.
Si narra che questo fu il colloquio tra i due.
Donato Fagella gli disse: “Ascolta bene quello che sto per annunciarti. Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma”.
Rispose Mauro Del Giudice: “Al riguardo il mio pessimismo supera il tuo e perciò ti dico che molto probabilmente non rimarranno neppure le carte, le quali saranno fatte sparire dal regime fascista appena operato il salvataggio completo degli assassini, dei loro complici e dei mandanti. Quello che posso assicurarti, e tu ben conosci la mia dirittura morale, è che, esaurito il mio compito di istruttore, usciranno intatti l’onore della magistratura della Corte di Appello di Roma e soprattutto uscirà illibato il mio nome, l’unica ricchezza che posseggo in questa terra. Mi auguro poi che gli altri colleghi facciano altrettanto”[13].
2.1. Il 19 giugno 1924 iniziava l’istruttoria e l’idea era chiara: l’autorità giudiziaria sarebbe andata fino in fondo.
A Mauro Del Giudice veniva affiancato il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi.
Insieme, già in quella stessa data, si recavano al carcere di Regina Coeli, ove si trovava Amerigo Dumini, nel frattempo arrestato assieme ad altri suoi sodali, in quanto indagato come esecutore materiale dell’omicidio di Giacomo Matteotti.
Amerigo Dumini trattò i due magistrati con spavalderia: “Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente Mussolini è informato di quanto loro stanno facendo?”[14].
All’interrogatorio Amerigo Dumini negò ogni responsabilità per l’accaduto.
Successivamente, ritrovata la giacca di Giacomo Matteotti su un ponte della Flaminia, Mauro Del Giudice tornava ad interrogare Amerigo Dumini.
Lo stesso Mauro Del Giudice, nella sua Cronistoria del processo Matteotti, ricorda di essersi rivolto a Americo Dumini con queste parole: “Guardi questa giacca, è quella della vostra vittima del 10 giugno, di un onesto uomo che non vi aveva fatto alcun male e che, forse, nessuno di voi conosceva di persona. Avete gettato nel più profondo dolore e nella più nera costernazione una sposa infelice e una vecchia madre che adorava il figliolo suo, e resi orfani tre innocenti bambini” [15].
Continuava Mauro Del Giudice: “Mentre gli rivolgevo queste parole lo guardavo fisso negli occhi. Sostenne impavido il mio sguardo scrutatore, senza muovere ciglio e senza mai abbassare la testa in atto di rimorso. Si limitava a rispondere: chi mai ha conosciuto questo Matteotti? Io non so se sia stato ucciso e chi lo abbia ucciso”[16].
L’attività istruttoria proseguiva con l’interrogatorio di altri indagati, quali Albino Volpi, Giuseppe Viola e Filippo Filippelli, quest’ultimo ritenuta la persona che aveva messo a disposizione del gruppo l’automobile per il sequestro di Giacomo Matteotti; e a seguito di questi primi interrogatori venivano poi messi a confronto Americo Dumini e Filippo Filippelli.
Filippo Filippelli forniva i primi elementi utili ai giudici.
Si dice che, proprio per ciò, nel corso del confronto, Americo Dumini gridò: “Bada a te, Filippelli, e alla tua famiglia. Mussolini ha a sua disposizione trecento baionette di militi fascisti, decisi a far tutto ciò che il Duce ad essi comanda e vi può distruggere”. E Filippelli: “Non ho paura di nulla di quanto tu minacci per intimidirmi. Mussolini non sarà giudicato in Italia ma all’estero, e sarà trattato come si merita”[17].
A seguito di questo confronto, e considerata la gravità delle rivelazioni fatte da Filippo Filippelli, Mauro Del Giudice, insieme a Umberto Guglielmo Tancredi, emise due mandati di cattura contro Cesare Rossi, direttore dell’ufficio stampa del Duce, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista.
L’inchiesta, a questa punto, passava dagli esecutori materiali ai mandanti. E aggiungeva Mauro Del Giudice, sempre nella sua Cronistoria: “avremmo dovuto spiccare altro mandato di cattura contro Benito Mussolini, se non ci fosse stato l’ostacolo costituzionale di essere costui deputato e capo del Governo, e quindi soggetto alla giurisdizione del Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia, perché i delitti imputategli erano stati commessi in quella sua qualità”[18].
2.2. Cesare Rossi, perduta la speranza di essere aiutato da Mussolini a varcare la frontiera con un passaporto falso, dopo una settimana di latitanza, si costituiva.
Interrogato, e convinto a quel punto di esser stato turlupinato dal suo principale, ammise che il Duce, per imporre la dittatura, aveva chiesto il suo aiuto e quello di Giovanni Marinelli al fine di creare un organismo segretissimo, la Ceka, cui aveva aderito il generale Emilio De Bono, comandante supremo della Milizia fascista e direttore generale della Polizia: “con lo scopo di atterrire i deputati d’opposizione, mediante atti di energica violenza, ossia con ferimenti, bastonate, purgate forzate di olio di ricino e, occorrendo, con l’uccisione dei suoi più pericolosi avversari, inducendo così tutti al silenzio più completo”[19].
Si pensi che Cesare Rossi, prima di arrivare a ciò, si dilungò nel tratteggiare i reati minori compiuti dai fascisti anteriormente al delitto Matteotti, e Mauro Del Giudice lo riprese invitandolo ad esporre esattamente le vicende di quel delitto senza divagare; al che Cesare Rossi rispose: “Se ella, signor Presidente, non mi lascia prima esporre minutamente i fatti avvenuti e i delitti commessi anteriormente alla sparizione del deputato Matteotti, io mi chiuderò nel silenzio e non parlerò più, giacché non so se questa notte sarò assassinato in questo stesso carcere”.
A fronte di ciò, Mauro Del Giudice consentì a Cesare Rossi di deporre integralmente, e questi riportò le parole del Duce: “Cesarino, tu devi indicarmi fra i nostri fascisti un individuo pieno di coraggio, senza scrupoli, e capace di commettere qualunque cosa gli sarà ordinato di fare. A costui bisognerà dare incarico di scegliere fra i fascisti facinorosi altre persone della stessa risma, e di costituire una banda pronta sempre ad agire in qualunque tempo e luogo d’Italia”[20].
Cesare Rossi fece il nome di Americo Dumini, e Mussolini rispose: “Lo conosco anch’io, è la persona adattissima alla bisogna”.
Vi erano, a questo punto, tutti gli elementi per procedere altresì con l’accusa di associazione a delinquere per l’intero partito fascista; dall’interrogatorio era infatti emerso che la banda guidata da Amerigo Dumini, aveva, oltre al delitto Matteotti, già eseguito alcuni attentati a parlamentari quali Amendola, Misuri e Forni, nonché aveva devastato il villino di Francesco Saverio Nitti.
Sopravvenivano, tuttavia, due ulteriori circostanze.
2.3. Esattamente:
a) due giorni dopo il mandato di cattura contro Cesare Rossi e Giovanni Marinelli, ovvero il 22 giugno 1924, Mauro Del Giudice veniva messo sotto sorveglianza, tanto che egli stesso scriveva nella sua Cronistoria: “Una cinquantina di fascisti facinorosi vennero a fare una dimostrazione sotto casa mia”.
Tra i vari episodi, si racconta che in un’occasione, informato che all’uscita principale del Palazzo di Giustizia lo attendevano gruppetti di camicie nere, Mauro Del Giudice fu costretto ad uscire da un portoncino secondario.
L’indomani si sparse addirittura la notizia che fosse morto[21].
Il clima di quel periodo veniva descritto anche da Gaetano Salvemini: “Non solo furono messe le camicie nere invece dei soldati a far la guardia a Regina Coeli, affinché chi andava e veniva capisse chi era il padrone del vapore, ma due agenti furono messi alle costole di Del Giudice e altri due in borghese alla portineria di casa. I fascisti cominciarono a far dimostrazioni sotto le sue finestre: Viva Dumini, Viva Volpi, Morte ai nemici di Mussolini. Poi vennero le scritte sui muri del Palazzo di Giustizia”[22]. E il 27 luglio 1924 il giornale L’Impero scriveva: “È inutile alludere, più o meno velatamente, a Mussolini per il delitto Matteotti. Il Duce, salvatore della Patria, non si tocca.....…chi tocca il Duce sarà polverizzato”[23].
b) In secondo luogo, considerata la piega che le indagini avevano prese, il Procuratore Capo dell’Ufficio, Vincenzo Crisafulli, trasmetteva gli atti al Senato e sostituiva Umberto Guglielmo Tancredi con il sostituto procuratore Nicodemo Del Vasto, persona che condivideva la sua posizione di prudenza omissiva nei confronti del fascismo.
Mauro Del Giudice continuava ad insiste affinché l’indagine fosse portata avanti in modo rigoroso e completo, senza omissioni e/o favori, e al fine di non trovarsi solo cercò di nuovo il sostegno di Donato Faggella, con il quale aveva preso impegno che dall’inchiesta doveva “uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma”.
Ma dovette con dolore constatare che purtroppo nemmeno Donato Faggella stava più al suo fianco.
Si è scritto sul rapporto tra i due: “Donato Faggella, diretto superiore del magistrato incaricato di condurre le prime indagini sul delitto Matteotti, quando si cominciò a capire dove avrebbe potuto portare un’inchiesta condotta con onestà, indipendenza e nel pieno rispetto della legge nonostante il clima politico dell’epoca, si adoperò per insabbiarla”[24].
Solo pochi giorni dopo fu infatti lo stesso Donato Faggella a comunicare a Mauro Del Giudice la sua promozione a Procuratore Generale alla Corte di Appello di Catania; egli quindi doveva lasciare Roma per la Sicilia, promoveatur ut amoveatur.
2.4. Il processo Matteotti, per Mauro Del Giudice, terminava in quel momento.
Alberto Scabelloni, avvocato e giornalista dell’epoca, scrisse: “Il fascismo, togliendogli la garanzia dell’inamovibilità, lo sbalzò in Sicilia…….da quel momento la carriera di Mauro Del Giudice fu troncata e contro di lui cominciò il periodo delle persecuzioni, durato fino al crollo del fascismo”[25].
Lasciato il servizio il 20 maggio 1927, Mauro Del Giudice, dopo periodi di soggiorno a Rodi Garganico, Trani e Roma, si stabiliva a Vieste, dove abitava ininterrottamente fino al 15 luglio 1949.
