Giuseppe Tropea, professore ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, è autore del volume “Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico” (Napoli, Editoriale Scientifica, 2023). Ne illustra i contenuti nell’intervista curata da Michele Trimarchi, di seguito pubblicata.
(M.T.) Il titolo che Giuseppe Tropea ha scelto per il suo ultimo libro, “Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico”, può indurre a credere che obiettivo dello studio sia di proporre una lettura in chiave biopolitica delle misure adottate per il contrasto dell’epidemia e delle conseguenti trasformazioni dell’amministrazione e del suo giudice, una lettura cioè che mette in risalto l’esistere, e il manifestarsi al massimo grado proprio in queste contingenze, di “un’implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica” (R. Esposito).
In ciò vi è del vero, ma il libro non può essere ridotto a questo. Il volume in effetti condensa riflessioni nate e formulate in larga parte durante il periodo pandemico, ma solo alcune traggono spunto dalle misure legislative e dalle prassi giurisprudenziali volte al contrasto della pandemia. L’impressione, in generale, è che la pandemia e le conseguenti modifiche dell’ordinamento siano essenzialmente un pretesto, che l’A. ha colto per varare un progetto culturale di più ampio respiro. Ed è lo stesso Tropea a confessarlo nelle conclusioni, quando scrive “il mio interesse attuale non è (sol)tanto contenutistico quanto appunto metodologico, e spero che questo approccio possa suscitare un dibattito, il che già mi renderebbe soddisfatto del lavoro fatto”.
Prima di iniziare l’intervista, può forse essere utile individuare telegraficamente quelli che mi sembrano i due pilastri fondamentali di questo più vasto programma.
Il primo è di mettere in luce che molti caratteri del diritto amministrativo contemporaneo (pandemico e non) sono espressione del modello di governamentalità neoliberale descritto da Foucault, un modello che riduce il diritto a strumento dell’economia e lo piega alle logiche del mercato. In questa prospettiva andrebbero letti il ricorso alle spinte gentili in luogo degli ordini e dei divieti, l’insistenza del legislatore e della cultura giuridica sulle dimensioni dell’efficienza e dell’efficacia dell’amministrazione, la propensione all’utilizzo della soft law, l’atteggiamento del giudice che si distacca dalla legge o invade attribuzioni altrui poiché percepisce la norma non come vincolo ma come mezzo rispetto a un fine di cui egli stesso si fa interprete, etc. Al modello neoliberale mi sembra che Tropea opponga, promuovendolo, il ritorno al primato della sovranità popolare e dei suoi valori, dunque il principio di legalità in senso forte, la separazione dei poteri, il self restraint giudiziale, la funzione reattiva e non proattiva del processo (il processo come luogo di soluzione di controversie, non di attuazione di politiche pubbliche), e la rivendicazione di un ruolo autonomo e caratterizzante della scienza giuridica rispetto alle altre scienze sociali.
Il secondo pilastro fondamentale del progetto culturale di Tropea consiste nello studiare il diritto con un approccio filosofico diverso e per molti versi alternativo a quello che negli ultimi cinquant’anni almeno è stato il più praticato, cioè l’approccio della filosofia analitica. Tropea propone come chiave interpretativa la filosofia continentale post strutturalista e in particolare il pensiero di Foucault. Quale Foucault? Sicuramente l’impietoso osservatore del neoliberalismo, alla cui analisi molto deve quella di Tropea, ma anche il teorico della biopolitica. Tropea osserva che la biopolitica di Foucault oggi è utilizzata dai filosofi sia per additare le scelte del governo che sempre di più si preoccupano della vita e della salute degli individui, comprimendo le loro libertà, sia per l’esatto contrario, cioè per segnalare l’esigenza di un governo attento al benessere e alla felicità degli individui. Anche se il punto è molto delicato, mi sembra che Tropea aderisca a questo secondo filone di pensiero, laddove prende le distanze da Agamben e si dichiara per una biopolitica affermativa.
Vorrei però esser chiaro. Tropea non solo predica il metodo giuridico, ma anche lo applica nella analisi degli istituti da cui volta per volta prendono mossa le sue osservazioni. Ecco perché, pur a fronte di un progetto culturale così ambizioso stimolante e suscettibile di dibattito sul piano delle convinzioni di fondo e del metodo del giurista, sarebbe fuorviante distogliere del tutto l’attenzione dalle questioni di merito, che l’A. affronta da par suo in questo libro.
(M.T.) 1) Ti chiederei innanzitutto di illustrarci cosa intendi per neoliberalismo e quale sia la relazione tra questo e il diritto amministrativo. Inoltre, perché ritieni di doverne fare l’obiettivo polemico di fondo delle tue riflessioni? Mi rendo conto che il tuo libro nella sua interezza costituisce una risposta a queste domande. Ma ti chiederei qui uno sforzo di sintesi proprio per far emergere le linee di fondo del lavoro.
(G.T.) Intanto ringrazio Michele Trimarchi per avermi letto con tanta cura e attenzione, come emerge dal suo preciso e già stimolante discorso introduttivo.
Ove traspare un aspetto cruciale: come nelle lezioni al College de France del 1978-79 per Foucault parlare di biopolitica è stato un pretesto, ben presto abbandonato, per effettuare una genealogia del neoliberalismo, allo stesso modo questo libro vuole essere, pur nella distanza siderale col pensatore francese, un’analisi critica su come il neoliberalismo abbia agito profondamente nel nostro diritto amministrativo sostanziale e processuale, spesso alterandone sia i tratti più tradizionalmente liberali, sia quelli più di recente relativi alle trasformazioni dello Stato sociale e di prestazione.
Contrariamente ad un’opinione diffusa nel dibattito scientifico italiano (e non solo) che vorrebbe il neoliberismo globale come un mero ritorno in auge del “guardiano notturno” e del laissez-faire ottocentesco, nel neoliberismo contemporaneo non vi è affatto un “ritiro dello Stato” dall’economia. Il neoliberismo attuale produce infatti le proprie regole giuridiche e crea le proprie istituzioni, ovvero modella quelle esistenti a proprio uso e consumo: nella logica neoliberista, pertanto, il giuridico è sin da subìto parte dei rapporti di produzione economica. Il diritto, in breve, plasma “dall’interno” l’economia e, in questo modo, “produce” il mercato come istituzione artificiale, perdendo però al contempo il proprio ruolo tradizionale di scienza autonoma, in quanto si funzionalizza allo status dell’efficacia e delle logiche del mercato, ossia alla logica del profitto e dell’efficienza.
