Tre rivoluzioni in una: l’Europa, il debito, la rinascita possibile
di Elvio Fassone
Sommario: 1. Premessa - 2. Lo sapevamo oscuramente, ora è chiaro - 3. La globalizzazione e vasi comunicanti - 4. L'homo inutilis - 5. Ma l' “esubero” non consuma più - 6. La stagnazione stabile - 7. Cose note e cose meno note sul debito pubblico - 8. Un'inondazione di nuovo tipo - 9. Due grandezze che non si incontrano mai - 10. I nuovi bond targati Unione Europea - 11. Non si investe più? Allora lo fa l'UE - 12. Non sarà, per caso, un helicopter money? - 13.“... e credetemi, sarà sufficiente!”.
1. Premessa
Nel giro di sei mesi (marzo - agosto 2020) l'Europa, nelle sue varie articolazioni, (Banca Centrale [BCE], Parlamento dell'UE, Consiglio dell'UE, Banca Europea per gli investimenti [BEI]) ha messo in campo 2.637 miliardi di euro, di cui 503 a beneficio dell'Italia (1).
Una simile somma non solo non si era mai vista, ma esulava addirittura dal pensabile. E contrasta in modo stridente con il volto arcigno che la stessa UE aveva mostrato solo pochissimi anni prima (2015) nei confronti della Grecia, per poche decine di miliardi di disavanzo.
L'entusiasmo ha oscurato ogni riflessione approfondita e gran parte delle perplessità. Al più, si legge qualche preoccupazione per il peso accollato alle generazioni future, ma è molto secondaria rispetto alla corsa mentale a come e quanto accaparrarsi di questa pioggia di risorse.
Soffermiamoci un attimo.
2. Lo sapevamo oscuramente, ora è chiaro
Se il secolo scorso è stato il “secolo breve”, secondo la fortunata definizione di Eric Hobsbauwm, che lo circoscrivette ai ¾ compresi tra i due grandi traumi del 1914 e del 1989, il presente 1/5 di secolo, che abbiamo appena lasciato alle spalle, accenna ad essere anche più concentrato e più tellurico di quello.
I due decenni passati hanno messo in crisi alcune convinzioni profondamente radicate nel pensiero comune. La resistenza ad abbandonarle ha prodotto un profondo choc quando la realtà ne ha messo a nudo la fallacia e, dopo molte esitazioni, l'UE ha imboccato strade mai percorse, che però suscitano ancora non pochi interrogativi.
Provo ad enunciare i nuovi fenomeni via via consolidati, accettando il rischio di ogni semplificazione.
La prima consapevolezza, che non può più essere rifiutata, ci avverte che è nato un nuovo tipo di “umano”: l’uomo inutile, l'uomo che non serve all'apparato produttivo. E poiché questa nuova specie, quasi una “mutazione”, assume dimensioni crescenti e socialmente pericolose, detta “mutazione” deve essere contrastata, a prescindere dalle considerazioni umanitarie.
La seconda insinua una zeppa in un meccanismo che sembrava indistruttibile: quella organizzazione complessiva dell'economia, cui siamo avvezzi a pensare come ottimale, si incardina sulla figura dell'uomo consumatore e sul connesso circuito “produzione/aumento dei beni a disposizione/aumento del reddito/ulteriore aumento della produzione/ciclo indefinito: ebbene, questa figura, specie dopo gli anni della pandemia, non basta più a far funzionare adeguatamente l'apparato produttivo, e deve essere integrata con un'altra figura.
La terza intuizione è, appunto, la scoperta del terzo ruolo, complementare ai precedenti: il soggetto investitore. Non che tale figura fosse sconosciuta, al contrario: ma si è dovuto constatare che la sudditanza al modello sopra sintetizzato ne ha stravolto il ruolo, e si è dovuto prendere coscienza che l'investitore privato richiede l'affiancarsi ad esso, con ruolo prevalente, di un soggetto collettivo e istituzionale (in questo frangente: l'Unione Europea, investitore istituzionale mediato dagli Stati beneficiari dei soccorsi).
Tralascio gli altri fenomeni che sono nel pensiero di tutti - la malattia pandemica che in questo momento sta affliggendo l'homo sapiens; la malattia ecologica, che sta rivelando un pianeta gravemente ammalato; e la malattia demografica, con l'estendersi forzato di nuove terre disabitate e il conseguente sovraffollamento di aree per effetto di movimenti migratori di dimensioni eccezionali - perché questi fenomeni sono parte intrinseca dei macro-fenomeni sopra accennati.
3. La globalizzazione e i vasi comunicanti
Fino a data recente il conflitto sociale intrinseco all'umanità poteva essere ricondotto a due categorie fondamentali di individui, secondo una consolidata lettura di matrice marxiana: gli sfruttatori e gli sfruttati. Abbandoniamo pure, se dà fastidio, questa nomenclatura, e usiamo altre figure: gli oppressi ed i persecutori, i forti e i deboli; se si preferisce, i bene-stanti e i male-stanti, quelli che hanno un peso nel configurare le sorti dell'umanità e quelli che sono condannati a subirne la volontà; e via contrapponendo.
Le possibilità descrittive sono infinite, ma un dato le accomuna: quelli che stanno in basso sono (erano) se non altro necessari a quelli che stanno in alto: gli sfruttatori (possiamo continuare a usare questa terminologia? sì, possiamo) non potrebbero godere della loro posizione privilegiata, se non ci fossero altri umani da sfruttare, se non ci fosse un plus-valore di cui ciascuno è artefice quando opera, e che ai soggetti deboli viene in parte sottratto a beneficio di altri.
Insomma: l'imprenditore non si arricchirebbe senza il lavoro dei dipendenti; il finanziere senza il piccolo risparmio dei risparmiatori; i produttori senza l'ottundimento delle intelligenze dei cittadini ridotti a consumatori; i governanti senza la sudditanza dei sudditi.
Se poi ci focalizziamo sulla catena produttiva in senso proprio, constatiamo che il soggetto debole del conflitto ha via via elaborato una sua tecnica di contrasto (l'unità e la solidarietà di classe: insisto sul linguaggio consueto) e, col contributo delle istituzioni, ha costruito un supporto sociale e normativo (tipico esempio è il diritto del lavoro, branca autonoma del diritto civile) che gli ha permesso un non trascurabile elevamento della sua condizione economica e sociale.
Ma la fine del secolo scorso ed i due decenni di quello presente hanno modificato profondamente quell'equilibrio, attraverso il fenomeno che si conviene di chiamare globalizzazione. Per effetto di spinte di dimensione planetaria (l'emersione di economie vogliose di svilupparsi), combinate con la circolazione dei capitali e delle conoscenze (per cui oggi tutti sanno fare tutto, e molti lo sanno fare costando meno); e per la virulenza di questi fenomeni, non controllati da istituzioni di pari dimensioni, si è verificato un gigantesco scorrimento globale di ricchezza dall'Occidente, già egemone, a un'ampia parte del resto del mondo, che se ne è molto avvantaggiata, ma ha inevitabilmente impoverito di altrettanto la nostra parte di mondo.
Si è realizzato, in sostanza, il fenomeno dei vasi comunicanti, quando si rimuove la paratia che separa i livelli diversi del liquido. Saggezza avrebbe voluto che sin dall'inizio, o almeno dal manifestarsi delle conseguenze più gravi del fenomeno, si fosse applicato il principio dei vasi comunicanti anche all'interno del bacino che veniva impoverito (il nostro Occidente) e si fosse trasmessa la spinta del mondo ansioso di sviluppo anche alle parti del mondo che stava, per così dire, nella parte alta del bacino superiore, e che non avrebbe potuto continuare a restarci senza il concorso degli di altri.
