Sommario: 1. I fattori che spiegano la “precisazione” del 2017 rispetto a Granital - 2. Aggiustamenti e nuovi interrogativi (la giurisprudenza dal 2019 al 2024) - 3. Recenti tentativi di assestamento (sent.n. 181 del 2024) - 4. Prospettive e incognite del “tono costituzionale” - 5. Il ruolo delle corti costituzionali in sede di rinvio pregiudiziale nella prospettiva della Corte di giustizia - 6. Possibili prospettive.
1. I fattori che spiegano la “precisazione” del 2017 rispetto a Granital
Nella sentenza n. 269 del 2017, la Corte costituzionale giustificò la “precisazione” del consolidato indirizzo avviato nel caso Granital dalla sentenza n. 170 del 1984 in tema di rapporti fra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea direttamente applicabile con l’argomento che “il contenuto di impronta tipicamente costituzionale” della Carta dei diritti fondamentali determinava un crescente intreccio di princìpi e diritti con quelli della Costituzione. La conseguente proliferazione di doppie questioni pregiudiziali rendeva dunque necessario per il giudice scegliere fra la non applicazione della normativa nazionale impugnata per contrasto col diritto UE direttamente applicabile e la rimessione alla Corte della questione di legittimità costituzionale, che però la Corte considerò allora un obbligo con l’argomento dei vantaggi in termini di certezza del sindacato accentrato quale “fondamento dell’architettura costituzionale”.
In Granital, l’ipotesi che una legge od atto equiparato potesse violare non solo il diritto UE direttamente applicabile ma anche la Costituzione non era prevista, e comprensibilmente: basti pensare che l’Unione europea non era stata ancora istituita. Per cui non si poneva neanche una possibile scelta per il giudice, a meno che non dubitasse, ma si presumeva in ipotesi di scuola, della conformità del diritto primario UE (tramite la relativa legge nazionale di esecuzione) ai princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale, i cosiddetti controlimiti.
Poteva darsi inoltre che il giudice dubitasse del significato da ascrivere al diritto comunitario, e proponesse perciò rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia; ma il campo delle ipotesi era anche qui più limitato, giacché la Corte costituzionale si rifiutava di proporre questioni pregiudiziali, lasciando al solo giudice comune tale scelta. Ripescando un antico precedente (sent. n. 13 del 1960), essa si autodefiniva “organo di garanzia costituzionale, di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni”, pur di riservarsi un margine di apprezzamento autonomo dal circuito giudici comuni-Corte di giustizia relativo all’interpretazione del diritto comunitario, in vista di un arbitraggio finale sul relativo contrasto col diritto interno. Nelle ipotesi di doppia pregiudizialità, che cominciano a crescere negli anni Novanta, il rifiuto della Corte di considerarsi giudice ai fini del rinvio comportava infatti che fosse il giudice comune a dover sollevare la questione di pregiudizialità comunitaria avanti alla Corte del Lussemburgo, riceverne l’interpretazione della norma comunitaria ed eventualmente sollevare incidente di costituzionalità, col risultato di riservare alla Corte costituzionale l’ultima parola (fra le altre, ord. nn. 536 del 1995, 316 del 1996, 108 e 109 del 1998).
Nel 2017, la Corte aveva peraltro abbandonato da tempo quell’indirizzo (a partire dall’ord. n. 102 del 2008 quanto ai giudizi in via principale e dall’ord. n. 207 del 2013 per quelli in via incidentale). La stessa sentenza n. 269 venne emessa all’indomani della conclusione di Taricco, dove il ricorso della Corte al rinvio pregiudiziale era stato strategicamente decisivo.
La proliferazione delle doppie questioni pregiudiziali, determinata dall’applicazione di un documento dal “contenuto di impronta tipicamente costituzionale” come la Carta dei diritti fondamentali, si presentava dunque con caratteri di relativa novità. Ma unitamente all’argomento della maggior certezza garantita dal monopolio della Corte sull’annullamento bastò per affermare che il giudice dovesse sollevare la questione, salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale. Si trattava di una soluzione da un lato limitata in termini di parametro, in quanto ristretta alla sola ipotesi in cui la doppia pregiudizialità investisse la Carta dei diritti, non il resto del diritto dell’Unione primario o derivato, dall’altro cogente, in quanto concretizzantesi nell’obbligo per il giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale.
Intorno a questi due aspetti ruoterà l’intera evoluzione della giurisprudenza costituzionale.
2. Aggiustamenti e nuovi interrogativi (la giurisprudenza dal 2019 al 2024)
Ben presto la Corte avrebbe sostituito all’obbligo del giudice la facoltà di sollevare questione di legittimità in alternativa alla non applicazione della legge confliggente col diritto dell’Unione direttamente applicabile.
Nella sent. n. 20 del 2019, il nuovo orientamento era sostenuto dall’argomento che “la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.
