Il 2023 è stato l’anno del centenario della nascita di Italo Calvino. Per ricordarlo, proponiamo la lettura di un racconto breve che scrisse nel 1943, appena ventenne.
Il racconto è di singolare attualità. Nel paese in cui è ambientata la storia, a seguito di iper produzione normativa, gli abitanti hanno dimenticato che “la vera giustizia è ascoltare le querele degli uomini e, a seconda dei casi, giudicare e per ciascuno dire diversa sentenza ma con un animo uguale e rettitudine”.
A seguito di due fatti, solo apparentemente identici, e due possibili condanne all’impiccagione, quando il primo imputato viene assolto e il secondo condannato si scopre che gli articoli di legge, utilizzati a mo’ di algoritmo, non assicurano la giustizia del caso concreto, perché non tutte le circostanze del fatto sono contemplate nella fattispecie astratta.
La sentenza del giudice svela l’inganno dell’algoritmo. In quel paese “qualcosa non va”.
Occorre risolvere il problema. La soluzione adottata è: “fare leggi contro i giudici”. Il giudice riprende il mulo e lascia il paese.
Con questo racconto auguriamo ai Lettori e alle Lettrici di Giustizia Insieme il 2024 migliore possibile, senza leggi contro i giudici e che i giudici, come i pubblici ministeri, possano decidere, come scrive Calvino, "con animo uguale e rettitudine".
Il Giudice sul mulo di Italo Calvino
In un paese impiccavano uno.
Intanto arrivò un vecchio su un mulo e la gente si mise a guardarlo.
Il vecchio si sedette sotto un albero grande che era di quercia e stava in mezzo alla piazza e la gente gli chiese: “Chi sei?”
“Giudice”, rispose il vecchio.
E la gente chiese cos'era giudice.
“Noi lo sappiamo”, dissero gli anziani, “quando le leggi ancora non erano complete succedeva che venivano i dubbi nel condannare uno e nel dar ragione o torto all'altro c'era quello apposta che decideva delle ragioni e dei torti e delle pene da dare a uno ed ecco quello era il giudice.”
“Bene”, disse la gente, “qui ora il giudice non serve qui ora le leggi sono complete, tutto è previsto, non ci sono più dubbi sulla ragione e sul torto sulle pene da dare a uno. Il giudice non serve.”
“Va bè”, disse il giudice. “Io però vi dico che i casi del mondo sono sempre diversi una volta dall'altra e chiedono leggi nuove ogni momento e ogni uomo.”
“Questo è anarchia”, disse la gente che era intorno.
“No che non è", disse il vecchio, “perché vera è giustizia ascoltare le querele degli uomini e a seconda dei casi giudicare e per ciascuno dire diversa sentenza ma con un animo uguale e rettitudine e queste sono le virtù del saggio.”
La gente chiese cos’era saggio ma neanche gli anziani lo ricordavano.
Ora avendo la gente sempre tendenza verso le cose nuove e molti, in essa avendo in dispetto alcuna delle leggi scritte, avvenne che fu detto al vecchio: “Proviamo cosa sai fare”.
Il vecchio diede ordine che togliessero il basto al mulo e indicando un uomo che stavano impiccando, disse: “Cominciamo da quello”.
“Ma quello”, disse la gente, “se lo impiccano è perché deve essere impiccato.”
“Vediamo”, disse il giudice. “Conducetelo a me.”
Così il condannato gli fu condotto e il giudice chiese cosa aveva fatto.
“Ha fatto che ha ammazzato sua moglie con un colpo di scure in testa”, dissero gli altri. “Bisogna vedere le circostanze”, disse il vecchio.
“Le circostanze sono previste dai codici”, risposero gli altri e ci fu chi disse dei numeri.
“Nei codici c'è tutto”, continuarono. “Dei secoli ci sono voluti per farli ma adesso sono completi ci sono tutti i casi che possono succedere. Se uno ammazza sua moglie con un colpo di scure in testa, per esempio. E lì ci sono tutti i casi e le aggravanti e le attenuanti e tutte le combinazioni possibili delle aggravanti e delle attenuanti. Poi, in fondo a ognuna, c'è scritta la pena. Per un caso come il suo c'è scritto: sta impiccato. Dei secoli ci sono voluti per farli.”
“Vediamo”, disse il giudice e interrogò l'imputato, vide che aveva ragione e lo mandò assolto.
La gente rimase lì che non sapeva cosa dire. Avevano impiegato dei secoli a fare delle leggi che fossero complete, adesso che capitava un caso che combinava così bene con le leggi, ecco che veniva fuori uno a dire che tutto era sbagliato.
Così erano tutti lì che non sapevano cosa dire. Uno pensò di trarne vantaggio.
“Facciamo bene i conti”, pensò. “Come è capitato a lui di ammazzare la moglie, così può capitare a me. Tutto sta a non sbagliare i calcoli”
Così andò a casa prese la scure e ammazzò la moglie.
Poi andò a costituirsi. Le guardie lo portarono sotto la quercia dal giudice.
Lui disse come erano andate le cose né più nemmeno come quello di prima.
“Allora”, disse il vecchio, “vuol dire che questo lo impicchiamo”.
Lui ci rimase male.
“Come?”, disse, “che abbia sbagliato i calcoli? Eppure no: ho fatto talquale l'altro”. E ripetè tutto al giudice insistendo che era tutto uguale. Mi sembrava che più quello aggiungesse particolari, più il giudice ostinasse a condannarlo.
“È li il brutto”, diceva, “questi due fatti così uguali. Mai capitate due cose senza niente di differente. Così se lui aveva ragione vuol dire che tu hai torto. Sarai impiccato”. Gli altri però non erano convinti.
“Lui lo impicchiamo”, dissero, “però qui succedono dei pasticci. Vogliamo vederci chiaro.”
Difatti lo impiccarono poi tornarono dal vecchio per vederci chiaro: “Cosa vuol dire questo affare che uno ammazza la moglie e una volta è innocente e una volta è colpevole? Qui uno non sa più come deve comportarsi”.
“Capirselo da sé, deve", disse il vecchio, “sennò le leggi scritte non contano”.
“Capire che cosa?”, chiese la gente, neanche gli anziani si ricordavano che ci fosse qualcosa da capire, al di fuori delle leggi scritte.
“Qui succedono dei pasticci”, dissero, “noi non ci capiamo”. E rimisero il basto al mulo.
Così il vecchio salutò tutti, e risalì sul mulo e andò via, dicono verso la Mecca.
Nel paese, volere o no, s’erano accorti che qualcosa non andava.
Per rimediare, cominciarono a fare leggi contro i giudici.
(tratto da Raccontini giovanili, in Romanzi e racconti vol. III Mondadori Milano 1994, pp 779—781 - scritto nel 1943)
La Carta EDU e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione contemplano entrambe la clausola generale che impone la interpretazione non limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle normative interne o da altre fonti internazionali.
Tuttavia, vi sono sfide ricorrenti alle fondamenta dell’assetto della Rule of Law, come disegnata dalla Convenzione e dalla Carta dei diritti.
Se la Turchia rifiuta di dare esecuzione alle sentenze della Corte, che hanno più volte sanzionato le gravi violazioni della Convenzione in danno di giudici, pubblici ministeri e avvocati, non meno grave è il rifiuto della Polonia di riconoscere nella gerarchia delle fonti la preminenza di quelle Unitarie e dunque il ruolo del giudice comune e persino la sua legittimazione ad applicare quelle fonti e a sollecitare il rinvio pregiudiziale nella interpretazione dei Trattati.