Così non è stato e si è lasciata la briglia lunga alla dinamica naturale, fiduciosi nel postulato per cui la libertà dei commerci ha in sé la capacità di produrre maggior ricchezza per tutti. Questa convinzione si è fortificata ad opera della contemporanea rivoluzione scientifica e tecnologica: l'una, grazie alla circolarità delle conoscenze tecniche, ha spostato altrove una parte imponente della manodopera impiegata a produrre il necessario; l'altra ha progressivamente ridotto il numero delle persone richieste per produrre la stessa quantità di beni e servizi.
4. L'homo inutilis
L'impoverimento era nell'ordine delle cose. Una parte cospicua del nostro benessere è trasmigrato al di fuori dell'Occidente. Il lavoro polverizzato ha distrutto l'unità della classe subalterna e la sua capacità di contrasto. E' venuta meno la tutela del soggetto debole ad opera del terzo braccio, cioè la legislazione del lavoro, poiché il contratto individuale, cioè il mero rapporto di forza, ha preso sempre più il posto della legge a tutela del debole. La protezione normativa si è rivelata impotente contro il trasferimento dell'impresa o parte di essa; contro la soppressione di interi segmenti della produzione; contro l'ingresso in campo della robotica (segmento alto) e della immigrazione (segmento basso), l'una capace di distruggere posti di lavoro assai più di quanti ne crea, l'altra che offre braccia a basso costo e distrugge la forza di contrasto, essendoci sempre e comunque un disgraziato sull'uscio, disposto ad accettare qualsiasi condizione.
Ha trionfato il sillogismo di corta veduta (“se prima, per fare una certa attività, venivano impiegate dieci unità, ora la si può fare con cinque, e questo è un risparmio”); ed è stato messo a tacere il sillogismo saggio (“quel risparmio non può andare a beneficio solamente di taluni, ma ne devono fruire anche i soggetti espulsi, i quali devono comunque vivere dignitosamente: altrimenti diventano un costo sociale per assistenza e un fattore di turbolenza per l'ordine pubblico”).
Sul piano sociale-psicologico è tramontata la convinzione che è alla base dell'accettazione almeno provvisoria del proprio stato (“i nostri figli staranno meglio di noi”). Questa convinzione è un fattore potente di coesione e di dinamismo sociale, ed il suo appannamento collettivo ha minato la compattezza delle comunità, dando vita alla “società liquida” di Bauman ed ai vari fenomeni di perdita delle idee capaci di dare orientamento e stabilità, ormai ampiamente descritti.
Tralascio la constatazione che quel modello di produzione metteva sotto il tappeto i guasti arrecati ai beni pubblici (la terra, le acque, la spoliazione del pianeta). Tralascio gli effetti di disgregazione e di contrapposizione, evidenziati sul piano elettorale dai fenomeni Brexit, Trump e sovranisti vari. Quel che ha fatto saltare il coperchio posto sulla pentola del pensiero ortodosso è stata la vera e propria nemesi in termini brutalmente economici: l'uomo consuma di meno quando il portafogli è vuoto”, e quando troppi portamonete sono magri il circuito si inceppa.
In sintesi, il meccanismo ha divorato se stesso: la domanda complessiva, erosa per espunzione di una sua parte, non è più adeguata a sostenere lo sviluppo della produzione.
Fin che si è continuato a ripetere che “l'1% della popolazione - o il 5 o il 10, poco importa, possiede l'80 o il 90% di tutta la ricchezza del Paese, mentre l'80% degli individui ecc. deve accontentarsi del ...” , ci si indignava nobilmente e si scriveva qualche saggio in proposito. Ma ad un certo punto ci si è dovuti convincere che non si era più in presenza di una mera variazione quantitativa di un fenomeno noto, bensì di una mutazione qualitativa: il nascere e il moltiplicarsi a dismisura dell'uomo superfluo (come immagine antropologica si può parlare, appunto, di homo inutilis) dell'uomo che non è più l'avversario, l'antagonista, magari duro però indispensabile, ma è diventato un'autentica pietra negli ingranaggi della macchina produttiva. Oggi, di fronte alle esigenze della produzione vista nel suo complesso, questo tipo di uomo è diventato semplicemente indifferente. Invisibile, inutile; anzi, uno sfrido, uno scarto di lavorazione, un costo. Chiedere conferma al disagio giovanile se non sia questa la vera causa di una depressione generazionale collettiva.
5. Ma l'“esubero” non consuma più
Però la macchina si è inceppata. A forza di limare i costi, di risparmiare sulle risorse umane, di esultare per la robotica e i vari business plan, c'è ormai qualche miliardo di esseri umani in esubero permanente. Non è solo il pianeta ad essere malato, anche una delle specie non si sente molto bene: la nostra, la più nobile secondo la vulgata. Succede quando talune specie predatorie vedono assottigliarsi gli esemplari delle specie predate: qui la specie umana produce più individui di quante siano le braccia e le menti utili a mantenerle; e di riflesso la produzione genera più prodotti di quanti siano gli acquirenti possibili.
Per qualche tempo l'ansia di trovare un rimedio ha escogitato palliativi persino puerili nel loro rifiuto della realtà.
A lungo si è pensato di sostituire la produzione di ricchezza materiale con il turismo, la ristorazione, la moda, i servizi: tutte cose degnissime, ma complementari; pronte ad andare in frantumi quando una banale pandemia ha ridotto gli stili di vita a consumi più essenziali. A perpetuare l'esigenza provvederà tra breve il pianeta esausto, incapace di mantenere un ulteriore aumento della popolazione.
Poi ci si è addomesticati con l'illusione della distruzione creativa, che in parte avviene, ma con un residuo negativo comunque drammatico (il tasso di sostituzione dei lavori soppressi dal progresso tecnologico, per taluni è di 1 a 8, per i più ottimisti 1 contro 3-4).
Dopo ancora si è inventato il lavoro di sostituzione, l'economia dei lavoretti, il rider, la consegna a domicilio, il dog walking, il sostituto nel fare le code agli sportelli, il fattorino e lo spiccia-faccende, l'aiuto domestico alla bisogna, il cameriere/a supplente dei fine settimana, il precario di giornata: in sostanza, il ripristino della schiavitù in forma civile e occasionale, in forza della quale una parte privilegiata del consorzio umano è sollevata dalle “seccature” connesse al proprio stile di vita, che vengono scaricate sull'altra quota della comunità, sempre più ampia e sempre meno dotata di strumenti di resistenza.
Per un breve tratto si è persino escogitato il lavoro del cercare lavoro, la figura del collocatore (“navigator”) che mette in contatto una realtà che c'è con una che non c'è: è l'artificio del chiamare lavoro ciò che ne è un simulacro, un espediente che corrisponde al vecchio uso gesuitico di battezzare come carpa cioè che era agnello, per sgusciare tra le maglie del venerdì di magro.
Il mirare sempre fuori bersaglio ha prodotto, alla fine, ciò che fino a qualche anno addietro era impensabile: il crollo del muro antagonista alla pars maior, che a taluni sembrava fastidioso, ma puntellava la casa del consumo forzato.
Se non si vuole dare retta ai filantropi, a quelli che “predicano moralità e non si intendono di economia”, basterebbe ascoltare gli attori medesimi dell'economia: i produttori, come Ford (quello delle automobili) a detta del quale i principali acquirenti delle macchine che produceva dovevano essere i suoi dipendenti, cui bisognava fornire le risorse per comperarle; e persino i teorici della mano invisibile del mercato, come Adamo Smith, attento a ricordare che il mercato funziona finché rimane ampio, il più aperto possibile, in modo che gli eventuali squilibri siano compensati da nuovi equilibri in un campo aperto. Invece no.