“I viestani che hanno raggiunto o varcato la soglia dei sessant’anni, lo ricordano come l’Eccellenza del Giudice, o più semplicemente: Il Giudice. Alto, vestito sempre di scuro, la barba bianca, bastoncino a cui appena si appoggiava, aveva una figura che era la dignità della persona”[26].
Moriva a Roma nel 1951.
3. Lodovico Mortara e l’imperversare dei decreti legge
Il secondo ricordo che propongo è quello di Lodovico Mortara, ultimo presidente della Corte di Cassazione di Roma.
Lodovico Mortara (Mantova, 16 aprile 1855 – Roma, 1° gennaio 1937) non ha bisogno di essere presentato, in quanto è stato uno dei più grandi giuristi del secolo scorso[27].
Ricordo solo una vicenda, del 1922.
Ebbene, anche agli inizi del Novecento, secondo il noto e chiaro principio della divisione dei poteri, il compito di fare leggi spettava al Parlamento, e al Governo quello di metterle in esecuzione.
Con gli anni Venti, tuttavia, questa ripartizione entrava in crisi, e sempre più il Governo emanava atti aventi valore di legge sorpassando in questo modo l’Assemblea.
Poiché nello Statuto Albertino non vi era una norma analoga al nostro attuale art. 77 Cost., spesso i decreti leggi non venivano convertiti dal Parlamento, e alle volte nemmeno presentati allo stesso per la loro conversione.
Con l’avvento del fascismo questo metodo si rafforzava, e dati statistici indicano che negli anni compresi tra il 1915 e il 1921 i decreti legge furono 419, giustificati però dal periodo eccezionale dato dalla Grande Guerra, diminuivano fortemente nel periodo successivo durante il ministero Luigi Facta del 1922 in 103, e salivano al vertiginoso numero di 517 durante il solo primo anno del governo fascista[28].
In quel primo anno, appunto, presidente della Corte di Cassazione di Roma era Lodovico Mortara, un giurista di grande cultura e indipendenza, già ordinario di procedura civile, e già Ministro della Giustizia con il Governo Nitti.
Lodovico Mortara non sopportava l’idea che il Governo si arrogasse poteri che spettavano al Parlamento, e, avuta occasione di pronunciarsi su questo tema quale giudice, egli emanava alcune sentenze chiare e nette sui rapporti che dovevano darsi tra funzione legislativa e funzione governativa.
Faccio riferimento a tre pronunce della Corte di Cassazione di Roma, tutte del 1922, e tutte che vedevano Lodovico Mortara non solo quale Presidente della Corte bensì anche quale Presidente del collegio giudicante.
Queste pronunce sono quelle di Cass. 24 gennaio, Cass. 16 novembre e Cass. 30 dicembre 1922[29].
È importante tener conto delle date, poiché mentre la prima era con il fascismo alle porte ma non ancora al potere, le ultime due venivano pronunciate dopo la marcia su Roma, e quindi già con a capo del Governo Benito Mussolini.
Ebbene, Lodovico Mortara non aveva alcun problema a sottolineare come questo malcostume, già presente da un po’ di anni, si fosse aggravato con il fascismo.
Scriveva: “Non esiste nessuna norma costituzionale che autorizzi il Governo a investirsi in circostanze straordinarie della potestà legislativa”. Una volta accertata la “impossibilità non solo di un controllo sollecito, ma perfino di un controllo qualsiasi da parte delle due Camere sopra un grande numero di quegli arbitrari provvedimenti” è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale a un nuovo esame della grave questione”.
Asseriva ancora che, in effetti, in passato, i decreti legge “erano davvero emanati in circostanze eccezionali e con rigida parsimonia cosicché il sindacato parlamentare poteva essere sufficiente” ma oggi: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” e dunque si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa”.
Il discorso era chiarissimo: il Parlamento non è più in grado di controllare il Governo, quindi questo compito spetta alla magistratura, in quanto la situazione politica ha attribuito inevitabilmente nuovi doveri alla magistratura, alla quale spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa.
Questo scriveva Lodovico Mortara, e su queste basi la Cassazione fissava questi principi: a) i decreti leggi sono atti arbitrari del Governo, eccedenti la sfera del potere esecutivo e quindi per loro stessi incostituzionali; b) l’autorità giudiziaria può esaminare se il governo abbia adempiuto alla sua promessa di presentare il decreto al Parlamento e verificare che il Parlamento abbia provveduto alla sua conversione.
Orbene, Lodovico Mortara sapeva perfettamente, non poteva non saperlo, che quelle decisioni sarebbero state invise al sopraggiunto regime, e che certo il regime non lo avrebbe premiato per quelle idee.
Ma Lodovico Mortara non esitava egualmente a pronunciare quelle sentenze, perché per lui, evidentemente, il valore delle idee, il rispetto dei principi costituzionali, e soprattutto l’indipendenza della funzione che stava esercitando, erano più alti e profondi del timore di essere punito.
Nei fatti, poi, come è noto, il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 sopprimeva le c.d. Cassazioni regionali, tra le quali anche la Corte di Cassazione di Roma, e due mesi dopo Mussolini azzerava altresì, con decorrenza 1° novembre 1923, tutti i vertici di quelle cassazioni, e quindi Lodovico Mortara veniva rimosso dal suo incarico e collocato in pensione.
A Lodovico Mortara sarebbe succeduto nella Prima Presidenza della nuova Cassazione unica del Regno d’Italia, Mariano D’Amelio, e l’anno ancora successivo, 1924, le nuove Sezioni unite di Mariano D’Amelio avrebbero stabilito che “Il giudizio sulla valutazione della necessità urgente e improrogabile di emanare un decreto legge è demandata esclusivamente al potere esecutivo, e non può essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria”[30].
4. Vincenzo Chieppa, l’associazionismo giudiziario e il giornale “La Giustizia Italiana”
Il terzo ricordo va a Vincenzo Chieppa.
Nato ad Andria il 22 luglio 1890, entrava in magistratura nel 1914 e svolgeva la sua carriera quasi interamente a Roma; veniva dispensato dal servizio il 31 dicembre 1926 in base all’art. 1 della legge 24 dicembre 1925 n. 2300 in quanto antifascista; a seguito della caduta del regime, ovvero nell’estate del 1944, chiedeva e otteneva la reintegrazione in magistratura in forza del sopravvenuto d. l. luog. 24 agosto 1944 n. 183, Riassunzione in servizio di magistrati dell’ordine giudiziario dispensati per motivi politici o razziali; veniva così assegnato in soprannumero presso la Corte di Cassazione e collocato definitivamente a riposo il 12 luglio del 1960.[31]
Nell’estate del 1960 Ministro della Giustizia era Guido Gonella; egli scriveva nella lettera di congedo dalla magistratura di Vincenzo Chieppa: “fin dal 1924, allorché fu chiamato a far parte del Consiglio Centrale dell’Associazione Generale fra i Magistrati Italiani, Ella partecipò attivamente alla vita dell’Associazione, svolgendo quell’attività altamente meritoria che solo nel 1944, allorché fu riammesso in servizio, da cui era stato dispensato per motivi politici nel 1926, poté riprendere con immutabile fervore; ella ha manifestato a chiunque ed in ogni circostanza la sua tenace avversione al Regime”[32].
4.1. La storia di Vincenzo Chieppa è fortemente intrecciata con quella dell’associazionismo giudiziario[33].
Ricordo che la prima Associazione generale fra i Magistrati d’Italia (AGMI) fu fondata a Milano il 13 giugno 1909[34].
Nel 1911 si tenne a Roma il primo “Congresso Nazionale della Magistratura” mentre già dal settembre del 1909 l’associazione iniziava a pubblicare e a diffondere le proprie idee attraverso un proprio organo di stampa: “La magistratura”.
Con l’affermarsi del fascismo l’AGMI si vide costretta ad un nuovo corso, che fu interpretato da Vincenzo Chieppa, eletto segretario generale della stessa nel 1923, carica che mantenne fino al momento dello scioglimento della associazione avvenuta il 21 dicembre 1925.
Ha scritto in proposito di lui lo studioso F. Venturini: “La gestione di Chieppa, condotta con coraggio e coerenza, si caratterizzò per un ritorno alla difesa dei valori classici dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario dalle contese politiche. Riemerse, in quel momento, una visione tecnica del giudice, senza cedimenti né a prospettive di mediazione degli interessi sociali né a ipotesi di utilizzazione dell’organizzazione di categoria per trasformare il patrimonio culturale e il sistema di valori della magistratura”[35].
A seguito del rifiuto dei dirigenti dell'AGMI di trasformare l'associazione in sindacato fascista, l'assemblea generale tenuta il 21 dicembre 1925 deliberava lo scioglimento dell'AGMI. L'ultimo numero de "La magistratura", datato 15 gennaio 1926, pubblicava un editoriale non firmato dal titolo "L'idea che non muore", da tutti attribuito a Vincenzo Chieppa: "Forse con un po' più di comprensione - come eufemisticamente suol dirsi - non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia... La mezzafede non è il nostro forte: la 'vita a comodo' è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire"[36].
4.2. Fin qui si tratta di storia nota, riportata in ogni scritto dedicato all’associazionismo giudiziario di quegli anni.
Mi sia però consentito ricordare una vicenda ulteriore, in quanto, in verità, la storia del giornale "La magistratura" non terminava con quel numero del 15 gennaio 1926, visto che, seppur già sciolta l’AGMI, Vincenzo Chieppa, insieme ad un certo numero di altri magistrati, apriva, in tempo immediatamente successivo, un nuovo giornale, che prendeva il nome di “La giustizia italiana”[37].
L’esistenza di questo giornale è menzionata anche nel regio decreto ministeriale del 16 dicembre 1926, con il quale Vincenzo Chieppa e gli altri venivano destituiti dall’ordine giudiziario, e ove si legge infatti, in motivazione, quale capo di incolpazione: “continuando tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto”.
Preliminarmente, non v’è bisogno sottolinei cosa potesse rappresentare il 1926 per chi ancora anelasse alla libertà e alla democrazia, anno che diede formalmente inizio alla dittatura fascista, con l’emanazione dei provvedimenti per la difesa dello Stato e l’istituzione del nuovo Tribunale speciale per i reati c.d. politici[38].
Vincenzo Chieppa, insieme ad altri magistrati, aveva egualmente il coraggio e la forza di aprire questo nuovo giornale “La giustizia italiana”, e il primo numero usciva già il 12 febbraio 1926, ovvero a meno di un mese dall’ultimo numero de La Magistratura.