Tema che, insieme a quello della disapplicazione delle norme nazionali, costituirà certamente oggetto delle relazioni dei nostri illustri relatori, il primo anche per il suo ruolo bifronte, quale giudice europeo e della Corte, la seconda per l’impegno accademico sui valori e quindi sul divieto di regressione nella interpretazione.
Il principio della espansione della tutela dei diritti fondamentali ha radici profonde nelle origini del costituzionalismo.
Si pensi al tema del ruolo contro-maggioritario della Judicial Review, recentemente riemerso polemicamente nel dibattito politico, che ci riporta ai Federalist Papers e alla discussione tra Alexander Hamilton, James Madison e Thomas Jefferson. Negli anni Sessanta del secolo scorso, come ha ricordato recentemente il grande giurista Guido Calabresi, il dibattito si è riacceso intorno alla Counter-majoritarian difficulty, definizione coniata da Alexander Bickel nel 1962.
Per la Corte suprema degli Stati Uniti, l’affermazione che alcuni diritti fondamentali prevalgono e devono comunque trovare protezione, si lega alla Judicial review as a check against anti-democratic majoritarianism.
Nella giurisprudenza dei giudici costituzionali e comuni italiani il principio di massimizzazione si sposa ormai con la condivisione di tale regola anche nello spazio europeo.
Stiamo forse raggiungendo quello Ius Commune europeo, stella polare della navigazione giurisprudenziale in materia di diritti fondamentali, di cui parlava molti anni fa Gaetano Silvestri.
Oggi non ci occuperemo della massimizzazione come espansione verso nuovi diritti – tema controverso e assai ampio – ma essenzialmente delle conseguenze ordinamentali di quel principio.
Questo approccio porta verso due diversi approdi, di cui oggi credo discuteremo:
Il primo riguarda la Rete che unisce le giurisdizioni sovranazionali al giudice nazionale e dunque agli sforzi che nel tempo le Corti superiori e le Corti di Strasburgo e del Lussemburgo per regolare i loro rapporti, in un contesto non meramente gerarchico delle fonti.
A questi aspetti si lega però anche il tema dell’interpretazione e dunque del ruolo del giudice, che si dipana tra applicazione diretta del diritto europeo, ricorso al giudice delle leggi e rinvio pregiudiziale.
Tema politicamente molto sensibile, perché spesso letto come esondazione del potere giudiziario rispetto agli altri poteri dello Stato.
Proprio la ricerca della massima tutela dei diritti, poi, ha portato al dialogo, non sempre facile, tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia. Percorso, dunque, che si inserisce tutto nella volontà di far prevalere la più ampia interpretazione dei diritti, letti alla luce delle Carte e della prevalenza della più ampia tutela di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione.
La Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno dimostrato nei fatti l’importanza del ricorso al rinvio pregiudiziale, tutte le volte che le incertezze interpretative non possono essere risolte con gli strumenti ermeneutici a disposizione del giudice. Sono ragionevoli le preoccupazioni circa l’introduzione nel nostro ordinamento del Protocollo 16 della CEDU? Certo, effetti diversi del rinvio, che derivano dalla diversa forza della Convenzione rispetto ai Trattati, ma non diversa è l’esigenza di interpretazione uniforme della Convenzione. Sugli effetti del rinvio pregiudiziale nei contesti dei Trattati e della Convenzione credo che i relatori avranno modo di confrontarsi.
La giurisprudenza della Corte EDU ma soprattutto, per le sue implicazioni di carattere generale sulla struttura dell’UE, della Corte di Giustizia in materia di indipendenza della giurisdizione si lega strettamente ai due temi appena citati, come nel caso delle decisioni sulla Polonia, e si basa sul divieto della regressione dei valori nella Unione, di cui ha discusso quale accademica la giudice Rossi.
In tale contesto, fondamentale è non trascurare il ruolo del pubblico ministero nell’attuazione del diritto europeo. La sua indipendenza effettiva – nel penale e, dove ha attribuzioni, nel civile e nella regolazione dei conflitti tra giurisdizioni – esalta la terzietà del giudice. L’indipendenza del pubblico ministero non è certo imposta dalle fonti europee, ma si va espandendo in molti Paesi dell’Unione, in forme diverse.
Nell’ordinamento italiano, il Procuratore generale della Cassazione non è solo indipendente ma partecipa dell’imparzialità del giudice, in questo differenziandosi dal pubblico ministero di merito che, pur gravato dall’obbligo della imparzialità, è comunque parte. Il Procuratore generale – proprio per effetto della sua imparzialità – può contribuire alla nomofilachia delle prassi, che è necessario complemento della nomofilachia anche europea, di cui innanzi si diceva a proposito del Protocollo 16.
La nomina qual giudice costituzionale dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia, Giovanni Pitruzzella, nasce anche dall’imparziale attuazione del diritto, emergente dalle sue conclusioni. Questo ruolo non è affatto diverso da quello che svolge il Procuratore nella Corte di cassazione, ad esempio nell’efficace sollecitazione del ricorso al rinvio pregiudiziale, più volte operato.
Un ruolo anche autonomo che la Procura generale, con il pubblico ministero di merito, svolge per l’attuazione del diritto unitario e la esecuzione delle sue sentenze, ora finalmente disciplinato nelle sue declinazioni rescissorie ed esecutive, rispetto alla intangibilità del giudicato. Esito per la verità già raggiunto in via interpretativa dai nostri pubblici ministeri e giudici di merito, di legittimità e costituzionali.
È stato recentemente sottoscritto un protocollo tra la Procura generale e l’Avvocatura generale dello Stato, per rendere più efficace l’intervento di attuazione delle decisioni in materia civile.
Questo protocollo segue il percorso di intese tra Corti superiori e Corti europee, di cui Guido Raimondi è stato partecipe e promotore, quale presidente della Corte EDU, ora ai vertici della Corte di cassazione.
*Moderazione della sessione Il principio della massima espansione della tutela dei diritti fondamentali: Corte di cassazione CEDU e CGUE del convegno "I Cento anni della Corte di cassazione unica", Roma, 28 novembre 2023.
Sommario: 1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica. - 2. La discrezionalità interpretativa del giudice. – 3.Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo. – 4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books). - 5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative. - 6. Nomofilachia e responsabilità.
1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica.
È innegabile il maggiore spazio che oggi l’interprete ha rispetto alle norme scritte, se confrontato con quello che gli era riconosciuto a metà del secolo scorso, quando fu elaborata la Costituzione repubblicana. Sono tanti i fattori che hanno determinato l’ampliamento dello spazio interpretativo. Qui mi limito ad indicarne due, tra quelli di maggiore incisività.
Innanzitutto, le profonde innovazioni nel sistema delle fonti normative, radicato non più sulla primazia gerarchica della legge, ma sulla Costituzione, con gli effetti che questa è idonea a determinare non solo come legge gerarchicamente superiore, ma anche come fonte di principi e di valori caratterizzanti l’intero ordinamento interno. Sulla legge si sono, in epoca successiva, sovrapposte anche le fonti (primarie e secondarie) dell’Unione europea e, altresì, quelle derivanti da convenzioni internazionali (rilevanti a norma dell’art.117 Cost.), tra cui la CEDU. Si è in presenza – si è detto – di uno Stato di diritto, costituzionale ed europeo[1].
Spesso queste fonti sovranazionali, non diversamente dalla Costituzione, contengono principi giuridici, e non delineano fattispecie: i primi, qualunque sia la definizione che se ne dia, prevedono vincoli molto meno rigidi per l’interprete, rispetto alle seconde. Oggi il testo scritto della legge deve essere interpretato alla luce di tutte le fonti sovraordinate, tra le quali, inoltre, non sempre sussiste un rapporto gerarchico preciso (si parla, infatti, di fonti normative multilivello, formanti un sistema non piramidale). Di questo primo fattore innovativo si tratterà nei diversi temi della seconda sessione, e quindi mi limito ad un mero richiamo.
