ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Fabio Francario
*Sommario: 1.- L’incertezza dei precedenti interventi normativi. 2.- Brevi cenni alla disciplina dell’istituto nel nuovo codice. 3.- Le forme di ADR tradizionalmente ammesse in ambito pubblicistico: i ricorsi amministrativi e l’arbitrato. 4.- Il CCT come nuova e atipica forma di ADR concepita per assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera. 5.- Le chiare indicazioni del legislatore nel senso della creazione di nuova e atipica forma di ADR
1.- L’incertezza dei precedenti interventi normativi.
Quella del collegio consultivo tecnico è sicuramente una figura enigmatica.
Basti pensare, solo per fare due esempi, alla difficoltà di conciliare la tensione verso gli estremi del collegio arbitrale e, al tempo stesso, dell’organismo meramente consultivo o verso gli estremi, anch’essi antitetici, del requisito dell’indipendenza o del rapporto fiduciario richiesti ai suoi membri rispetto alle parti.
L’incertezza che caratterizza la figura trae origine in buona parte dall’attenzione discontinua e contraddittoria ad essa dedicata nell’ultimo decennio dal legislatore. L’istituto non rappresenta infatti una novità assoluta del nuovo codice. Ancor prima di essere riscoperto e rivitalizzato nell’ambito delle “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” e “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”, recate, rispettivamente, dal d.l. 16 luglio 2020 n. 76 e dal d.l. 31 maggio 2021 n. 77, l’istituto era stato già introdotto dall’art. 207 del previgente codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs 50 /2016 come istituto pre-contenzioso di carattere facoltativo “con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura…”. Nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 21 marzo 2016, n. 855, sullo schema di decreto legislativo che sarebbe poi divenuto il d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, il Consiglio di Stato aveva però sollevato più di un dubbio sulla figura, soprattutto in ragione della mancata definizione dei rapporti con gli altri rimedi pre-contenziosi già esistenti, e ne aveva proposto la soppressione. Le osservazioni del Consiglio di Stato non erano state recepite dal Governo, ma l’istituto veniva poi soppresso con l’adozione del c.d. “decreto correttivo” (l’art. 207 del d.lgs. n. 50/2016 viene infatti abrogato dall’art. 121, comma 1, del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56). L’istituto rinasce però due anni dopo ad opera del decreto c.d. “sblocca cantieri”. L’art. 1, commi da 11 a 14, della l. 14 giugno 2019, n. 55, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, ne prevede la costituzione facoltativa su accordo delle parti, con le medesime funzioni di cui al codice dei contratti pubblici, ma in via temporanea, ossia fino alla data di entrata in vigore del regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice dei contratti pubblici, di cui all’art. 216, comma 27-octies, del codice. Differentemente da quanto originariamente stabilito dall’art. 207, comma 6 del d lga 50/2016, il quale disponeva che “se le parti accettano la soluzione offerta dal collegio consultivo…l’accordo sottoscritto vale come transazione”, il decreto sblocca cantieri prevedeva che “L'eventuale accordo delle parti che accolga la proposta di soluzione indicata dal collegio consultivo non ha natura transattiva, salva diversa volontà delle parti stesse” (art. 1, comma 13, terzo periodo, del d.l. n. 32/2019).
L’istituto viene pressoché interamente ridisciplinato nei suoi presupposti e nella funzione nell’ambito delle misure di semplificazione e di governance contemplate dai già citati d.l. 76/2020 e 77/2021, pensate per garantire il rilancio dell’economia nello scenario post pandemico e per assicurare il raggiungimento degli obbiettivi predefiniti, a livello comunitario, dal Next Generation EU (NGEU) e, a livello nazionale, dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa e l’attenzione del legislatore si è pertanto concentrata anche sulla necessità di approntare uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa nell’ambito delle misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano. L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, tutti convergenti nell’unica finalità di garantire, in un’ottica di risultato, la celere ed efficace conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni: rimozione del fenomeno dell’amministrazione “difensiva” e della c.d. “paura della firma”, previsione di meccanismi procedimentali sostitutivi e de - giurisdizionalizzazione della soluzione dei conflitti. Nella prospettiva della de-giurisdizionalizzazione viene appunto recuperato e disciplinato, in maniera fortemente innovativa, l’istituto del CCT, lasciando chiaramente intendere che, nelle intenzioni del legislatore, la figura dovrebbe assumere un ruolo assolutamente strategico nell’ambito delle misure di accompagnamento strumentali alla garanzia di realizzazione del PNRR perché destinata ad evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale, ritardando o compromettendo il raggiungimento dei risultati programmati.
2.- Brevi cenni alla disciplina dell’istituto nel nuovo codice.
La ricostruzione, anche se solo sommaria, dell’evoluzione della disciplina normativa dell’istituto è utile per comprendere quanto insito nel fatto che il nuovo codice in ultima analisi non ha fatto altro che generalizzare e mettere a regime il sistema originariamente pensato solo per accompagnare la realizzazione degli obbiettivi PNRR. Sistema già disegnato dagli articoli 4 e 5 del d. l. 76/2020, modificato e integrato dal d.l. 77/2021 e completato dalle linee guida predisposte dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e approvate con d.m. Ministro delle infrastrutture e mobilità sostenibili del 17 gennaio 2022. L’istituto risulta infatti nevralgico per garantire la concreta attuazione del principio del risultato, declamato ed esaltato dal nuovo codice; ma con valore essenzialmente nomofilattico e destinato a rimanere mero flatus voci in assenza di strumenti concretamente operativi, tra i quali spicca il collegio consultivo tecnico, disciplinato negli articoli 215 e seguenti del Codice e oggetto di un apposito Allegato (V.2), specificamente dedicato a tale figura.
Che la figura rappresenti il più importante, se non l’unico vero strumento concretamente in grado di assicurare il risultato della realizzazione dell’intervento pubblico è presto dimostrato dall’essenza dell’istituto; ravvisabile nell’essere un organismo, composto da tecnici particolarmente autorevoli e specificamente qualificati, che diano garanzie di fiducia e al tempo stesso d’indipendenza rispetto alle parti, deputato ad accompagnarle nell’esecuzione del contratto, fin dal suo inizio e per tutta sua durata, con il compito di evitare l’insorgere o di spegnere sul nascere eventuali conflitti tra di esse, in modo tale che non venga compromesso il raggiungimento del risultato della realizzazione dell’intervento pubblico nei tempi previsti e a regola d’arte. Si tratta, com’è evidente, di svolgere un compito di mediazione e conciliazione permanente tra le parti, finchè dura l’esecuzione del contratto.
3.- Le forme di ADR tradizionalmente ammesse in ambito pubblicistico: i ricorsi amministrativi e l’arbitrato.
L’istituto risulta oggi codificato come un rimedio generale pensato per dirimere sul nascere, o comunque in corso di esecuzione del contratto, i possibili contenziosi tra committente e appaltatore che rischierebbero di pregiudicare l’esecuzione tempestiva e a regola d’arte del contratto di appalto, il che ne autorizza la naturale collocazione nell’alveo delle figure di ADR (Alternative Dispute Resolution) impiegate per le controversie in ambito pubblicistico.
La categoria delle ADR, com’è noto, è però molto elastica e la riconduzione in tale ambito può quindi significare tutto e niente, stante la irriducibilità delle ADR ad un modello unico. Al di là della radice comune dell’offerta di una “giustizia non giurisdizionale”, le varie forme di ADR non sono infatti riducibili a un’unica tipologia perché non sono un fenomeno unitario e sempre uguale a sé stesso. Se si guarda l’esperienza maturata nell’ambito della contrattualistica internazionale, ambito nel quale si origina la figura dei dispute boards per accompagnare l’esecuzione dei contratti di durata, si vede subito che sono presenti modelli molto diversi tra loro, che tendono a distinguersi a seconda che abbiano carattere aggiudicativo o assistenziale; a seconda cioè che siano diretti a risolvere una lite insorta tra le parti attraverso categorie assimilabili a quelle giudiziarie ovvero a comporre la controversia attraverso procedure di tipo conciliativo in ragione di criteri equitativi piuttosto che di giustizia. Talora con soggezione agli effetti della decisione, talora con libertà di aderire o meno alla proposta conciliativa. Ferme in ogni caso le garanzie di indipendenza, terzietà e professionalità dei membri, i dispute boards possono quindi formulare tanto pareri o raccomandazioni non vincolanti (Dispute Review Board – DRB), quanto possono assumere decisioni immediatamente vincolanti per le parti (Dispute Adjudicative Board – DAB).
La mancanza di un unitario modello di riferimento teorico alimenta sicuramente l’incertezza nell’inquadramento della figura, ma le maggiori difficoltà derivano soprattutto dai limiti che tradizionalmente condizionano l’ingresso nell’ordinamento pubblicistico di forme e strumenti di “giustizia non giurisdizionale” e che spiegano in buona parte anche l’ondivago e incerto orientamento mostrato nell’ultimo decennio dal legislatore nei confronti dell’istituto.
Per quanto non siano certamente ignoti al nostro sistema di diritto amministrativo, tali tipologie di rimedi sono infatti fortemente condizionate dal vincolo d’indisponibilità gravante sull’esercizio del pubblico potere finalizzato alla cura del pubblico interesse. Per tradizione, il ricordato vincolo d’indisponibilità porta a circoscrivere l’ambito delle ADR all’esperienza dei ricorsi amministrativi, rimedi a carattere decisorio in cui non viene però garantita la terzietà del giudicante rispetto alle parti, e a quella dell’arbitrato rituale, generalmente consentita nei soli casi in cui le questioni riguardino situazioni disponibili di diritto soggettivo.
I ricorsi amministrativi (in opposizione, gerarchico, gerarchico improprio e, volendo, ricorso straordinario al Capo dello Stato) vengono sempre decisi da organi amministrativi, ai quali l’interessato rivolge la sua domanda di giustizia. Non solo il decidente non è un vero giudice, terzo e imparziale, ma l’interessato non partecipa nemmeno alla formazione della decisione. Può solo “domandare” e la decisione viene presa, unilateralmente, dall’Amministrazione. Anche nel caso del CCT, la costituzione dell’organo non ha base negoziale, ma legale. La regola, per gli appalti sopra soglia, è che l’organo deve essere necessariamente costituito a iniziativa della stazione appaltante, che decide se il collegio debba essere costituito da tre o cinque membri. In caso di disaccordo sulla nomina del Presidente, la nomina è riservata alla parte pubblica ed è sempre la parte pubblica (stazione appaltante) a prendere unilateralmente la decisione quando l’istituzione è facoltativa (ante operam). E’ quindi un organo consultivo costituito per assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico primario alla esecuzione dell’opera pubblica, che rende pareri obbligatori nelle ipotesi di sospensione di cui all’art. 121 del Codice e facoltativi in tutti gli altri casi. Pareri che, a seconda dei casi (808 ter c.p.c.), possono essere vincolanti o meno per la definizione di una controversia tra stazione appaltante e operatore economico. In alcuni casi, cioè, decidono (significativamente in tali casi le disposizioni usano la locuzione “determinazione” e non “parere”); in altri suggeriscono la decisione. E’ dunque un organo consultivo necessario, che però non rende solo pareri, ma può anche assumere vere e proprie decisioni. Se ci si fermasse a questa sola considerazione, il cumulo di funzioni consultive e decisorie non rappresenterebbe una novità assoluta nel nostro Ordinamento, dal momento che il sistema dei ricorsi amministrativi e della giustizia amministrativa più complessivamente considerata già ammette e tollera l’ipotesi che un unico soggetto (a cominciare dal Consiglio di Stato) possa cumulare esercizio di funzione giurisdizionale e consultiva.