Si trattava di un giornale di 4 pagine complessive, che conteneva articoli quasi sempre non sottoscritti da alcuno personalmente, non v’era in prima pagina l’indicazione di un direttore responsabile, ma solo si leggeva in alto a sinistra: “Direzione e amministrazione in Roma, Via Bocca di Leone, 26”; il direttore era indicato solo in 4° pagina, ed era Piero Giubilosi.
La cadenza del giornale era indicata come settimanale, tuttavia le uscite avvenivano in modo molto elastico, probabilmente per le stesse difficoltà della pubblicazione: al numero del 12 febbraio 1926 ne seguiva un successivo alla data del 20 febbraio, un terzo al 26 febbraio, poi al 13 marzo, 20 marzo, 27 marzo, ecc……..
Nel giornale del 12 febbraio 1926 si legge uno dei pochissimi articoli con firma, sottoscritto dal direttore Pietro Gubitosi, dal titolo assai significativo Dall’alba al tramonto.
Si legge in esso: “Il 3 gennaio 1907 segna una data memoranda nella storia della Magistratura italiana. Si tenne il primo convegno per stabilire la data del congresso dei magistrati, dal quale sarebbe dovuta sorgere l’Associazione……Pochissimi degli iniziatori del movimento si trovavano ancora a far parte dell’Associazione addì 21 dicembre 1925, quando l’Assemblea ne deliberò lo scioglimento in obbedienza alla legge sui sindacati, di prossima promulgazione. Fra i pochissimi ero io e fui anche presente all’ultima plenaria adunanza. Volli che il ricordo del nascere e del morire dell’Associazione fosse accompagnato dal senso di triste soddisfazione che prova chi, con lo schianto nel cuore, chiude le palpebre del figlio che il fato inesorabilmente gli rapisce. Molti certamente hanno provato eguale dolore; tutti i soci hanno con tristezza visto scomparire la loro Associazione. Ed io sono convinto che gli stessi avversari, coloro stessi che combatterono l’associazione, a conti fatti non abbiano da essere molto contenti dell’opera loro. La fine virile del sodalizio sarà per gli avversari ragione forse di rammarico, ma fa l’orgoglio ed il conforto di quanti gli dedicarono l’opera e l’adesione devota”.
E poi, sempre nel giornale del 12 febbraio 1926, nel titolo di fondo “Capisaldi”, si legge altresì: “Bisogna persuadersi che un paese ha sempre la giustizia che si merita. Non esistono, non sono mai esistiti in questo mondo, uomini di governo i quali abbiano messo in cima alle loro aspirazioni l’indipendenza della giustizia. I più saggi fra essi han sempre pensato e pensano che, siccome la giustizia perfetta è un ideale irrealizzabile, la meno imperfetta fra tutte è quella che si amministra sotto le loro direttive. E gli argomenti dei meno saggi sono anche più spicci”.
4.3. Non è certo inutile ricordare qui qualcosa di quanto fu scritto in quel giornale nel difficilissimo anno del 1926.
Ricorderei, prima di tutto, il tema della pari dignità dei giudici di ogni ordine e grado, nonché il tema connesso dei rischi che possono darsi nell’immaginare una magistratura strutturata in modo gerarchico.
Si tratta di un tema di particolare attualità, considerato che oggi v’è un disegno di legge di riforma costituzionale che vuole sopprime l’art. 107, 3° comma Cost. nella parte in cui sancisce che: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Nel numero del 20 febbraio 1926 si legge al riguardo: “Quando è in gioco la vita della giustizia, ogni interesse per noi è sacro; non c’è allora parvità di materia e le miserie del Pretore di Roccacannuccia ci toccano quanto le vicende della Corte di Cassazione”.
Il 10 aprile veniva poi pubblicato Scrutini con anticipazione, dedicato proprio alla pari dignità dei giudici, divisi solo per diversità di funzioni.
Si scriveva in quel pezzo: “Vien fatto di domandare se non sia ancor miglior partito, in una prossima riforma, accogliere il principio della equiparazione dei gradi di giudice e consigliere di appello, ma il guardasigilli On. Rocco non pare che sia di questo avviso. Si confida tuttavia che egli persista nell’idea di bandire per sempre qualsiasi forma di arrivismo ed ogni ricordo di giochi ben riusciti o voli saputi spiccare a tempo da favoriti e privilegiati…Quando un sistema di promozione è soppresso perché ha dato cattiva prova, giustizia vuole che ne siano fatte cessare al più presto possibile le conseguenze”.
E sul tema della dignità e della qualità della giustizia i magistrati de La giustizia italiana, cercavano, trattando altro aspetto di assoluta attualità, il sostegno dell’avvocatura.
Ricordo gli articoli apparsi sui giornali del 20 e del 26 febbraio: Nel giornale del 20 febbraio: “Perché qual è il maggior interesse dell’ordine forense, se non quello di poter contare su giudici pienamente degni del loro posto, su Tribunali veramente liberi nell’assoluzione del loro compito? Sono gli avvocati che hanno il dovere e l’interesse sacrosanto di farsene paladini”. Ed in quello del 26 febbraio: “Quando il costume giudiziario divenisse abietto, e gli uomini chiamati ad amministrare la giustizia fossero avanzi di umanità in liquidazione, non ci sarebbero più leggi ed ordinamenti che potrebbero garantire l’amministrazione della giustizia; e l’ordine forense sarebbe condannato a convertirsi in una Corporazione di mediatori e di trafficanti cui la dottrina giuridica sarebbe di troppo ed il buon costume professionale ragione d’invincibile inferiorità”.
4.4. Altro delicatissimo tema, in un anno quale il 1926, quello dell’indipendenza della magistratura.
Nel numero del 10 maggio si trova un articolo dal titolo “La sola garanzia infallibile”.
Di nuovo si legge: “La magistratura, da quindici anni, va invocando in Italia un efficace sistema di garanzie che faccia dell’indipendenza della magistratura non un principio astratto ma una realtà effettiva…La giustizia perfetta non esiste in alcun paese. Dappertutto può avvenire, in qualche caso, che i governi facciano sentire la propria influenza sulla magistratura. L’essenziale è che fra magistratura e potere esecutivo non si costituisca un vincolo di ordinaria dipendenza. Or non c’è che una garanzia veramente infallibile contro la regola dell’asservimento giudiziario, ed è il controllo della pubblica opinione. Ove questa sonnecchia o è distratta da meno nobili preoccupazioni, l’indipendenza della giustizia può essere sì l’opera eroica di una categoria di cittadini, ma non sarà mai la regola sicura per tutti”.
Sempre sul tema centrale dell’indipendenza della magistratura, nel giornale del 2 settembre si trova un articolo dal chiaro titolo: “L’assurda indipendenza della magistratura”, ovvero si discute dell’opinione dei governanti, i quali ritengono assurda la stessa idea che la magistratura possa essere indipendente dal loro potere.
Si legge: “Dobbiamo dire la verità? A noi non dispiace questo brusco denudamento della vita giudiziaria. No, non saranno proprio gli assertori di una giustizia indipendente a dolersi che questa indipendenza venga proclamata un assurdo e non solo in teoria. Al punto in cui siamo giunti ad ogni menzogna pietosa è preferibile la verità più cruda, comunque possa essere dolorosa. Bisogna talvolta aver toccato il fondo dell’umana bassezza per sentire lo stimolo divino della redenzione”.
4.5. Che dire di un giornale che nel 1926 discute ancora di indipendenza della magistratura e si batte per evitare la gerarchizzazione del corpo giudiziario?
Beh, il giornale non va male, evidentemente nel 1926 v’erano ancora persone interessate alla giustizia; così, sempre nel numero del 10 maggio si legge: “In poco tempo la Giustizia italiana ha avuto la fortuna di raccogliere intorno a sé un piccolo numero di assidui collaboratori d’ogni parte d’Italia, ai quali vanno la nostra gratitudine ed il nostro saluto più cordiale”. E il giornale avvertiva tutti circa il proprio spirito: “avversione per tutte quelle banalità ond’è purtroppo infarcito il giornalismo settimanale: soffietti, adulazioni, pettegolezzi e miserie simili. Per elogiare un uomo od una iniziativa, e tanto meno poi per criticarli, non ci sembrano indispensabili goffe riverenze e dolciastre propiziazioni”.
Nel Giornale del 7 ottobre, l’articolo di fondo è intitolato “Memento!”, cioè: “I lettori possono essere sicuri che i redattori continueranno a non lesinare i loro sacrifici affinché il mondo giudiziario abbia in queste colonne una sua voce sempre più degna. Potranno essere sicuri di una cosa soprattutto: che la nostra voce non sarà mai partigiana né servile e che qui un solo interesse è sacro: quello della giustizia”.
Tra il serio e il faceto, poi, si scriveva anche sul revisionismo storico dell’era fascista appena iniziata.
La giustizia italiana se la prendeva, ad esempio, nel numero del 22 maggio, con il prof. Vincenzo Manzini, che aveva riaperto il processo a Girolamo Savonarola.
L’articolo, con tono scherzoso, diceva che a niente erano valsi a favore del frate i giudizi lusinghieri di Santa Caterina dei Ricci, Nicolò Machiavelli, Sandro Botticelli, San Filippo Neri, Francesco Guicciardini.
Il prof. Manzini aveva così sentenziato: “Girolamo Savonarola fu un frataccio sedizioso, le sue prediche sproloqui diretti a fini utilitari, tanto vero che, all’atto dell’arresto, gli fu trovata addosso una somma di denaro di cui non seppe giustificare la provenienza”.
A commento si aggiungeva: “Si salvi chi può signori della storia! Dante Alighieri, Alessandro Manzoni, Napoleone Buonaparte, Benvenuti Cellini, Raffaello Sanzio……..pensate ai casi vostri. Il prof. Manzini è all’opera, il prof. Manzini non scherza”.
4.6. Ed ancora, nel numero del 21 ottobre, si trovano osservazioni critiche circa l’incidenza della politica sulla giustizia in Germania; forse la Germania già faceva paura, o forse, esponendo i difetti della Germania, si intendeva indirettamente sollevare pari critiche al sistema italiano.