Occorre soffermarsi un poco di più sul secondo fattore, che è di natura culturale. Esso consiste in una diversa concezione dell’attività interpretativa, la quale si è andata progressivamente imponendo tra gli studiosi, tanto da costituire oggi una acquisizione quasi pacifica e tale da non potere essere ignorata anche dagli operatori pratici. Mi riferisco alla distinzione, introdotta a livello concettuale, tra la disposizione (l’enunciato linguistico contenuto in un atto normativo) e la norma (il significato dell’enunciato, desunto dalla sua interpretazione)[2]. Consegue che la norma giuridica non è l’oggetto della interpretazione, preesistente alla stessa, ma ne è il risultato. La pronunzia giudiziale accerta l’esistenza della disposizione rilevante per la decisione del caso concreto, ma è “creativa” della norma applicata, e cioè della regola giuridica posta a base della decisione.
Rimane ferma, a mio avviso, la necessità di una correlazione tra l’enunciato e la norma che il giudice ne trae, e cioè tra il significante e il significato, onde la “creatività” ha un ambito che, pur potendo avere una estensione di volta in volta variabile, è sempre limitato; altrimenti saremmo fuori della interpretazione, che consiste nella attribuzione di un significato ad un testo.
2. La discrezionalità interpretativa del giudice.
In ordine a questo ambito, senza entrare negli ampi e complessi studi sulla interpretazione giuridica, trovo rispondente alla mia esperienza giudiziaria la metafora della “cornice”[3] entro cui possono essere collocati i possibili significati di un testo normativo, e quindi le diverse norme da esso alternativamente desumibili[4]. Non sempre la “cornice” ha contorni precisi, per l’indeterminatezza semantica del linguaggio, spesso aggravata dalla cattiva qualità riscontrabile nella legislazione. Questi sono i “casi difficili”, nei quali lo spazio del giudizio interpretativo è ancora più ampio.
Nell’ambito della “cornice” dei significati possibili del testo[5], la scelta dell’interprete avviene attraverso l’impiego degli argomenti interpretativi[6]. È questo l’ambito tipico della “creatività” dell’interprete (sia egli o meno un giudice), che però non è mai illimitata perché deve partire dalla lettera del testo (è significativo che le sentenze delle Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo premettano sempre al ragionamento argomentativo il testo delle disposizioni coinvolte), deve impiegare argomenti interpretativi consentiti dalla scienza del diritto, deve pervenire ad un risultato compatibile con il testo (e cioè rientrante nella “cornice”[7]) o che ne spieghi il superamento sulla base di argomenti a ciò ritenuti razionalmente e ragionevolmente idonei[8].
Il superamento della “cornice” posta dalla lettera della disposizione può avvenire per l’operatività di una interpretazione conforme (alla Costituzione, al diritto dell’U.E., a una convenzione internazionale). Quando il significato che si ritenga conforme a queste fonti sovraordinate – in modo diretto o indiretto (attraverso la rilevanza dell’art.117 Cost.) – non rispetta il tenore letterale della disposizione legislativa è, però, opportuno che il giudice adotti una linea di self-restraint, preferendo la rimessione (a seconda dei casi) alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia dell’Unione europea per la soluzione di una questione su cui queste Corti non si sono ancora pronunziate.
Una individuazione più precisa di quale sia la “cornice” posta dalla lettera della disposizione, conseguente soprattutto alla elasticità insita nel linguaggio, può derivare dalle caratteristiche particolari del caso concreto da giudicare, che possono indurre ad attribuire alle parole significati nuovi rispetto alle precedenti prassi interpretative. Nell’attività di interpretazione si realizza, cioè, il c.d. circolo ermeneutico tra fatto e diritto, nel senso che il primo può incidere non solo sulla individuazione della disposizione da applicare ad esso (sussunzione), ma anche sulla interpretazione della stessa, nei limiti in cui se ne può desumere una norma idonea alla soluzione del caso, secondo il corretto uso degli argomenti interpretativi sopra menzionati[9].
Mi sembra, allora, utile sostituire il termine piuttosto equivoco di “creatività”[10] con quello, usato spesso in dottrina[11], di “discrezionalità” (della interpretazione) giudiziaria, che, a differenza del primo, reca in sé, come elemento indefettibile, quello dei limiti, mentre il termine precedente fa pensare alla arbitrarietà, e quindi al mancato rispetto della divisione dei poteri[12].
La discrezionalità nella interpretazione della legge sta a esprimere il potere conferito al giudice di scegliere tra due o più norme desumibili dal testo normativo, tutte conformi alla legge. Essa deriva dal fatto che gli argomenti interpretativi, di regola, non conducono a un unico risultato, ma lasciano spazi più o meno ampi di incertezza. Significative sono le decisioni delle sezioni unite della Cassazione, quando risolvono un contrasto emerso tra diverse sentenze delle sezioni semplici della Corte. Spesso i contrastanti orientamenti in precedenza affermati sulla questione decisa dalle sezioni unite si appoggiano su corretti argomenti interpretativi, onde non possono essere considerati errati. In questa eventualità la decisione delle sezioni unite è il frutto di scelte di valore consentite dagli spazi lasciati dagli enunciati normativi[13]. In tal senso converge l’esperienza che ho fatto nei collegi delle sezioni unite con lo studio teorico delle sentenze dello stesso collegio che, successivamente al mio pensionamento, ho avuto occasione di fare in un corso universitario che, per alcuni anni, ho dedicato alla analisi dell’argomentazione adottata dalle decisioni (civili e penali) di quel collegio risolutivi di contrasti[14].
All’esercizio della discrezionalità si addice che di esso il giudicante renda conto attraverso la motivazione del giudizio interpretativo, la quale può essere considerata anche come lo strumento per controllare la fedeltà del giudice alla legge.
3. Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo.
I due fattori qui considerati nel loro effetto ampliativo dello spazio dell’interprete, e in particolare di quell’interprete dotato di autorità quale è il giudice, rendono incompleta la previsione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge (art.101, cpv.).
Da un lato, la legge obbliga il giudice solo in quanto essa sia conforme alla Costituzione. E, soprattutto, la soggezione viene meno nel caso di contrasto della legge con il diritto dell’Unione europea, che non solo legittima, ma obbliga il giudicante a non applicare la legge nazionale.
D’altro lato, il concetto attuale di interpretazione giuridica al quale si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi non appare pienamente conforme alla ideologia del Costituente. Dai lavori preparatori[15] si desume che, nella discussione del testo dell’art.101, cpv., Cost., furono proposte formule alternative a quella dei giudici “soggetti alla legge”, come “dipendono” (dalla legge) - così il progetto approvato dalla Commissione dei 75 (art.94, comma 2) - ovvero “sono vincolati” o “obbediscono” (alla legge). Il testo vigente fu approvato a seguito di un intervento dell’on. Ruini, il quale si espresse per la cancellazione, dal citato art.94, comma 2, del progetto, delle parole: (legge che i giudici) “interpretano ed applicano secondo coscienza”, prospettando il pericolo che tale previsione potesse rendere ammissibile il “cosiddetto diritto libero”. Nella discussione sembra di percepire ancora un’eco della nota posizione di Cesare Beccaria, secondo cui “l’interpretazione delle leggi è un male”[16].