Quanto all’arbitrato, la netta affermazione contenuta nell’art 12 c.p.a., secondo la quale “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti cpc”, chiarisce sì che sono deducibili in arbitrato le sole controversie che riguardino situazioni (giuridiche soggettive) disponibili, ma non è tale da eliminare tutti i vincoli che l’operatività di questa forma di ADR incontra in ambito pubblicistico. Al di là dei vincoli modali derivanti dalle previsioni specificamente recate dall’art. 213 del Codice, bisogna comunque continuare a fare i conti con i limiti che in linea di principio derivano dal divieto di arbitrato obbligatorio (Cfr. Corte cost. 13 giugno 2018 n. 123 ) e dalla preclusione del ricorso all’arbitrato irrituale (ex multis v. Cass., Sez. III, 08 aprile 2020 n. 7759: “non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati per superare ogni possibile ostacolo all'utilizzabilità dell'arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione. Certamente non v'è alcuna incompatibilità di principio tra la natura pubblica del contraente e la possibilità di un componimento negoziale delle controversie nascenti dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione. Ma resta il fatto che tale componimento, se derivante da un arbitrato irrituale, verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali, appunto) individuati all'interno della medesima logica negoziale, in difetto qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità”). Il principio della libera disponibilità esclude dunque che, in assenza di una espressa volontà della parte, l’arbitrato possa essere reso obbligatorio per effetto di una norma di legge e il medesimo principio, per altro verso, non è però tale da giustificare anche che l’arbitrato si svolga nelle forme irrituali, perlomeno in assenza di una espressa previsione o disciplina di legge.
4.- Il CCT come nuova e atipica forma di ADR concepita per assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera.
La disciplina del CCT codificata dal d.lgs. 36/2023 introduce due significativi elementi di novità (o, forse, sarebbe meglio dire di vera e propria rottura) rispetto allo schema tipico dei ricorsi amministrativi o del giudizio arbitrale, pacificamente ammessi e noti in ambito pubblico come ADR.
Il primo si coglie con riferimento ai ricorsi amministrativi e consiste nella necessaria partecipazione, come componente dell’organo decidente, dell’operatore economico (rectius: di membri da questa nominati), e cioè della parte privata direttamente interessata. La decisione, parere o determinazione che sia, non viene presa più unilateralmente dalla sola amministrazione. Rispetto al sistema dei ricorsi amministrativi, s’introduce l’elemento della consensualità, in luogo della unilateralità, nella decisione sul ricorso (o nella resa del parere).
L’altro elemento di novità o di rottura si coglie invece con riferimento al giudizio arbitrale, dal momento che s’introduce la possibilità d’impiego della forma dell’arbitrato irrituale. La rottura rispetto all’impiego tradizionale del modello arbitrale non risiede certamente nel fatto che si introduce una forma di arbitrato obbligatorio, cosa che non avviene (è obbligatoria la costituzione del Collegio, non la decisione in forma arbitrale, che dipende pur sempre dalla concorde volontà delle parti); ma nel fatto che una norma di legge consente che dispute o controversie con una pubblica amministrazione possano essere decise anche a mezzo di un arbitrato irrituale. La previsione legislativa (cfr. All. V.2 del Codice e artt. 6 commi 2 e 3 del d.l. 76/20220) predetermina requisiti e modalità di scelta degli “arbitri” e delinea i tratti essenziali del procedimento, sottraendo entrambi i profili ad una assoluta libertà negoziale e superando con ciò le riserve più volte formulate dalla Corte di Cassazione e legittimando così l’ingresso della figura in ambito pubblicistico.
Si può dunque ritenere che si è di fronte ad una nuova e atipica forma di adr, risultante dalla contaminazione del rimedio giustiziale amministrativo con gli elementi tipici privatistici del consenso e della irritualità delle forme.
Correttamente inquadrato in questa prospettiva, si rivela subito come l’istituto non risulta pensato come misura semplicemente deflattiva del contenzioso, finalizzata ad evitare l’aggravio dei carichi di lavoro dei tribunali ordinari e a rinverdire la stagione dei giudizi arbitrali per accertare maggiori compensi o risarcimenti all’operatore economico. Al contrario, l’istituto è pensato proprio per rendere l’esecuzione del contratto impermeabile e insensibile alla lite, per evitare cioè che si originino situazioni contenziose che possano ritardare o pregiudicare la realizzazione dell’opera pubblica o che, una volta ultimata, possano aumentarne il costo finale secundum eventum litis. Risulta quindi espressamente concepito come strumento finalizzato ad assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera, facendo sì che le parti siano accompagnate e assistite, praticamente in tempo reale, nell’esecuzione del contratto da un organismo di mediazione e conciliazione permanentemente attivo, il quale non dà luogo ad un giudizio arbitrale (sia perché i tempi di decisione sono incompatibili con quelli di un giudizio arbitrale, sia perché non stabilisce post operamchi ha torto e chi ha ragione in ordine a pretese residue che possono far unicamente lievitare il costo di realizzazione senza che ciò possa aver più alcuna possibilità d’incidenza sui tempi e sulle modalità di realizzazione dell’opus), né tantomeno ad un arbitrato obbligatorio (perché obbligatoria, sopra soglia, è la costituzione del collegio, non anche il conferimento del potere di pronunciare lodi irrituali).
5.- Le chiare indicazioni del legislatore nel senso della creazione di nuova e atipica forma di ADR
Le indicazioni del legislatore nel senso della introduzione di una nuova e atipica forma di ADR in ambito pubblicistico sono chiare e nette.
Già nell’impianto delle disposizioni recate dai decreti semplificazione e governance PNRR del biennio 2020\2021 risulta evidente come la ratio normativa alla base dell’istituto sia quella di estendere in ambito pubblicistico una forma atipica di ADR, diversa dai ricorsi amministrativi e dall’arbitrato (oltre che della transazione e dell’accordo bonario), in modo da avere uno strumento in grado di garantire “la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto” e di “favorire, nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, per non pregiudicare il raggiungimento degli obbiettivi individuati nel PNRR e nel NGEU. Sin dal primo impianto proprio dei decreti 76/2020 e 77/2021 si rende subito evidente come preoccupazione principale del legislatore non sia quella di scegliere un dato modello, piuttosto che un altro, ma di consentire l’ingresso del rimedio in ambito pubblicistico, raccogliendo nella figura modelli diversi e lasciando alle parti la scelta di adottare di volta in volta nel concreto di ogni singolo appalto, un modello aggiudicativo o consultivo, con conseguenti differenziazioni dei regimi giuridici in punto di natura ed efficacia giuridica delle decisioni e del collegio stesso.
Il nuovo codice è stato subito indirizzato dalla legge delega nella direzione della “estensione e rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in sede di esecuzione del contratto” (art. 1, c.2, lett. LL, l. 21 giugno 2022 n. 78). L’art. 215 onera il Collegio dell’onere di assumere comunque la “scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, svincolando sotto questo profilo la decisione dalla domanda delle parti, e qualifica esplicitamente la nuova figura come espressione di “attività di mediazione e di conciliazione”. L’art. 217 prevede espressamente la possibilità che, ricorrendo la volontà delle parti, la pronuncia possa assumere valore di lodo irrituale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.. L’art 3, quinto comma, dell’Allegato V.2 ripropone quasi pedissequamente la norma sulle spese processuali prevista per la mediazione civile dall’art 13 d.lgs. 28/2010 (“Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della determinazione del Collegio consultivo, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che non ha osservato la determinazione, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative alo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”). I tempi di decisione non sono compatibili e nemmeno paragonabili a quelli di un giudizio arbitrale (cfr. art. 3, quarto comma, Allegato V.2)
Le indicazioni legislative sono dunque tutte chiaramente nel senso di vedere nel CCT un rimedio giustiziale operante in ambito pubblicistico, reso atipico dal fatto che la norma primaria di legge consente che dispute e controversie vengano risolte di comune accordo anche nelle forme dell’arbitrato irrituale, ponendo in essere un’attività espressamente qualificata come mediazione e conciliazione; con un pronunciamento che avviene quindi non necessariamente secondo diritto o con reciproche concessioni rispetto a domande formulate, ma seguendo una logica conciliativa che per sua natura (riprendendo l’espressione impiegata nella relazione illustrativa del d lgs. 4 marzo 2010 n. 28, recante “Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”) è volta alla “ridefinizione della relazione intersoggettiva in prospettiva futura”. La logica conciliativa impone di guardare al futuro e non al passato e di evitare che entrino in crisi la comunicazione e la collaborazione necessarie per garantire il raggiungimento del risultato finale atteso che, nel caso di specie del CCT, significa salvaguardare l’interesse alla realizzazione dell’opera pubblica a regola d’arte e nei tempi previsti: “l’attività di mediazione e conciliazione è comunque finalizzata alla scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte” (art. 215, secondo comma, secondo periodo, d.lgs. 36/2023).
Rimossi i limiti di forma e procedura altrimenti ostativi all’ingresso dello strumento in ambito pubblicistico, nella migliore tradizione delle ADR il legislatore mostra di essersi preoccupato essenzialmente di garantire l’efficacia e l’effettiva utilità della nuova figura.
Indicazioni bibliografiche
C. Volpe, Il Collegio consultivo tecnico. Un istituto ancora dagli incerti confini, in www.giustizia- amministrativa.it ; P. CARBONE, La disciplina del collegio consultivo tecnico dopo il decreto del Mims 17 gennaio 2022 n. 12, Santarcangelo di Romagna, 2022; G. TROPEA, A. GIANNELLI, L'emergenza pandemica e i contratti pubblici: una semplificazione in chiaro scuro tra misure temporanee e prospettive di riforma strutturale, in Munus 2/2020; F. FRANCARIO, Il collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo ?, in www.giustiziainsieme.it, 15 luglio 2022; M. NUNZIATA, Il dispute board nei contratti di appalto internazionali. Prospettive di prevenzione e di risoluzione delle controversie, Giappicchelli, Torino, 2021; V. CAPUTI JAMBRENGHI, Per una sentenza sempre meno ingiusta: uscita di sicurezza dal processo amministrativo e mediazione giustiziale, in F. FRANCARIO – M.A. SANDULLI(a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, 377-380; M. RAMAJOLI, Strumenti alternativi di risoluzione delle controversie pubblici- stiche, in Dir. amm., 2014; ID., Interesse generale e rimedi alternativi pubblicistici, in Dir Proc. Amm., 2015; M. CALABRÒ, L’evoluzione della funzione giustiziale nella prospettiva delle appropriate dispute resolution, in Federalismi.it, n. 10/2017, ID., La funzione giustiziale nella pubblica amministrazione, Giappichelli, Torino, 2012; P. OTRANTO, Dalla funzione amministrativa giustiziale alle ADR di diritto pubblico. L’esperienza dei dispute board e del collegio consultivo tecnico, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023
*L’articolo riproduce il testo della relazione presentata al convegno “Il nuovo codice dei contratti pubblici. D. Lgs. 36/2023”, Milano 6 ottobre 2023.
di Stefano Calabria
Sommario: 1. Il contesto normativo - 2. Il procedimento autorizzatorio - 2.1. Incarichi di docenza forniti dalle SSPL e da enti di rilievo costituzionale o da enti internazionali - 2.2. Incarichi assoggettati alla procedura semplificata - 2.3. Incarichi assoggettati alla procedura ordinaria
1. Il contesto normativo
La norma primaria di riferimento è l’art. 16 regio decreto n. 12/1941 (ordinamento giudiziario).
Vi è il divieto assoluto per lo svolgimento di alcune attività (svolgere attività libero professionali, commerciali, istaurare rapporti di impiego pubblico o privato) e il divieto “relativo” per lo svolgimento degli incarichi di qualsiasi specie, salva autorizzazione da parte del CSM.
Tale norma di cui all’art. 16 prevale su quella generale di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, relativa a tutti i dipendenti pubblici e che, a mio avviso, non è direttamente applicabile per il personale di magistratura perché non è stato emanato l’apposito regolamento di cui al comma 3 della predetta norma e perché, inoltre, il CSM non rientra tra le PP.AA. di cui all’art. 1.2 del medesimo d.lgs. n. 165/2001; tale norma, tuttavia, è spesso richiamata, in via formale e probabilmente tralatizia, nella premessa di numerose delibere consiliari in materia di incarichi extragiudiziari.
Per esercitare tale potere autorizzativo in maniera prevedibile e uguale per tutti i magistrati il CSM ha adottato una normativa secondaria: si tratta di un autolimite consiliare nell’esercizio della propria discrezionalità, in assenza di criteri di sorta posti dalla norma primaria.
Si tratta della circolare n. 22581/2015, tuttora in vigore.