Si legge in quelle pagine: “E si potrebbero citare esempi su esempi di questa deplorevole jugulazione della giustizia alle esigenze dei partiti, i quali, fra tutti i partiti dei grandi paesi europei, sono forse i più settari, faziosi e violenti. Gli assassini di uomini politici repubblicani sono spesso irreperibili, e comunque i loro giudici sono pieni di clemenza. Non è stata ancora dimenticata la conclusione pietosissima del processo contro gli aggressori di Harden. E sono all’ordine del giorno i rigori della giustizia contro giornalisti e scrittori repubblicani in nome di una legge elasticissima come quella dell’ordine morale da custodire. Un giornalista è stato recentemente condannato a 200 marchi (oro) di multa per offesa a Dio, e la sua colpa si riduceva ad una antica satira sulla concezione che i razzisti si son formata della storia della creazione. Sotto la stessa imputazione sono stati condannati il poeta Zeckmayer, il caricaturista Gross, lo scrittore Pecker, ecc…. La conclusione è chiara. Quando la magistratura si fa milizia di un partito politico, la parola giustizia perde ogni significato nella vita di un paese, qualunque ne sia il grado di ricchezza e di civiltà”.
L’ultimo numero, che chiude l’esperienza de La giustizia italiana, è del 29 ottobre, e in esso non si trova niente di particolare: l’articolo di fondo è dedicato alle riforme giudiziarie della Francia, in Note e notizie si lamenta la vacanza dei posti nell’organico, poi v’è qualcosa sulla legge e il regolamento delle professioni forensi, e poi ancora, direi, nient’altro.
4.7. A fine 1926 il Governo fascista, con il ministro guardasigilli Alfredo Rocco, interveniva di nuovo, e definitivamente, contro questi magistrati, tra i quali, direi in primo piano, sempre figurava il giudice Vincenzo Chieppa.
Faccio riferimento al Regio decreto 16 dicembre 1926, che ritengo interessante riportare qui per intero, con il quale Vincenzo Chieppa ed altri suoi colleghi venivano destituiti dall’ordine giudiziario.
Si legge in tale decreto: “Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra I Magistrati Italiani; Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e pubblicato; Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali; Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica; Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo; Viste le giustificazioni presentate dagli interessati; Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto; Abbiamo decretato e decretiamo Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art. 1° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300”.
5. Altre vicende giudiziarie di quel periodo: il processo a Benito Mussolini per costituzione di banda armata, i magistrati artefici del processo di Chieti, il coinvolgimento della magistratura ordinaria nel Tribunale Speciale per la difesa dello Stato
Ma i giudici non furono solo questi durante il fascismo, e altre vicende di quegli anni meritano di essere ricordate.
5.1. Una prima è quella riassunta da Giancarlo Scarpati in uno dei suoi saggi sulla storia della magistratura.[39]
Questo il fatto.
È noto che il movimento fascista si dotò, già prima della marcia su Roma, di una milizia, ovvero di volontari armati che commettevano ogni genere di violenza e intimidivano, minacciavano, e in alcuni casi uccidevano, gli avversari politici.
Alla fine dell’anno 1919, nella sede della Casa degli Arditi, venivano trovate armi e munizioni, e nella cassaforte di Mussolini, nella sede del Popolo d’Italia, venivano rinvenute 13 rivoltelle.
Si apriva così un processo per banda armata, che portò all’arresto immediato dello stesso Mussolini e di altri suoi sodali, tra i quali Ferruccio Vecchi e Tommaso Marinetti, che già avevano preso parte, a Milano, all’incendio dell’”Avanti”, nonché di Albino Volpi, poi imputato e condannato per l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Si dice che Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, telefonò al Presidente del Consiglio dei Ministri Saverio Nitti, segnalandogli che l’arresto di Benito Mussolini poteva essere considerato dall’opinione pubblica un regalo ai socialisti.
Saverio Nitti interveniva allora presso l’autorità giudiziaria e faceva sapere che, secondo lui, se su Mussolini non pendevano gravissime accuse, lo stesso doveva essere liberato.
La magistratura provvedeva così all’immediata scarcerazione di Mussolini.
Successivamente, il Questore di Milano Giovanni Gasti inoltrava alla Procura del Re un’articolata e documentata denuncia nella quale si ipotizzava a carico degli imputati non più un reato pretorile bensì un delitto di costituzione di un corpo armato contro i poteri dello Stato.
Si asseriva che all’interno del Fasci di combattimento milanesi si era formata in effetti una milizia gerarchicamente organizzata, con ufficiali affluiti dal comando militare di Fiume, pronta a ricorrere all’uso delle armi.
La procura del Re, a questo punto, inviava il fascicolo alla Procura Generale, ma il magistrato incaricato, invece di procedere, restava incerto e rimaneva in attesa degli eventi.
Gli eventi successivi però si palesarono subito chiari: uno degli imputati, Benedetto Vecchi, aggrediva il direttore dell’”Avanti”; a Roma i fascisti bruciavano la sede; e Mussolini rivendicava il tutto in un pubblico discorso tenuto a Pola: “abbiamo incendiato l’Avanti di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali; abbiamo incendiato la casa croata a Trieste, l’abbiamo incendiata a Roma”[40].
Gli elementi per accelerare il processo vi erano quindi tutti in abbondanza; tuttavia quella denuncia non veniva incrementata con i fatti successivi, né sul tavolo del magistrato arrivavano ulteriori rapporti da parte della Polizia di Stato.
Si giungeva, così, al novembre del 1920, con una situazione politica cambiata, molto più favorevole al movimento fascista; e in quel contesto Vincenzo Manzini, il penalista più autorevole del periodo, scovava un articolo del codice penale mai prima applicato, ovvero l’art. 254 c.p., in base al quale, e secondo la sua opinione: “se si costituisce senza autorizzazione un corpo di volontari per la tutela di qualche bene giuridico minacciato da pubblici disordini, esso non può considerarsi come corpo armato diretto a commettere reati solo perché, nell’attuazione del suo programma, sia prevista la possibilità ch’esso incorra in qualche reato”[41].
A questo punto, la Procura di Milano, il 14 novembre 1920, chiedeva alla sezione istruttoria di rinviare a giudizio Mussolini e gli altri imputati non già per aver costituito un corpo armato contro i poteri dello Stato, bensì per aver costituito una specie di guardia civica senza licenza.
Il processo, tuttavia, subiva, anche in questa sua forma ridotta, un nuovo stallo.
Nella primavera del 1921, infatti, 35 fascisti entravano in Parlamento, e tra questi Benito Mussolini.
A questo punto il processo si bloccava nei suoi confronti in quanto deputato.
I magistrati avrebbero però potuto stralciare la sua posizione e processare gli altri imputati, ma questa scelta non fu fatta, e tutto il processo rimase invece sospeso in attesa di una autorizzazione a procedere che non arrivò mai.
Dopo la marcia su Roma, uno dei primi atti del Governo fu quello di promuovere un’amnistia per i reati commessi “a fini nazionali”, e tali andavano considerati, ovviamente, tutti quelli compiuti dagli squadristi nei confronti dei loro avversari politici.
Così, ancora, scrive Giancarlo Scarpari: “Questo provvedimento reca la data del 22 gennaio 1922, due giorni dopo la Procura di Milano chiede l’applicazione del beneficio, cancella, sbarrando manualmente, la precedente richiesta di rinvio a giudizio e ne formula una seconda con la quale chiede l’improcedibilità dell’azione penale, e la Sezione Istruttoria prontamente si adegua, ordinando anche la restituzione delle 13 rivoltelle a Benito Mussolini”[42].
5.2. Sul processo svoltosi a Chieti esiste ampia letteratura, dal che non avrebbe proprio senso che io mi ci soffermi in questa sede[43].
Mi limito solo a ricordare i due magistrati che ne furono protagonisti, Giuseppe Francesco Danza, presidente del collegio giudicante, e Alberto Salucci, procuratore d’accusa.
Ricordo, ancora e preliminarmente, che il processo agli assassini di Giacomo Matteotti fu trasferito da Roma nella tranquilla provincia di Chieti a seguito di un provvedimento della nuova Corte di Cassazione sotto la Presidenza di Mariano D’Amelio. Esattamente, il 1° dicembre 1925 la sezione d’accusa del Tribunale di Roma si limitava a rinviare a giudizio per omicidio preterintenzionale i sequestratori di Giacomo Matteotti, e il 21 dicembre 1925, su richiesta della Procura Generale della Corte di Appello di Roma, la prima sezione penale della Cassazione trasferiva, accogliendo l’istanza, il processo da Roma a Chieti per “gravi motivi di sicurezza pubblica”.
a) Presidente dell’Assise fu Giuseppe Francesco Danza, consigliere della Corte di Appello dell’Aquila, tra i primi magistrati ad iscriversi al partito nazionale fascista; in una sua scheda biografica si leggeva che egli aveva “la pronta comprensione del nuovo ordinamento che il pensiero fascista avrebbe impresso alle tendenze e alle costruzioni del diritto”[44].
Lo stesso imputato principale del processo, Amerigo Dumini, ebbe a dire del Presidente che: “Se io sono stato condannato a quattro anni di prigione per il delitto Matteotti, il Presidente avrebbe dovuto essere condannato a trenta!”[45].
Sull’andamento del processo tenuto dal Presidente il giornale Il Popolo d’Italia del 21 marzo 1926 scriveva: “Bene dunque ha operato il Presidente dell’Assisi nell’imprimere alle sedute uno stile sollecito che si può senz’altro qualificare fascista”[46].
La vedova di Giacomo Matteotti, in questo clima, rinunciava alla costituzione di parte civile scrivendo al Presidente: “Ciò che oggi ne rimane (del processo) non è più che l’ombra vana. Non avevo rancori da esprimere, né vendette da invocare: volevo solo giustizia. Gli uomini me l’hanno negata, l’avrò dalla storia e da Dio”[47].
b) Procuratore Generale di quel processo fu Alberto Salucci.
Di particolare imbarazzo richiamare alcuni passi della sua requisitoria, chiaramente ispirata alle direttive impartite dal fascismo.
Egli esortò dicendo di: “risparmiare le lacrime e i fiori sulla tomba dello scomparso, dal momento che troppe false lacrime e troppo dimostrativi fiori sono stati sparsi sulla sua tomba”; gli imputati furono presentati dal Procuratore generale: “combattenti che entusiasti offrirono la loro vita per il bene della Nazione (avverso) il dilagare del sovversivismo allora imperante”; mentre Giacomo Matteotti “fu uno di coloro che osteggiarono o che non diedero il loro consenso e il conforto della loro azione e della loro parola all’Italia che si apprestava nel suo duro cimento e fu uno di coloro che sabotarono la nostra vittoria".
Il Procuratore escluse nel delitto ogni premeditazione degli imputati asserendo inoltre: “Gli imputati non avevanointenzione di uccidere ma i fatti andarono oltre quella che era la loro intenzione poiché il deputato oppose un’ostinata resistenza, che costituì la ragione della sua fine”.