Lo spazio oggi riconosciuto all’interprete-giudice, avente effetti vincolanti almeno per le parti del processo, costituisce un vero e proprio “potere” (interpretativo). Una recente voce enciclopedica è dedicata ai “poteri interpretativi” e alla loro “tensione con la legalità”: I giudici controllano il rispetto della legge, ma in una certa misura sono i giudici stessi a fissare il significato della legge[17]. La “misura” indica i limiti essenziali del potere interpretativo, che sono limiti non solo giuridici (come, per esempio, il divieto di analogia in materia penale), ma anche deontologici.
Questi ultimi sono affidati al senso di responsabilità del giudicante, il quale va sempre correlato alla sfera di autonomia riconosciutagli: maggiore spazio esistente per l’interpretazione dei testi normativi, maggiore responsabilità deontologica del giudice. La scienza giuridica sta iniziando una ricerca diretta a concretizzare e precisare i doveri deontologici che devono accompagnarsi a questo potere interpretativo[18]. L’auspicio è che questa ricerca continui, anche con il contributo attivo di coloro che sono titolari di questo potere.
Ci si può, allora, interrogare sul significato attuale della disposizione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge. Direi che essa mantiene il suo fondamentale rilievo, espresso anche dall’essere contenuta nel primo articolo del titolo sulla magistratura e dall’essere connessa con il precedente comma che instaura un collegamento (qualunque ne sia il preciso significato) dell’amministrazione della giustizia con il popolo, i cui rappresentanti hanno approvato la legge a cui i giudici sono soggetti[19]. Ma sono innegabili le innovazioni segnalate che hanno modificato tale significato, il quale oggi deve comprendere sia le diverse fonti sovraordinate alla legge, sia i poteri interpretativi consentiti dal diritto.
Per esprimere siffatte innovazioni si è, in sede dottrinale, usata l’espressione di soggezione del giudice al “diritto”[20]. Quest’ultima espressione, nella sua letterale ampiezza, può essere criticata perché il diritto comprende anche le fonti secondarie, di cui il giudice comune ha il compito di giudicare la legittimità e alle quali egli, perciò, non è soggetto; essa, comunque, non è idonea a esprimere il valore della fedeltà alla legge e la legalità della giurisdizione che è nell’essenza di questa attività. Ma, pur con questi limiti, l’espressione di soggezione del giudice al “diritto” è, probabilmente, atta a fare percepire l’incompletezza della previsione costituzionale e le innovazioni verificatesi nelle fonti del diritto.
La formulazione del tema assegnatoci, riferendosi alla interpretazione non soltanto delle “norme scritte” (che preferirei indicare come “disposizioni” scritte) ma anche del “diritto effettivo”, mi sembra che recepisca questo passaggio dalla legge (fonte prioritaria all’epoca del Costituente) al diritto, come comprensivo del più ricco e complesso sistema delle fonti nonché dei poteri interpretativi delle fonti stesse.
4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books).
L’importanza e gli effetti delle fonti normative sovraordinate alla legge e sopravvenute alla Costituzione si possono percepire con immediatezza se si riflette sulla qualificazione che, nella formulazione del nostro tema, viene aggiunta al diritto: il suo essere “effettivo”, e cioè applicato: non rileva il diritto che è soltanto scritto (in the books), ma quello che riceve effettiva applicazione (in action). Quindi, per usare i termini del tema successivo del nostro incontro, rileva il “diritto vivente”, e non quello vigente.
È questo un punto fermo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (e del diritto dell’Unione europea: art.6 TUE). La nozione di legge recepita dalla CEDU implica che essa abbia determinate “qualità”, tra le quali la prevedibilità della sua applicazione. Un testo di legge che consente letture giurisprudenziali contraddittorie non è “legge” ai fini della Convenzione fino a che una giurisprudenza stabilizzata non venga in luce[21].
La ragionevole prevedibilità della applicazione della regola giuridica rileva ai fini del rispetto non solo dell’art.7 (principio di legalità in materia penale), ma anche dell’art.6 della CEDU (equità del processo), e quindi concerne ogni materia. Secondo la Corte di Strasburgo, la stabilità della giurisprudenza e il rilievo riconosciuto ai precedenti sono componenti di ogni giudizio interpretativo, il cui esito deve tendere a evitare una “sorpresa” per l’individuo.
Siffatto risultato è di non facile conseguimento in un sistema ordinamentale che, come quello italiano, è caratterizzato da un potere giudiziario diffuso, per l’assoluta indipendenza del potere interpretativo di ogni giudice e per la normale assenza di vincolatività dei precedenti. Assumono allora un rilievo essenziale le istituzioni alle quali è assegnata, nei rispettivi ambiti interpretativi, una funzione unificante e uniformatrice: la Corte costituzionale, la Corte di giustizia dell’Unione europea, anche la Corte Edu (una volta ratificato dall’Italia il protocollo n.16), la Corte di cassazione.
Con riferimento a quest’ultima istituzione (delle altre si parlerà nella seconda sessione), richiamo l’attenzione sulla sentenza della Corte Edu 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo (ric. 30123/10), peraltro espressiva di un orientamento già affermato. È stata ritenuta sussistente la violazione del processo equo in un caso in cui la Corte suprema del Portogallo, nel decidere un’azione di responsabilità civile contro lo Stato per un errore giudiziario, ha adottato una soluzione negativa diametralmente opposta a una giurisprudenza interna costante. La Corte europea ha osservato che sono connaturali a ogni sistema giudiziario i contrasti giurisprudenziali nell’ambito dei giudici di merito, ma che il ruolo di una giurisdizione suprema è quello di risolvere tali contrasti. Se orientamenti divergenti si sviluppano e coesistono all’interno della più alta autorità giudiziaria dello Stato, ciò viola il principio della sicurezza giuridica e riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, i quali – principio e fiducia – rientrano tra le componenti fondamentali dello Stato di diritto. La Corte ha, quindi, censurato l’assenza, all’interno della Corte suprema, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’uniformità delle decisioni[22].
5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative.
L’uniformità della interpretazione-applicazione del diritto, attraverso la funzione unificante della Cassazione, è stato l’obiettivo perseguito, sia pure con ripensamenti e con misure per alcuni aspetti contraddittorie, da ben cinque interventi legislativi di modifica del giudizio civile di legittimità intervenuti in questo secolo, a partire dal d. lgs. n.40/2006, che ha introdotto nel linguaggio legislativo la “funzione nomofilattica” della Corte. A questo intervento sono, poi, succeduti: la l. n.69/2009, la l. n.134/2012, la l. n.197/2016, il d. lgs. n.149/2022[23].
Mi limito a indicare alcune delle innovazioni principali nella attuale disciplina di questo giudizio:
a) il vincolo delle sezioni semplici della Corte ai principi di diritto enunciati dalle sezioni unite, in modo da dare stabilità a questi principi, imponendo un particolare procedimento per il loro mutamento (art.374, terzo comma, c.p.c.);
b) l’ampliamento dei casi in cui il Procuratore generale presso la Corte può chiedere l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (ma irrilevante per le parti del processo) e la possibilità che questo principio di diritto sia pronunciato di ufficio anche nel caso di ricorso della parte dichiarato inammissibile (art.363 c.p.c.);
c) la riduzione, tra i motivi del ricorso per cassazione, dell’ambito del vizio di motivazione e l’esclusione assoluta di tale vizio nei casi di doppia conforme sui medesimi fatti (art.360 c.p.c.);
d) l’udienza pubblica limitata alle sole decisioni di una “questione di diritto di particolare rilevanza” (art.375, primo comma, c.p.c.) e la decisione degli altri ricorsi in camera di consiglio; nel primo caso la decisione è emanata con sentenza, nel secondo caso essa assume la forma della ordinanza;
e) il rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione per la risoluzione di “una questione esclusivamente di diritto”, quando – tra gli altri requisiti – essa “è suscettibile di porsi in numerosi giudizi” (art. 363-bis c.p.c.).