Nella sent. n. 63 del 2019, ribadita l’ammissibilità di questioni sollevate nella ipotesi di concorso di parametri (Costituzione e CDFUE), la Corte aggiungeva: “fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”.
L’orientamento sarebbe stato poi confermato (sent. nn. 11 del 2020 e 182 del 2021). E tuttavia l’affermazione della “non preclusione”, fondata sull’“arricchimento degli strumenti di tutela” assicurato dalla sopravvenienza della Carta, non forniva al giudice alcun criterio utile ad orientarlo nella scelta richiesta dalla presenza di una doppia pregiudizialità. In altre sentenze (nn. 254 del 2020 e 194 del 2018) la Corte si richiamerà al requisito della compiutezza normativa della disposizione del diritto UE applicabile, ma non al punto da dar vita a un indirizzo consolidato.
Ancora più avanti, si sarebbe anzi registrata un’autentica oscillazione fra il ritorno al rispetto della regola Granital, solo temperato dall’avvertenza che il sindacato accentrato non è alternativo ma confluisce con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo “nella costruzione di tutele sempre più integrate” (sent. n. 67 del 2022), e l’affermazione, che risulterebbe suffragata “da un’ormai copiosa giurisprudenza costituzionale”, secondo cui l’effetto diretto eventualmente risultante dal diritto dell’Unione non preclude la cognizione della Corte costituzionale circa la legittimità della legge nazionale confliggente, anche qui accompagnata dal rilievo per cui l’arricchimento degli strumenti di tutela assicurato dalla Carta “vede tanto il giudice comune quanto questa Corte impegnati a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze” (sent. n. 149 del 2022).
L’orientamento della non alternatività dei rimedi, pur restando costante (v. anche sent. n. 15 del 2024), non riusciva dunque a nascondere accentuazioni opposte, rispettivamente, del primato del diritto dell’Unione quale “architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali” (sent. n. 67 del 2022) e del sindacato accentrato quale “fondamento dell’architettura costituzionale” (sent. n. 269 del 2017).
In definitiva, a partire dalla sentenza n. 20 del 2019, la Corte ha lasciato al giudice il compito di scegliere fra le soluzioni riportate, pur senza rinunciare a indicare il proprio favore per la rimessione della questione di legittimità in ragione della maggior certezza del diritto arrecata dal ricorso all’effetto erga omnes proprio delle sentenze di accoglimento. Il percorso del giudice comune di fronte a una doppia pregiudiziale si faceva così più incerto, dovendo egli compiere valutazioni di ordine probabilistico non assistite da un criterio-guida sufficientemente affidabile, delle quali l’ipotesi di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia costituiva ulteriore variante.
3. Recenti tentativi di assestamento (sent.n. 181 del 2024)
Ci si può chiedere se e fino a che punto la sentenza n. 181 del 2024, seguita da altre (sentt. nn. 210 del 2024, 1, 5 e 7 del 2025, ord. n. 21 del 2025), abbia stabilizzato gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale.
Certamente i due aspetti fondamentali della “precisazione” del 2017 risultano ora profondamente modificati. Da una parte, infatti, confermando l’indirizzo avviato con la sentenza n. 20 del 2019, la Corte afferma che al giudice non spetta l’obbligo, ma solo la facoltà, di sollevare questione di legittimità costituzionale: richiamando la Corte di giustizia, precisa che le Corti costituzionali non possono «ostacolare o limitare il potere dei giudici di proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e di non applicare la legge statale incompatibile con il diritto dell’Unione (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS), quando esso sia provvisto di efficacia diretta (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 24 giugno 2019, in causa C-573/17, Popławski).»
Dall’altra parte, però, la Carta dei diritti fondamentali non è più il solo parametro tratto dal diritto dell’Unione alla cui stregua giudicare l’eventuale vizio della legge nazionale: quando una censura investa la violazione degli “obblighi comunitari” ex art. 117, primo comma, Cost., dice la Corte, “L’obbligo dello Stato è quello di assicurare il rispetto del diritto eurounitario e il principio di preminenza; tale obbligo è violato, sia se il contrasto riguarda la Carta dei diritti fondamentali, sia se il conflitto riguarda un’altra normativa del diritto dell’Unione.” (sent. n. 181 del 2024).
Per ambedue i profili, la posizione assunta nel 2024, e poi come vedremo più volte ribadita, è frutto di progressivi aggiustamenti di tiro.
Quanto al primo profilo, la ribadita facoltà di scelta del giudice comune non equivale affatto a ritenere che per la Corte le due strade siano equivalenti. Non lo erano nemmeno nel 2017, quando il sindacato accentrato era stato definito “fondamento dell’architettura costituzionale”, e a più forte ragione non lo sono state nel 2024.