Il fulcro valutativo da parte del CSM riguarda un duplice aspetto: 1) la compatibilità dell’incarico con le esigenze di servizio, per non pregiudicare la ragionevole durata dei processi; 2) la compatibilità dell’incarico con le funzioni concretamente espletate dal magistrato interessato, dovendosi evitare che il prestigio come pure i valori dell’indipendenza ed imparzialità siano oppure appaiano compromessi o anche soltanto esposti a rischio, per effetto di gratificazioni o compensi collegabili ad incarichi concessi o controllati da soggetti estranei all’amministrazione della giustizia (art. 7.1, ma anche art. 1.4 e art. 4.2 nonché l’intero art. 3).
Di qui l’elenco delle attività del tutto vietate di cui all’art. 3 della circolare, tra le quali segnaliamo il divieto di svolgere incarichi in materia di giustizia sportiva, il divieto di insegnare in scuole private per la preparazione a pubblici concorsi, anche per l’accesso alle professioni legali (è autorizzata invece la docenza alle Scuole forensi, che non sono scuole private), il divieto di svolgere il ruolo di componente o di presidente del Comitato di sorveglianza delle grandi imprese in crisi, il divieto di assunzione, anche nelle Onlus, di incarichi comportanti attività di gestione o di amministrazione patrimoniale e il divieto di svolgere incarichi non di docenza conferiti da enti pubblici o finanziati da enti pubblici, operanti nel territorio della Regione dove opera il magistrato.
Di qui, inoltre, le condizioni soggettive ostative all’autorizzazione di cui all’art. 10, non derogabili nelle ipotesi di cui al comma 3 e soggette a valutazione discrezionale nelle ipotesi di cui al comma 1.
Di qui il limite delle 80 ore per anno solare (art. 3.6).
L’art. 1 della circolare indica poi i casi di attività libera, come lo scrivere libri, articoli giuridici o non giuridici su quotidiani o riviste, l’attività di volontariato...
Il CSM emette un provvedimento conclusivo del procedimento, anche di natura silenziosa, che in caso di diniego può essere impugnato dall’interessato dinanzi al T.a.r..
All’interno del CSM è la I Commissione a istruire le pratiche in tema di incarichi extragiudiziari.
Per la domanda in materia di incarichi c’è un format da riempire su Cosmag che, tuttavia, non è alternativo alla produzione della documentazione, che va comunque inviata, anche tramite l’ufficio di appartenenza.
2. Il procedimento autorizzatorio
Ci sono tre tipologie di procedimento, qui indicate in ordine di complessità crescente.
2. 1. Incarichi di docenza forniti dalle SSPL e da enti di rilievo costituzionale o da enti internazionali
Favor normativo per tali docenze e sue finalità. Si segnala poi l’ultimo comma dell’art. 19 sulla partecipazione ai Consigli direttivi delle SSPL.
Contenuto delle dichiarazioni del magistrato (art. 19.2). Rilevante la novella del novembre del 2021 in tema di dichiarazione relativa ai ritardi giacché, per tutti gli incarichi, si è intesa rafforzare la necessità che il magistrato che si trovi, anche non per sua colpa, in significativi ritardi nel deposito dei provvedimenti possa svolgere incarichi extragiudiziari; il che colliderebbe anzitutto con le esigenze di servizio ma poi anche con il prestigio dell’ordine giudiziario.
Il parere del dirigente dell’ufficio è qui eventuale nel senso che viene espresso solo se ci sono criticità. Di solito c’è un n.o., ossia nulla osta.
Se il parere del dirigente non c’è o se il dirigente non formula rilievi, il magistrato può iniziare l’incarico prima del provvedimento autorizzativo, nei casi di urgenza e assumendosene ogni responsabilità, nel senso che se poi c’è il rigetto non ha diritto al pagamento.
Tra le autodichiarazioni c’è quella sul contenzioso trattato dal magistrato e in cui sia parte la SSPL (che quasi mai ha autonoma personalità giuridica) o l’Università. Può essere un aspetto ostativo, anche se il Consiglio valuta caso per caso.
Nozione di silenzio assenso (art. 18) e possibilità per il CSM di agire in autotutela, con le relative conseguenze pratiche. Va precisato che il termine per il silenzio assenso comincia a decorrere quando tutta la documentazione giunge al Consiglio; pertanto, ove occorra il parere del Consiglio giudiziario, il termine decorre quando esso sia emesso e sia comunicato al Consiglio.
2.2. Incarichi assoggettati alla procedura semplificata
a) Docenze brevi (non più di 25 ore) o pagate meno di 3.500 euro, conferite da enti pubblici, università non telematiche, case editrici e “altri enti privati aventi come oggetto sociale esclusivo o prevalente l’attività di formazione in campo giuridico, in ogni caso di effettivo rilievo nazionale” (modifica del 2021 e sua ratio; sulla base di tale modifica alcuni incarichi non sono stati autorizzati); b) incarichi di componente di commissione ministeriale; c) incarichi di componente di commissione d’esame per le quali la presenza dei magistrati non sia prevista come obbligatoria dalla legge (es. dottori commercialisti). Le ipotesi sub b) e sub c) sono state inserite nella procedura semplificata per effetto delle modifiche apportate nel novembre del 2021.
[Quando invece la presenza dei magistrati nelle commissioni d’esame sia prevista come obbligatoria dalla legge, si tratta di un’attività libera e il magistrato non deve essere autorizzato (es. commissione esami avvocato)].
Per la procedura semplificata è necessario il parere del dirigente dell’ufficio, che deve indicare espressamente se il magistrato sia incappato in ritardi. Non è richiesto il parere del Consiglio giudiziario.
Vale il silenzio assenso e c’è la possibilità di iniziare lo svolgimento dell’incarico prima del conseguimento dell’autorizzazione, sempre sotto la responsabilità del magistrato, tranne che per gli incarichi di cui alla lettera b) di cui sopra (spiegare la ratio).
2.3. Incarichi assoggettati alla procedura ordinaria
Rientrano negli incarichi assoggettati alla procedura ordinaria le docenze di durata e di corrispettivo superiore, rispettivamente, alle 25 ore e ai 3.500 euro e tutti gli incarichi non assoggettati alle due procedure semplificate di cui sopra. Dunque, in linea di principio, la procedura ordinaria è la regola e le procedure semplificate di cui sopra sono l’eccezione.
Per la procedura ordinaria occorre, in aggiunta alla documentazione occorrente per la procedura semplificata, allegare, tra le altre cose, il parere del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo presso la Corte di Cassazione nonché le statistiche comparate. Dunque il procedimento è più articolato e strutturato e richiede più tempo sicché conviene al magistrato presentare la richiesta in tempo utile, ossia 40 giorni prima dello svolgimento dell’incarico (art. 15.1). Per esperienza non accade quasi mai che il dirigente ometta di rendere il parere o tardi oltre modo; qualche volta (raramente comunque) accade che il Consiglio giudiziario ritardi nell’emettere il parere e, in quel caso, la I Commissione provvede al sollecito, anche per le vie brevi.
È bene precisare che di regola gli incarichi di docenza presso la Ssm non sono soggetti ad autorizzazione espressa, salvo che per i magistrati che versino nelle particolari condizioni soggettive (art. 20); l’art. 21 prevede una sorta di autorizzazione tacita che quasi mai ha dato corso a problemi e successive revoche.
Recensione a Gianfranco Viesti, Riuscirà il PNRR a rilanciare l’Italia?, Donzelli Editore, 2023, pag. 131 [1].
Sommario: 1. Il volume di Gianfranco Viesti: Riuscirà il PNRR a rilanciare l'Italia? - 2. Parte prima, i dati: il Regolamento UE del 12 febbraio 2021 n.241 - 3. La formazione del PNRR in Italia - 4. Il contenuto del PNRR italiano - 5. La disciplina di attuazione del PNRR italiano, ovvero il d.l. 31 maggio 2021 n.77 - 6. Parte seconda, le mie osservazioni personali - 7. Segue: e l'invito allo studio degli aspetti giuridici del PNRR.
1. Il volume di Gianfranco Viesti: Riuscirà il PNRR a rilanciare l'Italia?
Noto, e non credo di essere l’unico, che il Piano nazionale di ripresa e resilienza è tanto importante quanto poco studiato, soprattutto tra i giuristi.
Se si fanno eccezioni per alcuni contributi [2], direi che pochi studi ad oggi si sono dedicati a questa grande novità.
Tra questi, mi fa piacere segnalare la monografia di Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata all’Università di Bari, uscita per i tipi di Donzelli Editore.
Il libro è diviso in 14 piccoli capitoli, ognuno dedicato ad un aspetto del PNRR, oltre una premessa e una bibliografia finale.
Con la premessa Gianfranco Viesti asserisce che: “Questo libro prova a fornire una lettura e una valutazione d’insieme del Piano nazionale di ripresa e resilienza a distanza di due anni dalla sua formulazione”; la bibliografia che si trova in calce al libro, se si vuole, conferma poi che l’argomento, almeno al momento, non è di interesse per i giuristi, poiché tra i testi indicati non ve ne è uno che provenga da tale ambito scientifico.
Il libro ha il pregio, a mio parere, di essere completo nell’esposizione, e al tempo stesso semplice e breve, e quindi alla portata di tutti coloro che siano interessati all’argomento, a prescindere dalla loro formazione.
E poiché il PNRR costituisce: “una novità di grande importanza per l’Italia, perché si tratta di un investimento di dimensione molto ampia che influenza tutte le politiche pubbliche del nostro paese” (così la premessa, pag. VII), l’idea di un volume semplice, in grado di illustrare le varie problematiche anche a chi sia meno attrezzato, credo sia apprezzabile.
“Il libro”, infatti, si legge nella seconda di copertina: “può aiutare tutti i cittadini a capire meglio quel che è successo e può accadere”.
Gianfranco Viesti apre il volume con un capitolo sull’Europa, visto che tutto prende le mosse dal Regolamento dell’Unione del 12 febbraio 2021 n. 241; successivamente dedica un capitolo all’Italia e al Next Generation, per poi, nei capitoli ancora successivi, passare alla descrizione del Piano, ai rapporti tra territori e Regioni, ai principi attuativi, e al ruolo del sindaci e dei comuni.
Dal capitolo settimo, ogni capitolo è dedicato ad un aspetto settoriale del PNRR: le infrastrutture (cap. 7), le città (cap. 8), la scuola (cap. 9), le università (cap. 10), le imprese (cap. 11); e poi infine gli ultimi tre capitoli sono dedicati alle riflessioni di sintesi sull’avvio del Piano per il miglioramento delle condizioni dei cittadini: “L’Italia non si rilancerà se non attraverso un confronto politico aperto sulle strade; da un confronto democratico informato e partecipato. Potrà rilanciarsi grazie alle scelte che ne potranno derivare sul suo modello di sviluppo, sulle modalità di intervento pubblico, sulle politiche per ridurre le grandissime diseguaglianze generazionali, di genere e territoriali che rischiano di persistere indefinitamente. Un Piano senza queste scelte può rappresentare una tappa utile, ma non un cambiamento decisivo” (pag. 121).
Il volume, direi, si caratterizza così per una posizione equilibrata: non nega i vantaggi e i lati positivi del PNRR, ma al tempo stesso non ne lesina le critiche quando queste devono essere sollevate.
E il pensiero di Gianfranco Viesti può riassumersi con la seconda di copertina, ove si legge che: “Nel libro emergono le potenzialità e i limiti del PNRR, il suo assetto fortemente accentrato e i suoi meccanismi attuativi, con l’enorme potere che essi hanno concentrato nelle mani dei ministri del governo Draghi”.
Orbene, ciò premesso, dividerei questo mio scritto in due parti: una prima, più ampia, e con l’ausilio di Gianfranco Viesti, dedicata alla ricostruzione dei fatti; una seconda, più breve, avente ad oggetto le sole mie personali osservazioni.
E poiché ritengo sia necessario che i giuristi prestino ogni più ampia attenzione al PNRR, mi sia consentito riportate, sempre a titolo di introduzione, le parole di una costituzionalista quale Elisabetta Catelani, che così circoscrive il PNRR (pag. 210): “Interventi finanziari decisi a livello di UE e finanziati da risorse esterne, ma che hanno imposto, e impongono in maniera pressante, l’adozione di una serie di provvedimenti normativi regolatori e atti amministrativi esecutori che non sempre rispondono ai principi generali del nostro ordinamento costituzionale. A ciò si deve aggiungere, infine, che l’uso di questi fondi di finanziamento graveranno, se non ben impiegati e non adeguatamente capaci di produrre incrementi del PIL significativi, sui debiti che le generazioni future saranno obbligati a restituire all’Europa e ai mercati”.