Chiaro è il senso di queste innovazioni. Il legislatore di questo secolo ha scelto di privilegiare la funzione della Cassazione civile di risolvere questioni giuridiche rispetto alla diversa funzione di controllo della logicità delle motivazioni dei giudici di merito sull’accertamento dei fatti. Il sindacato sulla motivazione in fatto è stato sempre lo strumento utilizzato dai ricorrenti per indurre la Corte a compiere sostanzialmente un riesame dei fatti di causa, stante la non chiara individuazione, sia nella teoria che nella prassi, dei limiti di quel sindacato. Esso, ora, non solo risulta limitato nel suo ambito oggettivo (art.360 c.p.c.), ma ha assunto un rilievo nettamente minore nel ruolo della Corte in conseguenza del maggiore spazio previsto per la soluzione delle questioni giuridiche e per la formulazione dei principi di diritto.
Nell’ambito delle questioni giuridiche, poi, mi sembra essenziale l’innovazione recentissima della differenza di procedura imposta dal citato art.375: l’udienza pubblica è riservata alla soluzione delle questioni di diritto “di particolare rilevanza” (oltre ai ricorsi che chiedono la revocazione per contrarietà alla CEDU e ai rinvii pregiudiziali dei giudici di merito). Si è in tal modo introdotta una vera e propria selezione dei ricorsi (sia pure soltanto a fini procedurali), che è stata condivisibilmente ritenuta la caratteristica di una Corte suprema[24]. Di “particolare rilevanza” vanno evidentemente considerati i ricorsi che prospettano questioni giuridiche suscettibili di porsi in numerosi giudizi (di cassazione o di merito), nei quali può esplicarsi la funzione nomofilattica della Cassazione[25]. La stessa finalità ha il menzionato rinvio pregiudiziale (art.363-bis c.p.c.). La funzione di nomofilachia assume, pertanto, secondo la disciplina codicistica, una importanza chiaramente prioritaria.
Molte delle ambiguità che Michele Taruffo individuava nella normativa sulla Cassazione civile[26] mi sembra che oggi siano superate dagli interventi legislativi di questo secolo. La funzione essenziale che la Corte deve assolvere è quella di garanzia oggettiva di legalità (ius constitutionis). La garanzia soggettiva della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost. (ius litigatoris) rimane ferma e immutata, ma essa, secondo la previsione costituzionale, è limitata alle violazioni di legge, nell’ambito delle quali una posizione nettamente secondaria assumono le questioni di controllo sugli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, che hanno una rilevanza limitata al caso concreto.
Rispetto al processo penale l’orientamento del legislatore di questo secolo è meno netto e univoco di quello del legislatore civile, ma non discordante. La l. n.46/2006 ha ampliato l’ambito del vizio di motivazione[27], ma anche nel giudizio penale di cassazione sono state introdotte innovazioni dirette a rafforzare la funzione nomofilattica della Corte[28]: il vincolo della sezione semplice al principio di diritto delle sezioni unite e la possibilità per la Corte di enunciare il principio di diritto anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile per causa sopravvenuta (art.618, commi 1-bis e 1-ter, c.p.p.), e quindi non vi è più l’interesse del ricorrente. Inoltre, in alcune ipotesi di ricorso per cassazione è stata esclusa la deducibilità del vizio di motivazione[29]. Recentemente, infine, è stata modificata la disciplina procedurale del giudizio penale, poiché l’art.611 c.p.p. ha previsto come regola ordinaria la decisione dei ricorsi in camera di consiglio, mentre si procede alla trattazione in udienza pubblica su richiesta delle parti ovvero anche di ufficio, nel caso di “rilevanza delle questioni” da decidere. La procedura pubblica, pertanto, è finalizzata non solo all’esercizio della nomofilachia (come nei giudizi civili), ma anche alla tutela del contraddittorio.
Questa parziale diversità accentua l’importanza e la potenziale incidenza operativa della innovazione relativa alla procedura dei giudizi civili. Qui la selezione dei ricorsi da trattare in udienza pubblica è determinata esclusivamente dalla importanza generale della questione da decidere.
Un’innovazione comune ai due giudizi concerne l’esecuzione delle decisioni della Corte dei diritti dell’uomo che hanno accertato la violazione della relativa Convenzione da parte di pronunzie interne. Essa, con discipline diverse nei presupposti (più limitati nella materia civile), è stata attribuita alla Corte di cassazione (art. 391-quater c.p.c. e art.628-bis c.p.p.), considerato che “la delicatezza del nuovo istituto, destinato ad incidere sulla tenuta processuale del giudicato nell’ordinamento interno, richiederà sin dai suoi esordi una costante uniformità interpretativa”[30]. Anche in questi istituti innovativi si ribadisce la funzione uniformatrice che è propria della Cassazione.
6. Nomofilachia e responsabilità.
La nomofilachia della Corte è oggi esercitata in modo che non può considerarsi soddisfacente. In un corso della Scuola superiore della magistratura dedicato al giudizio civile di cassazione[31] si è autorevolmente affermato che “sia in campo sostanziale, sia in campo processuale – dappertutto si annidano contrasti”[32]. Per la Cassazione penale si è condivisibilmente affermato che la funzione nomofilattica è da essa assolta “solo quando decide a sezioni unite, mentre le sezioni semplici finiscono per svolgere prevalentemente funzioni di giudice dello ius litigatoris, pronunciando un numero sterminato di decisioni, con il rischio conseguente ed effettivo di un aumento esponenziale dei contrasti giurisprudenziali”[33]. Ma, soprattutto, sono inaccettabili i tempi lunghi del giudizio civile di cassazione, non giustificati dalla sua struttura semplice, ma determinati esclusivamente dall’enorme numero dei ricorsi e dall’arretrato conseguentemente formatosi.
Su questo aspetto occorre rilevare che la durata media del giudizio penale di cassazione è sensibilmente inferiore a quella di un anno ritenuta ragionevole dal legislatore. La Cassazione penale, quindi, è riuscita a fare fronte al numero enorme di ricorsi, a differenza della Cassazione civile. Non è questa la sede per individuare e analizzare le cause di questa differenza. Qui, però, può e deve prospettarsi qualche rimedio idoneo a incidere positivamente sui tempi dei giudizi civili, in guisa da concretizzare quel “traguardo” che è nel titolo di questa prima sessione.
Penso a due interventi, uno interno alla Corte, di natura organizzativa, e l’altro esterno alla stessa, perché richiede una modifica legislativa.
La menzionata selezione dei ricorsi, imposta a fini procedurali dal d. lgs. n.149/2022, deve essere utilizzata per perseguire organizzativamente un duplice risultato: da un lato, un esercizio più meditato e stabile della nomofilachia; dall’altro, una netta distinzione dell’impegno motivazionale e un minore aggravio complessivo dello stesso.
La decisione della questione di diritto di particolare rilevanza deve essere preceduta da un lavoro preparatorio che coinvolga tutti i magistrati della sezione, e non solo i componenti del singolo collegio decidente. La nuova competenza del rinvio pregiudiziale può costituire l’occasione di partecipazione alla nomofilachia anche dei giudici di merito e della dottrina, stante la preventiva conoscenza pubblica della ordinanza di rinvio.