A me pare, in questo senso, che il modello di potere per inquadrare la fase attuale, sempre restando a Foucault, sia quello del “tardo” Foucault, non già “ultra-radicale” dei primi anni ’70, ma della svolta “pragmatica”, più in linea con la nozione di governamentalità, non a caso sviluppata nei corsi al Collège de France della seconda metà degli anni ’70. Per intenderci, il Foucault che sintetizzava il passaggio dal liberalismo al neoliberalismo sottolineando che nel primo il protagonista è il soggetto considerato come partner di uno scambio, mentre nel secondo il soggetto è teorizzato come un imprenditore di sé stesso.
Il punto di fondo è dato dal fatto che è insito nel pensiero neoliberale il profilo della libertà di scelta, ricostruita attraverso modelli di comportamento di mercato foucaultianamente estesi a tutte le situazioni e a tutti i rapporti sociali. Del diritto viene a ricavarsi, così, un’immagine di ordine “non politico”: nel modello neoliberale il mercato è un’occasione di massimizzazione e la realizzazione del public good dipende dal successo delle singole transazioni massimizzanti. In tale contesto si è affermato uno «stile giuridico neoliberale» (Denozza), connotato da: intensificazione e tecnicizzazione delle regole, frammentazione dell’ordinamento, concorrenza sostituita dalla competitività.
In questo quadro frastagliato e indefinito è il neoliberalismo amministrativo come “emergenza” costante (De Carolis) che meriterebbe maggiore attenzione. A differenza del paradigma moderno della sovranità, infatti, nel dispositivo governamentale l’emergenza è la strutturazione della quotidianità nell’ottica dell’imprevisto governabile, risolvibile: tale tecnica governamentale diviene, così, un «gigantesco generatore di eccezioni».
Si ha così un’inedita centralità dell’amministrazione nell’ordinamento neoliberale, che mi sembrava meritevole di approfondimento critico.
(M.T.) 2) Come tu stesso osservi, il neoliberalismo coincide con l’economia sociale di mercato proposta dagli ordoliberali. L’economia sociale di mercato è espressamente richiamata e posta a fondamento dei Trattati dell’Unione. In quale misura la tua critica al neoliberalismo è una critica ai fondamenti stessi del diritto dell’unione europea?
(G.T.) Il tuo rilievo è molto acuto.
Come ho appena detto, l’amministrativista deve finalmente prendere consapevolezza di una sua rinnovata centralità critica.
Finora, infatti, si è ritenuto, non senza una certa ragione, che per lo studioso del diritto amministrativo, l’integrazione europea non abbia posto, almeno fino alla sua crisi recente, problemi “esistenziali”, stante la funzione “servente” e “tecnica” che a tale diritto poteva attribuirsi, laddove per il costituzionalista le cose sono state da sempre più complicate. Ho sviluppato queste tematiche di dogmatica giuridica nel paragrafo su norme tecniche e soft law.
Il punto centrale è intendersi sul senso dell’economia sociale di mercato sottesa al modello concorrenziale ordoliberale. Nei Trattati, infatti, l’aggettivo “sociale” ha significato ben diverso di quello recepito o presupposto nella nostra Costituzione. L’economia sociale di mercato non è l’economia di mercato corretta dalla garanzia costituzionale e legislativa dei diritti sociali di welfare, come spesso si sente dire in Italia, travisando completamente il senso autentico della formula, la quale indica un modello che si basa esclusivamente sulla tutela della concorrenza e che muove dal presupposto che questo funzionamento concorrenziale del mercato produca di per sé delle ricadute sociali positive. La nostra Corte costituzionale ha dapprima gerarchizzato i rapporti tra utilità sociale e concorrenza, subordinando la seconda alla prima. Poi però, sotto l’influsso egemonico dello spirito sotteso allo european competition law, ha mutato indirizzo e cominciato a immaginare che tra utilità sociale e concorrenza ci potesse essere un bilanciamento, come se fossero entrambi principi di uguale rango costituzionale e perciò bisognosi di convivere in modo paritario ed equilibrato. Anche la Relazione al Codice dei contratti pubblici, nella misura in cui richiama come esempi di “demitizzazione” della concorrenza due sentenze della Consulta, la n. 131/2020 e la n. 218/2021, andrebbe forse riconsiderata, trattandosi di sentenze non riferite direttamente all’applicazione di principi connessi con la disciplina complessiva del codice dei contratti, ma a situazioni estremamente circoscritte e particolari (terzo settore; obbligo di gara per l’80% per contratti dei concessionari): nessuna delle due esprime, quindi, una valutazione riferita al principio di concorrenza come recessivo rispetto al “risultato”.
Torna così la questione di metodo, centrale nel mio lavoro.
Da un lato si pone il discorso sull’impatto del neoliberismo sulle categorie tradizionali porta ad interrogarsi sullo statuto del diritto post-moderno, sulla sua schizofrenia o la sua eclissi, mettendo in luce come nell’epoca neoliberale il giudice sia un funzionario di un corpo amministrativo investito del compito di approssimare la realtà quanto più possibile al modello della concorrenza perfetta.
Dall’altro evidenzio il dibattito sul ruolo del diritto in Europa, che vede tra i suoi interlocutori autori come Aldo Sandulli in Italia e Armin von Bogdandy in Germania. L’idea di fondo è quella di rivitalizzare lo jus publicum europaeum (di cui Schmitt traccia la parabola e vede il tramonto nella seconda metà del XIX secolo con l’affermarsi del positivismo legalista e statocentrico) attraverso un re-embedding del mercato finanziario europeo. La scienza giuridica deve, in quest’ottica, agire da katéchon contro i mercati globali, freno contro la deriva funzionalizzante, declinando gli imperativi delle scienze dell’economia alla luce dei diritti fondamentali, dei principi costituzionali e delle conoscenze di altre materie in modo da promuovere l’integrazione sociale.