A queste tematiche, dunque, le pagine che seguono.
2. Parte prima, i dati: il Regolamento UE del 12 febbraio 2021 n.241
A seguito della crisi economica dovuta al Covid 19, il Parlamento e la Commissione europea decidono di intervenire a sostegno degli Stati membri.
La reazione dell’Unione europea è rapidissima, potremmo dire immediata, se si considera che il dibattito per i sostegni economici agli Stati membri già si sviluppa a Bruxelles nell’estate del 2020, ovvero in piena pandemia, e nell’inverno del 2021, in contestualità con l’arrivo dei vaccini, si giunge all’approvazione del Regolamento del 12 febbraio 2021 n. 241, che al punto 6 del preambolo precisa infatti che: “L’insorgere della pandemia di Covid 19 all’inizio del 2020 ha cambiato le prospettive economiche, sociali e di bilancio nell’Unione e nel mondo, richiedendo una reazione urgente e coordinata sia a livello di Unione che a livello nazionale per far fronte alle enormi conseguenze economiche e sociali”.
Ciò è ben sottolineato da l’A., il quale scrive: “L’Unione ha reagito con prontezza a questa situazione” (pag. 3), e: “La pressione della pandemia e la forza dell’intesa franco-tedesca hanno portato in poche settimane la Commissione europea a disegnare i dettagli e il Consiglio ad approvarlo” (pag. 4).
Il Regolamento c.d. RRF (Recovery and Resilience Fund), mette a disposizione degli Stati membri ingenti somme di denaro, precisate nell’art. 6, da utilizzare all’interno di un piano detto di ripresa e resilienza.
Queste risorse, come precisa l’A.: “sono decisamente cospicue, circa 750 miliardi, esse scaturiscono da un indebitamento comune: è l’Unione che le raccoglie sui mercati dei capitali, con la fine degli anni venti e gli anni trenta, ponendo a garanzia il bilancio comune” (pag. 4).
Dunque, l’Unione mette a disposizione questi denari agli Stati membri a sua volta raccogliendoli sul mercato dei capitali, ovvero da privati che finanziano l’Unione affinché questa finanzi gli Stati membri.
Il meccanismo è confermato anche dal PNRR italiano, che a pag. 9 precisa: “Le componente più rilevante del programma sono reperite attraverso emissioni di titoli obbligazionari dell’UE, facendo leva sull’innalzamento del tetto della Risorse Proprie”.
Gli Stati membri, se interessati a ricevere questi denari, devono presentare domanda ai sensi dell’art. 12 del Regolamento e possono così ottenere un contributo finanziario nei limiti fissati dal precedente art. 11.
L’art. 18 statuisce che: “Lo Stato membro che desidera ricevere un contributo finanziario in conformità dell’art. 12 presenta alla Commissione un piano per la ripresa e la resilienza quale definito all’art. 17, paragrafo 1”, ovvero un piano che definisce: “Il programma di riforme e investimenti dello Stato membro interessato”.
In seguito (art. 19): “La Commissione valuta il piano per la ripresa e la resilienza” e determina “l’importo da assegnare allo Stato membro interessato”, e, nel farlo, “La Commissione valuta la pertinenza, l’efficacia, l’efficienza e la coerenza del piano”.
L’A. ci ricorda che: “le risorse sono distribuite fra gli Stati membri in base all’impatto che ciascuno di essi ha subito dalla pandemia……..e sono in parte contributi a fondo perduto, in parte prestiti che gli Stati membri dovranno in ogni caso restituire” (pag. 5).
Fondamentale è poi che i denari ricevuti non possono essere spesi dagli Stati membri in modo libero e/o discrezionale, ma devono essere utilizzati esclusivamente all’interno di precise aree di intervento.
Ad esempio, per la giustizia i fondi non possono essere spesi per l’aumento del numero di magistrati e cancellieri, ma devono essere spesi per l’ufficio del processo; nei trasporti, i fondi non possono essere spesi in strade e aeroporti, ma devono essere spesi per le ferrovie, e così di seguito.
L’art. 3 del Regolamento fissa gli ambiti di intervento in sei pilastri, e precisamente: “a) transizione verde; b) trasformazione digitale; c) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; d) coesione sociale e territoriale; e) salute; f) politiche per la prossima generazione”.
Ed infatti: “I piani sono rigidi. I piani rappresentano una risposta allo scock Covid e quindi vanno realizzati in un arco di tempo molto ristretto” (così l’A., pag. 7).
E addirittura, con riferimento ai primi due pilastri, il Regolamento fissa in modo tassativo quote di risorse a loro destinate con l’art. 16 del Regolamento: “La Commissione europea ha tuttavia imposto che una quota minima delle risorse debba essere destinata alla transizione verde (37%) e digitale (20%) e che nessuna misura debba danneggiare l’ambiente” (così, l’A., pag. 6).
A seguito di esecuzione del piano nazionale da parte del Consiglio UE, i pagamenti agli Stati membri avvengono per tranche, in misura dei traguardi di volta in volta raggiunti.
Dispone l’art. 20: “La Commissione stabilisce il contributo finanziario da erogare a rate successivamente al conseguimento soddisfacente, da parte dello Stato membro, dei pertinenti traguardi e obiettivi individuati in relazione all’attuazione del piano per la ripresa e la resilienza”.
Precisa l’A. che: “I pagamenti dall’Unione agli Stati membri sono condizionati al raggiungimento progressivo di una lunga serie di traguardi (legislativi, amministrativi) e obiettivi (spese e realizzazioni concrete) concordati con la Commissione europea” (pag. 7).
Ovviamente, poi, art. 22: “Gli Stati membri, in qualità di beneficiari o mutuatari di fondi, adottano tutte le opportune misure per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione” e verificano: “regolarmente che i finanziamenti erogati siano stati utilizzati correttamente in conformità di tutte le norme applicabili”.
E infine soprattutto l’art. 23: “Una volta che il Consiglio ha adottato una decisione di esecuzione, la Commissione conclude con lo Stato membro interessato un accordo, che costituisce un impegno giuridico specifico ai sensi del regolamento finanziario”.
Direi che in tale accordo sono disciplinate le modalità e i termini delle restituzioni all’Unione, da parte degli Stati membri, dei denari ricevuti in prestito, nonché degli interessi da pagare per simili percezioni.
Su questo, infatti, niente si trova da nessuna altra parte nel Regolamento
3. La formazione del PNRR in Italia
Al tempo dell’approvazione del Regolamento dell’Unione, in Italia vi era il Governo Conte II.
Il Governo vede subito con favore l’idea di accedere ai finanziamenti previsti da detto Regolamento, ed anzi lo fa ancor prima che il Regolamento venga approvato.
Scrive al riguardo l’A.: “Il governo Conte II ha appoggiato convintamente la proposta della Commissione e si è adoperato perché avesse successo” (pag. 11); e poi ancora: “Nel gennaio 2021 il governo Conte II ha inviato al Parlamento una prima bozza del piano, creando un’occasione preziosa per una discussione approfondita e per proposte di modifica e integrazione, sollecitata anche da autorevoli interventi. Ma il governo di lì a poco è stato sostituito dall’esecutivo guidato da Mario Draghi” (pag. 14).
Esattamente, il 15 settembre 2020 il Governo Conte II trasmette al Parlamento una prima proposta di Linee guida per la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Il Parlamento si mette al lavoro, e giunge all'approvazione di due distinte risoluzioni, una della Camera e l’altra del Senato, che si hanno in data 13 ottobre 2020.
Sulla base di tali risoluzioni, il Governo Conte II elabora una nuova Proposta di Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che viene ancora trasmessa al Parlamento il 15 gennaio 2021, e che doveva rappresentare un ulteriore passo verso la stesura definitiva del documento in vista della presentazione all'UE.
Di lì a poco, però, il governo Conte II cade e si va a formare il nuovo esecutivo guidato dal Presidente Mario Draghi.
Ciò avviene il 13 febbraio 2021, in esatta concomitanza con l’approvazione del Regolamento europeo.
L’A. solleva il dubbio che una delle ragioni del cambio di Governo sia stata proprio quella degli ingenti finanziamenti provenienti da Bruxelles, e scrive: “Il Pnrr è stato uno dei motivi che hanno causato il cambio di governo? Una domanda a cui è impossibile rispondere; il desiderio di controllare e di indirizzare questo ingente flusso di risorse potrebbe aver giocato un ruolo non marginale” (pag. 14).
Ad ogni modo, è certo che le aperture che il governo Conte II aveva manifestato per coinvolgere il Parlamento nelle decisioni riguardanti il PNRR si perdono in modo categorico con l’avvento del nuovo Governo.
Sempre l’A.: “Il governo Draghi si è caratterizzato per una chiusura ancora più assoluta al dialogo sui contenuti del piano. La sua redazione si è ancor più inabissata all’interno dei ministeri” (pag. 14). E poi ancora: “Il dibattito politico, il confronto pubblico, sono stati quasi inesistenti, anche a causa della grande maggioranza dei mezzi di comunicazione, tutti caratterizzati da un’assoluta fiducia nelle capacità, nella competenza e nell’azione di Mario Draghi e più in generale in quello che taluno definiva il Governo dei migliori” (pag. 15).
Nei fatti, il Presidente Draghi trasmette alle Assemblee di Camera e Senato il nuovo testo del PNRR in data 25 aprile 2021. Il dibattito parlamentare è praticamente nullo se si pensa che solo due giorni dopo, ovvero il 27 aprile 2021, il testo viene approvato con due risoluzioni, una della Camera, la n. 6/00189, e l’altra del Senato la n. 6/00188.
Successivamente, il 30 aprile 2021, il PNRR dell'Italia viene ufficialmente trasmesso dal Governo alla Commissione europea, e da questa approvato con talune modificazioni il 22 giugno 2021, e reso esecutivo dal Consiglio in data 13 luglio 2021.
Al riguardo, scrive l’A.: “Il piano è stato inviato alle Camere il 25 aprile 2021; il 27 aprile la risoluzione che lo approvava è stata votata a larghissima maggioranza. I parlamentari non hanno avuto quindi neanche il tempo materiale di leggere il corposo documento; tantomeno di discuterne. È stato poi inviato all’Unione europea il 30 aprile, approvato dalla Commissione il 22 giugno e dal Consiglio il 13 luglio ed è entrato in vigore” (pag. 18, 19).
Il PNRR, poi, non solo non ha coinvolto nella discussione il Parlamento e l’opinione pubblica, ma neanche gli enti locali, considerato che nessuna partecipazione delle Regioni è stata ritenuta necessaria.
Ancora l’A.: “Con il piano si è abbandonata la prassi di governo multilivello, cioè di decisioni prese di concerto tra governo e regioni. Le regioni hanno avuto scarsissima voce in capitolo nella sua redazione. Il governo ha rinunciato alle conoscenze e alle esperienze delle amministrazioni regionali nelle politiche attuate sul loro territorio” (pag. 15). “I progetti quindi cadono dall’alto. Il Pnrr non prevede interventi modulati territorialmente per rispondere alle diverse esigenze dei contesti locali e regionali” (pag 38).
Ed inoltre per l’A.: “Alcuni ministri tecnici (Giovannini, Bianchi, Messa, Colao, Lamorgese) insieme a due politici (Giorgetti e Speranza) hanno goduto fino alla caduta del governo Draghi di un potere straordinario, di gran lunga superiore a quello dei loro predecessori per l’intera seconda Repubblica” (pag. 32). “Un pugno di persone ha compiuto scelte che plasmeranno a lungo l’Italia” (pag. 33).
4. Il contenuto del PNRR italiano
Ma cosa prevede in concreto il PNRR italiano?
Chi abbia voglia di leggerlo, lo trova oggi in un portale denominato Italia Domani, curato dal Governo.
Il PNRR è un documento lunghissimo, composto di ben 273 pagine; esso è ripartito in più capitoli: un primo dedicato agli obiettivi generali, e poi un secondo relativo alle riforme e agli investimenti, ovvero alle missioni, che si sviluppano secondo le stesse indicazioni del Regolamento europeo. Tra le missioni spiccano quelle della digitalizzazione e della transizione verde ed ecologica, che appaiono, sotto tutti i profili, gli obiettivi primi e principali di tutto il PNRR. Infine vi è un terzo capitolo dedicato all’attuazione e al monitoraggio, e un ultimo avente ad oggetto la valutazione dell’impatto macroeconomico.