Sugli altri ricorsi, da decidersi con ordinanza, l’impegno motivazionale (che occupa tanta parte del lavoro dei giudici) va ridotto al minimo, perché le questioni da risolvere attengono o alla logicità della motivazione in fatto (il cui controllo, come si è detto, non costituisce la funzione prioritaria del giudice di legittimità) o consistono in questioni giuridiche che, se non sono state considerate di particolare rilevanza, possono essere risolte in modo sintetico, non richiedendo la loro motivazione quelle caratteristiche di persuasività che devono contrassegnare le decisioni con rilievo nomofilattico.
Mi sembra che il legislatore abbia ora imposto quella diversità di impegno motivazionale che avevo prospettato all’inizio della mia Presidenza della Corte con il provvedimento sulla “motivazione semplificata”[34], che i collegi decidenti erano “invitati” ad adottare quando decidevano “ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia” (come sono tutti quelli che censurano la motivazione in fatto) ovvero che “sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi giuridici già affermati dalla corte e condivisi dal collegio”. Il mero invito ai magistrati della Cassazione civile, che era prospettato in quel provvedimento interno, è ora un dovere professionale, stante la diversità di motivazione richiesta dal sistema (raffronto tra l’art.132 e l’art.134 c.p.c.) tra le sentenze, emanate in esito alle udienze pubbliche, e le ordinanze conclusive dei procedimenti in camera di consiglio.
Non si può, però, non riconoscere che qualunque intervento organizzativo è reso difficile e complesso dall’enorme numero di ricorsi che la Cassazione è tenuta a decidere in modo comunque motivato e che finisce con l’ostacolare anche un’attenta selezione interna dei ricorsi. È questa la ragione per la quale i numerosi interventi legislativi di questo secolo diretti ad introdurre filtri interni nei giudizi civili non hanno raggiunto risultati positivi, avendo anzi in alcuni casi prodotto ulteriori complicazioni e difficoltà per la Corte. Ritenuta inopportuna una modifica della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost., prospetto una innovazione nella legislazione forense che, sull’esempio di ordinamenti stranieri (Germania e Francia), disponga la separazione categoriale tra gli avvocati legittimati a difendere nei giudizi di merito e quelli che scelgano di esercitare nel solo giudizio di legittimità, il quale richiede una preparazione e una esperienza particolari. La proposta fu formulata da Giorgio Santacroce, Primo presidente della Cassazione che mi seguì immediatamente e purtroppo è prematuramente scomparso[35]. La riserva al secondo gruppo della abilitazione a proporre ricorso per cassazione creerebbe un corpo di difensori altamente specializzati, idonei perciò a compiere un filtro esterno all’accesso alla Corte di legittimità e a limitarne prevedibilmente il numero, con l’effetto ulteriore di migliorare il livello qualitativo dei ricorsi proposti[36].
Quest’ultima considerazione giustificherebbe l’estensione della innovazione anche alla materia penale, ove oggi non si ha, come si è detto, una durata patologica dei giudizi di legittimità, ma è sempre elevatissimo il numero dei ricorsi presentati annualmente, con la già menzionata difficoltà anche della Corte penale di assolvere in modo idoneo e celere alla funzione di nomofilachia. La necessità di elevare la qualità media dei ricorsi penali si desume dal fatto che circa due terzi dei ricorsi proposti sono dichiarati inammissibili[37].
L’indubbia esistenza di queste difficoltà non deve, però, fare venire meno nei magistrati tutti della Corte di legittimità la consapevolezza della importanza enormemente accresciuta, in un’epoca di diritto giurisprudenziale, della nomofilachia e, correlativamente, della maggiore responsabilità della intera istituzione e dei magistrati che la impersonano. Questa responsabilità etica e deontologica non rimane a un livello teorico e astratto, ma può essere resa concreta e visibile dal fatto che le interpretazioni del giudice di legittimità sono assoggettate alle valutazioni di altre Corti. Così dicasi per:
- la Corte costituzionale, che può essere investita del controllo di costituzionalità sul principio di diritto dettato per il giudizio di rinvio, e che, nella materia penale, può sindacare il rispetto, anche da parte degli orientamenti della Cassazione, del divieto di analogia (come è sostanzialmente avvenuto nella sentenza costituzionale n.98/2021[38]);
- la Corte di giustizia dell’Unione europea, che può affermare la responsabilità civile dello Stato causata dalla emanazione di pronunzie della Cassazione, come è avvenuto nella nota vicenda della società Traghetti del Mediterraneo[39];
- la Corte europea dei diritti dell’uomo, che può dichiarare la violazione della CEDU commessa anche da sentenze della Cassazione civile e penale. Queste pronunzie contribuiscono all’esaurimento delle vie di ricorso interno, che è condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte Edu (art.35 della CEDU), onde l’accoglimento di quest’ultimo ricorso implica, di norma, che la accertata violazione della CEDU non sia stata impedita ovvero sia stata commessa dal giudice nazionale di ultima istanza.
*Intervento pronunciato in occasione del convegno, I Cento anni della Corte di cassazione "Unica", Roma 28 novembre 2023.
[1] Così M. Cartabia, nella Relazione introduttiva del convegno su “Il giudice e lo Stato di diritto”, organizzato a Roma il 20 ottobre 2023 dalla Accademia dei Lincei e dalla Scuola superiore della magistratura.
[2] V., di recente, F. Modugno e A. Longo, Disposizione e norma. Realtà e razionalità di una storica tassonomia, Editoriale Scientifica, 2021. V. anche F. Caringella, L’interpretazione del diritto, Dike giuridica, 2021, di cui è significativo il sottotitolo: Il viaggio dalla disposizione alla norma.
[3] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, 2011, p.59-61. Lo stesso concetto è espresso da H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, 2021, p.449, con il termine “schema”, comprendente i più significati possibili dell’atto da interpretare (ma senza la previa distinzione tra disposizione e norma).
[4] Anche chi, in posizione minoritaria, critica la menzionata distinzione tra disposizione e norma ritiene “innegabile che gli enunciati normativi si prestino alla pluralità delle interpretazioni” e che “sia fallace l’dea dell’unico significato del testo” (M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir.. Annali. vol. IX, p.438).
[5] La “cornice” è normalmente definibile: Corte cost. 5 giugno 2023, n.110, ha dichiarato l’incostituzionalità di una disposizione di legge regionale per essere “l’enunciato normativo affetto da radicale oscurità”, per “contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art.3 Cost.”.
[6] V., ex plurimis, D. Canale e G. Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale2, Giappichelli, 2020, p.62 ss.
[7] Si prescinde dall’ipotesi in cui gli argomenti interpretativi conducano all’accertamento di una lacuna, da colmare mediante l’analogia legis o iuris.
[8] Condivido, quindi, la concezione metodologica della interpretazione (N. Irti, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020, p.119). Lo stesso Autore (I cancelli delle parole, in Un diritto incalcolabile, Giappichelli, 2016, p.83) ricorda una frase di Francesco Carnelutti: “L’interpretazione testuale traccia i confini entro i quali liberamente si muove la interpretazione logica” e, oggi deve aggiungersi, sistematica, con riferimento alle fonti sovraordinate alla legge.
