Il 16 settembre 1935, all’interno della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo, vennero rinvenuti i corpi di “Cetti” Zerilli (una ventenne palermitana) e di un milite fascista, uccisi da più colpi di pistola, rinvenuta vicino ai cadaveri, insieme ad alcuni biglietti che attestavano una relazione sentimentale tra i due.
La notizia del fatto venne completamente oscurata dalla cronaca locale e le indagini, nonostante la solerzia di un giudice istruttore e di un funzionario di polizia, velocemente archiviate qualificando l’accaduto come caso di omicidio-suicidio.
Qualcosa non convinse un bravo cronista del Giornale di Sicilia: la versione ufficiale confliggeva con la dinamica dei fatti (l’omicida si era suicidato esplodendo più di un colpo di pistola ed aveva spento la luce della stanza prima del delitto).
Troppe incongruenze, tra cui l’inibizione ai familiari della vittima di partecipare all’autopsia, nonché la mancanza di elementi comprovanti una relazione della giovane con il (presunto) omicida.
Plurimi riscontri evidenziavano invece un legame di Cetti con un'altra e più autorevole figura emergente nei quadri locali del partito nazionale fascista.
Ma soprattutto: perché impedire la divulgazione di un fatto caratterizzato da tutti gli ingredienti per destare interesse? Possibile che il silenzio potesse essere esclusivamente ricondotto alla volontà del regime di attutire le vicende di cronaca nera, per accreditare la percezione di sicurezza di una nazione ostentata come tranquilla e ordinata e rassicurare l’opinione pubblica?
Troppe omissioni, troppi silenzi in una Palermo in camicia nera in cui si pretende una verità di regime, in cui “ogni notizia non data è già una sconfitta”, in cui si delinea uno sfondo fatto di un reticolo di collusioni e pavidità, perché se la verità trionfa da sola, la menzogna ha invece sempre bisogno di complici.
Salvo Palazzolo, inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”, autore tra l’altro di saggi scritti in collaborazione con pubblici ministeri palermitani (“Collusi” con Nino di Matteo e “La cattura. I misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia” con Maurizio De Lucia), si cimenta nel suo primo romanzo raccontando la storia della morte violenta di Cetti Zerilli in “L’amore in questa città” (ed. Rizzoli).
Raccogliendo un ideale testimone tramandato dal primo reporter dell’epoca ad uno successivo, e quindi trasmesso a lui, in una suggestiva staffetta di tre generazioni di cronisti che tratteggia una sorta di romanzo nel romanzo, Palazzolo diventa investigatore per raccogliere i brandelli, scoloriti dal tempo, di una storia vera ma taciuta, riempiendo con il suo libro la pagina bianca dell’omicidio della giovane Zerilli.
Con la meticolosa attenzione che caratterizza un buon giornalista di inchiesta, dà corpo ad una “storia” frugando in archivi, emeroteche, atti giudiziari e di polizia, raccogliendo ricordi privati, finendo per dar corpo ad una vicenda che assume tutte le caratteristiche di un cold case.
Emergono così le accorate lettere del padre di Cetti che invoca approfondimenti e giustizia, le testimonianze che delineano una possibile verità alternativa a quella imposta dal regime, il coinvolgimento di gerarchi intesi ad accreditarla, finendo addirittura per disporre l’arresto del “molesto” genitore, incautamente tenace nella sua ricerca di un colpevole.
Cetti Zerilli rivive nelle sue lettere appassionate, in cui la scoperta dell’amore si intreccia con la cronaca del quotidiano, con tutte le difficoltà derivanti, nel contesto storico e meridionale, dal declinare una vita al femminile.
Missive in cui le frasi più ingenue e fervide della giovane innamorata vengono sottolineate dall’organo inquirente per accreditarne una fantomatica “licenziosità” in una inveterata (e inaccettabile) inversione dei ruoli esclusiva dei reati di genere (ma solo se la vittima è una donna).
Ma “L’amore in questa città” non è solo la storia di un femminicidio di regime, quant’anche il racconto del rapporto della sinergia tra potere e censura (che si alimentano a vicenda), della faticosa strada verso la verità (troppo spesso in salita nella storia recente della nostra Italia).
L’omicidio di Cetti Zerilli, mediante l’attività di ricerca storica di Palazzolo, ci consegna un ennesimo caso insoluto, fatto di silenzi, omissioni, insabbiamenti.
Una vicenda certamente minore rispetto alle tante che hanno caratterizzato la Sicilia, ma di portata emblematica, perché in questa affannosa ricerca del cronista palermitano vengono in rilievo temi importanti: la risposta delle istituzioni (qui inerti se non depistanti…), la solitudine dell’investigatore, il pericolo cui proprio l’isolamento inevitabilmente lo espone.
Un rischio personale che deborda dalla storia descritta nelle pagine del libro, finendo per inverarsi in una realtà che vede Salvo Palazzolo attualmente oggetto di tutela con vigilanza rafforzata, per le minacce subite a causa delle sue attuali inchieste sulla mafia.
Palermo fa da sfondo alla storia raccontata nel libro, con le sue “vibrazioni” e i suoi “baratri”, “…buchi neri dove scompaiono parole, prove, testimoni, accuse, ma anche persone”.
L’amore non a caso viene contestualizzato nel titolo del libro: amore “in questa” città, evidenziando anche l’attaccamento per un contesto territoriale difficile, dove l’autore ha maturato una fervida esperienza iniziata nella F.U.C.I. di cui era assistente spirituale don Pino Puglisi.
L’esergo del volume riporta una frase di Lucia Borsellino “Il diritto alla verità non va in prescrizione”: non si può smettere di cercare la verità, che viene a galla solo quando si va a fondo.
La cronaca investigativa di Palazzolo, che avvince il lettore al punto da impedire una lettura rapsodica del testo, conduce ad un finale forse meno appagante rispetto alle aspettative di certezza (impossibile per il decorso del tempo), ma rispettoso della verità, prefigurando la concreta probabilità di una ricostruzione diversa (e cancellata) rispetto a quella imposta dalle circostanze storiche dell’epoca.
Con tutti gli inevitabili limiti offerti da una cronaca postuma, qui come altrove viene professata una religione laica di grande importanza “il culto della memoria”, un vero e proprio “vizio” secondo l’icastica denominazione di Gherardo Colombo.
Memoria di quello che è accaduto, del martirio di alcuni; un atto dovuto per il loro sacrificio e per i loro congiunti (cui residua una sedia vuota e l’ergastolo del dolore), ma anche per gli ideali che spesso sono stati causa del sacrificio della vita.
Cetti Zerilli non assurge certo a rango di eroina civile, ma tocca il cuore del lettore per i semplici valori che ne connotano la sua breve esistenza: il desiderio di indipendenza e di libertà di una ragazza che ci offre i suoi sentimenti con le sue lettere, innamorata dell’amore e che viene uccisa per il suo grande desiderio di vivere.
Le parole che Palazzolo attribuisce all’anziano cronista protagonista del romanzo scalfiscono l’oggi: “…l’amore è libertà, e dunque di per sé viene considerato un ostacolo in certi contesti politici. L’amore sconveniente di chi non si rassegna, anzi di chi guarda avanti. Ecco cosa non vuole il regime”.