Siamo cresciuti avendo nelle orecchie e nella mente il mantra dell'uomo moderno: “consuma! produci! avrai più danaro per poter consumare di più e produrre di più ...”. In taluni momenti di flessione è stato persino invocato il maggior consumo come manifestazione di amor patrio (ricordiamo le invocazioni di G. Bush dopo l'attacco alle Torri del 2001). E' stato beatificato il ciclo senza fine, il moto perpetuo, l'iperbole auto-alimentata.
Ma alla fine la grande bugia è stata erosa per linee interne. Nemmeno la seduzione del consumo crescente basta più ad alimentare il mostro della macchina produttiva: è impressionante la quantità di risorse, di intelligenze, di tempo e di vita (attiva per inventarla, passiva per doverla subire) che vengono spese nella pubblicità, per stimolare un desiderio che ormai ha raggiunto e superato la propria sazietà naturale, e non risponde più a sufficienza per nutrire il mostro (non è infondato il richiamo ad una analoga sazietà sessuale, causata anche dalla pornografia dilagante).
Da circa 15 anni il Pil non cresce, o cresce di pochissimo. La Cina famelica fa eccezione, ma l'Occidente (dicono gli esperti) è entrato in una fase di stagnazione stabile, che potrebbe essere secolare, o comunque indefinita. Come è possibile che il giocattolo si sia rotto? sembrava tutto così oliato e così inoppugnabile!
Il “fare una cosa con sempre minor manodopera” (l'ultimo esempio, demenziale e frustrante per il cittadino medio, è quello di scaricare sull'utente di qualsiasi servizio tutta una serie di attività fastidiose: “...premi uno, … premi due …, rivolgiti a …, procùrati il biglietto prima di…, vai su …, consulta il quadro ...”) si ritorce contro i suoi idolatri: l'impresa o l'ufficio si alleggeriscono del personale che prima compiva quelle operazioni con maggior sagacia e minor fatica dell'utente, ma questo non solo genera frustrazione e perdita di tempo in altri cittadini-lavoratori anch'essi; ma soprattutto colloca fuori mercato gli espulsi.
6. La stagnazione stabile
Il film ha incominciato ad avvolgersi a rovescio. Se la ricchezza si polarizza, si consuma di meno a causa dell'indigenza, quindi si vende di meno, si produce di meno, si investe di meno, si licenzia di più, e il ciclo si avvita sulla sua egoistica cecità.
Il fortunato club dei benestanti (sia esso individuato nell'Olimpo del 3%, o nella terrazza dei 15%) non può ingozzarsi a dismisura: più di tre o quattro automobili il nucleo familiare possidente non può acquistare; dopo 30 vestiti o 30 paia di scarpe anche la signora più ambiziosa si placa; una volta abbellito il proprio tempo libero con un paio di abitazioni al mare e altrettante ai monti, non si può sostenere l'edilizia solo con il superfluo.
Insomma, lo stomaco dei pochi può essere anche avido di pasticcini, ma il forno che li cuoce ha bisogno di sfornarne molti di più. E più sono gli stomaci messi fuori gioco, più, alla fine, patisce il fornaio stesso.
Inevitabile il terzo capitolo. C'è molta più ricchezza di ieri, ma essa si è troppo polarizzata (il che turba il senso di giustizia sociale) e soprattutto non viene più investita a sufficienza (il che è grave proprio per il fatidico mercato). La distribuzione delle risorse ha aspirato troppo e pompato in modo squilibrato. Il consumo non basta e l'investimento è troppo poco per la buona salute dell'insieme. Le statistiche sono impietose (2 ). Aumenta il risparmio, ma cala la produzione (e non solo per il Covid). Le inchieste descrivono il fenomeno della impresa dei nonni, secondo la quale oggi gli impresari di rilievo appartengono in larga misura alla c.d. terza età.
È l'ora delle esequie della celebrata globalizzazione: non perché abbia smesso di operare, sia chiaro, ma perché se ne stanno scorgendo i frutti malati.
Se ne era avuta una avvisaglia quando la pandemia aveva spezzato le catene produttive e indotto un pensiero sull'opportunità di richiamare in patria i tentacoli planetari. Ma adesso è peggio. Il ricordato fenomeno dei vasi comunicanti, mal governato, ha prodotto un forte accrescimento di ricchezza in capo ad una fascia ristretta di cittadini, e un forte impoverimento nella restante parte della società, in particolare del ceto medio.
Tutto arcinoto. Ma ora nei benestanti l'accumulo eccede la possibilità del consumo necessario. Nei secondi è cresciuta la propensione al risparmio (beninteso, in chi può permettersi di risparmiare) perché è molto aumentato il timore per il futuro, anche in capo ai soggetti moderatamente benestanti. Di qui la stagnazione. Siamo di fronte (dicono taluni) ad una stagnazione congenita, non più medicabile dall'alternanza dei cicli. Una stagnazione secolare.
7. Cose note e cose meno note sul debito pubblico
E' a questo punto che si inserisce il fatto nuovo della pioggia di quattrini decisa dall'Unione Europea. Ma prima di proseguire, analizzando questo evento, conviene riflettere ancora un momento sul fenomeno del debito pubblico in generale, non guardando solamente alla nostra economia nazionale.
In tutti gli Stati è cresciuta di molto la domanda ad essi rivolta per ottenere maggiori prestazioni di welfare (soccorso a situazioni di bisogno o debolezza, anche come strumento di perequazione e di pace sociale) ed è aumentata anche la domanda di investimenti cui l'iniziativa privata non provvede a sufficienza. Ma parallelamente è costretta a crescere la pressione del prelievo fiscale, e quindi la resistenza ad una sua espansione.
Come conseguenza tutti gli Stati con economie e welfare sviluppati, essendo pressati da queste sollecitazioni antagoniste, sono spinti a ricorrere al debito per fronteggiare le richieste.
Nell'antichità il mutuo oneroso (cioè con interessi) era fortemente condannato. Con lo sviluppo dell'economia, anche l'etica si adattò: venne ritenuto lodevole che l'individuo non consumasse tutto il danaro che guadagnava, ma ne accantonasse una quota per i casi infausti della vita (elogio della sobrietà); venne apprezzato il gesto del mettere una parte del proprio risparmio a disposizione di un altro individuo che avesse attitudine ad investirlo in opere utili alla comunità (elogio della fruttificazione dei talenti); e non venne più biasimato, e tanto meno punito, il prestito “usurario”, ma considerato giusto che il primo ricevesse un equo compenso alla sua frugalità, e che il secondo glielo versasse come parte del guadagno che traeva dall'impiego. Convergenza di interessi, convergenza di codici morali.
Oggi il debito pubblico è in crescita in tutti gli Stati. Varia è l'ampiezza dell'aumento, ma costante il fenomeno, anche negli Stati sedicenti virtuosi. L'ammontare di questo debito varia, ma è per lo più nell'ordine di grandezza del PIL, e in molti casi superiore.
Questo produce un primo effetto sociale distorsivo.
Lo Stato - si è anticipato - adempie ormai ai suoi compiti attraverso l'uso congiunto dei due strumenti anzidetti: il prelievo fiscale e il debito. Se provvedesse solamente attraverso le imposte, il peso susciterebbe forti resistenze, soprattutto da parte dei soggetti più abbienti, e per questo tutti gli Stati dirottano una parte del carico sul debito. Il che produce una distorsione diversa e taciuta: infatti il prelievo è (almeno teoricamente, impregiudicato ogni discorso sull'evasione) soggetto al criterio della progressività, e quindi deve assolvere a compiti di perequazione; invece il debito, cui si accompagna il pagamento di interessi agli acquirenti dei titoli, genera un trasferimento di ricchezza dai “tutti” (i contribuenti, che sono tenuti ad offrire le risorse necessarie a tutte le spese pubbliche, inclusi gli interessi) ai “pochi” (i possidentes, che cedono il loro surplus e lucrano un'ulteriore quota di reddito, costituita dalle cedole): cioè agisce in direzione contraria a quella perequazione cui dovrebbe mirare il prelievo fiscale. Poiché la distorsione è diluita, ma intanto opera in danno delle classi meno abbienti, la protesta è poco avvertita, quindi blanda.