Già nella sentenza n. 15, la Corte aveva affermato che la proposizione della questione di legittimità “offre un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione.” Ma lo aveva affermato in presenza di una perdurante applicazione da parte di una pubblica amministrazione di normativa interna che in sede giurisdizionale era stata giudicata incompatibile col diritto UE direttamente applicabile, e perciò da lui non applicata. Infatti, così proseguiva la Corte, “Proprio per evitare tale evenienza, e fermi restando ovviamente gli altri rimedi che l’ordinamento conosce per l’uniforme applicazione del diritto quando ciò accada, la questione di legittimità costituzionale offre la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto dell’Unione europea”.
La sent. n. 181 del 2024 generalizza invece l’affermazione del “surplus di garanzia” offerto al primato del diritto dell’Unione dall’accoglimento della questione di legittimità “sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione”.
Così stando le cose, ci si può chiedere piuttosto perché la Corte non abbia percorso l’ultimo miglio che, a partire dal 2017, la separa dalla integrale riacquisizione del giudizio sulle leggi incompatibili col diritto UE direttamente applicabile, qualificando come “principio supremo” il sindacato accentrato.
Finora i princìpi supremi sono stati fatti sapientemente balenare quali controlimiti nei rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia, come nel caso Taricco. Ma se la Corte qualificasse espressamente il sindacato accentrato come controlimite alle limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost., potrebbe continuare nello stesso tempo a ragionare di un “concorso di rimedi giurisdizionali” mirante alla “costruzione di tutele sempre più integrate”?
Per poter svolgere una funzione, l’affermazione del sindacato accentrato quale controlimite equivarrebbe a rivendicare un’esclusiva titolarità non del solo potere di annullamento delle leggi ma anche della cognizione circa la loro conformità a Costituzione indipendentemente dalla provenienza (interna o esterna) dell’atto che abbiano in ipotesi violato.
La stessa giurisprudenza mostra come l’evocazione del controlimite non sia facilmente dissociabile dal richiamo alla minaccia di attivare lo strumento ultimo che una corte ha a disposizione per rivendicare una certa funzione, e in quanto tale non bilanciabile con altri. In questo senso, l’evocazione del controlimite del sindacato accentrato andrebbe oltre la constatazione di un vantaggio in termini di certezza del diritto, derivante dal possibile annullamento della legge incostituzionale, che la Corte ha più volte operato a partire dal 2017 quale mero argomento a favore della soluzione accentrata.
Finquando si esaurisca nella generalmente incontestata attribuzione alla Corte del monopolio dell’annullamento delle leggi, l’evocazione del sindacato accentrato può valere appunto nei termini di una soluzione più vantaggiosa della non applicazione, e dunque bilanciabile con essa sulla base di altri argomenti, come avviene ancora nella sent. n. 181 del 2024. Se viceversa il monopolio derivante dal sindacato accentrato venisse riferito alla cognizione circa la conformità della legge a Costituzione in quanto principio supremo dell’ordinamento costituzionale, e pertanto controlimite alle “limitazioni di sovranità” ex art. 11 Cost., non potrebbe non tornare in discussione il fondamento giuridico del rimedio della non applicazione della legge nazionale da parte del giudice comune.
Una scelta simile, con l’abbandono dell’indirizzo inaugurato da Granital e un ritorno a Frontini (1973), isolerebbe nuovamente la Corte dal circuito fra giurisdizioni nazionali ed europee formatosi intorno alla tutela dei diritti fondamentali: non solo per il merito della scelta, ma anche in forza della rivendicazione di giudice delle leggi così implicitamente operata. Superato l’originario stadio dell’isolamento grazie al recente accorto uso dei rinvii pregiudiziali, la Corte tornerebbe al punto di partenza. È appena necessario ricordare che, da Simmenthal in poi, per la Corte di giustizia il principio del primato include l’obbligo per il giudice comune di procedere all’immediata disapplicazione della norma interna contrastante quelle UE dotate di diretta efficacia, con la conseguente difformità da tale principio di meccanismi interni che viceversa impongano la caducazione della norma interna. Che è quanto scaturirebbe dalla qualificazione del sindacato accentrato come principio supremo nel senso anzidetto.
Infine, una tale qualificazione non potrebbe restare senza conseguenze sulla configurazione dell’identità nazionale di cui all’art. 4 TUE. La Corte di giustizia ha già escluso che la Corte costituzionale di uno Stato membro possa richiamarsi alla clausola dell’identità nazionale onde aggirare la regola per cui l’ultima parola sull’interpretazione del diritto primario dell’Unione spetta alla Corte di giustizia.