Bisogna osservare come nell’ultimo decennio vi è stato pure un altro approccio alla nuova governance europea, specie dopo la crisi economica del 2008, in base al quale, riprendendo la parte meno “irenica” del pensiero di Schmitt, si è paventato l’avvento di un nuovo stato di eccezione, connotato dalla prevalenza della tecnica, o di “liberalismo autoritario”, per menzionare la tesi di Hermann Heller. Un allontanamento, quindi, del modello dell’integrazione attraverso il diritto, e l’avvento di un nuovo modello di regolazione soft che finisce paradossalmente per rafforzare l’unilateralità della tecnologia di governo. Altri hanno evocato, in questo senso, proprio le tesi foucaultiane del pastorato e del disciplinamento (De Lucia), cui sarebbero sottoposti oggi gli esecutivi nazionali rispetto alla Commissione europea.
Mi sembra particolarmente interessante che un discorso sul metodo, quale quello condotto da Aldo Sandulli, riveli l’acuta consapevolezza della necessità di ripensare l’Unione europea a partire dal diritto, richiamando peraltro, seppure in un contesto diverso, la lezione di Schmitt.
E non mi pare un caso che Schmitt sia al centro del recente libro di Portaluri, che è stato oggetto di un altro “incontro del lunedì” della Rivista, e che come noto ha da par suo criticato in modo serrato le origini nazionalsocialiste della teoria della meritevolezza della tutela, vista come filtro per negare tutela tutte le volte che l’azione collida con «valori emergenti dal basso, che finiscono per diventare le regole ordinative della comunità interpretativa», ammettendo solo una meritevolezza in bonam partem.
(M.T.) 3) Veniamo a qualche tema che riguarda più da vicino il diritto amministrativo, ma sempre nella prospettiva generale che è propria del libro. Occupandoti del potere di ordinanza e delle sue plurime manifestazioni, quasi sempre legate all’esigenza di governare l’emergenza, osservi che, secondo l’impostazione diffusa tra gli amministrativisti, l’ordinanza costituisce l’eccezione rispetto alla totale giurisdizionalizzazione del potere che risponde al modello ideale dello stato di diritto. Per te si tratta invece di un elemento che mette in discussione lo stesso fondamento del potere amministrativo nella legge e che in fin dei conti indica la persistenza e attualità del c.d. stato amministrativo, uno stato che fa a meno del fondamento legale del potere e che si comporta come un continuo generatore di eccezioni, di risposte caso per caso a singoli problemi, risposte affidate essenzialmente alla discrezionalità amministrativa. Lo stesso tema torna nel capitolo su norme tecniche e soft law. Mi piacerebbe che tu chiarissi a questo punto quale dovrebbe essere per te il ruolo del giurista nel contesto che descrivi con lucidità e disincanto. Per un verso mi sembra che tu consideri velleitario, se non ingenuo, il continuo stracciarsi le vesti per i cedimenti della legalità. Ma al contempo rivendichi lo sguardo critico del giurista. Come convivono questi due atteggiamenti?
(G.T.) Anche in questo caso le tue osservazioni sono molto penetranti.
Foucault e Schmitt mi servono come lenti per osservare la realtà, ma questo non mi impedisce di provare a impostare un discorso prescrittivo, che capisco bene possa essere considerato di retroguardia (si pensi al modo in cui rileggo la nozione romaniana di “istituzione” cercando di allontanarla dalle derive della governance), ma tant’è, continuo a credere nei capisaldi dello Stato di diritto, e in tal senso l’approccio metodologico che mi sono sentito di confermare è quello che fa leva sul giuspositivismo temperato (di cui si è già parlato nell’incontro sul bel libro di F. Saitta).
Probabilmente sarà una lotta impari, visto che la sovranità statale, ultimo vero modello di katéchon, è sopravanzata dal modello della crisi permanente, cioè dalla catallassi dell’ingegneria neoliberale, dall’emergenza permanente e dallo Stato amministrativo.
A proposito di Stato amministrativo, menzionavi il tema del potere di ordinanza, anche alla luce del periodo pandemico.
Mi è parso che questo tema intrecci proprio quello, di cui abbiamo già parlato, della governamentalità neoliberale.
L’attenuazione dei confini fra giurisdizione amministrativa e legislazione e fra amministrazione e giurisdizione è segno della predominanza in questa fase del cd. Stato amministrativo di schmittiana memoria, che ultimamente tende ad essere vieppiù riscoperto nelle più meditate indagini sul tema dell’emergenza, anche pandemica. Lo Stato amministrativo (in senso organizzativo) è lo Stato nel quale le autorità amministrative non solo governano e amministrano, ma pongono regole di comportamento e giudicano intorno alla loro applicazione. Inoltre (in senso funzionale) è lo Stato in cui anche legislazione e giurisdizione si trasformano in amministrazione: la legge e la sentenza perdono la loro funzione tipica e divengono anch’esse misure amministrative.
Allo stesso modo, nel modello neoliberale quel che spicca è una tendenza alla amministrativizzazione della norma e della sentenza e una pervasività della norma tecnica soft.
Su quest’ultimo punto, da te richiamato nella domanda, mi interessava di nuovo il discorso di metodo (più che di merito) sotteso alla questione delle norme tecniche e della soft law.
Ove ho evidenziato un diverso modo di approcciare al tema.
Quella più mainstream è l’impostazione che vede l’ascesa di fonti diverse da quelle primarie e secondarie nell’era della globalizzazione dei mercati e della tecnicizzazione del mondo. È presente in questa lettura la presa d’atto della crisi della legalità in esso insita, e il contestuale tentativo di trovare “freni” all’anti-sovrano (Luciani), che vanno dalla legalità procedurale al controllo delle corti. Questo primo punto di vista presuppone un’idea di “norma tecnica” più legata all’uso corrente della locuzione, intesa come “normativa tecnica”, cioè come insieme di regole che qualificano deonticamente una tecnica o che attuano norme più generali, ossia ne specificano le modalità di esecuzione/applicazione.