Tuttavia la disinvoltura dei vari Stati (tra i quali il nostro) a un certo punto è diventata molto pericolosa per tutti, pertanto sono stati introdotti dei correttivi, cioè i parametri di Maastricht, del 1992. Essi possono sintetizzarsi come segue: 1 ) la quota massima di scostamento dal pareggio di bilancio, ovvero il deficit annuale (il disavanzo di quello specifico esercizio) non può superare il 3% del Pil; 2 ) è fissato un limite al debito complessivo, ovvero alla somma dei vari deficit accumulati nel tempo, e questo non deve essere superiore al 60% del Pil [valore poi mitigato]; infine 3) nell'ipotesi che questo rapporto debito/Pil superi detto valore, lo Stato deve esercitare un rientro virtuoso, del quale sono previste le cadenze annuali. Purtroppo anche questo richiamo alla virtù ha sortito effetti perversi, perché si è bensì ottenuto un quasi pareggio, cioè uno scostamento più moderato, ma lo si è realizzato soprattutto attraverso una riduzione degli investimenti, mentre è stata mantenuta elevata la spesa corrente: e di questo hanno sofferto i servizi essenziali, soprattutto la scuola e la sanità, come abbiamo dovuto constatare. E si sa che dei servizi pubblici hanno necessità e beneficio soprattutto i ceti meno abbienti.
Agli effetti già detti, antitetici alla finalità redistributiva del meccanismo fiscale, si aggiunge un altro fenomeno: il crescere della situazione debitoria di uno Stato indebolisce la sua valuta e dà origine alle note svalutazioni competitive, delle quali abbiamo fatto ampia esperienza sino all'entrata in campo dell'euro. La moneta nazionale, resa debole dalle svalutazioni, produce un doppio effetto: avvantaggia le nostre esportazioni e penalizza le importazioni. Purtroppo i due riflessi non sono speculari, perché il vantaggio per le esportazioni va a beneficio del ceto produttore, ma aggrava la condizione di chi, essendo solo un consumatore, subisce il maggior costo dei beni importati che vanno a comporre una larga parte del suo paniere.
In sintesi, l'ampio ricorso al debito pubblico (a prescindere dall'ulteriore aspetto morale, del caricare un peso sulle generazioni future) è un pesante fattore negativo in termini di equità sociale.
Su questa realtà poco meditata abbiamo vissuto sino a poco tempo fa.
8. Un'inondazione di tipo nuovo
Ad un certo punto, come sempre accade, l'eccesso ha provocato un tracollo, con effetti drammatici: la crisi finanziaria esplosa negli Usa nel 2007 e presto propagatasi in Europa nel 2008.
Dapprima il Presidente della FED (Jerome Powell), sotto l'incalzare del brusco rallentamento di tutta l'economia, ha azzerato il costo del danaro negli Stati Uniti ed ha immesso nel circuito una quantità impressionante di moneta; questo ha fatto sfidando il dogma classico del contenimento dell'inflazione, perché tra i compiti della Banca centrale Usa rientra per statuto non solo la salvaguardia della moneta, ma anche la tutela dell'occupazione.
La mossa ha prodotto inevitabili effetti in Europa. L'indebolimento del dollaro si è ripercosso in un rafforzamento dell'euro, e questo ha reso più care le nostre esportazioni sui mercati retti dal dollaro, pilastro delle economie europee. La risposta è stata necessariamente laboriosa, in forza del più ristretto quadro dei poteri della BCE, che non ha autorità in materia di politica economica, ma solo monetaria: tuttavia alla fine la risposta si è tradotta a sua volta nella fatidica frase pronunciata da Mario Draghi nel 2012, il “Whatever it takes” scandito nel 2012, e rafforzato da un'assicurazione perentoria (“and believe me, it will be enough”, e credetemi, sarà sufficiente). Da quel momento le manovre speculative si sono viste opporre a wall of money, un muro di moneta, e in effetti non si sono più manifestate con la virulenza del 2007.
Ma con il 2020 si è registrato l'altro fatto tuttora in corso, rappresentato dalla pandemia che ha messo in ginocchio l'economia mondiale. Le dimensioni del fenomeno, sottolineate dalla distruzione di una quantità inaudita di posti di lavoro, non più recuperabili nella loro integralità, hanno fatto sì che l'azione della BCE non fosse più sufficiente: non si è più trattato di ergere un baluardo, per quanto prezioso, contro le manovre della finanza internazionale, ma di agire sui meccanismi intrinseci ad una economia inceppata, e quindi è dovuto intervenire il livello propriamente politico dell'Unione Europea.
Nella nota posta all'inizio di questo scritto sono elencati i vari momenti del grandioso piano complessivo licenziato dai vari organismi, secondo le proprie competenze. E' tempo di comprenderne la logica interna, esaminando i vari passaggi del programma più vicino a noi e più significativo, il “Next Generation EU” (in seguito NGEU).
In sintesi:
a) L'UE emette dei bond con i quali intende raccogliere il risparmio presente sul mercato, e con questo finanziare le economie dei vari Stati dell'Unione. I bond sono obbligazioni proprie dell'UE, concettualmente affini ai nostri Bot o Cct, ma garantite dall'insieme di tutta l'UE, e quindi più affidabili per i sottoscrittori. Va sottolineato che la messa in comune, cioè la garanzia, riguarda solo il debito nascente, non quello contratto in passato dai singoli Stati.
b) Il danaro destinato ad essere erogato ai singoli Paesi non proviene, però, esclusivamente dai sottoscrittori dei bond europei, ma anche da risorse proprie dell'UE, cioè da imposte, sanzioni, o prelievi di qualsiasi natura (si parla di digital tax, di tasse ecologiche, di sanzioni a Stati inadempienti a direttive europee). L'insieme dei due flussi, in entrata e in uscita, configura un primo fenomeno di bilancio europeo. Il fatto è significativo perché, per la prima volta, ci saranno dei cittadini europei disposti a pagare delle tasse a beneficio di altri cittadini europei. L'annosa riluttanza a costruire strumenti tipici di un assetto federale dell'UE è stata messa (almeno per ora) a tacere dalla irresistibilità della crisi, e questo deve essere giudicato molto positivamente.
c) Il danaro raccolto viene erogato dall'UE ai singoli Paesi dell'Unione, affinché sia investito secondo un piano di sviluppo elaborato e vigilato dalla UE. Va sottolineato che sarà la stessa UE a decidere comunitariamente come spendere il danaro raccolto (investitore mediato). Il complesso della decisione è tipico delle comunità politiche che hanno un bilancio federale, il quale in tal modo sta laboriosamente delineandosi, anche nell'Unione Europea, che una federazione non è ancora. Per effetto di queste politiche significative, il bilancio dell'UE (oggi di circa l'1% del Pil europeo) dovrà aumentare significativamente.