Il Piano gestisce un importo totale di 191,5 miliardi di euro, una somma enorme.
L’importo si divide in contributi e in prestiti: i contributi sono a fondo perduto, ovvero l’Italia non li deve restituire, e ammontano ad 68,9 miliardi di euro; i prestiti invece sono somme che vanno restituite con il pagamento aggiuntivo di interessi, e ammontano a 122,6 miliardi di euro.
Tuttavia questi aspetti non sono chiariti in modo sufficiente né nel Regolamento europeo, né negli atti interni italiani, e per l’A., di nuovo: “L’informazione e la trasparenza su questo insieme di provvedimenti e sui processi attuativi è stata fin dall’inizio assai modesta. Il governo ha varato un portale dedicato Italia Domani, ma esso contiene solo una piccola parte delle stesse disposizioni attuative e solo pochi dati d’insieme in formato aperto. Ha attivato il sistema Regis con i dati di spesa, ma questi risultano, anche per oggettive difficoltà di caricamento, incompleti e tardivi” (pag. 32).
Circa poi l’assegnazione delle somme a disposizione ai singoli Stati membri, l’A. sottolinea che: “Le regole di riparto europeo hanno destinato all’Italia la quota più ampia di contributi e prestiti attivabili. E ciò perché l’Italia è l’unico grande paese europeo che ha deciso di utilizzare integralmente sia i contributi (68.9 miliardi) sia i prestiti (122,6). Pochissimi altri paesi hanno deciso di utilizzare integralmente i prestiti. Questo ha prodotto un’evidente sproporzione: i 191 miliardi di risorse europee dell’Italia vanno comparati ai 69 della Spagna, ai 41 della Francia, ai 39 della Polonia, ai 30 della Grecia e ai 28 della Germania” (pag. 21).
È un dato da tenere in debito conto: l’Italia è l’unico paese che decide di utilizzare per intero i prestiti e decide di farlo senza alcuna discussione al riguardo, né parlamentare, né attraverso il dibattito pubblico con le forze politiche e la cittadinanza.
È un interrogativo non trascurabile, e al riguardo l’A. scrive: “La decisione italiana di utilizzare interamente i prestiti disponibili è stata di grande rilevanza, ma, sorprendentemente, non è stata oggetto di discussione” (pag. 22).
È bene poi precisare che le somme su indicate degli altri Stati europei non attengono ai prestiti, come per l’Italia, ma solo ai contributi; la Germania ha 25 miliardi di contributi, la Francia 39 miliardi di contributi (v. anche la tabella, in I. MACRI’, Il PNRR italiano per la digitalizzazione e l’innovazione della pubblica amministrazione, in Aziendaitalia, 2022, 40, 41).
Se non vado errato, dunque, Germania e Francia non hanno somme da restituire; l’Italia al contrario deve restituire l’importo non certo modesto di 122,6 miliardi di euro oltre interessi.
Da segnalare, ancora, che questi denari devono essere impiegati nelle sei missioni fissate dall’art. 3 del Regolamento europeo.
L’A.: “Il piano è organizzato in 6 missioni, tutte molto ampie e diversificate” (pag. 29). Ed ancora: “Tutto va attuato entro il 2026. A tal fine al piano sono collegati ben 527 impegni attuativi concordati con la Commissione europea” (pag. 27; da segnalare che una piccola parte di questi impegni sono stati oggi integrati dal governo di Giorgia Meloni).
5. La disciplina di attuazione del PNRR italiano, ovvero il d.l. 31 maggio 2021 n.77
Una menzione a sé merita, a mio avviso, il decreto legge 31 maggio 2021 n. 77, il primo atto legislativo esistente relativo al PNRR.
Si tratta di un decreto del Governo Draghi, emanato in piena campagna vaccinale, che disciplina l’attuazione del PNRR, e che il Parlamento ratifica con la legge 29 luglio 2021 n. 108.
Non è un decreto che approva il PNRR, poiché nel maggio del 2021 lo stesso era già stato da tempo inviato a Bruxelles; è solo un decreto di Governance, come si legge nell’intestazione dello stesso, ovvero un atto di regolamento della disciplina pratica.
Il PNRR, infatti, non gode di alcun atto avente forza di legge che lo approvi, visto che il Parlamento, nei soli due giorni che separavano il 25 dal 27 aprile 2021, si era limitato alla pronuncia di due risoluzioni ma non ad emanare una legge; tuttavia esiste una legge di conversione di un decreto legge che disciplina gli aspetti attuativi del PNRR, cioè disciplina l’attuazione di un piano che precedentemente non era stato espressamente approvato.
Il decreto accentra sul Governo e sul suo Presidente una miriade di poteri relativi alla gestione del PNRR (direi) mai precedentemente immaginati.
Scrive in proposito l’A.: “Le modalità di governo e di attuazione del piano, definite con il dl 77/2021, sono fortemente centralizzate. È stata creata una cabina di regia presso la Presidenza del Consiglio, che ha un ruolo centrale……Può attivare poteri sostitutivi in caso di ritardo nell’esecuzione dei progetti”. (pag. 30, 31).
Il decreto, infatti, all’art. 2, istituisce la c.d. Cabina di regia, alla quale partecipano, oltre al capo del governo, i Ministri e i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio competenti in ragione delle tematiche affrontate, e che hanno così, sostanzialmente, la Governance del PNRR.
Ma il decreto non si limita alla istituzione di questa Cabina di regia poiché istituisce una infinità di nuovi organi attuativi del PNRR, tutti riconducibili al Governo.
Tra questi il Tavolo permanente per il parternariato economico, sociale e territoriale (art. 3), la Segreteria tecnica per il supporto alla Cabina di regia (art. 4), la Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione (art. 5), il Servizio centrale per il PNRR (art. 6), un Ufficio dirigenziale di livello non generale avente funzioni di audit del PNRR (art. 7), una Apposita unità di missione di livello dirigenziale generale (art. 8), l’ideazione dei Soggetti attuatori del PNRR (art. 9), l’istituzione della Commissione tecnica PNRR – PNIEC (art. 17), la Soprintendenza speciale per il PNRR presso il Ministero della cultura (art. 29), l’Agenda Italia digitale e il Difensore civico digitale (art. 41), ecc…..
Una particolare attenzione va poi data agli artt. 12 e 13 relativi ai Poteri sostitutivi (art. 12) e al Superamento del dissenso (art. 13).
Come può comprendersi sul PNRR non è ammessa discussione e, evidentemente, le regole ordinarie della gerarchia della PA non sono sembrate sufficienti.
Così si è statuito che nell’ipotesi vi sia un: “mancato rispetto……..il Presidente del Consiglio dei ministri………assegna al soggetto attuatore interessato un termine per provvedere non superiore a trenta giorni. In caso di perdurante inerzia il Consiglio dei ministri nomina uno o più commissari ad acta ai quali attribuisce, in via sostitutiva, il potere di adottare gli atti o provvedimenti necessari” (art. 12, 1° comma).
Il commissario ad acta “provvede all’adozione dei relativi atti mediante ordinanza motivata….in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale…….Tali ordinanze sono immediatamente efficaci e sono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale” (art. 12, 5° comma).
Il decreto non precisa se tali provvedimenti siano esclusi o meno dai normali controlli giurisdizionali; tuttavia l’articolo successivo disciplina il Superamento del dissenso, e certo una opposizione in sede giudiziale potrebbe essere considerato un atto di dissenso.
L’art. 13 recita che: “In caso di dissenso, diniego, opposizione o altro atto equivalente…..la Segreteria tecnica di cui all’art. 4…….propone al Presidente del Consiglio dei Ministri di sottoporre la questione all’esame del Consiglio dei Ministri per le conseguenti determinazioni……Ove il dissenso provenga da un organo della Regione……in mancanza di soluzioni condivise il Presidente del Consiglio dei ministri propone al Consiglio dei ministri le opportune iniziative ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui agli articoli 117 quinto comma e 120 secondo comma della Costituzione”.
Possiamo solo aggiungere che questo decreto legge, il principale, e poi gli altri che si sono succeduti (d.l. 152/2021 e d.l. 36/2022) e gli altri ancora che ne hanno preparato il terreno (d.l. 59/2021 e d.l. 80/2021) sono stati “tutti convertiti in legge attraverso l’apposizione della questione di fiducia escludendo completamente ogni dibattito con il Parlamento” (così ancora E. Catelani, op. cit, 212).
E di nuovo con l’A.: “Questo processo si è svolto nell’ultimo anno del governo Draghi, fra l’estate del 2021 e quella del 2022; come già detto, i singoli ministri hanno goduto di un enorme potere nel condurlo” (pag. 45).
Ed ancora: “La parte delle riforme del PNRR è dunque divenuta lo specchio di quella che è stata definita l’Agenda Draghi” (pag. 16). “Vi è stato dunque un periodo nel quale è esistita la famosa stanza dei bottoni evocata da Pietro Nenni nel 1962; un luogo nel quale vi era un effettivo, grande potere di compiere scelte e allocare risorse” (pag. 45).
6. Parte seconda, le mie osservazioni personali
E qui vengo, come anticipato, alle mie personali osservazioni.
6.1. La prima cade proprio sul raffronto tra il Regolamento UE del 12 febbraio 2021 n. 241 e il nostro d.l. 31 maggio 2021 n. 77.
Il Regolamento UE, come abbiamo visto, non imponeva niente agli Stati membri, ma anzi lasciava loro la libertà di accettare o meno le proposte, di individuare la misura di un eventuale prestito, e infine la libertà di determinare le modalità concrete con le quali procedere all’attuazione delle direttive.
L’Italia ha scelto di accedere al prestito massimo, e lo ha fatto con modalità che hanno concentrato sul Governo ogni potere, escludendo così da ogni determinazione non solo il popolo ma anche il Parlamento.
Il Regolamento UE non chiedeva niente di ciò, e certo, tra le molte cose, non chiedeva sicuramente che il governo di uno Stato membro accentrasse tutto su di sé, oppure creasse una serie infinita di nuovi organismi alle sue dipendenze (pensate, siamo arrivati addirittura al Difensore civico digitale), né che escludesse gli enti locali, o ancora impedisse ogni forma di discussione e/o sanzionasse ogni dissenso.
In breve, tutto ciò che si trova nel d.l. 31 maggio 2021 n. 77 va oltre, e non ha niente a che vedere, con il Regolamento UE circa il PNRR; è stata la lettura che di esso ha dato il governo Draghi, poiché tutto, al contrario, poteva essere gestito in modo più democratico e aperto.
I dubbi di costituzionalità sono pertanto numerosi, e possono qui essere ricordati:
- Poteva il PNRR essere inviato a Bruxelles senza una legge che lo approvasse?
- È legittimo privare il Parlamento di ogni potere su un affare di quasi 200 miliardi che impegnerà gli italiani per anni?
- È legittimo creare con decreto legge un’infinità di nuovi organi pubblici che si assumono compiti che altrimenti sarebbero di altri e che addirittura possono intervenire in deroga ad ogni disposizione di legge? (così l’art. 12, 5° comma, d.l. 77/21). Può un organo pubblico agire in deroga alla legge?
- È legittima, in proposito, la creazione di un nuovo apparato chiamato Cabina di regia, che nella sostanza prende il posto del Consiglio dei ministri, ma alla quale non partecipano tutti i ministri?
- E, conseguentemente, è legittimo che si attribuiscano all’interno dello stesso governo poteri al suo presidente che sembrano esorbitare le funzioni che la Costituzione gli riconosce con l’art. 95?
- È legittimo che gli enti locali siano stati del tutto esclusi da determinazioni che li riguardavano anche in base allo stesso art. 117 Cost.?
- È legittimo che il governo assuma impegni che poi obbligano per gli anni a venire l’intero apparato dello Stato (come espressamente assunto, peraltro, nella direttiva del 21 luglio 2022), limitando così la sua sovranità?
- È legittimo che il governo disponga Poteri sostitutivi (art. 12) e il c.d. Superamento del dissenso (art. 13), immaginando che nessuno, a nessun livello, possa discutere e/o mettere in dubbio le scelte e le spese relative al PNRR?