C’è poi la definizione più filosoficamente connotata di “regola tecnica”, che si fonda sulla distinzione kantiana tra imperativo ipotetico e imperativo categorico, poi sviluppata dai filosofi analitici, che inquadra le regole tecniche, diverse da quelle categoriche, fra le regole che prescrivono un comportamento in quanto mezzo per perseguire un determinato fine, secondo lo schema: se si vuole Y, si deve X. Questo concetto di regola tecnica, a rigore, si distingue dalle regole tecniche sopra indicate, definibili invece come regole tecnonomiche e come regole tecniche d’attuazione.
La prima prospettiva, maggiormente presente fra i costituzionalisti, porta sovente ad accedere ad un’idea non tanto di crisi della legge, ma più ampiamente di crisi del diritto come sistema di veridificazione del potere, per dirla con Foucault , e sempre con quest’ultimo ad evidenziare il sistema sapere/potere insito a questi fenomeni, connotando la soft law come “resa” del sistema democratico rappresentativo a una serie di ideologie forti, su tutte quella neoliberale dell’effettività , che prevale sul modello kelseniano della validità.
La seconda appare più neutra, in quanto volta a sottolineare le origini della soft law nel diritto internazionale e in quello societario, le sue diverse manifestazioni (cd. pre-law, post-law, para-law), i suoi caratteri, e soprattutto a mostrarne la naturale connessione con la “tecnificazione” del mondo e quindi del diritto. Questa prospettiva predilige percorsi di “giustificazione” e indagini sulla “giuridificazione” del fenomeno (e di allontanamento di esso dal modello nichilista alla Irti-Severino, e prima heideggeriano) ad esempio valutando in profondità questi meccanismi come strumenti di riduzione luhmanniana della complessità, e così rileggendo fenomeni come quello delle “norme interne” (Fracchia-Occhiena). Questo secondo approccio, più diffuso fra gli amministrativisti, sembra assecondare meglio la prospettiva della filosofia analitica sopra richiamata, che non a caso vede nella regola tecnica un sistema defettibile, più trasparente e adatto, proprio in quanto confutabile, ai contesti socioculturali che viviamo, all’insegna del principio di effettività sopra richiamato.
(M.T.) 4) Controcorrente è anche il tuo approccio alla digitalizzazione. Esamini tutte le questioni oggi sul tappeto, dai limiti all’impiego degli algoritmi, al controllo giurisdizionale sulle decisioni automatizzate. Ma metti in rilievo una questione di particolare interesse, che quasi sempre sfugge agli osservatori. Ovvero che le maggiori insidie della digitalizzazione risiedono non tanto nelle decisioni automatizzate, poiché il tema è sotto gli occhi di tutti e si stanno predisponendo principi per il controllo delle stesse, ma nelle analisi predittive del comportamento dei consociati attraverso gli strumenti informatici. Queste analisi, tu dici, non si traducono immediatamente in una decisione puntuale ma condizionano in vario modo l’attività amministrativa, dall’apertura dei procedimenti allo sviluppo dell’istruttoria, fino alla vera e propria decisione. Ti chiederei di sviluppare se possibile brevemente questi spunti e di farci cogliere più da vicino quale possa essere il condizionamento dell’attività amministrativa puntuale attraverso l’impiego della tecnologia informatica a monte. Rischiamo che l’interesse pubblico primario definito dalla legge sia sostituito dall’interesse pubblico come risultante dalle analisi predittive degli elaboratori informatici?
(G.T.) Concordo.
Nell’ambito delle riforme un tema di grande rilievo è certamente quello della digitalizzazione dell’amministrazione, altra sfida al centro del PNRR per l’efficientamento amministrativo, ma al contempo potenziale risvolto neo-autoritario del neoliberalismo panottico e della sorveglianza, descritto nel famoso libro di Zuboff. Peraltro, la moltiplicazione dei dati a disposizione e la crescente complessità delle decisioni amministrative da prendere apre le porte al tema della decisione algoritmica, che impatta in modo enorme sul procedimento e l’attività amministrativa tradizionali, si pensi al tema della decisione discrezionale e al rapporto coi principi di responsabilità/imputabilità e legalità.
Come hai rilevato giustamente, sul punto la nostra giurisprudenza amministrativa è molto avanzata, sulla scorta dei principi del human in the loop, della non discriminazione algoritmica, della trasparenza vista come conoscibilità ma soprattutto comprensibilità dell’algoritmo.
E tuttavia restano aperte immani questioni, ad esempio nei procedimenti ad alto tasso di discrezionalità, in cui le incognite sono moltissime e la capacità computazionale e predittiva dei big data può essere più proficua.
Per non parlare di altri temi connessi alla questione della digitalizzazione dell’amministrazione, cioè alla regolazione e alle politiche pubbliche in materia, e quindi di nuovo al tema della sorveglianza digitale e dei grandi poteri privati, traguardati sotto il profilo inedito della regolazione soft, che sperimenta oggi nuove forme, come il nudge, talora declinato nelle innovative, per molti inquietanti, tecniche della gamification e del social scoring nelle politiche pubbliche.
Nel primo caso si tratta dell’utilizzo di elementi ludici, spesso digitali, a supporto di funzioni di regolazione pubblica, nei campi più svariati, che vanno dalle politiche ambientali a quelle del traporto pubblico, passando, appunto, per la sicurezza e il decoro urbano.
Quanto al social scoring, si pensi al seguente esempio. Siamo nel 2010, nella municipalità di Suining. I residenti che hanno compiuto il quattordicesimo anno di età sono i primi a testare il sistema di credito sociale. L’esperimento misura i comportamenti individuali. Premia i virtuosi e punisce chi non rispetta le regole del vivere civile. Vi prendete cura di un familiare anziano? Cinquanta punti per voi. Vi arrestano per guida in stato di ebbrezza? Avete perso cinquanta punti. I cittadini di fascia A ottengono la priorità all’accesso a tutti i servizi sociali. Per i cittadini di fascia D, invece, ottenere licenze e autorizzazioni può richiedere tempi molto superiori alla media. Accedere ai servizi pubblici essenziali è più difficile, o più costoso. Viaggiare fuori dal Paese può divenire impossibile.
Si hanno svariate criticità: sia quella di natura etica, legata al rischio della manipolazione, sia quella connessa del «paradosso dei disincentivi», che si manifesta nel cittadino che, proprio a fronte di tale tecnica manipolatoria, finisce per avere una percezione critica del regolatore pubblico. A ben guardare, peraltro la critica assume dimensioni anche giuridiche, nella misura in cui si ritenga che l’autonoma formazione della volontà costituisca una componente essenziale della “libertà reale”, ossia della effettiva libertà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti, garantita dalla Costituzione.