9. Due grandezze che non s'incontrano mai
È importante, tuttavia, farsi carico di alcune inquietudini e soffermarsi su alcuni concetti.
a) La pioggia di miliardi non deve farci pensare di essere in presenza di un helicopter money, cioè di un incosciente lancio di danaro a pioggia, in un paesaggio di Bengodi o in un'allegria da paese dei balocchi. L'UE non stampa moneta e non crea inflazione, si limita a far circolare la moneta che già esiste ed è dormiente. Gli euro che verranno elargiti ai singoli Stati (tra i quali il più beneficiato è il nostro) non si aggiungono alla moneta esistente: entrano nell'economia come investimento, non entrano nel mercato come strumento per il consumo (anche se l'investimento genera pure il consumo come effetto secondo).
b) Anche le quantità di danaro che vengono affidate a fondo perduto ai singoli Paesi sono bensì esenti dall'obbligo di restituzione, ma questo non si risolve in una regalia (vulgo in uno spensierato stampar moneta), in quanto le somme elargite dovranno essere coperte dalla dotazione dell'Unione stessa, e quindi da un maggior contributo dei singoli Paesi dell'Unione al bilancio comune. In sostanza, questa quota dell'intervento dell'UE sarà un contributo circolare, nel quale il prelievo non sarà corrispondente alla quota erogata a fondo perduto al singolo Stato, ma alla sua capacità contributiva nel dare, alla sua condizione di bisogno nel ricevere, quindi ispirato al principio di solidarietà.
c) Il danaro che viene messo in circolazione non è totalmente affidato ai singoli Stati beneficiari, nemmeno con la garanzia usuale della verifica a posteriori; in questo caso il suo impiego è a priori verificato come corrispondente alle finalità dell'UE.
d) Quanto alla destinazione delle risorse, essa si presenta finalmente ispirata all'ambizione di porre fine ad una aporia presente nel mondo, tanto vistosa quanto dannosa e passivamente subita. Esiste nel mondo un'immensa quantità di cose da fare, che nessuno fa. Esiste, per converso, un'immensa quantità di persone che vorrebbero fare (cioè lavorare) e non riescono a svolgere neppure quelle cose che sarebbero alla loro portata e andrebbero fatte per imperiosa necessità (soccorre al riguardo la parabola dei seminatori che, sollecitati a giorno inoltrato sul perché siano ancora inoperosi, rispondono con semplicità “nessuno ci ha ingaggiati” (Mt. 20, 7): e, messi all'opera, saranno retribuiti con la stessa dignità di quelli che hanno lavorato tutto il giorno.
L'elenco delle cose che dovrebbero assolutamente essere realizzate è sterminato e ognuno lo ha in mente. C'è il capitolo immenso della “manutenzione del mondo”, con il necessario governo delle acque, delle terre incolte, degli smottamenti, dei boschi, delle inondazioni periodiche e delle terre aride, delle terre rivierasche che sono sotto la minaccia dei livelli crescenti delle acque e delle zone terremotate che esigono costruzioni antisismiche, e altro. C'è il capitolo di un'edilizia in gran parte da ammodernare all'insegna del risparmio energetico; quello delle terre alte da ripopolare, non con il turismo ma con i residenti e la creazione di un contesto vivibile; quello delle città, soprattutto le megalopoli, da alleggerire per contrastare un'urbanizzazione soffocante e criminogena.
Urge un intervento a beneficio di un immenso patrimonio artistico da salvare e manutenere, non solo quanto ai monumenti e alle opere d'arte, ma anche quanto a salvezza di miriadi di borghi e abitati di pregio e di memoria, ed a tutela di interi territori. Le insufficienze della scuola e il bisogno crescente di formazione sono cose note. I treni dei pendolari lenti e inadeguati, la congestione delle metropoli, l'esigenza di cinture no entry e il bisogno di aree di interscambio e di accessi vicari per ridurre il fenomeno delle polveri sottili. Un'intera edilizia, anche pubblica, da allineare con le esigenze del risparmio energetico. Una quota crescente di umanità che abbisogna di altra umanità per la sua condizione di incolpevole debolezza (vecchi, disabili, malati, bambini mal curati o male allevati) o di fragilità comunque curabile (tossico-dipendenza, devianza penale). E poi un'amministrazione pubblica talora pletorica, ma più spesso carente nei servizi necessari; una sanità la cui insufficienza non è stata abbastanza supplita neppure dall'abnegazione degli operatori. Gli Ispettorati sempre in affanno e la devianza impunita dei reclutatori, nonostante lo schiavismo sia evidente e il lavoro maltrattato al di là di ogni sopportazione.
Insomma, urge tutto ciò la cui mancanza è sotto gli occhi di tutti, con la sua domanda reale di cura e di benessere, ma che non è soddisfatto da una risposta. Come è possibile che queste due grandezze (le cose da fare e le braccia che chiedono di poter fare) fatte per incrociarsi non riescano a combinarsi e continuino a generare un doppio crescente malessere? La risposta è brutale: quel lavoro ha un costo e l'interesse privato non è disposto a sostenerlo, e quindi a farle incontrare. La “sapienza del mercato” è disposta a far consumare miliardi nella riparazione delle periodiche inondazioni, ma non a risparmiarli facendosi carico delle retribuzioni degli uomini che dovrebbero manutenere in salute i corsi d'acqua che le producono periodicamente.
È a questo punto che si colloca la cucitura da parte dell'UE dei vari fenomeni sconvolgenti che abbiamo preso in considerazione, e cioè: a) l'incapacità dell'economia odierna di creare spontaneamente possibilità di lavoro per tutta l'umanità; b) l'insufficienza dell'economia di solo consumo a soddisfare la potenzialità produttiva del complesso; c) la pigrizia degli investimenti privati e, di riflesso, il dilagare dell'accantonamento improduttivo; d) la speculare necessità di combinare in modo equilibrato il fattore consumo con il fattore investimento, e quindi la creazione di un investitore istituzionale supplente; e) il ruolo di convergenza che, per l'effetto, dovranno assumere le due grandezze, che possiamo continuare ad indicare con le immagini delle cose da fare e delle braccia per farle.
10. I nuovi bond targati Unione Europea
L'operazione deve essere salutata con favore, ma non si possono ignorare alcune domande e le preoccupazioni che esse suscitano.
La prima. I vari finanziamenti dovranno essere sostenuti attraverso l'emissione di bond europei: ebbene, come si conta di collocare quella massa immensa di obbligazioni? Prescindendo dalla parte di risorse (modeste rispetto al totale) che dovranno provenire da tasse europee, il grosso del capitale necessario dovrà essere fornito dai sottoscrittori privati e pubblici di tali bond: che cosa ci fa confidare che questo avvenga?
La risposta risiede nella prima parte della manovra (che quando è iniziata non poteva prevedere che sarebbe stata seguita da una seconda, imposta dalla pandemia, ma i cui effetti sono comunque presenti): e cioè la massiccia immissione di moneta sul mercato per fare ripartire l'economia mondiale, resa stagnante dalla crisi finanziaria del 2007-2008 (v. il par. 7).
Per l'effetto esiste oggi una quantità di danaro dormiente quale mai si è registrata in precedenza. L'UE si rivolge a questa massa inerte, e quindi non crea ulteriore moneta, foriera di inflazione, ma sollecita quella già esistente e non attiva.
In questo rivolgersi al risparmio già esistente, l'UE propone ai detentori di acquistare le sue obbligazioni, che reputa appetibili in quanto: 1) hanno una durata trentennale; 2) offrono un rendimento, sia pure minimo; 3) sono garantite da tutti i Paesi dell'Unione. Sembrano finezze tecniche, ma nel contesto della turbolenza finanziaria possono rivelarsi determinanti.
La garanzia collettiva è la forza tranquilla delle istituzioni di tipo federale. La Grecia o l'Italia, o anche la stessa Francia, possono andare in default: l'Unione nel suo complesso, no. I sottoscrittori dei bond sono tranquilli in ordine alla preoccupazione primaria, il debitore non fallirà.
La durata trentennale è lunga, ma sono molte anche le istituzioni che hanno non tanto la necessità di moltiplicare le risorse, quanto quella di conservarle nei tempi lunghi, al riparo da possibili sconquassi dell'economia: i fondi pensione, le assicurazioni, i trust funzionali al “dopo di noi” e altre situazioni tarate sul lungo periodo. L'UE e gli Stati beneficiari non avranno l'affanno di dover mettere a bilancio ogni anno un fardello pesante come il costo degli interessi e la scadenza delle singole tranches, e questo per un'intera generazione.