In RS (2022) ha prima affermato che “l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE non osta a una normativa o prassi nazionale che prevede che i giudici ordinari di uno Stato membro, in forza del diritto costituzionale nazionale, siano vincolati da una decisione della Corte costituzionale di tale Stato membro che dichiari una norma nazionale conforme alla costituzione di detto Stato membro. Tuttavia, lo stesso non può dirsi nel caso in cui l’applicazione di una siffatta normativa o di una siffatta prassi implichi l’esclusione di qualsiasi competenza di tali giudici ordinari a valutare la conformità al diritto dell’Unione di una norma nazionale, che la Corte costituzionale di tale Stato membro abbia dichiarato conforme a una disposizione costituzionale nazionale che preveda il primato del diritto dell’Unione”. La Corte ha poi aggiunto che, “qualora la Corte costituzionale di uno Stato membro ritenga che una disposizione del diritto derivato dell’Unione, come interpretata dalla Corte di giustizia, violi l’obbligo di rispettare l’identità nazionale di detto Stato membro, tale Corte costituzionale deve sospendere la decisione e investire la Corte di giustizia di una domanda di pronuncia pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, al fine di accertare la validità di tale disposizione alla luce dell’art. 4, paragrafo 2, TUE, essendo la Corte di giustizia la sola competente a dichiarare l’invalidità di un atto dell’Unione”. Infine la Corte di giustizia ha desunto dalla propria competenza esclusiva a fornire l’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione che “la Corte costituzionale di uno Stato membro non può, sulla base della propria interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione, ivi compresa quella dell’articolo 267 TFUE, legittimamente dichiarare che la Corte di giustizia ha pronunciato una sentenza che viola la sua sfera di competenza e, pertanto, rifiutare di ottemperare a una sentenza pronunciata in via pregiudiziale dalla Corte di giustizia”.
Nel respingere le azioni di annullamento dell’Ungheria e della Polonia contro il regolamento sulla condizionalità finanziaria a tutela dello Stato di diritto n. 2020/2022, la Corte ha poi affermato per la prima volta che “l’art. 2 TUE non è semplicemente una dichiarazione di linee guida politiche o di intenzioni, ma contiene i valori che … sono una parte integrante dell’identità dell’Ue come ordine giuridico comune, valori che hanno una concreta espressione in principi, comprese delle obbligazioni vincolanti per gli Stati” (Ungheria contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea e Polonia contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea (2022)). È, questo, un passaggio costituzionale che impegna una corte che lo abbia varcato a non tornare indietro, orientandone corrispondentemente ruolo e aspettative.
Già prima delle sentenze del 2022 poteva dirsi che più la Corte costituzionale di uno Stato membro assume a parametro il diritto primario dell’Unione, e più si trova a dover assimilare la regola che l’ultima parola nella sua interpretazione, compresa la clausola dell’identità nazionale, spetta alla Corte di giustizia. A più forte ragione ciò vale dopo che la Corte di giustizia ha interpretato l’art. 2 TUE in modo da metterne in luce la portata costituzionale. Anche per questo, la Corte costituzionale non potrebbe vantare nei confronti della Corte del Lussemburgo il carattere “sistemico” dei propri scrutini, ancora di recente paragonato alla valutazione “parcellizzata” della Corte di Strasburgo.
Per tutte queste ragioni, l’evocazione del sindacato accentrato quale principio supremo, o non aggiungerebbe nulla di nuovo ove fosse riferita al monopolio sull’annullamento della legge, cui la Corte ha già più volte accennato dal 2017 in poi, o equivarrebbe a una svolta insuscettibile di trattative con altre corti ove venisse riferita alla stessa cognizione della conformità di una legge a Costituzione indipendentemente dalla provenienza dell’atto con cui si ritenga in collisione.
Non a caso, l’ultimo miglio non è stato percorso neanche nella sent. n. 181 del 2024, che pure appare ai commentatori la punta più avanzata nell’ambito della tendenza della Corte a recuperare terreno nella partita aperta con gli altri giudici sul trattamento delle leggi confliggenti col diritto UE direttamente applicabile.
Ad esprimere quella tendenza, non è dunque l’indicazione dei vantaggi della scelta di sollevare questione di legittimità costituzionale su quella di non applicare la normativa nazionale confliggente. Sul punto la sent. n. 181 del 2024 non aggiunge nulla alla consueta combinazione fra dichiarazioni sulla piena libertà di scelta del giudice comune e indicazioni dei vantaggi offerti dalla proposizione della questione di legittimità in termini di certezza del diritto. L’elemento davvero innovativo consiste invece nella estensione dalla sola Carta dei diritti a tutta la normativa del diritto dell’Unione del parametro alla cui stregua valutare la difformità della normativa nazionale.