Si è parlato di “psicopolitica” per descrivere un fenomeno in cui si passa dalla biopolitica, alla quale interessava il controllo regolativo della “popolazione” e in tal senso usava le statistiche demografiche, a un modello regolatorio nuovo connotato dai big data, più adeguato all’assetto neoliberale, nella misura in cui si accede così agli strati più profondi della psiche collettiva.
(M.T.) 5) Dedichi grande attenzione alle tendenze attuali del comportamentismo e soprattutto alla c.d. nudge theory in quanto ritieni che la sostituzione del modello di ordini e divieti con la spinta gentile sia un tratto caratterizzante del modello della governamentalità neoliberale. Di particolare interesse è l’analisi dell’impatto del nudge su concetti tipici del diritto amministrativo che svolgi commentando il libro di A. Zito di questi temi. Zito sostiene che bisogna guardare al potere amministrativo non solo come situazione giuridica soggettiva esercitata dalla p.a. per la produzione di un effetto giuridico ma come “fenomeno di influenza intenzionale sulle azioni altrui, per il raggiungimento di uno scopo proprio di chi esercita il potere” Mi domando se sono due definizioni mutualmente esclusive. In ogni caso, vorresti dirci quali sono a tuo avviso i pregi e i limiti di questa impostazione che utilizza il comportamentismo per la rilettura delle categorie tipiche del diritto amministrativo?
(G.T.) Il libro di Zito è tra i più originali e interessanti che siano stati scritti negli ultimi anni.
Zito è ben consapevole che la teoria del nudge non può essere semplicemente accolta attraverso mere giustapposizioni comparate o la semplice ibridazione con le competenze di economisti, psicologi e linguisti, sicché teorizza una radicale ridefinizione del potere amministrativo, enfatizzando la categoria foucaultiana di potere governamentale.
Egli ha ragione nel rilevare che la tendenza a risolvere il potere nel solo potere giuridico ha impedito l’analisi su altri tipi di potere che non possono dirsi del tutto privi di rilevanza giuridica. Effettuando tale interessante tentativo di traslazione sul piano delle categorie giuridiche familiari al giuspubblicista, osserva che il potere governamentale non si esercita attraverso la predisposizione di regole di condotta e non ricorre alla minaccia o alla costrizione; allo stesso modo, nell’ambito giuridico ci si dovrebbe discostare dalla tradizionale tecnica del command and control, connotante i più tradizionali schemi di potere normativo e disciplinare. Si rileva, quindi, che, in questo rinnovato scenario: «potere amministrativo in senso giuridico non sarà più solo quello che si snoda lungo la sequenza potere-atto-effetto, ma anche quello che si snoda lungo la sequenza potere-atto-effetto nella realtà materiale».
Consiglierei per cogliere questo fondamentale passaggio la lettura di un filosofo del diritto palermitano (Brigaglia), ben conosciuto e richiamato da Zito, che riflettendo su Foucault ha osservato che il potere in Foucault viene progressivamente sganciato dall’ipoteca giuridica, nella quale tutto sommato si trovava ancora nella concezione conflittualistica e ultra-radicale delle prime opere, per pervenire a un’idea di potere governamentale più pervasiva e puntiforme proprio con l’affermazione definitiva del neoliberalismo.
Corollario garantistico di tale ampliamento della nozione di potere giuridico è che sia nel caso del classico potere autoritativo che nel caso del potere volto a influenzare le condotte dei destinatari si sarà comunque in presenza di esercizio della funzione amministrativa volta alla cura dell’interesse pubblico, con la conseguenza della necessaria applicazione delle regole formali e sostanziali che ne disciplinano l’esercizio.
A me pare, tuttavia, che persistano delle questioni aperte.
Zito, nella misura in cui sposa – coerentemente – una visione non edulcorata del nudge, che ne implica la non trasparenza, taglia implicitamente fuori tutte quella ricostruzioni che, invece, ne ammettono la configurabilità sistematica a patto di preservare detta trasparenza.
D’altra parte, se il vero nudge è quello non trasparente, non si comprende poi come sia possibile (peraltro al prezzo di una forzatura normativa), ritenere che gli atti regolatori generali e pianificatori comportanti nudge debbano aprirsi alla partecipazione del cittadino, al fine di compensare il deficit di legalità sostanziale che esso porta con sé.
Per non parlare del tema della sindacabilità giurisdizionale, anch’esso ritenuto correttivo importante rispetto alle insidie del nudge, ma che tende ineluttabilmente a recedere di fronte a scelte che più che tecniche appaiono di tipo politico-amministrativo, dunque connotate da grande discrezionalità.
Lungi dal configurarsi come una “terza via” tra utilitarismo e teorie decisioniste “à la Schmitt”, il nudge sembra riproporre lo schema utilitaristico del «governo degli interessi» e il lato oscuro del diritto amministrativo “alla felicità” di cui oggi tanto si parla.
C’è quindi una evidente relazione tra utilitarismo benthamiano, nudge, e neoliberalismo. Nella Nascita della biopolitica, Foucault definisce questo metodo di governo come l’approccio utilitarista del liberalismo, «quello con cui abbiamo minore familiarità, ma senza il quale non riusciamo a comprendere correttamente il neoliberismo contemporaneo».
Il nudge finisce per essere, in tale schema, il dispositivo di questo potere, che è tanto più flessibile, fluttuante e mutevole quanto più richiede di esserlo l’insieme dei meccanismi che rendono possibili i processi di assoggettamento al potere connotato utilitaristicamente come governo degli interessi. L’influenza paternalistica si allea con la libertà individuale, creando all’interno del nudge le condizioni di questa convergenza.
Nell’epoca neoliberale, quindi, il nudge emerge come una sorta di meccanismo correttivo tra la tendenziale incompatibilità del diritto col soggetto di interesse, tra l’homo juridicus e l’homo economicus. Si configura, così, una strategia normalizzante, un potere che, come una “catena invisibile”, cerca di evitare l’azione repressiva plasmando desideri legittimi.