[9] L’espressione “circolo ermeneutico” ha grosso rilievo nel ragionamento giuridico proposto dalla teoria ermeneutica del diritto (F. Viola e G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, Laterza, 1999). Senza prendere posizione su questa teoria dell’interpretazione, l’espressione viene qui recepita soltanto per esprimere la possibilità che l’attribuzione del significato alla disposizione normativa dipenda dalle caratteristiche del fatto da giudicare. Questo passaggio, nella soluzione del caso, dalla individuazione della disposizione da applicare agli aspetti particolari del fatto concreto e viceversa (con la conseguente scelta di quali ne sono le caratteristiche rilevanti per la decisione), è una ricerca che non incide sulla funzione nomofilattica della Cassazione, la quale presuppone che sia stato definitivamente accertato il fatto da giudicare. La nomofilachia attiene alla giustificazione della premessa maggiore del sillogismo giudiziario, non essendo in contestazione la premessa minore dello stesso (che, però, è opportuno che sia tenuta presente per la precisa e corretta comprensione del principio di diritto affermato dalla Cassazione).
[10] In dottrina si è soliti distinguere diversi significati del termine “creatività della interpretazione”: v., di recente, G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, 2021, p.341 ss.. V. anche M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, Giappichelli, 2015, cap. IV.
[11] A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffré, 1995; Id., La natura della discrezionalità giudiziaria e il suo significato per l’amministrazione della giustizia, in Politica del diritto, 2003, p.3; H. L. A. Hart, Il concetto di diritto2, Einaudi, 2002, p.166-173, 347 ss. (Poscritto); H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., p.447, 453; P. Rescigno, La discrezionalità del giudice, in P. Rescigno e S. Patti, La genesi della sentenza, Il Mulino, 2016, p.81. Non uniforme è, però, il significato che questi autori danno al termine “discrezionalità”, anche se in tutti è presente il concetto di limiti esistenti nella attività giudiziaria. Nell’art.132 c.p. il “potere discrezionale del giudice” è riferito alla applicazione della pena “nei limiti fissati dalla legge”.
[12] Per l’incompatibilità tra la dottrina della separazione dei poteri e il giusrealismo radicale (teoria per cui tutto il diritto è prodotto dai giudici) v. M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealistica dell’interpretazione, negli Atti del XIX Convegno annuale della Associazione italiana dei costituzionalisti svoltosi a Padova il 22-23 ottobre 2004, Cedam, 2008, p.29. La compatibilità, secondo lo stesso Autore, può, invece, essere ravvisata rispetto alla teoria del giusrealismo moderato, che, come ho detto, ritengo preferibile rispetto al tradizionale formalismo interpretativo, secondo cui le disposizioni avrebbero ognuna un solo significato.
[13] A. Barak, La discrezionalità del giudice, cit., dopo avere affermato che “la discrezionalità esiste in tutti i sistemi giuridici e fa sorgere problemi comuni” (p.5), distingue tra “soluzione legittima e soluzione appropriata” (p.6), che è quella derivante dalla dall’esercizio della scelta discrezionale (che egli limita ai “casi difficili”) tra più soluzioni legittime. Secondo L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol.2, Laterza, 2009, p.75, l’attività della giurisdizione è “inevitabilmente discrezionale e contrassegnata assai spesso da giudizi di valore”.
[14] Di diversi contrasti giurisprudenziali risolti dalle sezioni unite, analizzati nella loro origine e negli argomenti adottati dalle sezioni unite per risolverli, ho trattato nella relazione: Tra la lettera e lo spirito della legge: tensioni giurisprudenziali, in Iustitia, 2018, fasc. 1, p.37 e fasc. 2, p.223.
[15] La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Oscar Studio Mondadori, 1976, p.324.
[16] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. V (parole iniziali). L’affermazione di Beccaria sembra riferirsi in generale alla interpretazione delle leggi (v. il cap. IV), al di là della materia penale che è l’oggetto dello scritto.
[17] G. Pino, Poteri interpretativi e principio di legalità, in Enc. dir.. I tematici, vol. V - Potere e Costituzione, Giuffrè, 2023, p.983. L’autore parla, in proposito, di “paradosso della legalità”.
[18] Per la materia penale possono citarsi gli scritti di M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, n.4/2018, p.79, spec. Il § 18, p.101 (Sei regole deontologiche di ermeneutica penale); V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, p.2222; F. Palazzo, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p.1249. Per una più ampia linea di ricerca v. M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, cit., cap. V: Oltre l’interpretazione. Configurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale, rimedi e questioni di legittimazione (del giudice).
[19] “Nello Stato costituzionale di diritto la legge conserva ancora una sua ‘sfera’ e non è riducibile a mero svolgimento della Costituzione, sicché la salvaguardia dei suoi tratti caratteristici continua a essere un requisito essenziale del mantenimento dell’ordine dei poteri e della certezza del diritto” (M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Giuffré, 2023, p.109).
[20] D. Bifulco, Il giudice è soggetto soltanto al “diritto”. Contributo allo studio dell’art.101, comma 2, della Costituzione italiana, Jovene, 2008,
[21] Così, V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa3, Il Mulino, 2022, p.149. Al volume si rinvia anche per le numerose citazioni giurisprudenziali. Questo orientamento, riferito all’art.7 della CEDU, è stato applicato dalla Corte europea nella nota e discussa sentenza 14 aprile 2015 Contrada, in cui la giurisprudenza stabilizzata sulla ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa si è ritenuto che fosse stata raggiunta solo con la sentenza delle Sezioni unite penali Demitry del 1994.
[22] Il meccanismo introdotto nel c.p.c. portoghese dal décret-loi n. 303/2007 del 24.8.2007, ma non applicabile ratione temporis ai processi già pendenti e quindi al caso di specie, consiste nella possibilità concessa alle parti del processo (civile) di impugnare davanti alla assemblea plenaria delle sezioni civili della Corte suprema una sentenza resa da questa Corte “in contraddizione” con un’altra sua sentenza pronunziata sulla medesima questione di diritto e in applicazione della stessa legislazione (art.763 c.p.c.).
[23] Di fronte alla recente affermazione che la funzione di nomofilachia della Corte di cassazione fu “bocciata” dalla Assemblea costituente (G. Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, in Giustizia Insieme, 23 ottobre 2023, § 5) va ricordata la contraria opinione di un costituzionalista (A. Pizzorusso, Corte di cassazione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. IX, 1988), secondo cui la Costituzione ha recepito “il «sistema della cassazione» quale è stato delineato attraverso una tradizione di studi che ha il suo massimo prodotto nella famosa opera di Piero Calamandrei” (§ 1.1) e la Cassazione è un “organo dotato di rilievo costituzionale soprattutto per il fatto di esercitare la funzione di nomofilachia”. (§ 1.2). Per una analisi dei lavori della Costituente debbo rinviare al mio intervento “La Corte di cassazione nella Costituzione”, in Cass. pen., 2008, p.4444.
[24] A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione2, Giappichelli, 2011, p.19 e 62.
[25] Nello stesso senso A. Giusti, La nuova udienza pubblica, in La Cassazione civile riformata, a cura di P. Curzio, Cacucci, 2023, p.104.
[26] M. Taruffo, Il vertice ambiguo, Il Mulino, 1991, Introduzione, p.7-26.
[27] Per l’affermazione che la legge del 2006 ha confermato il ruolo nomofilattico della Cassazione v. A. Caputo, Giudizio penale di legittimità e vizio di motivazione, Giuffré Francis Lefebvre, 2021, p.295 (e, amplius, il cap.2, § 4).
[28] L n.103/2017, d. lgs. n.11/2018, d.lgs. n.150/2022.
[29] Ricorso contro la sentenza di non luogo a procedere pronunziata in grado di appello (art.428, comma 3-bis, c.p.p.); ricorso contro la sentenza di appello pronunziata per reati di competenza del giudice di pace (art.606, comma 2-bis, c.p.p.); ricorso del p.m. contro la sentenza di proscioglimento del giudice di appello che conferma quella di primo grado (art.608, comma 1-bis, c.p.p.).