Riferendosi al principale difensore degli imputati, l’avv. on. Roberto Farinacci, al tempo stesso segretario del partito nazionale fascista, disse: “Difensore egregio, on. Farinacci, voi avete avuto l’ambito onore di essere qui, in una toga lucente donatavi dal fiore del femminismo fascinatore di Chieti: che questa toga immunizzi anche voi”. E poi ancora, sempre riferendosi a Giacomo Matteotti: “Il Duce ebbe a dire, in un suo discorso, che nessun peggiore suo nemico avrebbe potuto escogitare cosa tanta diabolica nefanda. Sappiatelo voi, ricordatelo o giurati, nel momento supremo del vostro raccoglimento”[48].
c) Ricordo altresì che parimenti fascista fu la giuria popolare, pilotata dal Prefetto di Chieti Damiano Cottalasso; questi il 16 marzo 1926 truccava il sorteggio, svoltosi a porte chiuse, e comunicava soddisfatto l’esito del suo lavoro al Ministro Luigi Federzoni: “La giuria è ottima. Ho fatto riservatissime indagini”[49].
d) Infine da ricordare che, ovviamente, il comportamento tenuto dai due magistrati gioverà alla loro carriera.
Giuseppe Francesco Danza verrà chiamato al Ministero quale direttore dell’Ufficio studi legislativi e nominato il 29 marzo 1928 consigliere di Cassazione “per merito distinto”; il 23 gennaio 1934 sarà senatore, e alla sua morte, sopraggiunta il 25 febbraio 1938, il presidente del senato Luigi Federzoni onorerà: “la nobile figura del camerata, il magistrato integerrimo, il fascista di antica fede, il giurista dotto e acuto”[50].
Alberto Salucci sarà assegnato nel luglio del 1927 alla Procura generale della Corte di Appello dell’Aquila; presiederà il Tribunale delle acque pubbliche dal febbraio del 1929 al dicembre del 1931, quando diventerà procuratore generale della Corte di Appello di Roma e procuratore generale onorario della Corte di Cassazione; verrà nominato senatore nell’aprile del 1934[51].
5.3. Una terza vicenda che merita di non essere dimentica è quella della trasmigrazione di un certo numero di magistrati ordinari al nuovo Tribunale per la difesa dello Stato istituito con legge 25 novembre 1926 n. 2008 per la repressione dei c.d. reati politici.
Un importante contributo a questo tema è stato dato da Leonardo Pompeo D’Alessandro, Una presenza scomoda: i magistrati del Tribunale speciale nella transizione democratica[52].
È in primo luogo interessante avere contezza della composizione di detto Tribunale: 77 componenti provenivano dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; 37 appartenevano all’Arma del Carabinieri, ma 17 furono anche i magistrati che andarono a far parte di quella giurisdizione speciale negli anni compresi tra il 1928 e il 1943; ciò fu possibile grazie alle successive leggi 1 marzo 1928 n. 380 e 27 settembre 1928 n. 2209, che consentirono, appunto, l’ingresso dei magistrati ordinari nel Tribunale per la sicurezza dello Stato, e ciò sia nelle vesti di procuratori inquirenti, sia in quella di giudici istruttori e relatori.
Leonardo Pompeo D’Alessandro fa i nomi di questi magistrati, sfruttando studi storici in materia[53]; vale la pena ricordarli anche in questo contesto: Leonida Albanese, Giuseppe Calzetti, Enrico Capotorti, Ugo Cominelli, Massimo Dessì, Demetrio Forlenza, Giuseppe Giliberti, Francesco Iannitti Piromallo, Michele Isgrò, Giuseppe Montalto, Mauro Montesano, Roberto Orrù, Francesco Polito De Rosa, Luberto Ramacci, Giovanni Santoro, Antonio Scerni, Fernando Verna[54].
La cosa grave è che mentre i componenti della Milizia e dei Carabinieri erano normalmente destinati al Tribunale Speciale quali “comandati”, ovvero inviati a tale incarico d’ufficio e senza una precisa loro volontà, i magistrati ordinari venivano reclutati in piena libertà, e quindi accedevano al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato su domanda, evidentemente per fare carriera e ingraziarsi il regime fascista: “La loro fu una scelta consapevole e meditata”[55].
Peraltro, il numero indicato di 17 va considerato per difetto, poiché, in verità, molti magistrati ordinari chiesero di passare al Tribunale Speciale e le loro domande non furono accolte semplicemente perché l’organico non lo consentiva.
Ed è parimenti certo che la magistratura ordinaria considerò del tutto legittimo tale Tribunale, ed anzi addirittura prestigioso, e conferma di ciò la ricaviamo dalla testimonianza di un magistrato ordinario presso quel Tribunale, Giuseppe Montalto.
Questi, infatti, messo sotto processo dall’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo nel 1945, si difese ricordando come nella magistratura, nessuno avesse mai “dubitato della formale e sostanziale legalità di quell’organo giudiziario……oggi la critica sì, è assai facile, ma quanti magistrati e non magistrati hanno viste deluse, per esaurimento dei posti di organico, le loro speranze di essere destinati al Tribunale speciale, e quante lodi, orali e scritte, anche da parte di alti magistrati e avvocati, per il funzionamento di esso e di approvazione della sua giurisdizione”[56].
Non sarebbe corretto, pertanto, ritenere che la magistratura ordinaria rimase indenne dagli abusi giudiziari del fascismo, poiché affidati ad un Tribunale Speciale; al contrario numerosi magistrati ordinari presero parte in quella giurisdizione, e molti fecero domanda per prenderne parte senza tuttavia riuscirci.
Scrive sempre D’Alessandro: “Non solo i magistrati ordinari che avevano operato nel Tribunale speciale erano stati numerosi, ma avevano anche ricoperto un ruolo di primo piano nella gestione dei procedimenti”[57].
Dopo la guerra, il d. lgs. lgt. 27 luglio 1944 n. 159 istituiva un’Alta Corte per le sanzioni contro il fascismo, e furono così processati taluni ex membri del Tribunale speciale.
Il 20 agosto 1944 il giornale Il Popolo, intitolava un articolo Quelli del Tribunale speciale, e dette la notizia che diciotto alti magistrati erano stati sospesi dal loro ufficio per aver sostenuto attivamente la politica del fascismo, e, tra essi, sette per aver fatto parte del Tribunale speciale; tra i magistrati coinvolti nel Tribunale speciale i consiglieri di Cassazione Michele Isgrò e Giuseppe Montalto, il consigliere d’appello Enrico Capotorti, i sostituti procuratori generali Francesco Polito De Rosa e Giovanni Santoro, i sostituti procuratori Giuseppe Calzetti e Iannitti Piromallo.
6. Il volume: A S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia
Menzione a parte merita infine la pubblicazione di un volume titolato: A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia[58].
Si tratta di un volume avente ad oggetto pensieri di devozione al regime fascista, donato a Benito Mussolini da oltre 700 Pretori d’Italia, in una cerimonia solenne tenutosi a Palazzo Chigi il 15 marzo 1926, volume contenente altresì una lettera del Procuratore del Re di Bari Tommaso Bianco anteposta all’epistolario del Pretori.
È un momento di storia della magistratura italiana che non può essere tralasciato.
6.1. Il libro, in primo luogo, contiene una dedica, preparata tempo prima rispetto al volume, con al lato la data della dedica stessa: e la data è quella del 5 gennaio 1925; sia consentito ricordare, pertanto, che la dedica è posteriore di soli due giorni al discorso che Benito Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio 1925, rivendicando a sé e al fascismo l’omicidio di Giacomo Matteotti.
La dedica è così congegnata: “A Te, o Benito, queste pagine che racchiudono il canto pastorale dei Pretori d’Italia. Essi ebbero ed hanno tutt’ora palpiti per te come per la patria, perché di questa tu sei incarnazione, simbolo vivente. Avrà l’Italia nell’avvenire il vate che celebrerà le tue gesta e l’arte, con fremiti raffigurerà il tuo sembiante. A noi presenti la umiltà del silenzio, ma anche la fortuna di averti visto vivente”[59].
6.2. L’idea di raccogliere la solidarietà dei Pretori d’Italia per il duce veniva ad un certo Nicola Pende, Pretore di Acquaviva delle Fonti.
Egli, in data 11 novembre 1925, stendeva un “Appello ai colleghi d’Italia”, asserendo quanto segue: “Colleghi d’Italia, vi farei ingiuria se dovessi a voi enunciare argomenti. Abbiamo compreso la figura del grande condottiero e legislatore, che ci governa, perché in noi è la conoscenza retta della necessità, della bontà delle nuove leggi…..quando i nemici di Mussolini vorranno rappresentarlo come un dittatore, tale figura, affermiamo, potrà apparire un orrore agli ignoranti, ma per noi è altezza raggiunta, palingenesi di un popolo…..Se finora il riserbo di una manifestazione di consenso al regime era doveroso per noi, oggi invece che una caterva di spodestati, di gente di malafede, d’ignoranti e di vili assassini attentano con ogni mezzo alla Patria, s’impone a noi il dovere opposto: manifestare espressamente quel consenso…..Giunga il nostro saluto a Lui e sia monito per tutti che i magistrati d’Italia riconoscano in Benito Mussolini il Perseo di quella Gorgone nefasta che tentò impietrirci tutti, il redentore della Patria, l’apostolo della nuova gente italica”[60].
La Gazzetta di Puglia pubblicava questo appello il giorno dopo, 11 novembre 1925, e nella successiva data del 20 novembre 1925 detto appello veniva accluso in copia in una “Lettera circolare ai Pretori d’Italia”, a firma sempre di Nicola Pende, e con la quale questi, rivolgendosi a tutti i suoi colleghi in tutto il territorio nazionale, li invitava a sottoscrivere una scheda di adesione apponendovi la firma.
Aggiungeva Nicola Pende: “A raccolta compiuta invieremo al Duce una pergamena o messaggio contenente tutti i nostri nomi preceduti da un motto”.
E poi ancora: “Il significato della nostra manifestazione non può essere equivocato. Essa rappresenta l’omaggio della nostra virtù al genio del Duce…….Prego pertanto di rinviarmi con tutta sollecitudine l’acclusa scheda e, se lo crederai, aggiungi con separato biglietto un tuo pensiero, giacché quello fra i motti che sarà giudicato il migliore servirà d’intestata al messaggio o pergamena. Il motto dovrà essere sintetico ed in ogni caso di una sola proposizione”[61].
6.3. Si inizia, così, a raccogliere le lettere d’adesione.
I Pretori sottoscrivono la lettera di adesione, manifestano per iscritto con separato biglietto la loro fede al duce, e molti aggiungono un motto come richiesto da Nicola Pende.