L'interesse corrisposto è bassissimo: questo giova all'UE, che non potrebbe sostenere uno sforzo così gigantesco se avesse i costi usuali. A rovescio, questo non eccita le brame dei sottoscrittori, ma sulla piazza non c'è di meglio per chi non voglia correre i rischi della finanza speculativa, né quelli di un investimento in proprio. La grande quantità di circolante impedisce alle banche di tenere alto il costo del danaro, e quindi anche il rendimento che potrebbe presentarsi come alternativo all'offerta dell'UE. Il potere contrattuale del mondo del lavoro è, per ora, molto basso e la forzata stagnazione salariale non sospingerà per lungo tempo una spinta inflazionista.
Ma soprattutto si è verificato un evento con il quale non c'era familiarità. Il rendimento del danaro è diventato negativo, cioè il possessore paga la custodia del danaro affidato a terzi: spesso il costo non è visibile, ma si esprime attraverso le commissioni e altri pesi. Il danaro è divenuto non solo inerte nelle mani del possessore, ma penalizzante. Avvezzi a rendimenti talora a due cifre, lo choc è stato pesante e lo è tuttora. Anche perché in molti casi è una necessità statutaria o istituzionale quella di investire il danaro posseduto, il quale invece fatica a trovare impieghi appetibili e non rischiosi. Per questo l'offerta di un pur minimo rendimento appare già preferibile sia alla “custodia sotto il materasso”, sia a quanto offre il mercato.
In conclusione i bond dell'UE si propongono di scremare la fisiologica eccedenza delle risorse rispetto alle personali esigenze del risparmiatore, e di incanalare quel danaro inerte verso una crescita intelligente (cioè verso investimenti produttivi) riducendo anche il circolante a disposizione delle manovre speculative.
In conclusione si può confidare che l'offerta dell'UE sia accettata dal mercato. E' una prognosi, fallibile come tutte le previsioni del futuro, ma l'insieme delle circostanze la rende affidabile.
11. Non si investe più? Allora lo fa l'UE
Rimane tuttavia il dubbio radicato nelle convinzioni primitive inestirpabili: se c'è un debito, prima o poi qualcuno lo dovrà pagare. Convinzione saggia, affiancata da prudenze ataviche (mai fare il passo più lungo della gamba) e sorretta da esperienze collettive molto pesanti, quando non la si è rispettata.
Tutto vero, ma continuiamo nell'osservazione della realtà.
Da molto tempo il debito pubblico dei vari Stati non viene mai estinto, ma sempre rinnovato, a ripetizione. Inoltre, da parecchio tempo in qua, nessuno Stato ha ridotto il suo debito, la gran parte lo ha aumentato. E' un'anomalia, ma è così.
Alle scadenze delle varie tranches lo Stato emittente dei nuovi titoli li colloca presso istituti legittimati a collocarli sul mercato, e questi li piazzano presso i nuovi acquirenti. Una larga quota di costoro è offerta dagli stessi detentori della tranche che ha esaurito il suo ciclo, poiché per loro continua a porsi l'esigenza di collocare il proprio risparmio, e quindi va bene continuare l'accantonamento nelle stesse forme. Alla quota, normalmente esigua, dei non-rinnovanti sono pronti a subentrare i nuovi sottoscrittori, perché nel frattempo si è accumulato altro risparmio, come evidenziato dalle varie aste, che spesso non accontentano neppure tutti i richiedenti, allettati da piccole oscillazioni sui rendimenti o da altra lusinga.
Inoltre, guardando allo specifico italiano, si osserva che mentre esiste un debito pubblico mostruoso, il debito privato è molto più contenuto che in altri Paesi sedicenti “virtuosi” (si colloca fra i più bassi dell'area euro, e assai vicino a quello della Germania): banalizzando, ma neppure troppo, non si fanno follie in proprio, le si fa fare alla collettività esigendo una politica di servizi pubblici sottopagati. Infine va rilevato che una quota considerevole dei nostri titoli di Stato è detenuta da cittadini italiani.
Questo significa che una parte notevole del nostro debito pubblico è costituita, già oggi, da una partita di giro, cioè lo Stato fa fronte a una parte dei suoi impegni attraverso i risparmi delle famiglie. Esso potrebbe ottenere tutto quanto gli è necessario attraverso l'imposizione fiscale, ma questo sarebbe macchinoso, incerto e soprattutto impopolare per la politica. E' vero che il ricorso al debito comporta un costo per gli interessi, ma anche quelli si diluiscono e si nascondono nella fiscalità complessiva; e poi l'apparato necessario per un'esazione ancora più esigente costerebbe, e non poco. La differenza sostanziale risiede dunque (per questa quota non lieve) tra l'obbligo e la spontaneità, e la seconda è reputata più vantaggiosa. Dunque una quota sostanziosa delle risorse necessarie viene acquisita in modo indolore attraverso il prestito che i cittadini fanno dei loro accantonamenti. Se poi l'onere degli interessi viene quasi del tutto meno (come propone l'Europa, stabilendo rendimenti prossimi a zero, e creando le condizioni perché ciò avvenga), la partita di giro può funzionare e accrescersi, senza sollevare grosse tensioni politiche.
In fondo la carta-moneta è un simbolo: fino a che giace in qualche cassaforte, essa assolve una funzione di mero sedativo per le insicurezze del futuro; se invece viene investita, non cessa di svolgere tale funzione, ma ne assume una seconda, quella di aumentare la ricchezza collettiva che fa da garanzia di una eventuale restituzione.
Quanto ciò sia utile si comprende guardando ancora allo specifico dell'Italia: a) lo Stato, come si è visto, già assolve ad una parte dei suoi doveri istituzionali utilizzando il risparmio privato; b) però fino ad ora il nostro Stato ha utilizzato la quota delle sue risorse, ottenute attraverso il debito, non per investimenti, ma per la spesa corrente; c) questo ha devitalizzato in gran parte l'effetto leva di quel debito che si conviene di definire “buono”, cioè il debito contratto per impieghi che giovano non tanto al consumo in sé, quanto al benessere collettivo; d) per ottenere un impiego più corretto della leva del debito, l'UE ha istituto se stessa come investitore istituzionale, prima promuovendo l'accumulo di capitale che, essendo fermo, non ha prodotto inflazione; poi facendosi attore dell'utilizzo produttivo della massa circolante, destinandola non a spese correnti ma ad investimenti ed a riforme di struttura.
Ma il sospetto, e il complottismo elevato a scienza, non demordono. Fino a ieri il rigore dei “conti in ordine” era un dogma; oggi, stranamente, di fronte al “sovranismo” e ai venti di disgregazione dell'Unione, si spalancano non solo le borse, ma i cancelli che custodiscono il tesoro. Se questo non è “helicopter money” - si dubita - è almeno il giardino dalle mele d'oro.
Torniamo allora a riflettere. La crescita dell'economia non deve essere divinizzata, ma neppure bandita da ogni orizzonte. Il fatto oggettivo che la popolazione sia in costante crescita rende incontestabile che la quantità complessiva dei beni prodotti (non i ninnoli di lusso, ma il pane e i vari companatici, i vestiti le scarpe le medicine e i servizi) tutto questo insieme deve aumentare per necessità oggettiva.