6.2. Accanto agli aspetti più prettamente giuridici, vi sono poi quelli economico/finanziari.
Qui a me sembra restino in ombra due questioni che viceversa meriterebbero maggiore luce: sono l’individuazione degli investitori che forniscono il denaro alla UE affinché questa possa erogarlo agli Stati membri, e sono le modalità con le quali gli Stati membri restituiranno il denaro alla UE.
Mi sembrerebbe scontato che nessuna idea precisa è possibile avere sul PNRR senza conoscere al meglio questi dati; al contrario essi non appaiono né nei testi normativi, né nel portale Italia domani.
Io, personalmente, non sono riuscito a trovare sui punti altre informazioni oltre alle seguenti:
a) gli investitori sono (sembrano essere) dei privati, lo stesso PNRR italiano a pag. 9 precisa che: “Le componente più rilevante del programma sono reperite attraverso emissioni di titoli obbligazionari dell’UE”.
Esistono poi due link per alcune, minime informazioni: uno, del Parlamento europeo, in lingua inglese, si chiama Financing the Recovery and Resilience Facility: EU Bond and Bill issuance; l’altro, della Commissione europea, in lingua italiana, è titolato NextGenerationUE, reperiti 20 miliardi di euro nella prima operazione per sostenere la ripresa dell’Europa.
Riporto quanto si legge in quest’ultimo: “Oggi la Commissione europea, nella sua prima operazione nell'ambito di NextGenerationEU, ha raccolto 20 miliardi di euro tramite un'obbligazione a 10 anni con scadenza il 4 luglio 2031 per finanziare la ripresa dell'Europa dalla crisi del corona virus e dalle sue conseguenze. Si tratta della maggiore emissione di obbligazioni istituzionali mai effettuata in Europa, della più grande operazione istituzionale in un'unica tranche mai realizzata e dell'importo più elevato reperito dall'UE in una singola operazione. L'obbligazione ha suscitato un forte interesse da parte degli investitori in Europa e nel mondo, il che ha permesso alla Commissione di ottenere condizioni di prezzo assai favorevoli, analogamente a quanto avvenuto con le successive emissioni, dagli ottimi risultati, nell'ambito del programma SURE”.
Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, ha dichiarato: “Oggi è davvero una giornata storica per l'Unione europea. Abbiamo condotto con successo la prima operazione di finanziamento per NextGenerationEU. Come Unione forte, stiamo reperendo fondi sui mercati insieme e investendo in una ripresa comune da questa crisi. Si tratta di un investimento nel nostro mercato unico e, ancora più importante, di un investimento nel futuro delle prossime generazioni dell'Europa, che devono affrontare le sfide della digitalizzazione e dei cambiamenti climatici”.
Tra gli investitori che finanziano l’operazione si rilevano: banche centrali (23%), gestori di fondi (37%), assicurazioni (12%), tesorerie delle banche (25%), ecc…..
Ovviamente resterebbe da comprendere qual è l’interesse di questi privati a dare dei denari all’UE affinché questa li dia agli Stati membri, e quali sono le conseguenze per gli Stati membri nel rendersi debitori di questi organismi per dette importanti somme.
b) Quanto all’obbligo di restituzione dei denari da parte dello Stato italiano, ciò dipende, come si rileva dal Regolamento UE, da un contratto stipulato tra la parte creditrice UE e lo Stato membro debitore; ma questo contratto non è pubblico.
In un altro link si rileva che l’ex Ministro Raffaele Fitto inviava una richiesta alla commissione UE per comprendere se fosse possibile rendere pubblico l’accordo di prestito Italia-commissione UE.
V’è, al riguardo, la risposta dell’allora Presidente Paolo Gentiloni, secondo la quale il documento può essere pubblicato previa autorizzazione della Commissione a seguito di istanza formale di accesso agli atti secondo le regole sulla trasparenza.
Al momento, salvo che non vada errato, non mi sembra tuttavia che il documento sia stato reso pubblico e/o sia consultabile.
6.3. Messe poi insieme le questioni giuridiche con quelle economico/finanziarie, forse non sarebbe stato male spiegare all’opinione pubblica, in modo semplice e chiaro, i nodi dell’operazione, e ciò all’evidente fine di raccogliere da essa un orientamento circa le decisioni da prendere.
Al contrario, nessun mezzo di informazione ha ritenuto di doverlo fare, evidentemente tutti convinti che le decisioni non spettassero al popolo ma solo al governo; e il governo, da parte sua, si è guardato bene di rendere chichessia compartecipe del PNRR.
Si trattava, in sostanza, di porre al popolo italiano due semplici domande:
- Volete un prestito dall’Unione finalizzato a spese per la digitalizzazione e la transizione verde ed ecologica?
- Volete che la misura di questo prestito ammonti ad 191 miliardi di euro, di cui 122 miliardi da restituire, considerato che la Germania non ha chiesto alcun prestito ma solo ottenuto a titolo di contributo 25 miliardi, e egualmente non ha voluto alcuno prestito la Francia ma solo ha ottenuto a titolo di contributo 39 miliardi, e che quindi questi Stati, diversamente da noi, non avranno niente da restituire?
Coinvolgere il popolo doveva considerarsi condizione naturale, costituzionalmente dovuta, considerato che i denari, in ultima battuta, sono proprio dei cittadini, che li dovranno restituire attraverso le imposizioni fiscali.
E invece di tutto questo non è stato investito nemmeno il Parlamento, che del popolo è il rappresentante.
7. Segue: e l'invito allo studio degli aspetti giuridici del PNRR
Penso, infine, si possa esprimere sul PNRR, seppur assai brevemente in questo contesto, anche un giudizio nel merito; e penso che con riferimento al merito i parametri da tenere in considerazione siano due: giustizia sociale e libertà.
V’è infatti da chiedersi se il PNRR renda giustizia sociale e/o protegga e/o migliori la libertà dei cittadini.
7.1. Circa il primo aspetto, è chiaro che se con il PNRR si riesce a migliorare il sistema ferroviario, modernizzare le infrastrutture idriche e dei rifiuti, migliorare la fruibilità di musei e biblioteche, investire nell’edilizia scolastica e giudiziaria, rimuovere barriere architettoniche ancora esistenti e/o compiere altri interventi pubblici di questa natura, le attività che si vanno a fare non possono che essere condivise, e sarebbe disonesto voler negare i benefici che tali interventi portano all’intera popolazione.
Se però la valutazione si sposta sui metodi adottati e le scelte politiche effettuate, lì allora il giudizio può assumere connotati diversi.
Sotto quest’ultimo profilo mi limito a riportare, di nuovo, quanto ha scritto Gianfranco Viesti: “Il Pnrr non sembra affrontare a sufficienza alcuni grandi nodi economico-sociali dell’Italia: le diseguaglianze, specie di genere e generazionali, la povertà, la grande deriva demografica; non sembra offrire ai diciottenni, e soprattutto ai diciottenni del 2026, uno scenario particolarmente diverso da quello dei lavori precari, spesso sottopagati e con modesta copertura previdenziale che prevalgono oggi. Così come non affronta i grandi nodi della collocazione dell’economia italiana, della sua industria e dei suoi servizi” (pag. 17, 18).
Ed ancora: “La scelta del metodo dei bandi competitivi tra amministrazioni pubbliche per allocare molte risorse del PNRR è assai discutibile” (pag. 49); “Mettendo a gara un così rilevante ammontare di risorse il governo ha rinunciato a indirizzarle con finalità di equilibrio, o riequilibrio territoriale. Il governo Draghi non ha indirizzato secondo propri criteri politici gli investimenti nelle varie aree del paese……..vi è il rischio di acuire, piuttosto che di ridurre, le disparità territoriali esistenti in Italia” (pag. 50). “Ma vi è di più. Il Piano avrebbe dovuto mirare a far realizzare nuovi nidi ai comuni che ne sono privi, nuovi impianti per il trattamento dei rifiuti ai gestori del servizio che non ne dispongono o che hanno impianti obsoleti. Ma proprio i soggetti che non ne dispongono, con tutta probabilità, non ne hanno mai progettato uno, mentre per chi già li utilizza realizzare un nuovo progetto per candidarsi al finanziamento potrebbe essere stato decisamente più semplice” (pag. 51).”Con il rischio, lo si è già detto, di determinare così una maggiore allocazione di risorse verso le amministrazioni meglio attrezzate” (pag. 59).
7.2. Sul tema delle libertà, a me personalmente preoccupano le missioni relative alla digitalizzazione e alla transizione verde ed ecologica.
Sicuramente una certa digitalizzazione è necessaria, ed egualmente la tutela dell’ambiente è un valore che nessuno può negare, e tutti noi abbiamo infatti il dovere morale e giuridico di mantenere il pianeta nella migliore condizione possibile.
Tuttavia, è evidente, che questi obiettivi, di per sè giusti e nobili, possono però essere strumentalizzati, e una certa misura venir utilizzati in modo deviato per il raggiungimento di fini che, al contrario, non sono né giusti né nobili.
Si tratta allora di vigilare su questi meccanismi, e si tratta altresì di immaginare degli equilibri che debbono necessariamente darsi tra le libertà fondamentali garantite dalla nostra Costituzione e i limiti che a dette libertà debbano darsi a vantaggio di nuovi interessi generali che via via stanno emergendo.
Da qui la necessità che tutte queste tematiche siano attentamente studiate dai giuristi e non solo lasciate alla discrezionalità della politica, se non oggi addirittura alla discrezionalità dei grandi gruppi che stanno finanziando il PNRR.
Per mia parte, con contributi pubblicati in questa stessa rivista, ho già invitato ad una riflessione sulla digitalizzazione della scuola (Il piano scuola 4.0., una rivoluzione che i giuristi non possono ignorare), sulla digitalizzazione della giustizia (Note in tema di intelligenza artificiale e di digitalizzazione delle attività umane) e sulla costituzionalizzazione della tutela dell’ambiente (I nuovi artt. 9 e 41 Cost.).
Questo scritto intende inserirsi in quel contesto.
Non pretendo di dare risposte ai molti problemi che ci stanno di fronte; è tuttavia indispensabile che le questioni siano attentamente studiate, poiché il futuro di tutti noi dipenderà infatti dagli equilibri che riusciremo a trovare.
[1] Mentre lo scritto era in corso di pubblicazione, ho appreso che la Corte costituzionale tedesca, con decisione del 15 novembre 2023, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la manovra finanziaria del suo governo per 60 miliardi di euro finalizzata alle spese della transizione verde e della digitalizzazione.
Si tratta di una nuova importante decisione per ogni riflessione sui temi oggetto del presente scritto.
Non tutti, evidentemente, ritengono corretto indebitare gli Stati oltre certi limiti e/o oltre certe regole.
[2] V., fra questi, E. CATELANI, PNRR e ordinamento costituzionale: un’introduzione, in Rivista ACI, 3/2022, pag. 201 e ss., nonché gli altri interventi che si sono svolti nel seminario romano del 22 maggio 2022 su iniziativa dell’Associazione italiana dei costituzionalisti.
V. anche CLARICH, Il piano nazionale di ripresa e resilienza tra diritto europeo e nazionale: un tentativo di inquadramento giuridico, Corr. Giur., 2021, 1025; I. MACRI’, Il PNRR italiano per la digitalizzazione e l’innovazione della pubblica amministrazione, in Aziendaitalia, 2022, 38; G. IELO, Nuove disposizioni per l’attuazione, in Aziendaitalia, 2023, 847.
Valutare la personalità all’interno delle prove di selezione dei magistrati è appropriato? E, sul piano pratico, è possibile? I test psicologici possono – secondo quanto richiesto in certi interventi di politici - verificare la stabilità emotiva, l’empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche essenziali della professione del magistrato?
Cercherò di rispondere sul piano tecnico, in base alle mie competenze professionali.
I tentativi di quantificazione delle caratteristiche della mente umana risalgono a tempi lontani: nella pragmatica società statunitense del primo novecento i test psicologici venivano usati per valutare i soldati da inviare in guerra e selezionare i migliori, scegliendo quelli da ammettere ai corsi per ufficiali ed evitando di sprecare risorse per addestrare reclute poco intelligenti. Le aziende e le scuole di tutto il mondo si appropriarono di questi strumenti per misurare attitudini e capacità sia cognitive che di adattamento, spesso con usi impropri e piegati ai fini della committenza. I test servirono ad indirizzare «l’uomo giusto al posto giusto» nelle fabbriche, e relegare in «classi differenziali» gli scolari riconosciuti come ipodotati.