I Motti saranno poi raccolti separatamente a chiusura del volume.
Tra questi:
- “Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca”.
- “Al pilota superbo ed audace che regge con sicura mano il timone dell’Italia nave”.
- “A Benito Mussolini, che fuor ci trasse a riveder le stelle”.
- “A Benito Mussolini, fulgida gloria del genio italico, ricostruttore instancabile dei destini della Patria, I Giudici d’Italia, coscienti e devoti, solo avvinti dal proprio dovere, sinceramente offrono”.
- “Imperio atque iustitia o fient magna Italia”.
- “Reverente saluto al nostro Duce, che avvincendo e convincendo con inesauribile preziosa fatica, guida la Patria ai più alti destini”.
- “Voglia Iddio conservare Mussolini, insigne statista e Patriota per lunga serie di lustri per la grandezza d’Italia”.
- Valga l’augurio che, nel silenzioso nostro lavoro, abbi tu Duce la più valida cooperazione per le migliori fortune della nostra Italia”.
- “Benito Mussolini, Gloria d’Italia, splendore dell’Orbe”.
- “Stato forte e magistratura degna valsero a portare le aquile di Roma per il Mondo. Voi siete lo Stato forte, la Magistratura sarà degna di Voi, che nuova grandezza avete dato e darete alla Patria”.
- “Adversus hostem aeterna auctoritas”.
- “A Benito Mussolini, espressione purissima della stirpe, sicuro presidio della Patria”.
- “A Mussolini, espressione elevata delle virtù di nostra gente. Novo assertore delle naturali leggi di convivenza civile, bandite al mondo da Roma, riaffermanti la imperitura supremazia dell’Italia, la Magistratura, fiera e fiduciosa nel sacro impero del diritto”[62].
6.4. Alla gestione dell’iniziativa di Nicola Pende si aggiungeranno poi altri due Pretori, ovvero Antonio Visco, Pretore di Tivoli, e Antonio Colonnello, Pretore di Rieti.
Questi tre presenteranno insieme il volume una volta stampato, in una pagina titolata: “Agl’Italiani”.
In quella pagina si afferma che: “I Patrioti vi troveranno alimento per il lor cuore generoso, i dubbiosi la mediteranno e forse trarranno partito per decidersi”.
Poi i tre si rivolgono a tutti i giudici che credono ancora nel principio della indipendenza della magistratura, e ad essi sono indirizzate le seguenti parole: “Ai falsi zelatori della costituzionalità; a quei pochi che, immaginandosi nell’Olimpo, si preoccupano di parere indipendenti, rispondiamo brevemente: la vostra scolastica vale tra i mediocri, ma non può prevalere agli animati di sacro entusiasmo, a coloro che, dinanzi all’Eroe della nuova storia, han sentito in sé tramutarsi in missione la loro ordinaria funzione. Il fascismo rappresenta un’epoca storica alla quale la magistratura non può restare estranea. Noi Pretori diciamo umilmente ma sinceramente, in questo epistolario, la nostra parola di fede e di devozione al Duce, investito dell’Italia rinnovata”[63].
Antonio Visco, poi, pubblicherà altresì uno scritto sulla rivista La Pretura, 1925, n. 13, titolato Magistratura e fascismo, riportato anche nel volume.
Egli scrive: “Come si può negare a noi che rappresentiamo la classe che eccelle per cultura e primeggia per responsabilità di avere e di manifestare una fede politica? ……Chi scrive queste righe ricorda sempre con orgoglio di aver partecipato alle prime adunate fasciste…….La magistratura ben può dare il suo consenso ad un regime che riunisce e rinsalda le forze più fedeli, più pure e più devote della causa nazionale e le guida verso supreme mete di grandezza e di gloria. E questo consenso può darlo apertamente e spontaneamente, senza falsi timori e senza vani indugi”[64].
6.5. Da pag. 15 a pag. 40 sono elencati, in ordine alfabetico, tutti i Pretori aderenti alla iniziativa, da Albertacci Alberto, a Zinni Giuseppe.
Si tratta di un numero di oltre 700 Pretori, nome e cognome e luogo ove l’ufficio è reso; Benito Mussolini, così, può avere l’elenco completo dei Pretori che gli sono devoti.
Il volume ha altresì, in fondo, un elenco alfabetico delle lettere[65].
Chi scorra quell’elenco nota che la stragrande maggioranza dei Pretori proviene da piccole, o piccolissime province; ma non mancano anche Pretori di grandi città italiane, del sud come del nord; sono coinvolte città come Messina, Trento, Genova, Roma, Ancona, Pavia, Ferrara, Catanzaro, Siracusa, Brindisi, Vicenza, La Spezia, Novara, Ascoli Piceno, Benevento, Sassari, Forlì, Rovigo, Siena.
L’epistolario che segue, come premesso, è introdotto da una comunicazione del Procuratore di Bari Tommaso Bianco, che così scrive: “Nulla la mia povera parola può aggiungere alla bellezza del vostro gesto…Voi, con felice intuito, raccoglieste le vibrazioni della giovane magistratura per farne offerta al Genio che salvò l’Italia e rese il mondo attonito”.
E poi ancora, riferendosi al volume che raccoglie i messaggi per il duce: “Esso attesta che anche i magistrati adorano l’Uomo, attesta che una sana e benintesa giustizia non è, non può essere in conflitto, ma in divina armonia col santo amor di Patria”[66].
6.6. La cerimonia di presentazione del volume al duce si tenne, come detto, a Palazzo Chigi, il 15 marzo 1926.
A porre il libro direttamente nelle mani di Benito Mussolini una commissione di venti diversi Pretori “in rappresentanza di circa settecento aderenti”[67].
L’originale dell’album-epistolario fu realizzato in opera artistica, sullo stile dei codici medioevali, dal prof. Lucandri di Roma, racchiuso in cofano di cuoio.
L’iniziatore Nicola Pende fece la presentazione del volume con queste parole: “DUCE, a nome di 700 Pretori noi qui presenti e convenuti da ogni regione d’Italia vi preghiamo di accogliere questo omaggio della nostra profonda devozione, del nostro sincero ardente amore. Infinitamente umili noi ci sentiamo dinanzi alla Sublime Purità Vostra che vorremmo adorare in silenzio; ma pur vogliamo dirvi soltanto: tre grandi ombre vegliano sul vostro capo: Dante, Foscolo, Mazzini. DUCE: per l’ideale che vi agita internamente e che ci unisce a Voi, per la vita e per la morte, noi vi giuriamo fedeltà”[68].
E Benito Mussolini rispose: “Il vostro omaggio è per me il più eloquente e significativo di quanti me ne sono giunti in questi tempi. Voi che siete al primo gradino della più alta gerarchia, la giudiziaria, ed amministrate giustizia, negli strati più profondi del popolo, rappresentate coloro che devono applicare quella legislazione che si va formando, in questo momento di liquidazione del regime demo-liberale, e di instaurazione dello Stato Fascista. Considero la vostra opera, più che una funzione, una vera missione. Tornando alle vostre sedi, recate il mio saluto e il mio ringraziamento a tutti coloro che hanno sottoscritto”[69].
Poi Benito Mussolini si unì ai presenti per una foto di gruppo, riprodotta nel volume.
Quello stesso giorno la Commissione fu ricevuta altresì dal Ministro Guardasigilli Alfredo Rocco, dal primo presidente della Corte di Cassazione Mariano D’Amelio, e dal Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Appiani.
6.7. Il volume, infine, da pag. 46 a pag. 181, contiene i messaggi inviati al duce dai Pretori aderenti: si va dal primo messaggio di Filippo Galassi, Pretore di Camerino, all’ultimo messaggio, di un tale che si firma Tuo Colozza, Pretore di Carovilli.
I messaggi sono tutti, in gran parte, eguali, tutti colmi di elogi a Benito Mussolini, tutti espressione di fede e devozione al duce, salvatore della patria.
Sono così simili tra loro che non conviene riportarli; il tenore del volume credo si sia già ben compreso.
Mi limito qui solo a segnalare che tra i Pretori aderenti ve ne furono alcuni che occupavano posti di primo piano in sedi importanti.
Il Pretore titolare del 5° mandamento di Roma scriveva: “Salutai il fascismo, al suo sorgere, come l’alba della rinascita della Nazione e spiritualmente vi aderii: mi associo quindi alla tua nobile iniziativa. Il mio motto per il Primo Ministro: “Ut semper ferventius ardeat”.
Egualmente il Pretore titolare del 2° mandamento di Roma: “Aderisco toto corde e con sentito entusiasmo alla simpatica manifestazione di omaggio verso il nostro primo Ministro, con la più doverosa ammirazione e la più vibrante riconoscenza al Duce”.
Ed ancora il Pretore del 3° mandamento di Roma: “A Benito Mussolini che saprà ricondurre l’Italia alla gloria di Roma”[70].
Il richiamo all’antica Roma è ricorrente; così il Pretore di Palmanova: “Al grande restauratore della Roma dei Cesari”[71]; o il Pretore di Cropalati: “A Benito Mussolini, la cui opera squisitamente romana nel campo giuridico, vestigia indelebili, come quelle giustinianee e napoleoniche, v’imprime”[72]; alcuni addirittura in versi: come il Pretore di S. Teresa di Riva: “Inclito figlio di Romulea Gente – Tu sei d’Italia salvator possente – Or Lei risorge dalle sue ruine – E cinge l’immortal infula al crine”[73].
E infine il Pretore di Campi Salentina: “Per Benito Mussolini Eja, eja, alalà”[74].
7. Qualche riflessione di sintesi
Questo è quanto mi è parso di dover ricordare sulla magistratura al tempo di Giacomo Matteotti.
E credo che tutti questi fatti passati in rassegna, assai diversi tra loro, suscitano in noi più di un pensiero; e credo altresì che questi possibili pensieri non abbiano ad oggetto aspetti meramente storici e/o teorici, poiché i temi coinvolti in questa esperienza configurano problemi (se si vuole) perenni, immutabili nel tempo; essi sono, appunto, quelli della ricerca di un equilibrio tra funzione governativa e giudiziaria, tra magistratura e potere politico, tra autorità e libertà.
Ritengo, così, che l’esperienza della magistratura degli anni ’20, costituisca per noi, ancor oggi, un buon spunto per riflettere sulle nostre attuali questioni, e ciò anche perché, nella storia, come molti filosofi ci hanno insegnato, tutto ciò che è accaduto può ripetersi, e i meccanismi del genere umano non mutano con il passare del tempo.