Qualsiasi economia regge se versa in un equilibrio tra i beni prodotti e il consumo dei medesimi, perciò l'espansione dei secondi richiede un aumento dei primi. Il prototipo idealizzato del primo fornaio, che sfamava la sua piccola comunità di cento anime con il forno capace di cento chili di pagnotte, si trovò a sognare un forno capace di duecento chili, che le sue sostanze non gli permettevano di acquistare. Il forno impossibile al nostro eroe divenne alla portata sua e di tutti mettendo insieme i risparmi propri ed altrui, realizzando il primo modello di investimento. Il fornaio si accollò il peso del debito, gli altri il rischio del prestito, l'esito fu l'arrivo di un secondo forno più grande. I prestiti furono restituiti dal fornaio attraverso l'aumento delle sue vendite e tutti furono contenti e sfamati. Il fornaio non era un bieco capitalista (non è escluso che lo sia diventato in seguito, esagerando con i prezzi e col suo profitto, ma questa è un'altra storia) : resta che in quella fase fu, a suo modo, un benefattore.
Oggi l'immagine del forno può essere correttamente sostituita dalle infrastrutture materiali (le famose “case, scuole, strade e ospedali” del gergo della ricostruzione post-bellica) e da tutto il contorno moderno che fa da companatico (formazione, servizi, cura, “green”, tecnologia, occupazione, manutenzione, relazioni e via elencando). Ma il concetto-cardine non è mutato nella sostanza: se oggi non c'è o non circola il danaro detenuto degli altri consumatori di pane della comunità, è comunque indispensabile alla loro fame acquisire il secondo forno. A questo punto il danaro occorrente viene stanato dai suoi giacimenti inerti, e viene chiamato a produrre la ricchezza supplementare, capace di bilanciare e rendere innocua la massa monetaria aggiunta.
12. Non sarà per caso un helicopter money?
C'è ancora un'altra resistenza psicologica, della quale occorre farsi carico, perché prima o poi potrà diventare un fronte di contrasto. E' il mai sopito timore dell'inflazione causata dalla speculazione, che in alcune aree dell'UE (Germania in particolare) può diventare autentico terrore, in forza della memoria storica.
Prima o poi - è il pensiero di molti - questa massa enorme di danaro entrerà in circolazione e saranno dolori per la stabilità dei prezzi: come ci si regolerà allora? torneremo ad avere l'inflazione a due cifre e i capitali ridotti ogni anno del 10-15% reale, come negli anni '70? come se la caveranno, in una società che sta invecchiando a vista d'occhio, le moltitudini degli anziani che sopravvivono grazie ai risparmi, e anche i meno anziani che saranno soffocati dai costi crescenti dei mutui?
Qualche sintomo viene già sin d'ora segnalato. Si sta risvegliando il prezzo del petrolio, dei minerali preziosi (come il cobalto, il palladio, il nickel) e, a quanto si legge, anche quello del riso e del frumento. La moderazione salariale, che al momento è imposta dalla morsa della pandemia e dal malessere di molte imprese, oggi comporta il contenimento dei consumi, ma è probabile che si capovolga quando le strettezze saranno diminuite. È legittimo il timore di un aumento incontrollato a beneficio dei profittatori che manovrano i prezzi alla distribuzione, come abbiamo sperimentato in seguito all'ingresso dell'euro.
Questo timore è giustificato, ma non è un effetto inevitabile della strategia adottata.
Al rialzo ingiustificato dei prezzi soccorrono i controlli che nel 2002 mancarono del tutto. Al possibile rialzo conseguente all'espandersi effettivo del circolante potranno e dovranno provvedere gli strumenti classici del rialzo dei tassi, e/o della (eventuale) riserva obbligatoria imposta alle banche. A quel punto il collocare le proprie risorse nei bond europei cesserà di essere conveniente, ma proprio per quello i bond attuali hanno una durata molto lunga.
Tuttavia alcuni spettri vengono egualmente agitati, non si sa quanto disinteressatamente.
Le Borse (soprattutto quelle Usa, ma le altre seguono o seguiranno per contagio) hanno ripreso a galoppare, e i vari indici segnano livelli molto alti, preludio di probabili “ bolle” e conseguenti crolli e propagazioni di catastrofi.
Ebbene, è utile ricordare alcuni capisaldi delle acquisizioni in questa materia. Uno di questi ci ammonisce che le Borse sono in larga misura indipendenti dall'economia.
I topi corrono dove c'è il formaggio. L'immissione sul mercato di un'ingente quantità di moneta e la sua combinazione con l'azzeramento dei tassi (se non addirittura con il fenomeno dei tassi negativi) ha provocato una grande appetibilità delle azioni che promanano da aziende di normale affidabilità imprenditoriale: l'effetto combinato è stato che un'azione di queste imprese viene a costare molto, ma offre un dividendo positivo, via via più elevato del rendimento di qualsiasi obbligazione che, al pari dei titoli di Stato, ha un rendimento addirittura negativo. Dunque l'azione rende molto, ma la ricchezza collettiva non aumenta di un euro, semplicemente si sposta come i barili non bloccati nella stiva del naviglio, sino a che qualcuno decide che è tempo di innescare le vendite, per comprare di nuovo a prezzi crollati, e gli altri rimangono con il fatidico “cerino in mano”.
Trump si eccitava guardando i bollettini della Borsa, il suo Nasdaq schizzato in alto del 140%. Ma in realtà il Pil del suo Paese è cresciuto meno del 2% annuo, mentre la Borsa di Francoforte in pari tempo è aumentata meno del 20%. Gestire l'economia di una o più aziende è cosa diversa che condurre l'economia di un complesso di Paesi.
13.“... e credetemi, sarà sufficiente”
Possiamo provare a trarre qualche prudente conclusione.
Il debito pubblico non è un “male in sé”, ma un rapporto (improprio) tra due grandezze correlate: da una parte la moneta circolante, dall'altra la ricchezza prodotta dall'insieme delle relazioni sociali e produttive di quella comunità. Quando queste grandezze si discostano troppo l'una dall'altra, i prezzi salgono se la domanda eccede i prodotti disponibili (inflazione), ovvero scendono se la domanda langue (deflazione, che può diventare stagnazione quando si stabilizza).
Perciò se nella frazione, che idealmente esprime il loro rapporto, cresce il denominatore (debito) ma cresce anche il numeratore (beni a disposizione, in senso ampio) la relazione rimane immutata, e non si versa in una condizione patologica o comunque temibile.
In ultima analisi, il cuore del problema, e dell'impegno comune che verrà da questa politica, è destinare le risorse in arrivo a impieghi così intelligenti da fungere da moltiplicatore della ricchezza reale (resta da intenderci su che cosa possa definirsi Pil, e cioè sul contenuto della nozione di “ricchezza sociale”; ma per ora non dilatiamo troppo il contendere). Quel che può essere utile è il cogliere che la prospettiva del piano dell'UE, a dispetto della sua tecnicità marcatamente “capitalistica”, sottende una profonda natura etica: l'UE deve chiedere un atto di fiducia, per collocare i suoi bond; i detentori legali della ricchezza dormiente compiranno questo gesto confidando nel come essa sarà utilizzata una volta affidata all'UE; i registi (sia quelli nazionali, sia quelli europei) della futura ricchezza devono progettare come se essa fosse già nelle rispettive casse, e confidare - secondo ragione e in forza di conoscenze solide - che ogni euro sarà come il seme del buon seminatore della parabola, che frutta ora il 10, ora il 30, ora persino il 100 per uno.
Per una volta, almeno, è necessario fidarsi, l'alternativa è lo stagno.
Divertiamoci ad immaginare. Cento o cinquecento milioni di euro vengono impiegati per arginare e disciplinare, ad esempio, un insieme di fiumare calabresi, causa di inondazioni periodiche, spesso disastrose: tradotti in investimento UE possono significare (in ipotesi) cento o cinquecento posti di lavoro del tutto nuovi per qualche anno (manodopera esecutiva), e altri mille posti-attività già presenti sul mercato vengono alimentati dalla domanda continua delle loro prestazioni (tipo: imprese e automezzi di movimento terra, progettisti, produttori e venditori di materiale da costruzione e simili).