(M.T.) 6) Sempre in relazione al nudge non manchi di manifestare le tue preoccupazioni rispetto alla formazione autonoma della volontà degli individui che è un presupposto della loro libertà. Che il nudge risenta profondamente del paternalismo non c’è dubbio e fai bene a mio avviso nel sottolineare le aporie del c.d. paternalismo libertario. Tuttavia vorrei farti una domanda specifica: prevedere che il possesso del green pass sia necessario per svolgere determinate attività è più o meno limitativo delle libertà dell’individuo rispetto all’imposizione dell’obbligo vaccinale?
(G.T.) Capisco perfettamente il senso della tua domanda.
A mio avviso il nostro giudice amministrativo e quello costituzionale in entrambi i casi hanno correttamente legittimato l’azione del Governo, ma i fenomeni vanno distinti.
Mentre nel primo caso il leit motiv delle sentenze in materia di obbligo vaccinale pare [...] essere stato il bilanciamento tra diritto alla salute inteso nella sua sfera individuale e diritto alla salute della collettività, intesa come intera comunità [...] non solo nazionale, nel secondo caso si è trattato di nudging, con cui si intende promuovere per l’appunto la vaccinazione.
Specie per il “Super Green pass” taluni problemi sussistevano effettivamente, come la mancanza di un chiaro limite temporale di durata di quelle misure emergenziali e varie discriminazioni che possono porsi, per cui non si è reputato un taboo prospettare un obbligo vaccinale generalizzato.
Ma a mio avviso il tema principale è stato un altro, ossia la trasparenza.
Un documento critico di A.N.M., pur smentito poi da dottrina e giurisprudenza, tocca un punto importante, nella misura in cui – senza menzionare espressamente il tema del nudge – intreccia la questione della trasparenza, differenziando l’intervento italiano da quello francese. In questo secondo caso si nota, infatti, l’assunzione di una decisione in un quadro di trasparente dibattito pubblico e con il coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali.
Il nostro Consiglio di Stato, consapevole forse di tali rilievi, nella nota sentenza sull’obbligo vaccinale anti-Covid nei confronti dei sanitari, collega il nudge alla trasparenza, ritenendo il primo veicolo di consenso informato e autodeterminazione.
Torna qui la questione sopra richiamata: se in questi casi il nudge è trasparente, di vero e proprio nudge si tratta?
(M.T.) 7) Non poteva mancare un capitolo sulla sicurezza pubblica, che è motivo ricorrente in tutte le analisi biopolitiche. Commentando un recente libro di R. Ursi, affronti pressoché tutte le questioni attuali su questa multiforme tematica. Vorrei solo fermare due osservazioni. La prima è che la crisi del welfare state ha determinato una riespansione della sicurezza pubblica: le politiche di sicurezza prendono il posto delle politiche sociali. A questo proposito vorrei chiederti se questa evoluzione segna soltanto un cambio di etichetta oppure influisce sul contenuto delle politiche. In altre parole, quale è il tipo di intervento sociale di uno Stato che a tal fine si serve delle misure di sicurezza pubblica? Il secondo aspetto che ho trovato di grande interesse è la critica alla dimensione c.d. orizzontale assunta dalla sicurezza. Prima l’ordine pubblico era considerato monopolio statale, adesso vi sono forme diffuse di esternalizzazione della sicurezza, dalle ronde alla gestione privata della vigilanza nelle carceri. Quali sono a tuo avviso i lati oscuri della sussidiarietà orizzontale in questo ambito?
(G.T.) La questione implicherebbe la necessità di soffermarsi su come i seguaci di Foucault (penso per tutti a Castel) abbiano approfondito il rapporto fra biopolitica e stato sociale, poco sviluppato in Foucault.
Mentre in Agamben vi è un’interpretazione più drammatica della biopolitica, che egli lega alla sovranità, nella linea foucaultiana la biopolitica è decostruzione della sovranità perché oppone alla sovranità il paradigma disciplinante dall’interno e non dall’alto. Naturalmente si considera qui anche quel filone di studi che discende da Foucault, che ha utilizzato la nozione di dispositivo biopolitico per problematizzare e meglio decodificare dinamiche derivanti dalla crisi del Welfare State nel capitalismo maturo.
Il processo di macro-trasformazione che investe il legal system, legato alla parabola Welfare State biopolitico, si sviluppa in due momenti, connessi rispettivamente, a “funzionamento” e “disfunzionamento” del Welfare State, investendo due distinte dimensioni del legal system: prima, la dimensione di produzione normativa, dando luogo al processo di giuridificazione sociale; in un secondo momento (quando il Welfare State declina) il mutamento riguarda gli apparati giurisdizionali, dando luogo al fenomeno della giudiziarizzazione del sociale, effetto, quest'ultimo, condizionato da una modificazione qualitativamente intensa della cultura giuridica del tempo, come termine di mediazione tra mutamento sociale e mutamento giuridico.
Una vera e propria amministrativizzazione dell’attività del giudice, che appunto si manifesta con particolare rilevanza e veemenza soprattutto nel campo paradigmatico della tutela della concorrenza, all’insegna della parola chiave effettività, vettore di tale eccedenza.
Mentre la biopolitica del Welfare è essenzialmente una strategia governamentale che accetta la triade libertà-proprietà-mercato, ma risponde almeno parzialmente alla sfida dell’insicurezza prodotta dal mercato, la biopolitica neoliberale governa i processi sociali attraverso l’individualizzazione. Priva cioè i singoli dei supporti del Welfare e li spinge ad adeguarsi responsabilmente alle logiche del mercato.
Sui lati oscuri della sussidiarietà orizzontale in questo ambito, nella tua domanda c’è già un abbozzo di risposta. Non tornerò quindi su temi noti, quali le ronde o l’esternalizzazione delle carceri.
Mi limito ad aggiungere, per collegare la risposta alla prima parte della questione, che vi è chi teorizza pure una biopolitica post-disciplinare, propria dei tempi di crisi del Welfare State.
Alla base di ciò c’è una “truffa delle etichette”: qualche anno fa quando alcune correnti dottrinali, fondandosi sul carattere (asseritamente) aperto dell’art. 2 Cost., hanno teorizzato un inedito (almeno per la nostra tradizione continentale) “diritto alla sicurezza”, con le ricadute negative che ciò ha avuto nelle discutibili applicazioni dei princìpi di sussidiarietà – verticale e orizzontale – che hanno fondato le politiche pubbliche della sicurezza negli ultimi anni, non solo in Italia.