A ciò, dunque, queste ultime pagine in omaggio a Giacomo Matteotti.
7.1. In primo luogo, in questo ricordo della magistratura, si riesce a rinvenire tutti i tratti dell’essere umano: si va dal senso del dovere di Mauro Del Giudice al lassismo opportunista di Giuseppe Francesco Danza, dall’orgogliosa consapevolezza della funzione giudicante di Lodovico Mortara allo scandaloso esercizio della funzione requirente di Alberto Salucci, dalla sete di indipendenza e giustizia di Vincenzo Chieppa agli atteggiamenti privi di rigore quali quelli tenuti dai magistrati del processo a Benito Mussolini tra il 1919 e il 1922, fino alla smoderata ambizione e al trasformismo di giudici quali Michele Isgrò e Giuseppe Montalto, disposti a dirigere un Tribunale Speciale a servizio di un dittatore per motivi personali di tipo carrieristico.
Forse la prima sensazione che si ha è allora proprio questa: che nella magistratura si riesce, come probabilmente in qualsiasi altro corpo sociale, a trovare un po’ di tutto: ci sono magistrati disposti a mettere a repentaglio la loro vita e a morire per l’esercizio della funzione e altri pronti a vendersi.
Proprio per ciò, non è facile dare un giudizio complessivo sulla magistratura, sia questa del secolo scorso oppure di oggi, poiché ogni generalizzazione è al tempo stesso impossibile e foriera di errate semplificazioni.
Possiamo solo raccontare dei fatti, come ho cercato di fare in questo mio scritto.
7.2. Una seconda riflessione è imposta dalla vicenda dei Pretori d’Italia.
Oggi, voglio sperare, nessun magistrato dedicherebbe ad un capo di governo un canto pastorale per riconoscergli la funzione di apostolo della nuova gente italica; nessun magistrato direbbe mai ad un capo di governo di sentirsi infinitamente umile dinanzi alla Sublime Purità Vostra.
Però, parimenti, una certa soggezione al governo da parte della magistratura è ancor oggi possibile; e una certa idea che il potere esecutivo sia il primo e principale potere dello Stato, al quale la magistratura deve guardare con riverenza e accondiscendenza, è ancor oggi immaginabile.
E poi v’è un altro aspetto, che è quello della predisposizione dell’essere umano, e quindi anche della magistratura, a cercare, in taluni momenti, un Capo al quale essere fedeli, un capo che decide, e al quale va prestata obbedienza.
È un sentimento che in certi momenti della storia sparisce, ma in altri riaffiora.
I Pretori d’Italia, se noi rileggiamo i messaggi che inviano al duce, non erano dei malfattori, e non intendevano svolgere le loro funzioni in modo deviato o corrotto; erano solo sedotti dall’idea di avere un capo al quale prestare fedeltà.
Al contrario, i giudici riuniti nel 1926 intorno al giornale La Giustizia Italiana, avevano ben chiaro che la magistratura deve stare invece distante dal governo, e non deve avere né capi né gerarchie.
Ancora una volta possiamo ricordare il numero del 10 maggio, nel quale si invocava una distanza, una netta separazione, tra governo e magistratura: “Dappertutto può avvenire, in qualche caso, che i governi facciano sentire la propria influenza sulla magistratura. L’essenziale è che fra magistratura e potere esecutivo non si costituisca un vincolo di ordinaria dipendenza”.
E nel giornale del 21 ottobre: “Quando la magistratura si fa milizia di un partito politico, la parola giustizia perde ogni significato nella vita di un paese, qualunque ne sia il grado di ricchezza e di civiltà”.
E tutti i cittadini devono vegliare su questa distanza: “Or non c’è che una garanzia veramente infallibile contro la regola dell’asservimento giudiziario, ed è il controllo della pubblica opinione”[75].
7.3. Dunque: una magistratura distante dal governo, senza capi né gerarchie.
Se la magistratura si mantiene con queste caratteristiche, allora nessuna dittatura è possibile.
Abbiamo visto che Mauro Del Giudice, assumendo l’istruzione del caso Matteotti, disse: “usciranno intatti l’onore della magistratura e illibato il mio nome, mi auguro poi che gli altri colleghi facciano altrettanto”[76].
Le cose, però, come sappiamo, andarono diversamente, e i suoi colleghi, nella stragrande maggioranza, non si comportarono come lui.
Benito Mussolini riuscì infatti ad imporsi: espulse dall’ordine giudiziario i magistrati antifascisti, creò delle giurisdizioni speciali coinvolgendo in esse la stessa magistratura ordinaria, affascinò un numero non secondario di magistrati con l’idea della patria e le glorie dell’antica Roma, altri li intimorì e li minacciò; alla fine arrivò a dire alla magistratura che: “Nella mia concezione non esiste una divisione dei poteri nell’ambito dello Stato. Nella mia concezione il potere è unitario: non v’è divisione dei poteri, v’è divisione di funzioni”[77].
L’opinione degli storici sulla magistratura durante il fascismo è nel senso che i giudici, se da una parte cercarono, nei limiti del possibile, di non rendersi complici delle illegalità più evidenti, dall’altra non furono però quasi mai baluardo di una resistenza legalitaria; accolsero il fascismo con una adesione “non profonda e non interiorizzata”[78], ma l’adesione (in gran parte) vi fu: “A ben vedere vi fu un rapido e felice fidanzamento tra le gerarchie della magistratura e quelle del regime…….con l’accettazione quasi totalitaria, si direbbe, del nocciolo duro delle leggi fascistissime varate nel 1926 sotto la guida del guardasigilli Alfredo Rocco”[79].
Fu questa, se si vuole, la stessa posizione di Mauro Del Giudice sul fascismo e Benito Mussolini: “Egli, per suprema sventura dell’Italia, mettendo a profitto la balordaggine e la vigliaccheria della grande maggioranza del nostro popolo, usando prima le arti della frode e dell’astuzia e poi l’aperta violenza, riuscì a mettere in atto quello che Lucio Sergio Catilina aveva soltanto premeditato”[80].
In quella frode e in quella violenza cadde, purtroppo, anche l’ordine giudiziario,
Tutto questo, però, sia chiaro, non vuol costituire critica alla magistratura di quel periodo; nessuno ha la licenza morale per fare ciò.
Si tratta solo di sottolineare l’importanza del ruolo del giudice nel sistema costituzionale di uno Stato.
Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona, nel loro volume su L’epurazione mancata, si sono chiesti “cosa sarebbe accaduto se queste persone (ovvero i magistrati fascisti) fossero state allontanate dall’esercizio delicato della giurisdizione (ovvero epurati velocemente)………Ci sentiamo di affermare che la nuova Repubblica avrebbe camminato più velocemente sul piano delle conquiste democratiche…..Il ritardo dell’attuazione costituzionale risentì certamente della permanenza al vertice dello Stato di una generazione che si era formata ed era maturata negli anni dell’esperienza autoritaria fascista”[81].
Se si vuole, una ulteriore conferma di quanto anche gli storici ritengano centrale il ruolo della magistratura in ordine alle libertà democratiche in uno Stato di diritto.
7.4. Dunque: se la magistratura resta indipendente dal governo e capace di amministrare giustizia in modo libero e diffuso nessuno stato autoritario è possibile.
Possiamo dire, così, che la funzione c.d. giudiziaria non è soltanto quella di rendere giustizia nel caso concreto, bensì, forse principalmente, quella di assicurare la democrazia e la libertà dei cittadini.
Una legge può essere ingiusta, il governo può eccede i limiti dei poteri che si riconducono alla sua funzione, ma la magistratura non ha la possibilità di queste devianze; può allinearsi al potere esecutivo, sottomettendosi al volere di un capo; ma se non lo fa, l’idea stessa del capo svanisce, e le libertà dei cittadini restano in tal modo garantite.
Sia consentito ricordare ancora su questi temi Montesquieu.
Montesquieu scriveva: “Nella maggior parte dei regni d’Europa il governo è moderato perché il principe, che ha i due primi poteri, lascia ai sudditi l’esercizio del terzo”.
E poi ancora: “I principi che hanno voluto farsi dispotici, hanno cominciato sempre col riunire nella propria persona tutte le magistrature”[82].
Troviamo una corrispondenza tra il fascismo e le intuizioni del filosofo francese: Mussolini non lasciò infatti ai sudditi l’esercizio del terzo potere, ma anzi, come è noto, riunì nella propria persona tutte le magistrature.
Soprattutto Benito Mussolini, come ogni dittatore, rafforzò la struttura gerarchica dell’ordine giudiziario, poiché è evidente che un potere diffuso non è controllabile, mentre un ordine strutturato con vincoli di gerarchia può essere facilmente assoggettato al governo ove il potere politico abbia il controllo dei vertici della struttura.
Fondamentale, dunque, per le libertà dei cittadini, è non solo che la magistratura non abbia un capo e trovi naturale porsi in distanza con il potere governativo, ma anche che resti perfettamente un potere (e/o una funzione) diffusa, priva di gerarchie, soggetta soltanto alla legge, e distinta solo per funzioni.
È un tema ben presente ai magistrati del giornale La giustizia italiana del 1926.
Scrivevano: “Il carrierismo, con il sistema degli scrutini anticipati, degli incarichi speciali e delle classifiche distillate attraverso una così larga varietà di alambicchi, aveva oltremodo rafforzata fino a minare per ciò l’indipendenza di giudizio dei magistrati” E poi ancora: “Quando è in gioco la vita della giustizia, le miserie del Pretore di Roccacannuccia ci toccano quanto le vicende della Corte di Cassazione”. E poi ancora: “accogliere il principio della equiparazione dei gradi”[83].
7.5. Ed in questo ambito non possiamo infine dimenticare i passi delle sentenze del 1922 di Lodovico Mortara.
Egli scriveva che, se il Parlamento non è più in grado di controllare e sindacare i provvedimenti del Governo, allora è compito degli “organi supremi del potere giurisdizionale porre un nuovo esame della grave questione”; poiché, scriveva Lodovico Mortara, se: “Il sindacato parlamentare si rileva impossibile in fatto, forse illusorio in diritto” si impongano “nuovi doveri alla magistratura, la quale, senza sostituirsi al Parlamento, non può dimenticare di essere quella fra i poteri sovrani dello Stato cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa” [84].
I giudici hanno, per Lodovico Mortara, la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa, e devono quindi poter svolgere questa loro funzione interpretando la legge, insieme alle sue lacune e alle sue mancanze, sempre, in qualunque situazione, soprattutto quando gli altri poteri dello Stato non adempiono ai doveri che hanno nei confronti dei cittadini.