4. Prospettive e incognite del “tono costituzionale
Già nella sent. n. 20 del 2019 si era colta una propensione della Corte costituzionale a porsi “come organo interno di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto UE anche in ambiti non connessi alla tutela dei diritti fondamentali. In questa chiave, il tentativo potrebbe essere quello di mettere l’efficacia erga omnes delle proprie pronunce al servizio di un’attività di conformazione del diritto interno a quegli obblighi sovranazionali che non vengono adeguatamente presi in carico dal legislatore, così da perseguire una corrispondenza più piena e integrata tra diritto interno e sovranazionale, di cui essa potrebbe porsi alla guida nella generalità dei casi”[1]. Ma una volta che la disapplicazione costituisca un rimedio parallelo all’attivazione del giudizio incidentale, si verificherebbero “sovrapposizioni difficilmente governabili nelle sfere d’azione delle due corti”[2].
La sentenza n. 181 del 2024 supera ogni remora a distinguere la Carta dal resto del diritto UE primario o derivato. Nello stesso tempo, la questione di legittimità può dirsi ammissibile purché provvista di “tono costituzionale”. Più precisamente, “Perché questa Corte scrutini nel merito le censure di violazione di una normativa di diritto dell’Unione direttamente applicabile, è necessario che la questione posta dal rimettente presenti un “tono costituzionale”, per il nesso con interessi o princìpi di rilievo costituzionale. Tale nesso si rivela in modo esemplare nel caso di specie.
La direttiva 2006/54/CE, nell’attuare il principio di parità di trattamento tra uomo e donna, già sancito dalla direttiva 76/207/CEE, e nel concretizzare gli artt. 21 e 23 della Carta di Nizza (Considerando n. 5), investe princìpi fondamentali nel disegno costituzionale e con tali princìpi interagisce nel sindacato che questa Corte è chiamata a svolgere al metro dell’art. 3 Cost., in una prospettiva di effettività e di integrazione delle garanzie.”
Mentre la Carta dei diritti veniva qualificata di per sé, nella sent. n. 269 del 2017, “di impronta tipicamente costituzionale”, qui, al cospetto di tutto il diritto dell’Unione, “il tono costituzionale”, o “il nesso con interessi o princìpi di rilievo costituzionale”, va provato di volta in volta, con la conseguenza che una riscontrata assenza di tale “tono” o “nesso” renderebbe inammissibile la questione. Secondo Roberto Mastroianni, l’affermazione sarebbe frutto di un’autolimitazione, ma solo apparentemente[3]. In effetti, essa viene ricollegata dalla Corte ai casi in cui la proposizione della questione di legittimità si rivelerebbe “particolarmente proficua”: ciò avverrebbe “qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra princìpi di carattere costituzionale.” Inoltre, soggiunge la Corte, ove “sussista un dubbio sull’attribuzione di efficacia diretta al diritto dell’Unione e la decisione di non applicare il diritto nazionale risulti opinabile e soggetta a contestazioni, la via della questione di legittimità costituzionale consente di fugare ogni incertezza. Questa Corte potrà dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale, se accerta l’esistenza del conflitto tra la normativa nazionale e le norme dell’Unione, indipendentemente dalla circostanza che queste siano dotate di efficacia diretta.”
La subordinazione dell’estensione del parametro del diritto UE al di là della Carta alla sussistenza di un “tono costituzionale” non pare in effetti volta a limitare il giudizio della Corte. Le ipotesi in cui la proposizione si riveli “particolarmente proficua”, e quindi nettamente preferibile a quella della non applicazione della normativa nazionale, pur risultando fra loro profondamente eterogenee, da incertezze di ordine interpretativo a quelle sulla suscettibilità di operare un bilanciamento fra princìpi costituzionali, nel complesso si verificano con grande frequenza nella giurisprudenza della Corte. E sarà comunque essa stessa a valutarne la ricorrenza, a partire da quando si richieda o meno un bilanciamento.
Per altro verso, i vantaggi della proposizione della questione di legittimità, quali che siano le ipotesi indicate, comunque a titolo esemplificativo, sono sempre riconducibili alla maggiore certezza giuridica derivante dall’annullamento della normativa nazionale confliggente col diritto UE, cui la Corte continua a richiamarsi dal 2017 in poi evitando però di ricondurlo per le ragioni dette al sindacato accentrato quale principio supremo. Solo in quel caso, del resto, la Corte avrebbe potuto richiedere al giudice comune l’obbligo, e non la sola facoltà, di sottoporre avanti a se stessa la questione di legittimità costituzionale nell’ipotesi in discorso. Ma deve averlo sconsigliato il rischio di aprire conflitti di portata imponderabile, tanto con la Corte di giustizia quanto coi giudici comuni.
La spinta alla “marginalizzazione del ‘percorso europeo’” rinvenuta nella sent.n. 181 è stata ritenuta inidonea a “fornire una base teorica solida ad un nuovo assetto dei rapporti tra ordinamenti”, e tale da configurare piuttosto “un nuovo tassello nel tentativo della Corte costituzionale di posizionarsi in un sistema complesso di rapporti tra Corti e Carte che ancora non la vede come punto di riferimento centrale per le questioni che coinvolgono il diritto dell’Unione europea”[4].