Non mancarono reazioni decise: alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti veniva segnalata la pericolosità dei tanti improvvisati ‘scrutatori di cervelli’ (Brainwatchers era il titolo di un volume pubblicato proprio in quel periodo). Cominciò in quel periodo una seria riflessione sul senso di una misurazione che va oltre gli aspetti psicofisici o neurofisiologici – facilmente studiabili in laboratorio – tentando di indagare funzioni complesse della mente umana come l’intelligenza e i tratti di personalità normale e patologica.
I test sono strumenti rigorosamente standardizzati mediante metodi psicometrici, attendibili cioè ripetibili in tempi e luoghi diversi, e validi in quanto rappresentativi di una certa funzione o area della psiche che si vuole indagare; capaci di codificare le risposte del soggetto indipendentemente dalla soggettività dell'esaminatore, e di confrontarle con le ‘norme’ riferite ad un campione rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame. I test che rispondono a queste caratteristiche, adeguatamente costruiti e correttamente applicati, sono strumenti con indubbio fondamento scientifico, e vengono usati proficuamente in ambito scolastico, clinico, lavorativo, giudiziario. Ma il loro uso è spesso subordinato ad alcuni presupposti ideologici più che scientifici.
Il primo presupposto è che la psiche sia una realtà misurabile e quantificabile come altri aspetti del mondo fisico, mediante procedure ritenute analoghe al modello delle scienze biologiche. La mente come unità funzionale sarebbe analizzabile alla pari delle sue componenti neurofisiologiche, sicché il test costituirebbe per le funzioni psicologiche un equivalente di ciò che sono l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica per specifiche modalità di funzionamento organico.
Il secondo presupposto è che la psiche nelle sue diverse componenti sia valutabile in base a criteri ‘oggettivi’: ottica che in termini tecnici viene definita nomotetica, cioè basata su regole generali e valide per tutti gli individui. Le diverse misurazioni dovrebbero poi essere ricomposte – in un’ottica idiografica legata alla specifica persona - per ricavare il ‘profilo’ complessivo che la descrive.
Purtroppo quando si valuta la realtà psichica le cose non sono così semplici. La validità della valutazione dipende, oltre che dalla correttezza delle operazioni metodologiche con le quali lo strumento è stato verificato empiricamente, dalla corrispondenza con il costrutto teorico cui si fa riferimento. Mentre sul primo aspetto la psicometria ha fatto notevoli passi avanti, per cui esistono strumenti validi sul piano ‘tecnico’, rilevanti problemi persistono riguardo al riferimento ai costrutti teorici.
In particolare, la ricerca sulla personalità ha oscillato a lungo fra lo studio dei “tratti” come disposizioni stabili che caratterizzano certi individui piuttosto che altri, e l’analisi delle modificazioni prodotte nelle caratteristiche delle persone dalle interazioni che esse hanno con le situazioni e il contesto. Di conseguenza, le modalità di valutazione risentono dei criteri usati per definire la personalità: ad esempio, i questionari, tra cui il tanto citato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (ma altri più moderni ne esistono), tentano di “obiettivare” alcuni aspetti della personalità degli individui, inquadrando le persone in categorie diagnostico-predittive presunte “oggettive”. Ma fino a che punto può essere considerata oggettiva la raccolta di dati che - per quanto provengano da risposte a domande standardizzate, valutate in modo altrettanto rigoroso, e si possa controllare in qualche modo la tendenza alla falsificazione - esprimono pur sempre la valutazione che un soggetto dà riguardo ad aspetti della propria vita psichica? Ai fini della comprensione del funzionamento psichico complessivo della persona esaminata, l’inquadramento diagnostico su basi auto-valutate è condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con criteri diversi di analisi scientifica, miranti a “comprendere” globalmente il funzionamento della persona.
Non va dimenticato inoltre che il test è uno strumento mai asettico (come una radiografia o una risonanza magnetica) ma sempre inserito all’interno del rapporto tra l’operatore e il soggetto, rapporto collocato a sua volta in un preciso contesto sociale di riferimento. Solo per fare un esempio, un aspirante magistrato con profilo di personalità esente da tratti psicopatologici potrebbe poi risultare poco assertivo e molto influenzabile nelle decisioni giudiziarie: aspetti che il test non può valutare e prevedere in astratto.
In conclusione, sul piano tecnico il test offre utili indizi su aspetti cognitivi e di personalità di un futuro professionista, che sarà poi attuato nello specifico contesto in cui il lavoro viene svolto, per cui la capacità predittiva del comportamento è di tipo probabilistico. Per migliorare questa probabilità occorrono valutazioni concorrenti, come la presentazione di situazioni concrete (seppur ipotetiche) di problemi da risolvere connessi alla futura mansione lavorativa: queste potrebbero essere introdotte nella selezione dei magistrati, e non solo… sempre se possono essere ritenute compatibili con le norme generali sulle procedure concorsuali.
A questo proposito, lascio per ultima una domanda cui le mie conoscenze non mi consentono di rispondere: se è legittimo nella selezione del personale valutare - oltre le attitudini e le competenze specifiche in funzione della mansione - anche la personalità, ed escludere chi presenta certi tratti caratteriali che vengono ritenuti (da chi? e in che misura?) inadatti per una certa professione, accettando solo chi risponde ad un ipotetico profilo ottimale per quella professione (ancora una volta, definito da chi?). E se tutto ciò è legittimo, perché applicare questa valutazione solo al magistrato, e non anche alle altre categorie che prendono decisioni importanti per la vita delle persone: al medico, all’avvocato, all’economista, al dirigente d’azienda, al politico…?
* ripubblicazione dell'articolo uscito su questa rivista il 25 luglio 2019
Il nostro sistema costituzionale disegna la Magistratura come potere diffuso e l'ordinamento colloca i giudici di merito come prima Istituzione per la tutela dei diritti. Una primazia che nasce dalla posizione nell'iter processuale ma che si è legittimata per i suoi contenuti fecondi che hanno trovato avallo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Per coglierne la genesi basta volgere lo sguardo a un passato non troppo risalente e in particolare agli anni '70 che furono quelli della promozione dei diritti e delle garanzie.
I giudici di merito in un contesto normativo scandito da diverse riforme come lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, l'obiezione di coscienza, la riforma sanitaria, avviarono un indirizzo giurisprudenziale attuativo della Costituzione, nella innovativa consapevolezza "della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” come espresso nella mozione finale del congresso nazionale dell'ANM di Gardone nel settembre del 1965.
Nel corso degli anni sono state numerose e in diversi settori le ipotesi di applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici di merito.
Dall'art. 2 nell'ambito dei diritti della persona al principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 comma 2, dall'art. 15 per la tutela della privacy agli artt. 17 e 18 in tema di libertà di riunione e di associazione, dall'art. 32 per la tutela del diritto alla salute all'art. 36 in materia di rapporto di lavoro si sono succeduti plurimi interventi della giurisprudenza di merito che hanno disegnato un percorso definitivamente consacrato dalla Suprema Corte, che, da ultimo, proprio in tema di retribuzione, con una recentissima decisione ha affermato che "in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.", sottolineando che "in virtù dell’integrazione del nostro ordinamento a livello europeo ed internazionale, l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale è divenuta un’operazione che il giudice deve effettuare considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale".
La concezione dello Stato moderno come titolare esclusivo delle fonti del diritto non è più attuale.
La funzione legislativa non è più monopolio dello Stato nazionale.
Accanto allo stesso esistono altre istituzioni alle quali è attribuita una funzione regolatrice, come le Regioni, le Autorità amministrative indipendenti, ma soprattutto le fonti sovranazionali.
La primazia dell'ordinamento comunitario trova fondamento, come costantemente affermato dalla Corte costituzionale, negli artt. 11 e 117 della Costituzione, per cui, nelle ipotesi di disposizioni immediatamente applicabili, l'effetto diretto del vincolo del diritto comunitario si traduce nella disapplicazione della norma interna contrastante.
L'effetto vincolante è esteso alle decisioni della Corte di giustizia in quanto integrano nel significato le possibilità applicative della norma comunitaria.
Ne viene fuori un quadro composito e articolato di fonti con le quali è chiamato a confrontarsi in prima istanza il giudice di merito che in questo contesto dinamico, anche con la possibilità della disapplicazione della norma statale, esercita una sorta di controllo diffuso di "comunitarietà" della legge nazionale.
Non va trascurato, poi, che il giudice italiano ha l'obbligo di conformarsi al diritto dell'Unione, un obbligo che discende espressamente dall'art. 2 della l. 117/1988 secondo cui, ai fini della responsabilità civile dei magistrati, rileva la violazione manifesta del diritto unionale e nella relativa valutazione deve tenersi conto dell'inosservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale o del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia.
L'indebolimento della funzione legislativa tipica dello Stato post-moderno e la frammentazione della titolarità a dettare le regole si riflettono sul rapporto tra legislazione e giurisdizione e sul ruolo del giudice, sul quale aleggia il timore che possa espandersi verso un'attività "creativa" del diritto.
Le istanze sociali trovano sempre più spesso come primo interlocutore la Magistratura, in particolare quella di merito, avamposto istituzionale per la verifica della tutelabilità di ogni nuova pretesa alla quale il legislatore per scelta o per incapacità non abbia voluto o saputo dare risposta.
Tutto ciò si traduce in nuove responsabilità per il giudice che non può farsi legislatore, ma che, a differenza di quest'ultimo, che può decidere di dare ingresso o meno alle istanze sociali assumendosene la responsabilità politica, non può rispondere con un non liquet.
La funzione giurisdizionale va esercitata in ogni caso e non può essere mai rifiutata, anche se ciò ovviamente non vuol dire che ogni domanda debba essere accolta.
Però una pretesa, anche se respinta, è comunque entrata nel circuito sociale, ponendo il tema all’attenzione della collettività.
Nell'era della globalizzazione sulla giurisdizione si riversa una grande quantità di istanze sociali con una sostanziale delega diffusa alla risoluzione dei conflitti.
È sempre più attuale il dibattito sul delicato e controverso equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario.
Tramontata l'idea del diritto chiaro e preciso e del giudice "bocca della legge", la mediazione del conflitto si sposta sempre più frequentemente dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione.
È evidente lo scadimento della qualità della legislazione che, per la verità, è anche dovuto al dinamismo frenetico della società attuale la cui fluidità rende difficile la sua regolamentazione con norme predeterminate, con evidenti ricadute sul margine di opinabilità interpretativa che finisce per generare incertezza e disomogeneità applicativa.
Arginare il timore di sconfinamenti interpretativi con norme più dettagliate possibili può trasformarsi in un rimedio peggiore del male in quanto una pur minuziosa regolamentazione quasi mai riesce a esaurire l'imprevedibile concreto atteggiarsi delle fattispecie e, in un singolare processo di eterogenesi dei fini, rende inevitabile per il giudice di ricercare altrove la soluzione, mentre l'adozione di norme di principio suscettibili di adattarsi elasticamente al divenire della realtà restituisce alla interpretazione la sua funzione più genuina di individuazione della regola da applicare al caso concreto.
Così i confini tra la funzione del giudice e quella del legislatore finiscono con l'apparire meno netti di quanto in passato si fosse tradizionalmente inclini a riconoscere.
L'interpretazione delle norme giuridiche da applicare compete a qualunque giudice di ogni ordine e grado.
In fondo, ogni decisione, sia del giudice di legittimità sia del giudice di merito, attua in qualche misura al tempo stesso lo jus litigatoris e lo jus costitutionis: definisce la vicenda del caso concreto ed enuncia la regola di diritto che la dirime, e questa regola costituisce "precedente" giudiziario, idoneo a definire qualsiasi altra controversia nella quale è in discussione la medesima quaestio juris.
In senso formale la nomofilachia è compito attribuito alla Corte di Cassazione che, però, nell'espletamento di questa funzione si avvale delle sollecitazioni provenienti dai giudici di merito.
Questi apportano il loro contributo attraverso l'elaborazione argomentativa in direzione di una diffusa ed efficace tutela avanzata dei diritti per spingerla sempre più in avanti e renderla maggiormente intensa, anche prospettando letture e soluzioni innovative che si trasformano in diritto vivente e che non possono non essere considerate dal Giudice di legittimità.
