Molto si è scritto su don Lorenzo Milani con la consapevolezza di non riuscire a dire tutto. Perché ciò che si è rappresentato all'interno di una esistenza breve ma bruciante è derivato principalmente dal cuore. E ciò che ha quell'origine non è mai completamente spiegabile o circoscrivibile. Oppure prende forza da quella radice profonda che sta su quella linea di confine interiore in cui si completano pensiero e azione; in cui si sfidano finitezza consapevole e ansia di infinito; in cui la ricerca della verità mette già in conto il graffio sulle coscienze intorpidite.
A cento anni dalla nascita del Priore vale ancora l'auspicio che intorno alla sua figura dovrebbe fiorire più la meditazione che la risonanza. Meditazione su un "habitus" mentale e spirituale che fu tutt'uno con il suo modo di essere. Che insegna, ancora, l'etica della responsabilità nel reagire a tutto ciò che appare come "ordine" accomodante, ma che oscura altri sistemi di valori, quello della coscienza e della Costituzione.
Il Sacerdote -che fu definito una "campana stonata", ma che, in realtà, anticipava i tempi in modo profetico, pagando duramente anche di persona- ci parla ancora? Oppure è ormai confinato nel puro giudizio storico di un'epoca di passione e di conflitto da cui siano lontani in modo irrimediabile perché non ci appartiene più nell'animo? Penso che, al netto delle peculiarità storiche e delle tensioni irrisolte dell'Uomo Milani, sia attuale, pur nella sua apparente inattualità, la nettezza e la densità del suo modello di riflessione sulla Persona.
Quello che dovrebbe costituire il nucleo profondo di ogni ragionamento, la pietra di paragone di qualsiasi proposta civile e, più generalmente, politica. Ma, ancora più direttamente, quella di don Lorenzo è una voce che indica lo spazio dell'agire sempre sorretto da un giudizio critico sulla realtà, senza prudenze autoassolutorie, diverso nei contenuti e nelle prospettive da quelli che si adeguano. "Fai strada ai poveri, senza farti strada" è, ancora oggi, un invito veemente a seguire un percorso "altro" rispetto a quello che la comunicazione e tutto ciò che oggi è "struttura", anche istituzionale, indicano come regola del "saper" vivere. Solo che la povertà, oggi, non si misura più sotto il profilo squisitamente economico, ma nella mancanza di strumenti e persino di volontà nel farsi carico della complessità del reale.
Dovremmo concludere, quindi, che il Priore di Barbiana sia da annoverare tra i maestri dell'utopia oppure tra gli esempi inutilmente oppositivi a quel sistema che, alla fine, è risultato vincente e incontrovertibile? Sul punto, ricordo quanto mi ha detto, alcuni anni fa, Adele Corradi che gli fu vicina negli ultimi anni di vita. All'imbrunire di un giorno estivo, quando la luce sulla collina toscana allunga le ombre delle piante e si diffondono i profumi della terra, Adele chiese a don Lorenzo se avesse senso tutto quello che stava facendo in uno luogo comunque lontano dalla città, dai grandi centri di discussione e di dibattito, dai luoghi delle grandi intelligenze, suscitando le adesioni di alcuni e le forti contrapposizioni di molti altri. Don Lorenzo rimase in silenzio per alcuni minuti. Poi disse che tutto stava nella risposta a una domanda: su quanto si fosse in grado di donare agli altri nel posto in cui, per destino o per scelta, a ognuno è toccato vivere. Perché la qualità di una esistenza si misura dall'impegno che si è capaci di profondere per elevare la condizione e la coscienza di chi ci è vicino o ci è affidato.
L'amore universale è semplice filantropia, mentre l'unica cosa che conta è l'amore per chi incrocia la nostra strada, a cui possiamo donare ciò che abbiamo di meglio per la sua libertà e la sua crescita.
Quelle parole mi paiono ancora molto importanti perché delineano un cammino, un metodo per non rimanere "intruppati", per recuperare quella dimensione etica in cui fede e laicità si confrontano verso le verità possibili all'interno delle esperienze, lasciando intatto il mistero della Grazia.
In questo senso, il messaggio milaniano potrebbe apparire inattuale, "fuori tempo". Ma il cristiano autentico è sempre apocalittico, rivelatore. Non può che essere "lucerna posta sul moggio", esempio visibile di contraddizione, di distonia rispetto a chi "mira basso" e a tutto ciò che avvilisce, mortifica e "bestemmia" il tempo.
Forse la principale lezione che viene ancora da don Milani sta nel dover definire i concetti di grandezza, di piccolezza (del luogo, della persona) e persino di tempo non secondo i criteri di una modernità banale, ossessiva in termini di raggiungimento di consenso e di potere.
Milani ci dice che è sempre l'azione, l'impegno sorretto da una prospettiva di bene comune, senza alcuna volontà di carriera, ciò che rende piena l'esistenza di ognuno. È quell'impegno, quello sforzo, quella dedizione che trasforma i posti (fisici, professionali, istituzionali che siano) da luoghi piccoli in luoghi immensi.