Ognuno di coloro che svolgeranno il proprio compito sarà adeguatamente retribuito, e sugli stipendi opererà un'imposta (Irpef e/o affini) che rifluirà nelle casse dello Stato, un versamento che darà ossigeno all'Inps, un'Iva sulla quota di prodotti che il consumatore e la sua famiglia potranno acquistare con maggior larghezza, un minor peso a carico dei vari istituti a sostegno della inoccupazione (Cassa integrazione, ristori e altro).
Ogni posto di lavoro nuovo genererà un volume di acquisti superiore a quello cui l'individuo sarebbe costretto dalla sua condizione di povertà o comunque di basso reddito; e questa addizione (di alimenti, di vestiario, di generi di conforto, di elettrodomestici, di loisirs, di libri e di tecnologie varie) sarà fattrice a sua volta di un incremento della rispettiva produzione, e quindi di nuova Iva, Inps, Ires, e soprattutto di nuove assunzioni, come effetto non più diretto ma indotto.
E non si conteggia - perché non tutti gli esempi ipotizzabili lo consentono, ma molti lo lasciano prevedere - l'incremento di ricchezza dovuto alla riduzione dei fattori negativi, come le spese per le ricostruzioni e gli indennizzi dei danni prodotti dalle inondazioni; ovvero, in àmbiti diversi, il minor consumo di carburante e il minor volume di polveri sottili, se si agisce per fluidificare e ridurre il traffico con interventi sulle infrastrutture; o i minori costi della sanità per il miglioramento della salute collettiva; o il potenziamento del sapere collettivo del Paese per effetto della minore fuga dei cervelli, e simili.
La gran parte degli investimenti ipotizzati può in effetti presentare sia il capitolo della ricchezza emergente (beni che non ci sarebbero e che invece verranno ad esistenza), sia quello del danno cessante (la minor criminalità giovanile per quanti possono trovare un'occupazione dignitosa; il minor costo da sostenere per l'energia acquistata dall'estero, se diminuiscono i consumi per effetto di un'edilizia corretta; una minor fuga degli investitori, soprattutto dall'estero, se i potenziali investitori constatano l'esistenza di una rete efficiente di infrastrutture ed un contesto sociale più pacificato e laborioso. E cento altre situazioni.
Il nodo, dunque, risiede nella volontà e nella capacità di organizzare l'impiego delle risorse in forme capaci di moltiplicare la ricchezza reale del Paese. Non assistenza, ma sviluppo della comunità; non finanziamenti a luminarie locali buone per una politica clientelare, ma aumento delle infrastrutture materiali e sociali di una comunità.
Si può concludere con una prudente fiducia in quella ragione trascendente che spesso sembra ottundersi, ma che ha talora astuzie impreviste. Un evento tragico come la pandemia ha generato il risveglio di una coscienza europea nei cittadini e nelle istituzioni, proprio quando essa era al punto più basso e più vicino all'auto-soppressione. Il capovolgimento della strategia dell'UE può essere il frutto di una di quelle “astuzie della storia” che nascono dalla comprensione vera degli equilibri profondi e necessari tra gli egoismi dell'agire e la loro correzione etica. Sarebbe grave non operare di conseguenza.
(1) Il 18 marzo 2020 la Banca Centrale Europea (BCE) ha approvato un nuovo programma di acquisto dei titoli di Stato dei Paesi europei (“Pandemic Emergency Purchase Programme”) per 750 miliardi di euro, poi implementato di 600 miliardi il 4 giugno 2020.
Il 30 marzo2020 il Parlamento europeo e il Consiglio dell'UE hanno approvato il “Coronavirus Response Investimenti Initiative”, inteso a mobilizzare tutti i fondi strutturali e di investimento non ancora utilizzati per gli esercizi finanziari 2020-21.
Il 20 maggio 2020 gli stessi soggetti (Parlamento e Consiglio) hanno istituito il SURE (Strumento europeo di sostegno a seguito di un'emergenza) con dotazione di 100 miliardi.
Il 24 agosto 2020 la Commissione Europea ha concesso un sostegno finanziario pari a 81,4 miliardi, dei quali 27,4 a favore dell'Italia, e di essi una parte già concretamente erogata.
La Banca Europea per gli investimenti (BEI) ha istituito un fondo di garanzia, con dotazione di 25 miliardi, per garantire alle piccole e medie imprese l'accesso ai finanziamenti bancari.
Il 23 aprile 2020 il Consiglio Europeo ha approvato l'istituzione di una nuova linea di credito di 200 miliardi, nell'ambito del meccanismo europeo di stabilità (MES) per finanziare le misure necessarie nei settori medici e correlati, al fine di rafforzare i sistemi sanitari nazionali impegnati nella lotta alla pandemia Covi-19.
Per l'Italia si stima un importo di 36 miliardi di euro.
I tassi di interesse applicati saranno dello -0,07% (tasso negativo) per un prestito settennale; e dello 0.08% per un prestito decennale (nota del Capo dell'Ufficio finanziario del Mes). L'accesso alla linea di credito, rispetto al tasso di interesse praticato per i propri titoli di Stato, comporterebbe per l'Italia un risparmio per interessi di circa 5 miliardi di euro a fronte di un esborso di 36 miliardi in sette mesi.
Il 23 aprile 2020 i Capi di Stato e di Governo dell'UE hanno istituito uno strumento straordinario, collegato al bilancio pluriennale europeo, finanziato con l'emissione di obbligazioni comuni (“Recovery bonds” e risorse proprie dell'Unione) inteso a finanziare politiche a sostegno della ripresa economica, finanziando i settori e i Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia.
Il 27 maggio 2020 la Commissione Europea ha presentato davanti al Parlamento Europeo il “Recovery Plan for Europe”che prevede un bilancio a lungo termine dell'UE rinnovato, pari a 1.100 miliardi di euro, e un suo rafforzamento temporaneo (“Next Generation EU”) pari a 750 miliardi, di cui 500 a fondo perduto e 250 come prestiti agevolati, per un totale di 1.850 miliardi di euro.
Dopo vari aggiustamenti il NGEU prevede 390 miliardi di trasferimenti a fondo perduto e 260 di prestiti agevolati. All'Italia è stata riconosciuta la quota maggiore di finanziamenti, per un totale di 209 miliardi, di cui 81,4 per aiuti a fondo perduto e 127,4 di prestiti agevolati.
(la presente rassegna è ricavata sulla base delle indicazioni contenute in “L'Unità Europea” - Rivista del
Movimento Federalista Europeo, settembre-ottobre 2020).
Va specificato che quando si legge che un certo quantitativo di euro viene stanziato “a fondo perduto”, la somma viene assegnata senza obbligo di restituzione, ma essa grava pur sempre sul bilancio europeo, il quale viene costituito e alimentato dai contributi di tutti gli Stati dell'UE, e quindi anche con quelli dello Stato beneficiario.
(2) Secondo il Bollettino presentato dall'ABI a fine 2020, i depositi bancari in Italia, a tale data, ammontavano a 1.682 miliardi di euro, con un incremento di 126 miliardi nel corso dell'anno (+7,5%). A rovescio, il reddito medio delle famiglie nel corso dell'anno era diminuito del 5,8%. La quota di persone che dichiaravano di avere risparmiato nel corso dell'anno ammontava al 55% degli interpellati, mentre la richiesta di prestiti era cresciuta del 4,8%.
Su scala europea, Eurostat informa che i risparmi della zona Euro all'inizio del 2020 corrispondevano al 16,6% del prodotto interno, e alla fine dell'anno erano saliti al 24%.. A rovescio, gli investimenti erano passati dall'8,9% al 7,9%.