Sono non da oggi convinto che non spetti alle corti, nemmeno se corti costituzionali, fondare le proprie pronunce su basi teoriche, vecchie o nuove che siano. Per esse, le teorie potranno costituire uno sfondo, o un punto d’appoggio, rispetto alla conformazione e alla soluzione dei casi. Ho però anche notato come la giurisprudenza avviata nel 2017 abbia abbandonato la prospettiva dei rapporti fra ordinamenti[5], con la conseguente “scomparsa dell’art. 11” notata da Mastroianni. Semplicemente, ora la Corte non crede più che gli ordinamenti siano “autonomi e distinti, ancorché coordinati”, come riteneva nel 1984. Non vi crede, anzitutto perché ha constatato come proprio quella sua affermazione abbia agevolato un percorso di interazioni sempre più fitto fra giudici comuni e Corte di giustizia dal quale si sarebbe così autoesclusa. Nello stesso tempo non osa dichiarare il superamento di quell’assunto, che le imporrebbe di ridefinire l’assetto dei rapporti fra ordinamenti in un contesto anche giuridico troppo precario come quello odierno.
Rimangono le esigenze di posizionamento, il cui soddisfacimento sta avvenendo con due modalità solo apparentemente convergenti. Della prima si è detto. Culminata nella sentenza n. 181 del 2024, ripresa nella sent. n. 210 dello stesso anno nonché nelle sentt. nn. 1, 5 e 7 e nell’ord. n. 21 del 2025, si risolve nel riaccentrare il sindacato di costituzionalità il più possibile, ossia entro il limite di non considerarlo un principio supremo. Vedremo le avventure del “tono costituzionale”: certo è che la sua estrema latitudine, “suscettibile di espandersi e contrarsi a fisarmonica secondo occasionali convenienze”[6], non può conciliarsi con la ribadita intenzione di cooperare con le altre corti, nazionali ed europee, nel perseguimento di “tutele sempre più integrate”.
L’altra modalità si può cogliere dall’attitudine dialogante dei rinvii pregiudiziali, di cui la vicenda Taricco costituisce un caso esemplare nella misura in cui la Corte vi è risultata tanto ferma nella difesa delle proprie ragioni, quanto aperta al confronto con quelle altrui. Lo stesso può dirsi peraltro delle ordinanze relative alle altre questioni pregiudiziali, anche più recenti. Le ordinanze nn. 29 e 161 del 2024 hanno rispettivamente richiamato il consolidato “quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia” e lo “spirito di leale collaborazione” in cui l’istituto in esame opera. Infatti, come notato anche dalla sentenza n. 15 del 2024, “la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto UE sono garantiti dalla Corte di giustizia, cui i giudici nazionali possono rivolgersi attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, così cooperando direttamente con la funzione affidata dai Trattati alla Corte”. A sua volta l’ordinanza n. 21 del 2025, oltre a riguardare un regolamento che riserva “ampia autonomia” agli Stati membri in ordine alla propria attuazione, ha accompagnato la richiesta di interpretazione rivolta alla Corte di giustizia con argomentate e convinte prese di posizione circa la direzione che dovrebbe prendere, tenendo conto dell’ispirazione solidaristica delle misure redistributive varate dall’Unione per riequilibrare i costi dell’energia, e delle sue conseguenze sulla configurazione degli spazi di disciplina lasciati agli Stati membri.
5. Il ruolo delle corti costituzionali in sede di rinvio pregiudiziale nella prospettiva della Corte di giustizia
Ma ogni valutazione della dinamica delle relazioni fra corti in sede di rinvio pregiudiziale non potrebbe prescindere da come la Corte di giustizia prospetti a sua volta il ruolo che vi possono giocare le corti costituzionali. Ad essa si è già fatto riferimento quanto alla rivendicazione, anche e soprattutto nei confronti delle Corti costituzionali, del potere di interpretazione ultima del diritto dell’Unione. Ma possono registrarsi anche orientamenti che indicano in positivo il possibile ruolo delle corti costituzionali.
In D.B. contro Consob, la Corte di giustizia osserva che “Conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte, le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che egli definisce sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, sono assistite da una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione o l’esame della validità di quest’ultimo non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, o anche quando il problema sia di natura ipotetica, oppure la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le sono sottoposte nonché per comprendere le ragioni per le quali il giudice nazionale ritiene di aver bisogno delle risposte a tali questioni per dirimere la controversia dinanzi ad esso pendente (v., in tal senso, sentenze del 19 novembre 2009, Filipiak, C‑314/08, EU:C:2009:719, punti da 40 a 42, e del 12 dicembre 2019, Slovenské elektrárne, C‑376/18, EU:C:2019:1068, punto 24)”.
In O.D. la specificità dei rinvii pregiudiziali operati dalla Corte costituzionale rispetto a quelli dei giudici comuni diventa un motivo giustificativo della rilevanza della questione pregiudiziale. Il giudizio verteva su una direttiva non ancora attuata in sede nazionale, la quale non poteva perciò essere invocata per veder disapplicate disposizioni nazionali con essa confliggenti. Senonché, soggiunge la Corte di giustizia, “Occorre [......] rilevare che il giudice del rinvio non è il giudice chiamato a pronunciarsi direttamente sulle controversie principali, bensì il giudice costituzionale «a cui è stata rimessa una questione di puro diritto – indipendente dai fatti addotti dinanzi al giudice di merito – questione alla quale esso deve rispondere alla luce sia delle norme di diritto nazionale che delle norme del diritto dell’Unione al fine di fornire non solo al proprio giudice del rinvio, ma anche all’insieme dei giudici italiani, una pronuncia dotata di effetti erga omnes, vincolante tali giudici in ogni controversia pertinente di cui potranno essere investiti. In tale contesto, l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice del rinvio presenta un rapporto con l’oggetto della controversia di cui è investito che riguarda esclusivamente la legittimità costituzionale di disposizioni nazionali rispetto al diritto costituzionale nazionale letto alla luce del diritto dell’Unione» (CGUE, grande sezione, sentenza 2 settembre 2021, in causa C‑350/20, OD. e altri).”.
Nella sent.n. 181 del 2024 la nostra Corte costituzionale ha ripreso il passo rilevando come la Corte di giustizia vi abbia “valorizzato l’importanza primaria del ruolo di questa Corte”. Ma in quale direzione?
Il passo di O.D. viene citato dopo aver osservato che “La declaratoria di illegittimità costituzionale, proprio perché trascende il caso concreto da cui ha tratto origine, salvaguarda in modo efficace la certezza del diritto, valore di sicuro rilievo costituzionale (sentenza n. 146 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto), di cui i singoli giudici e questa Corte sono egualmente garanti. Questa Corte, inoltre, grazie alla molteplicità e alla duttilità delle tecniche decisorie che adopera, può porre rimedio nel modo più incisivo alle disarmonie enunciate dal rimettente, anche colmando le lacune che possano derivare dalla caducazione delle norme illegittime.”
Il paragone fra giudici comuni e Corte costituzionale viene compiuto da quest’ultima nella prospettiva del diritto interno anche quando il trattamento giurisdizionale della legge venga in rilievo con riguardo ai suoi rapporti col diritto UE direttamente applicabile. Giudici comuni e Corte costituzionale sono “egualmente garanti” della certezza del diritto, ma solo la Corte, oltre al monopolio dell’annullamento, può colmare le lacune che possano derivarne.
Nell’indirizzo più recente, è costante il richiamo alla “vasta gamma di tecniche decisorie” di cui la Corte si avvale, operato al fine di mostrare l’unicità del proprio contributo non solo rispetto ai giudici comuni, ma più in generale nello spazio costituzionale europeo[7]. Tuttavia, nella prospettiva della Corte di giustizia, tale unicità, per quanto vantaggiosa dal punto di vista dell’applicazione del diritto UE, non giustificherebbe l’attivazione del sindacato incidentale in luogo della non applicazione della normativa interna incompatibile col diritto UE. In O.D. troviamo spiegata questa posizione.
Il punto di partenza implicito ad essa sotteso è che i giudici comuni degli Stati membri siano i giudici incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, considerazione peraltro ricorrente nella giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 245 del 2019; ordd. nn. 48 del 2017 e 298 del 2011). Quando costoro rimettano al giudice costituzionale una questione che coinvolga tanto norme di diritto nazionale quanto norme di diritto UE, questi, nel rinviare in via pregiudiziale alla Corte di giustizia una questione di interpretazione del diritto UE, lo fa solo perché il diritto costituzionale va letto alla luce del diritto UE. Si tratta comunque di una questione di puro diritto, che per un verso consente alla Corte di giustizia di fornire un’interpretazione del diritto UE al di là dell’area del diritto direttamente applicabile su cui vi è una “presunzione di rilevanza”, e per l’altro conferma che la Corte costituzionale non è autorizzata a definire autonomamente tale interpretazione. Nella prospettiva del giudice costituzionale, il rinvio pregiudiziale serve a definire “una questione di puro diritto”, che non interseca l’applicazione del diritto UE di cui solo i giudici comuni sono incaricati.
Sarebbe facile replicare, dal punto di vista del diritto costituzionale nazionale, che il rapporto fra giudici comuni e Corte costituzionale non corre lungo la contrapposizione giudizio di merito/giudizio di legittimità, la quale non dà conto del nesso di rilevanza che generalmente deve connettere il giudizio incidentale a quello principale. Ma l’obiezione non sposterebbe i termini della questione così come prospettata dalla Corte di giustizia. Che riguarda bensì il ruolo delle giurisdizioni costituzionali in sede di rinvio pregiudiziale, ma si ripercuote pure direttamente sul loro rapporto coi giudici comuni in quanto incaricati in esclusiva dell’applicazione del diritto dell’Unione.
6. Possibili prospettive
Come dimostrano le questioni pregiudiziali fin qui prospettate, nemmeno il più recente indirizzo della Corte costituzionale mira a contestare il potere della Corte di giustizia nell’interpretazione del diritto dell’Unione. Casomai la richiesta che le questioni presentino un “tono costituzionale” dovrebbe o vorrebbe agire in via preliminare, con un ridimensionamento del peso del diritto dell’Unione in sede di interpretazione della normativa applicabile, e una corrispondente riconduzione dei giudici comuni all’ovile della stessa Corte costituzionale. La quale si candiderebbe a quel punto a interloquire in via privilegiata con la Corte di giustizia.
Per riuscire nell’intento, il nuovo indirizzo deve però pur sempre affidare la sua capacità persuasiva – avendo la Corte abbandonato saggiamente la via dell’obbligo – circa i vantaggi in termini di certezza del diritto del possibile annullamento della normativa nazionale confliggente col diritto UE direttamente applicabile. Argomento spendibile, a condizione di dimostrare che l’alternativa della non applicazione si sia prestata a oscillazioni, incertezze o abusi. E dovrebbe far riflettere che i giudici comuni continuano a seguirla in misura consistente ad otto anni di distanza dalla sentenza n. 269 del 2017.
Il richiamo al “tono costituzionale” accentua ulteriormente l’intensità dell’istanza rivolta a costoro, dispiegandosi come si è detto sull’intero diritto dell’Unione proprio per alimentare al massimo le occasioni che rendano possibile il loro ritorno all’ovile. Questo approccio quantitativo è il risvolto di una perdurante debolezza della Corte in una partita a tre nella quale le altre due parti sembrano continuare ad esercitare i rispettivi sperimentati ruoli senza particolari preoccupazioni.
È auspicabile che la Corte si avveda della necessità, se non anche dell’urgenza dal suo punto di vista, di passare da un approccio quantitativo ad uno qualitativo, nel quale il ruolo della giurisdizione costituzionale venga giuocato sul piano delle grandi opzioni di principio, le sole a consentire un autentico “tono costituzionale”. Non sto ipotizzando ovviamente il ritorno a una riserva di giurisdizione costituzionale sui soli princìpi supremi o controlimiti, che aveva alle spalle quella separazione fra ordinamenti, accompagnata da congegni di coordinamento, su cui era stata costruita Granital. Immagino piuttosto che, dalla realistica presa d’atto della proliferazione delle doppie questioni pregiudiziali, la Corte desuma l’esigenza di concentrarsi su casi analoghi a Taricco, in cui l’interlocuzione con la Corte di giustizia diventa cruciale, o su casi nei quali sia essa stessa a poter e dover evidenziare analogie e differenze fra diritto nazionale e diritto dell’Unione nella prospettiva dei princìpi costituzionali, come in effetti è avvenuto felicemente nell’ordinanza n. 21 del 2025.
In ogni caso, un’autentica autorevolezza si può mantenere, o recuperare, con la rinuncia a intervenire compulsivamente in ogni occasione possibile. I casi di inammissibilità, anche per assenza di “tono costituzionale”, potranno allora rivelarsi altrettanto importanti per comprendere quanto possa funzionare la nuova direzione di marcia.
Relazione al Convegno della Scuola Superiore della Magistratura “I rinvii pregiudiziali che hanno fatto l’Europa”, Napoli, 24-26 marzo 2025.
[1] G.Repetto, Esercizi di pluralismo costituzionale. Le trasformazioni della tutela dei diritti fondamentali in Europa tra ambito di applicazione della Carta e “doppia pregiudizialità”, in Diritto pubblico, 2022, 803.
[2] G.Repetto, Esercizi di pluralismo costituzionale, cit., 805.
[3] R.Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2024 in tema di rapporti tra ordinamenti, ovvero la scomparsa dell’art. 11 della Costituzione, in Quaderni AISDUE, n. 1/2025, 8.
[4] R.Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale, cit., risp. 3 e 24.
[5] C.Pinelli, Granital e i suoi derivati. A quaranta anni da Corte cost.n. 170 del 1984, in Rivista AIC, n. 4/2024.
[6] A.Ruggeri, Rapporti tra diritto interno e diritto eurounitario, dal punto di vista della teoria della Costituzione, e tecniche retorico-argomentative nella recente giurisprudenza costituzionale, in Diritti fondamentali, n. 1/2025, 16.
[7] Per un accenno C.Pinelli, Granital e i suoi derivati, cit.