In questa opera non è affatto secondario l'apporto che può derivare dal dialogo mediato che i giudici nazionali intrattengono con la Corte di Giustizia, alla quale sono soprattutto i giudici di merito che si rivolgono.
Non va trascurato, poi, che il numero delle controversie che pervengono al giudice di legittimità è notevolmente inferiore a quello che investe i giudici di merito, le cui decisioni non impugnate, quindi, assumono carattere di definitività formale e di conseguente stabilità entrando nel circuito della nomofilachia diffusa anche senza il crisma della Suprema Corte.
Sotto altro profilo va osservato che l'esame di alcuni casi che involgono temi eticamente sensibili sollecitati dal divenire della comunità ha sollevato diversi problemi che hanno posto l'interrogativo se la giurisdizione di merito abbia ecceduto i limiti delle sue attribuzioni usurpando le prerogative parlamentari.
Non credo che questo possa porre in discussione il principio della divisione dei poteri, anche se non va sottovalutato il rischio di un soggettivismo giudiziario che vada al di là della doverosa attività interpretativa e si indirizzi verso una vera e propria "creazione" del diritto non già nella sua accezione fisiologica di opzione all'interno del perimetro tracciato dal legislatore ma nell'adozione di soluzioni sganciate dal dato normativo verso un vero e proprio "diritto libero" che potrebbe finire per obliterare proprio il principio costituzionale della soggezione del giudice alla legge.
Il sistema delle impugnazioni, compreso lo strumento disciplinato dall'art. 363 c.p.c., sembra costituire una remora sufficiente al timore dell'arbitrio e dell'adozione di provvedimenti abnormi dissimulati dall'impiego surrettizio dell'interpretazione adeguatrice.
Così la libertà dell'agire del giudice di merito e il suo essere protagonista nella difesa dei diritti non sconfinano nell'arbitrio ma si coniugano con la consapevolezza di essere parte di un sistema presidiato dalla garanzia costituzionale dell'autonomia e dell'indipendenza.
Questa stessa consapevolezza gli impone, però, di condividere le regole del sistema del quale fa parte e di assicurarne la coerenza, vivendo e interpretando l'autonomia e l'indipendenza come valori funzionali all'eguaglianza dei cittadini e non già come privilegio individuale: presidio che deve essere difeso senza se e senza ma da tutti in quanto pilastro della democrazia e della libertà.
L'attenzione alla controversia o al processo non deve esaurirsi nella ricerca ragionata della soluzione del caso concreto ma deve proiettarsi nel lungimirante sguardo oltre i propri confini, nella doverosa e responsabile attenzione alle ulteriori fasi processuali e, in particolare, a quella di legittimità, non già per la vanagloria che può derivare ex post dalla conferma di un provvedimento né per il timore della riforma delle decisioni vissuta come una mortificazione professionale ma che, se assecondato, determinerebbe una pericolosa china verso il conformismo.
Piero Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scrive che "per i magistrati ... il vero pericolo non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante ... La pigrizia porta a adagiarsi nell’abitudine che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi della umana sensibilità:… subentra con gli anni la comoda indifferenza del burocrate ... la peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo”.
Il magistrato conformista e burocrate così efficacemente ricordato nell'opera di Calamandrei non ci appartiene ed è ben lontano dal modello costituzionale al quale costantemente ci ispiriamo.
Sine spe sine metu, quindi, per potere adempiere alla funzione di giudice non solo come mediatore del conflitto sociale, ma soprattutto, come afferma Roberto Romboli, in qualità di difensore dei diritti, per farlo con quella indipendenza che costituisce la precondizione della fiducia da parte dei cittadini, che confidano in una interpretazione del diritto libera da condizionamenti ma prevedibile e tendenzialmente stabile.
L'uniformità dell'interpretazione della legge compete alla Corte di Cassazione ma ogni giudice di merito non è una monade senza finestre di un universo.
Di questo universo fa parte e, pertanto, per assicurare efficacia ed effettività alla tutela dei diritti deve contribuire alla realizzazione di un sistema che in nome di una malintesa idea di indipendenza non sia schizofrenico e disorientante.
In un contesto nel quale il formante giurisprudenziale ha un rilievo decisivo la prevedibilità delle decisioni assume un valore enorme.
Anche la Corte EDU ritiene la prevedibilità delle decisioni e la stabilità della giurisprudenza nell'interesse della certezza del diritto e dell'ordinato sviluppo della sua giurisprudenza, anche se ciò non le impedisce di discostarsi da precedenti decisioni ove sussistano "cogenti ragioni" che lo giustificano per garantire che l'interpretazione della Convenzione rifletta i cambiamenti sociali e resti in linea con le condizioni attuali.
Eppure, la prevedibilità è stata ritenuta espressione di mero conformismo e come ostacolo all'adeguamento della giurisprudenza ai cambiamenti della società, non considerando le esigenze di certezza che assicura e il costo su diversi versanti che deriva dal cambiamento non ponderato di indirizzi giurisprudenziali.
Non c'è dubbio che una giurisprudenza statica e insensibile alle sollecitazioni che vengono dall'evoluzione della comunità non avrebbe consentito gli approdi della tutela aquiliana del credito, del danno biologico e della tutela della persona, per citarne alcuni, per cui è necessario trovare un non facile punto di equilibrio e, per dirla con Pietro Curzio, "l’ordinamento deve lasciare spazio all’evoluzione della giurisprudenza", ma "le ragioni per il cambiamento devono essere forti, consapevoli e convincenti. Devono essere in grado di prevalere sulle ragioni della stabilità, che sono a loro volta importanti e hanno implicazioni di ordine costituzionale".
Da un lato, quindi, non si possono ignorare le “ragioni della stabilità” imposte da esigenze di garanzia e dalla necessità di assicurare l’uguaglianza dei cittadini, nonché dall'obiettivo di porre ciascuno nella condizione di indirizzare la propria condotta valutandone preventivamente le eventuali conseguenze.
Dall'altro, però, si deve tenere conto anche delle "ragioni del cambiamento", in quanto l'inarrestabile evoluzione della giurisprudenza è linfa vitale della democrazia e, come rilevato da Paolo Grossi, bisogna evitare che la prevedibilità del diritto sia strumentale a "garantire la impietosa disuguaglianza fra ricchi e poveri".
La geografia delle nuove diseguaglianze, alimentata anche dalla pandemia, investe diversi ambiti, dal mondo del lavoro, profondamente cambiato anche nelle dinamiche sindacali, investito da una precarizzazione strutturale vestita dei panni di un preteso dinamismo del mercato, alla categoria dei risparmiatori, impreparati e disorientati dal mercato finanziario in un contesto in cui la asimmetria informativa assume proporzioni straordinarie.
L'art. 3 Cost. si rivolge a tutte le Istituzioni compresa la Magistratura e la Costituzione, come ricorda Calamandrei, non è immobile, è rinnovatrice e mira alla trasformazione della società.
Contemperare le ragioni del cambiamento con quelle della stabilità è un obiettivo non agevole e nella sua declinazione concreta deve confrontarsi con la realtà, evitando di creare o alimentare il rischio di un dualismo tra giudici di merito e giudici di legittimità che vada al di là di quello funzionale, di una divaricazione tra diritto libero e verticalismo.
La distinzione solo per funzioni tra i giudici fissata dai Padri costituenti e l'orizzontalità ordinamentale che ne deriva fanno sì che il rapporto fra giudice di merito e giudice di legittimità sia quello della leale cooperazione, anche al di là del circuito delle impugnazioni, e che Antonio Ruggeri ritiene indispensabile per perseguire il miglior risultato possibile per le parti che sono davanti al giudice.
Peraltro, non può non tenersi conto della circostanza che la produzione giurisprudenziale della Suprema Corte ha raggiunto numeri incredibili e parallelamente la sua diffusione è divenuta sempre più rapida e aggiornata praticamente in tempo reale.
E questo è certamente una grande conquista in funzione dello scambio di informazioni ed è una preziosa risorsa che arricchisce la conoscenza, consentendo ai giudici di merito di disporre di indirizzi giurisprudenziali aggiornati, ai quali si aggiungono i dati sulle pronunce di merito che parimenti affollano i canali di informazione costituiti anche da chat e mailing list.
Il timore, però, è dato dal fatto che, per una singolare eterogenesi dei fini, la disponibilità di una così vasta produzione giurisprudenziale potrebbe alimentare la pigrizia dei giudici di merito, interessati più alla ricerca del precedente, soprattutto di legittimità, calzante alla decisione della controversia che alla fisiologica elaborazione di un più faticoso percorso di studio e di approfondimento propedeutico alla decisione e che, soltanto dopo, si confronti con l'indirizzo del giudice di legittimità.
Ne verrebbero fuori un sostanziale appiattimento della giurisprudenza e il suo impoverimento quali-quantitativo, innescando un circolo vizioso destinato a ripercuotersi negativamente anche sulla Suprema Corte, che sarebbe privata degli stimolanti contributi provenienti dai giudici di merito in relazione ai quali si formano e si consolidano gli orientamenti del giudice di legittimità.
Temo che non sia una preoccupazione infondata, anche perché una sollecitazione alla scorciatoia del recepimento acritico dei precedenti può essere alimentata dai carichi di lavoro spesso assai gravosi se non quando insostenibili e alla conseguente indisponibilità di tempi adeguati a un ponderato esame di ogni questione, anche in vista di un'eventuale motivata e critica non condivisione del precedente.
Sotto altro profilo va considerato che l’accelerazione verso l'immediatezza della decisione della Corte di legittimità, per l’autorevolezza formale e sostanziale che riveste, ha come controindicazione, della quale occorre tener conto, la riduzione dei contributi provenienti dai giudici di merito che non fanno neppure in tempo a formarsi.
Così, anche la decisione della Corte di Cassazione non segue sempre a un fecondo dibattito da parte dei giudici di merito che nella pronuncia di ultima istanza trova la sua composizione ponderata, ma obbedisce maggiormente alla necessità di una risposta urgente viepiù sollecitata dal frenetico e non sempre coerente divenire della legislazione sostanziale e soprattutto processuale.
Ma la prevedibilità del diritto e una nomofilachia completa non possono non tenere conto della necessità di assicurare il medesimo obiettivo anche nell’ambito della giurisdizione di merito, in cui naturalmente hanno connotazioni diverse ma obbediscono a esigenze analoghe.
Lo ha ricordato la Presidente Cassano, e Giovanni Canzio parla, al riguardo, di nomofilachia orizzontale o circolare, promossa dai giudici di merito in quanto i primi a confrontarsi con la fluidità sociale e che torna agli stessi giudici che verificano le ricadute della giurisprudenza di legittimità.
Presupposto di questo meccanismo virtuoso è la circolarità della giurisprudenza e l'ordinamento appresta uno strumento apposito disciplinato dall'art. 47 quater dell'Ordinamento giudiziario che tra i vari compiti del presidente di sezione delinea quello di curare lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione.
Si tratta di una disposizione dalle potenzialità enormi che sollecita informazione e confronto e chiama tutti i protagonisti a un impegno di responsabilità non già per conseguire il conformismo della giurisprudenza ma per acquisire consapevolezza di eventuali contrasti e promuovere la ricerca di soluzioni interpretative condivise, così realizzando per quanto possibile la prevedibilità delle decisioni.
Non va trascurato che la prevedibilità delle decisioni riduce la quantità della domanda di giustizia e consente maggiore possibilità di approfondimento anche in funzione di sottoporre a revisione critica orientamenti consolidati e così stimolare l'affinamento della qualità della Giustizia.
E al tempo stesso consegna certezza alla collettività sul diritto vivente, aumentando la fiducia nella Magistratura alla quale è chiesto un impegno sempre più arduo nella tutela dei diritti e, in particolare, di quelli fondamentali.
Credo che sia sempre attuale l'insegnamento di Stefano Rodotà secondo cui i temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali perché è da quelli che si misura la qualità di una società.
*Intervento nell'ambito del convegno di studi organizzato dalla Corte dei Conti "Giustizia al Servizio del Paese", Palermo 13 ottobre 2023.
(Immagine: Hans von Aachen, Giustizia e Pace, inchiostro e sanguigna su carta, 1604, Museo Nazionale di Danzica)
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