L'esaurimento delle tecniche di controllo disciplinare operative attraverso dispositivi e istituzioni, che anticipavano e rendevano possibile l'assoggettamento/soggettivazione biopolitico (comunque meno cogente di quanto sostenuto da Foucault), non significava fine della biopolitica, ma probabilmente, evoluzione della stessa. Lo scopo specifico del modello neobiopolitico d'integrazione lato sensu sociale, appare la responsabilizzazione del soggetto, l'individualizzazione del sociale, promuovendo una forma governamentale di potere finalizzata ad irreggimentare le forme cognitive, linguistiche e comunicative dei singoli; un sistema, quello neobiopolitico, basato su flessibilità, esaltazione di responsabilità individuali e facoltà cognitive, un sistema produttivo aperto, basato sulla collaborazione, sulla rete e su soggettività adattabili a ogni contesto. Centralità in questo modello viene data alle risorse comunicative e relazionali, alle risorse "sociali" produttive di "comunità", utilizzate (paradossalmente) per la de-socializzazione della moltitudine, la singolarizzazione delle responsabilità. La giustizia riparativa, ad esempio, potrebbe rappresentare un veicolo per questa forma tardo-moderna di biopolitica.
Si pensi anche, oltre ai temi da te menzionati, al governo del territorio. Il dinamismo delle trasformazioni impone alle istituzioni di mantenere costante consapevolezza della reale destinazione dei luoghi. Talora è necessario prendere atto di svolte non previste nella funzionalizzazione di spazi. La crisi del welfare e l’abbandono delle politiche della casa popolare alimenta la spazializzazione dei conflitti. Mi riferisco alle cd. gated communities. Si tratta di aree residenziali, con accesso limitato che rende privati spazi normalmente pubblici. L’accesso è controllato da barriere fisiche, pareti o perimetri recintati e da ingressi custoditi o chiusi da cancelli. Le gated communities precludono l’accesso del pubblico alle strade, ai marciapiedi, ai parchi, agli spazi aperti, e alle aree da gioco, tutte risorse che sarebbero state aperte e accessibili a tutti i cittadini di una località.
È chiara qui la crisi delle teorie sulla «città sostenibile» quale luogo di affermazione del diritto fondamentale «alla città» ed elemento delle politiche di sviluppo sostenibile elaborate a livello internazionale ed europeo.
(M.T.) 8) Il capitolo finale è dedicato alla giustizia amministrativa. In realtà l’attenzione alla giurisdizione è una costante dell’intero libro come della tua vasta produzione scientifica. In quasi tutti i capitoli emerge l’immagine di un giudice che esorbita dalla funzione tradizionale del processo, che è quella di risolvere liti. Il protagonismo del giudice è fenomeno oggi osservato da tutti e a tutti i livelli, ma la caratteristica del tuo lavoro è di trovarne una spiegazione all’interno del modello neoliberale. La governamentalità diffusa che caratterizza questo modello fa sì che il giudice si senta e agisca anch’egli come tessitore di una trama funzionale all’esaltazione del mercato e della concorrenza. Anzi, di più: il giudice subisce nella sua azione la logica del mercato e in qualche modo mette a servizio dello stesso il suo potere precettivo. Vorresti indicarci brevemente perché intravedi tutto questo in prassi giudiziali che anch’io osservo con una certezza preoccupazione: dall’insistenza del giudice sulla clausola dell’abuso del processo, alla rivalutazione dell’interesse procedimentale nell’ambito del contenzioso sui contratti pubblici, per finire al prospective overruling?
(G.T.) Ho cercato qui, in effetti, di trovare una linea esplicativa di fenomeni che noi tutti abbiamo quotidianamente modo di osservare, anche nella rivista e in chat. E ho questa volta compiuto un’indagine di metagiurisprudenza su quella che mi sembra l’ideologia di fondo del nostro g.a.
Un’operazione che andava molto di moda negli anni ’60 (Cappelletti, Cassese), ma oggi ha perso un po' di fascino. Al contrario, In Francia si segnalano indagini sulla giurisprudenza amministrativa in chiave neoliberale, ma si tratta di analisi eminentemente storiche.
A mio avviso ci troviamo dinnanzi a un nuovo, e inedito, neoliberale “uso alternativo del diritto”.
In un senso più mainstream tale definizione può considerarsi insita nei caratteri del giudice amministrativo inteso quale giudice del grande contenzioso economico del nostro Paese, e non solo.
Mi pare però opportuno mettere in luce un secondo punto di vista, meno scontato. Il nostro giudice e la sua sentenza si collocano al centro del rimodellamento dello Stato in Stato amministrativo, che ha sinora trovato la sua acme nell’esperienza pandemica ma che, specie nel settore della concorrenza e della sua tutela, ha già manifestato importanti mutazioni di ordine istituzionale. Il fenomeno è generale: si parla (F. Ost) di un passaggio da un giudice-Giove, il giudice arbitro dello Stato liberale fedele al principio dispositivo, a un giudice-Ercole, il giudice dello Stato interventista che si occupa della gestione degli interessi minacciati nello Stato sociale; ma soprattutto si aggiunge una nuova figura: il giudice-Ermes, che illustra perfettamente il fenomeno di una nuova regolamentazione propria di una società dove le regole e i governi istituiti gerarchicamente lasciano il posto ad una moltitudine di reti e di poteri in costante interazione. In tale contesto lo Stato rinuncia alle grandi politiche di welfare e diventa riflessivo e procedurale, preferendo affidare ai partner interessati lo sviluppo di un diritto concordato, flessibile, regolabile e fluido.
Ciò è avvenuto all’insegna di alcuni vettori retorico-argomentativi della governamentalità neoliberale: la buona fede e l’abuso del diritto e del processo, la tutela della concorrenza appunto, il principio di effettività della tutela (applicato spesso per erodere il principio di autonomia procedurale degli Stati dell’UE).