Oggi v’è un ampio dibattito circa i limiti di interpretazione della legge: taluni ritengono che il rispetto della legalità formale non consenta ai giudici di oltrepassare lo stretto tenore letterale delle norme nell’applicazione di esse ai casi di specie; altri ritengono invece che il concetto di fattispecie sia al momento in parte superato, che l’interpretazione del giudice abbia ad oggetto non solo il testo, bensì anche il contesto, e che si sia giunti, si dice, al passaggio dalla certezza del diritto alla giurisdizionalizzazione del diritto.
Non sono temi che fossero sconosciuti, oltre 100 anni fa, ad un giurista quale Lodovico Mortara.
L’esperienza del fascismo ci dice che la magistratura, quale custode dei diritti individuali, bene fa ad interpretare la legge nel suo contesto; ma nel farlo deve tenersi costantemente distante dal governo, non deve avere capi ai quali prestare obbedienza, deve mantenere quella concezione liberale dello Stato che gli consente di affermarsi sempre indipendente da ogni altro potere, e sempre libera al proprio interno.
Questo è l’insegnamento che ci giunge dall’esperienza della magistratura degli anni ‘20: la democrazia di uno Stato e la libertà di un popolo dipendono dal grado di indipendenza della sua magistratura.
[1] Su Giacomo Matteotti giurista si veda PASSANITI, Giacomo Matteotti e la recidiva, Franco Angeli, 2022; e G. CANZIO, Giacomo Matteotti, il giurista, Sistema penale, on line, 11 gennaio 2024.
[2] Il discorso è stato recentemente ripubblicato da Giustiziainsieme, il 25 febbraio 2024
[3] E. LUSSO, Marcia su Roma e dintorni, Torino, 1965, 154; il pezzo è richiamato anche da M.L. SALVADORI, L’antifascista, Roma, 2023, 43.
[4] Così ancora M.L. SALVADORI, L’antifascista, cit., 46.
[5] La frase è riportata da S. CARETTI, Matteotti. Il mito, Pisa, 1994, 118; nonché da M.L. SALVADORI, L’antifascista, cit., 70.
[6] Fra questo studi ricordo per tutti M. CANALI, Il delitto Matteotti, Bologna, 2004.
[7] G. MATTEOTTI, Un anno di dominazione fascista, Milano, 2023, contenente un saggio di U. GENTILONI SILVERI, Sulle ragioni della conoscenza storica, 253 e ss.
[8] Così U. GENTILONI SILVERI, op. cit., 256.
[9] G. MATTEOTTI, Il fascismo tra demagogia e consenso, a cura di M. Grasso, Donzelli – Roma, 2023.
[10] Così la Prefazione di A. AGHEMO, in G. MATTEOTTI, Il fascismo tra demagogia e consenso, XXI.
[11] Tra questi ricordo soprattutto M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, Milano, 2024.
[12] In questo contesto è doveroso ricordare soprattutto lo studio di NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura (1870 – 1922), Bari, 1979; e poi G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, Bologna, 2019; A. MENICONI, Storia della magistratura italiana, Bologna, 2012.
[13] Così espressamente in M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, ed. Opere nuove, Roma, 1985, 25.
[14] Per tutte queste informazioni si veda T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, Rodi Garganico, 2022, 175 e ss.
[15] Vedila ancora in T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, cit., 208.
[16] T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, cit., 208.
[17] Sempre da M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, richiamato per esteso da T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, Mauro Del Giudice, cit., 211.
[18] T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 210.
[19] V. infatti T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 179.
[20] Ancora M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, in op. cit., 213.
[21] M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, cit,, 127.
[22] G. SALVEMINI, Scritti sul fascismo, 291, richiamato sempre da T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 182.
[23] V. anche P. SERRAO D’AQUINO, La legalità del male, Questione giustizia, 22 novembre 2018.
[24] Così RICIGLIANO DONATO, L’inchiesta Matteotti e i magistrati Mauro Del Giudice e Donato Faggella, Calice, 2022, 13; richiamato da T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 180.
[25] Sempre in T.M. RAUZINO, Il magistrato che fece tremare il duce, cit., 183.
[26] RAGNO LUDOVICO (già sindaco di Vieste), Ricordo viestano del magistrato che istruì il processo Matteotti, 14 dicembre 2007, su www.ondaradio.info.
[27] Per ogni più ampia informazione su Lodovico Mortara v. BONI, Il figlio del rabbino, Roma, 2018; CIPRIANI, Scritti in onore dei patres, Milano, 2006, 93 e ss.; SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Attualità di Lodovico Mortara, Padova, 1968, 459; SCARSELLI, In devoto omaggio, Pisa, 2021, 13 e ss.
[28][28] Trovo questi dati nella nuova pubblicazione dell’opera di G. MATTEOTTI, Un anno di dominazione fascista, cit, 185.
[29] Tutte in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
[30] Così infatti Cass. sez. un., 6 maggio 1924, Giur. it., 1924, I, 536.
[31] Per questa informazione v. MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica, Bologna, 2022, 45 e 285.
[32] MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata, cit., 286. Su Vincenzo Chieppa v. anche V.M. CAFERRA, Riccardo e Vincenzo Chieppa nella tradizione della magistratura italiana, Riv. dir. priv., 2012, 275 e ss.
[33] Sull’associazionismo giudiziario v. ora i saggi di F.A. GENOVESE, Da funzionario nomade a magistrato associato, pag. 11 e ss.; G. MELIS, Storia della magistratura e storia dell’associazionismo giudiziario, pag. 33 e ss.; F. VENTURINI, Nascita, sviluppo e scioglimento dell’associazione generale tra i magistrati italiani, pag. 67 e ss.; tutti in AA.VV., Storia della magistratura e dell’associazionismo, Quaderni della SSM, Roma, 2024.
[34] Si veda in argomento E. BRUTI LIBERATI, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Bari, 2018; E. PACIOTTI, Breve storia della magistratura italiana, in QG, Questione giustizia, online, 2018; MENICONI, Storia della magistratura italiana, cit. 99 e ss.; MELIS, Storia della magistratura e storia dell’associazionismo giudiziario, in QG, Questione giustizia, online, 2022.
[35] F. VENTURINI, Nascita, sviluppo e scioglimento dell’associazione generale tra i magistrati italiani, cit., 82.
[36] G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 217 e ss.
[37] I fascicoli de “La giustizia italiana” del 1926 possono consultarsi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze in: G. Roma, 1926, Giustizia italiana.
[38] Sul quale v. L. POMPEO D’ALESSANDRO, Giustizia fascista, storia del Tribunale speciale (1926 – 1943), Bologna, 2020.
[39] SCARPARI, Quando il magistrato era un funzionario (1915 – 1925): dalla Grande guerra allo scioglimento dell’AGMI, in AA.VV., Storia della magistratura, quaderno del SSM, Roma 2022, 53 e ss. Sulla vicenda v. anche M. FRANZINELLI, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista, 1919 – 1922, Milano, 2004, 30 e ss.; nonché ancora G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 57 e ss.
[40] Così Mussolini nel suo discorso a Pola il 20 settembre 2020, richiamato da CHIURCO, Storia della rivoluzione fascista, Firenze, 1929, II, 267, e da SCARPARI, op. cit., 57.
[41] Così V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1920, V, 677; sempre richiamato da SCARPARI, op. cit., 58.
[42] SCARPARI, op. cit., 59.
[43] Per tutto ancora G. SCARPARI, Giustizia politica e magistratura, dalla Grande Guerra al fascismo, cit., 189;
[44] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 365.
[45] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 361.
[46] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 375.
[47] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 367.
[48] E. ROCCA, La requisitoria del Procuratore generale, Il popolo d’Italia, 23 marzo 1926, in M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 375/6.
[49] Ancora M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 365.
[50] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 389.
[51] M. FRANZINELLI, Matteotti e Mussolini, cit., 394.
[52] In MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata, cit., 65 e ss.
[53] NEPPI MODONA – M. PELLISSERO, La politica criminale durante il fascismo, Storia d’Italia, Torino, 1997, 757 e ss.; J. TORRISI, Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il giudice politico nell’ordinamento dell’Italia fascista, Bologna, 2016; M. FRANZINELLI, Il Tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime, Milano, 2017; v. anche lo stesso L.P. D’ALESSANDRO, Giustizia fascista, Storia del Tribunale speciale, Bologna, 2020.
[54] L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: i magistrati del Tribunale speciale nella transizione democratica, in op. cit., 66.
[55] L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: cit., 67.
[56] Memoria difensiva del 30 settembre 1945, Archivio di Stato di Roma, fasc. 174.3, b., 1568, richiamato sempre da L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: cit., 69.
[57] L.P. D’ALESSANDRO, Una presenza scomoda: cit., 71.
[58] Si tratta di un volume raro; per mia parte trovato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, collocazione 5.i.1025. A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, Tivoli, 1926. L’esistenza di questo volume è riscontrata anche in G. SCARPARI, Quando il magistrato era un funzionario (1915 – 1925), cit., 63.
[59] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 3.
[60] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 7.
[61] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 9/10.
[62] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 183 e ss.
[63] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 5/6.
[64] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 12.
[65] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 193 e ss.
[66] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 45.
[67] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 41.
[68] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 41.
[69] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 42.
[70] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 52/3.
[71] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 66.
[72] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 99.
[73] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 105.
[74] A. S.E. Mussolini, I Pretori d’Italia, cit., 140.
[75] “La giustizia italiana” del 1926 può ancora consultarsi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze in: G. Roma, 1926, Giustizia italiana.
[76] M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, cit., 25.
[77] Discorso tenuto ai magistrati da Benito Mussolini il 30 ottobre 1939, in Scritti e discorsi, Milano, 2022, 557.
[78] Così AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, 240.
[79] G. FOCARDI, Magistratura e fascismo – L’amministrazione della giustizia in Veneto (1920 – 1945), Venezia, 2012, 29.
[80] M. DEL GIUDICE, Cronistoria del processo Matteotti, cit., 216.
[81] In MENICONI – NEPPI MODONA, (a cura di) L’epurazione mancata, cit., 26.
[82] V. infatti C.L. MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano, 2019, Libro XI, capitolo VI, 310/311.
[83] “La giustizia italiana” del 1926, Biblioteca Nazionale di Firenze in: G. Roma, 1926, Giustizia italiana.
[84] V. ancora le sentenze in Giur. it., 1922, I, 66, 929; II, 1.
(La fonte dell'immagine è l'archivio digitale della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia)