L’opportunità della crisi.
Pensieri brevi a margine degli eventi di questi giorni di Alessandro Prontera
Il momento è come si dice in questi casi drammatico ma – oso pensare – forse provvidenziale perché – seppure brutalmente e nel modo più ingeneroso – offre l’occasione di rimeditarsi e fare critica di sé. Evidentemente non siamo stati in grado di farlo per tempo, sebbene di avvisaglie ve ne fossero.
Avvilisce, però, sentire prese di pozione che sembrano voler annacquare la discussione, allorché – pure in buona fede – non si riesca proprio a concepirsi fuori da una logica di ‘appartenenza’, persino faziosa, sino all’ultimo, irriducibile difesa di comportamenti che, davvero, nulla possono più pretendere di condividere con il ‘senso della giurisdizione’. Come se l’ostinazione dei fatti, in queste giornate, a fronte di strenue e logore difese, non bastasse a tacere appelli garantisti rispetto a condotte occasionate dalla ‘magistratura’ ma che nulla più partecipano di essa, nulla più partecipano della radice giurisdizionale, tristemente recisa, da tempo.
Penso che di quanto accaduto ci saremmo potuti avvedere se solo fossimo stati meno arroganti e attinge tutti, sino a toccare la coscienza di ciascuno di noi. Nessuno si scansi, perché davvero non è più questione di pochi, di un gruppo o di chi quella ‘corrente’ – mi verrebbe da dire – ha generato. Essa investe tutti. Ed è per questo che non comprendo – peccando evidentemente di ingenuità – come ci si smarchi a fatica da condotte che eticamente non possono trovare giustificazione, anzitutto, all’interno del gruppo di appartenenza degli autori. Non è o non è solo una questione ‘penale’ – che interessa in special modo i singoli coinvolti, bensì di essenza stessa della magistratura. Non si confonda il discorso penale, tecnico se si vuole, dei singoli con il problema culturale prepotentemente alla ribalta cui nessun può sottrarsi e rispetto al quale siamo chiamati ad assumere una posizione netta, fuori da ambiguità, eccentriche auto-sospensioni, equilibrismi di sorta, sino a sospensioni ‘indotte’.
Ed è per questo che avvilisce, soprattutto i più giovani, l’ipocrisia che sottende il proclama, del quale ancora resta eco, di attendere gli sviluppi delle indagini a Perugia o di ‘leggerne’ gli atti, perché la questione è – se possibile – ancor più esiziale, poiché attiene al nostro modo di pensarci come ‘magistrati’ e al modo di ‘stare insieme’. Mi verrebbe da dire: non è più un problema penale, per noi. I germi di questa crisi, anche allo sguardo ingenuo di chi da poco muove in magistratura, affioravano nella percezione di storture, di fatto legittimate, anche con quel comodo, tacito, consenso che si alimenta della ‘utilità’ personale di carriera sperata, ambita, pure laddove l’ambizione superi i meriti.
Ho sempre avuto la percezione di una corsa in atto, diffusa e spasmodica, all’affermazione di sé cogliendo a pretesto la giurisdizione, nei fatti discostandosene alla prima occasione, per inseguire una “medaglietta”. A pensarci bene, però, se rispondessero alla loro vocazione (ma non sarebbero, comicamente, ‘medagliette’) riposerebbero su valutazioni sostanziali e di merito, il che, in radice, depotenzierebbe la famigerata ‘corsa’ o ‘caccia’ alle medagliette.
In una ingenua e inesperta visione giovanile o dei più giovani tra i magistrati si staglia forte e spiacevole la percezione di carriere verticali pre-impostate, sin dall’accesso in magistratura, come dovesse scegliersi se esercitare la giurisdizione ovvero cogliere occasione della giurisdizione per esercitare proprie – magari anche legittime – aspettative di carriera: in altre parole costruirsi, quale vocazione qualificante – una carriere di incarichi, di semi-direttivi e, infine, direttivi, disancorati dalla collettività ove si operi e a servizio della quale si è chiamati. In tutto questo il senso e il peso della giurisdizione scolora drammaticamente.
Intanto abbiamo sacrificato qualcosa di noi per strada, tutti intenti a rincorrere prospettive di giudizio per così dire ‘moderne’, ma in realtà burocratiche. La ricerca spasmodica del ‘titolo’, poi, da spendere al momento giusto ha di fatto generato una separazione tra magistrati di giurisdizione e magistrati di carriera. Ciò ha anche snaturato il senso dell’associazionismo, delle c.d. ‘correnti’, sempre più esposte al rischio di atteggiarsi a imperdibili ‘ascensori’ sociali o di carriera, ovvero, nella migliori delle ipotesi, ‘protettorati’, quando mai si avesse bisogno, tant’è lo spauracchio del disciplinare e non solo. Corollario inevitabile uno sfrenato e vuoto proselitismo: non importa chi, basta recuperare numeri, come fosse un bacino elettorale da rimpinguare, in futuro spendibile. Capita sin dall’inizio dei primi momenti in magistratura di interrogarsi sul senso dell’associazionismo, non in astratto, ma come lo si vive oggi, una sorta di ‘costituzione’ materiale della magistratura. Se l’associazionismo non sia diventato una nomenclatura vuota così privo di una vocazione pratica alla giurisdizione e ai suoi problemi, di come essa possa interpretarsi e coltivarsi quotidianamente. Se di questo si tratta, è ormai ineludibile che i gruppi associativi reiterino medesime logiche – tanto vituperate – partitiche e purtroppo non politiche, nel senso ‘alto’, della locuzione, nel senso più ‘laico’, proprio rispetto a qualsivoglia pretesa lettura partitica o pregiudiziale ideologica. Gli stessi c.d. ‘giovani’, senza neppure aver avuto il tempo di maturare una coscienza critica – e mi preoccuperebbe il contrario – sono spesso preda degli appetiti delle correnti che in essi vedono nuovi adepti. Non importa che condividano o meno il senso di quel gruppo associativo, le premesse culturali, lo slancio ideale: se ancora ci fosse. Il tutto mascherato da una logora retorica dei ‘giovani’, di tutela, di coinvolgimento, di valorizzazione. Mi chiedo se, al contrario, non occorra intanto e silenziosamente offrire ‘testimonianze’ da parte dei più anziani, nella giurisdizione. A tempo debito si affronterà ogni discorso associazionistico e di gruppi associativi.
C’è chi, però, sceglie l’esercizio della giurisdizione, dando spazio all’attitudine spontanea dell’essere magistrato, non avendo intanto avuto cura di coltivare rapporti, relazioni, strategie: è forte il rischio d’essere un giorno pretermessi in favore di chi, invece, sin dall’inizio, intessendo rapporti, ha fatto incetta di ‘medagliette’ e di conoscenze. Costui avrà senz’altro sacrificato l’esercizio della giurisdizione sull’altare di una carriera brillante e di vertice. E avvilisce che la pre-costituzione di titoli e medagliette si riverberi contro lo stesso corpo di magistrati ordinari nel momento in cui si offre il fianco alla magistratura amministrativa di dover poi, magari formalisticamente, annullare decisioni del CSM proprio in ragione della omessa valutazione di ‘primazia’ che a quelle ‘medagliette’ burocraticamente consegue. In tal caso, il magistrato apprezzato, stimato, che ha sempre lavorato per l’ufficio e per il territorio, avrà magari l’affetto e la stima postuma di chi, sorprendendosi anche un po’ di maniera, assiste inerme a un ribaltamento del giudizio in favore del concorrente che quella stessa stima non ha, ma medagliette da esibire sì, al momento giusto. Oggi, più che mai, occorre avere il coraggio di non temere per la propria carriera; occorre avere il coraggio di recuperare la bellezza dell’esercizio della giurisdizione, con l’orgoglio di chi, sia pure faticosamente e senza clamori, è chiamato a farsi carico delle istanze di giustizia che si levano in una comunità di persone, assicurando, almeno, l’impegno di una risposta plausibile e umana di e tra noi magistrati. Occorre non temere per l’esercizio della giurisdizione e per i ‘rischi’ che essa fisiologicamente comporta. La filosofia della paura indebolisce, nutrendo degenerazioni correntizie.
Abbiamo ora o mai più l’occasione di riappropriarci del senso della giurisdizione e con ciò del senso dell’associazionismo, in tutta la ricchezza delle sue declinazioni, sino a immaginare i gruppi associativi ritornare a essere ‘comunità’ di pensiero, nel senso più nobile, non circoli chiusi, vittime di pregiudizi e diffidenza nei confronti di ciò che è altro da sé. Da ciò passa, inevitabilmente, il ripensamento di noi stessi. Ricorderemo come fummo, tutti, almeno una volta, tra code e lunghe attese, a Roma, con indosso il peso di codici, spaventati da un futuro incerto, ma con indosso anche la levità di sogni, speranze e idealità che quel peso alleggerivano sino a non più sentirlo. E attingendo con un po’ di fanciullesca freschezza a “il mondo come lo vedo io” di Enstein del 1931, mi verrebbe da dire che “chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’”. Ecco, questo credo possa essere un realistico auspicio e insieme un impegno serio.