La nozione di effettività e quella di giusto processo divengono vettore di politiche giurisprudenziali neoliberali, consentendo progressivi smottamenti dall’istanza nomofilattica a quella nomopoietica. Essa appare come grimaldello interpretativo capace di fare affermare la prospettiva assiologica dell’interprete, specie se declinato nel contesto valoriale proconcorrenziale europeo.
Peraltro, qui c’è una seconda “truffa delle etichette”, come si evidenzia nella questione dell’abuso del processo e della meritevolezza della tutela. Il suggestivo “mantra” della giurisdizione come “servizio pubblico”, e non più “funzione pubblica” tradizionale (tesi che già in sé sarebbe discutibile, in quanto in senso molto lato anche la difesa e l’ordine pubblico sono “servizi” rivolti al cittadino, ma di essi non si mette in dubbio il carattere di “funzione”), svela un uso fuorviante di un concetto che – solo apparentemente – si rivela in linea con i diritti costituzionalmente tutelati del cittadino, portando, al contrario, come conferma l’insistito richiamo al principio di proporzionalità nel processo, alla diversa (e temibile) prospettiva “orizzontale” del bilanciamento, fra un diritto fondamentale (diritto d’azione) e un interesse pubblico (giusto processo nella sua declinazione in termini “economico/efficientistici”) .
L’effettività della tutela resta certamente centrale per la giurisprudenza, ma alla dottrina spetta un importante compito di segnalazione e controllo, affinché i rischi della «distorsione da desiderabilità sociale» (Villata) non determinino un’alterazione eccessiva del confine, sì mobile, ma a un certo stadio invalicabile, dell’assetto costituzionale tra Giudice e Amministrazione e Giudice e Legislatore.
(M.T.) 9) L’incipit del titolo dell’epilogo del libro è eloquente: “senza respiro?”. In effetti dalla lettura complessiva del libro emerge un panorama desolante. La rappresentanza politica non conta più niente. Le funzioni dello Stato sono confuse e si sovrappongono continuamente. Tutto obbedisce a una sola logica, che è la logica del neoliberalismo. Però tu sostieni che nel libro “non c’è solo decostruzione, facile se si segue la strada della radicalizzazione biopolitica, ma c’è anche desiderio di ricostruzione”. La ricostruzione, tu dici, passa “dal recupero dei capisaldi del pensiero liberale, e da un certo formalismo e positivismo temperato che ha sempre animato il mio lavoro”. Ma, se è corretta la tua analisi biopolitica, non sono questi a propria volta dogmi che la realtà si è presa carico di smentire, e da tempo? Inoltre, la proposta di trovare la soluzione in una “rivisitazione in chiave produttiva e affermativa della biopolitica”, e in particolare nella promozione di un’etica e una politica come “immunizzazione di gruppo contro la bassezza”, non ti pare una soluzione tendenzialmente elitaria?
(G.T.) Sul positivismo temperato ho già detto.
Vorrei qui aggiungere qualcosa sulla prospettiva della biopolitica affermativa, per provare a rintuzzare il tuo rilievo sulla prospettiva elitaria che pare discendere da questa proposta.
Al contrario, a me pare elitario e desolante lo scenario di Agamben. L’approccio di questo importantissimo filosofo lascia spesso il giurista in uno stato di sgomento, dinanzi alla deriva decostruttivista cui è andato sovente incontro; ma è anche per questa ragione che il giurista deve provare a dare una risposta alla sfida lanciata dalle componenti più radicali del pensiero moderno: quare siletis juristae in munere vestro? In questi mesi qualche giurista (es. Laura Buffoni) ha provato a dare risposte alle domande di Agamben, ma esse sono state tenute in non cale dal filosofo, che tuttora parla di un’intera società complice e di un nuovo patto hobbesiano, estrema configurazione della biopolitica, in cui il non-complice è escluso dal patto sociale.
Ho pensato di scrivere questo libro anche perché mi è parso che in questi anni la biopolitica sia stata usata dal giurista più come orpello argomentativo che scendendo nelle sue implicazioni più intime (con alcune notevoli eccezioni, che non a caso sono state molto approfondite, penso ai libri di Perfetti, Zito, Portaluri, Fracchia-Occhiena).
Si è trattato di un tentativo apparentemente aporetico, se si considera lo scetticismo per la versione giuridica del potere presente in Foucault, e soprattutto i suoi sviluppi “destituenti” (la tanatopolitica) in pensatori come appunto Agamben.
Sennonché a mio avviso non è solo questo il modo in cui il potere e il diritto amministrativo possono avvalersi di quel pensiero, come dimostrano correnti filosofiche maggiormente disposte a colliquare col diritto pubblico, ad esempio l’elaborazione feconda della nozione di istituzione in Roberto Esposito.
Il filosofo napoletano ha prima rielaborato la nozione di pensiero istituente, in cui si tenta una ricomposizione tra vita e istituzione, drasticamente separate proprio dalla figura del potere. Ciò è confermato dalla speculare visione di Foucault e Arendt: se il primo critica le istituzioni perché repressive del libero corso della vita, la seconda individua nella vita biologica la forza irresistibile che dissesta le istituzioni, consegnandole alla violenza. Si conclude così nel senso di ripensare la categoria della biopolitica, superando quella divaricazione latente tra quello che ad alcuni appare potere assoluto sulla vita e ad altri una vita libera da ogni potere. Bisogna, quindi, integrare il paradigma istituente e quello biopolitico in modo produttivo per entrambi.
Più di recente egli ha ritenuto – con la felice sintesi ossimorica dell’immunità comune – che l’immunità possa non essere, come in passato, una lama che taglia la comunità svelando il lato oscuro/securitario delle varie forme del paradigma moderno di immunizzazione (sovranità, proprietà, libertà), ma che possa divenire la stessa forma della comunità.
Ecco perché si parla di biopolitica affermativa, non più sulla vita ma della vita, conciliabile finalmente con la libertà e la vita degli individui.
Nella mia citazione finale a Sloterdijk il disprezzo è riferito all’approccio cinico e rassegnato del complottista in questi terribili anni, mentre la prospettiva è quella che, pur consapevole dei tanti rischi di derive autoritarie insite nell’evoluzione tecnica e scientifica, non rinuncia a cercare modelli di integrazione – anche sul piano giuridico – tra tecnica e natura.