[30] Così la relazione illustrativa all’art.3, comma 28, lettera o) del d. lgs. n.149/2022, che ha introdotto l’art. 391-quater c.p.c., in Gazz. Uff., 19/10/2022, suppl. straord. n.5, p.45.
[31] Quaderno n.20 della SSM, Il giudizio civile di cassazione, 2022.
[32] L’affermazione è del Pres. Angelo Spirito (che si presenta come il “magistrato che da più tempo opera nelle aule della Corte di cassazione”), in Quaderno cit., p.40. Sono questi contrasti che rendono criticabile la nomofilachia come oggi è esercitata, non il pericolo di soppressione della libertà interpretativa dei giudici di merito (come sostiene Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, cit., § 10), i quali sono sempre liberi di seguire una tesi diversa da quella della Cassazione purché la motivino. Mentre non è in sintonia con il principio costituzionale di uguaglianza e con la previsione (confermata dal Costituente) della Cassazione unica l’esaltazione dei contrasti giurisprudenziali implicita nella affermazione di Scarselli secondo cui “un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi”.
[33] G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, n.4/2018, p.138.
[34] Provvedimento del 22 marzo 2011, con correlata relazione, in Foro it., 2011, V, c.183.
[35] È quanto riferisce A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p.142, il quale recepì il suggerimento di Santacroce in una proposta del CSM diretta al Ministro della giustizia attraverso una delibera del 2 luglio 2013, la quale avrebbe conseguito la maggioranza se non vi fosse stata l’assenza per impegni sopravvenuti del Pres. Santacroce.
[36] In Germania “non vi sono più di 40 avvocati abilitati a patrocinare dinanzi alla Corte federale di giustizia” nel settore civile (K. Tolksdorf, L’accesso alla Corte suprema tedesca, in Giurisdizioni di legittimità e regole di accesso. Esperienze europee a confronto, a cui di G. Alpa e V. Carbone, Il Mulino, 2011, p.46); in Francia il detto numero si aggira, notoriamente, attorno al centinaio. Questo aspetto dell’ordinamento francese è stato ritenuto dalla Corte Edu conforme al giusto processo e viene valutato molto utile per il funzionamento della Corte di cassazione francese (D. Le Prado, Alcune caratteristiche del sistema di cassazione alla francese, in Giurisdizioni di legittimità, cit., p.163). Giudizio ancora più positivo viene dato all’analogo aspetto dell’ordinamento forense della Germania (K. Tolksdorf, Op. loc. cit.).
[37] Nel 2022 è stato dichiarato inammissibile il 70,6 % dei ricorsi decisi (P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, presentata il 26 gennaio 2023, Gangemi, p.150).
[38] Nell’annotare la sentenza n.98/2021 F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 2021, p.1218, rileva che essa, pur essendo una pronunzia di inammissibilità, costituisce “un forte richiamo per i giudici comuni” al rispetto del divieto di analogia delle norme incriminatrici.
[39] La sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 10 giugno 2010 (causa C-173-03) ha affermato la responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati alla società Traghetti del Mediterraneo per la violazione del diritto comunitario imputabile alla Corte di cassazione.
di Tommaso Manzon
Salmo: 122:6-9,
«6 Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli.
7 Ci sia pace all'interno delle tue mura e tranquillità nei tuoi palazzi!
8 Per amore dei miei fratelli e dei miei amici, io dirò: «La pace sia dentro di te!»
9 Per amore della casa del SIGNORE, del nostro Dio, io cercherò il tuo bene».
La terra di Israele è il centro del mondo. Questo ovviamente non è vero da un punto di vista fisico-geografico, ma lo è senza ombra di dubbio da un punto di vista spirituale, laddove quest’aggettivo va inteso nel senso più ampio possibile. Non, quindi, spirituale come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con la sfera del religioso, bensì spirituale come quando si parla dello “spirito” di un popolo e quindi spirituale come di ciò che determina l’intero carattere di una vita e di una cultura.
Che Israele sia da un punto di vista spirituale il centro del mondo lo possiamo intuire dall’importanza di questo lembo di terra, a prima vista dimenticabile, che però è diventato per molti versi il perno della storia mondiale. Non tanto perché tutto ciò che è importante accada e sia accaduto in Israele (è evidente che non sia così), né perché non siano stati dati importanti contributi alla storia dell’umanità all’infuori del popolo di Israele (ancora una volta, è evidente che non sia così).
Il punto è che per Israele passa tanto di ciò che accade ed è accaduto: se non tutto, comunque è passato abbastanza – abbastanza energie, abbastanza idee, abbasta traiettorie – da influenzare in modo decisivo il corso della storia globale. Quale nazione di questa terra non è stata in qualche misura plasmata da quanto ha avuto origine nella Terra della Rivelazione? E anche quelle che sono state toccate solo marginalmente dal fiume impetuoso che è uscito da Sion, possono forse dire di non essere state bagnate da queste correnti?
A tal proposito, bisogna notare come tipica di Israele sia la sproporzione dei destini che vi vengono concepiti rispetto alle loro circostanze di partenza: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Maria, Gesù, Maometto, sono tutti nomi le cui origini sembrano essere del tutto insufficienti per spiegare l’immenso potere che essi hanno esercitato e tutt’ora esercitano sulle sorti dell’umanità. Mi si obbietterà, correttamente, che in realtà alcune di queste figure non sono nate in Israele: ma dove Abramo e Mosè trovano il proprio destino, se non nella Terra Promessa (che il secondo mai calpestò vita natural durante)? Da dove il cosiddetto Profeta dell’Islam compì il suo viaggio in cielo fino a trovarsi al cospetto di Dio? Perché il patriarca Giuseppe, prima di morire e di essere seppellito in Egitto, volle sincerarsi con i suoi figli che avrebbero avuto cura di traslare le sue ossa in Israele il giorno in cui i discendenti di Giacobbe avrebbero intrapreso il loro ritorno in patria? Né Abramo, né Mosé, né Maometto possono essere tali, essere loro stessi, senza il riferimento vivo che li unisce ad Israele. Come loro quindi si può essere stati concepiti, biologicamente, fuori da Israele, ed eppure esservi legati in senso spirituale: Israele come un destino, come la Promessa che agisce come simbolo e strada per il Promissore.
In quest’ottica, quanti di noi sono stati concepiti in Israele senza che nemmeno ce ne rendessimo conto? Per quanti di noi le nostre aspirazioni, i nostri istinti, le nostre speranze puntano in direzione della terra che è la madre dei patriarchi, dei profeti e dei saggi?
Se Israele però è destino e madre, essa è anche ricettacolo dei nostri problemi. Come da Israele sono usciti, escono e usciranno dei destini che in essa ritornano o che perlomeno a essa tendono, così da questi destini tornano in Israele cose che da Israele non sono uscite ma che si intrecciano con lei e la sua influenza e che inevitabilmente, rientrando in lei, la contaminano. Questo va ad aggiungersi alla lotta tumultuosa che comunque ha sempre, a più riprese, avvolto il centro spirituale del mondo. Il centro è legato alla circonferenza dai raggi: ciò che accade nel centro passa nella circonferenza e viceversa.
E quindi, noi che assistiamo a quanto accade oggi in Israele, secondo una nuova-vecchia storia, sia che lo facciamo da spettatori apatici che da tifosi, è bene che prendiamo coscienza insieme (se non lo abbiamo già fatto) di come, in qualche modo, questa storia si intreccia con la nostra. Ciò che nasce in Israele non rimane mai in Israele, se è vero, come è vero, che una visione del divino coltivata da pochi pastori medio-orientali ha finito per cambiare per sempre il volto del mondo.
Ma ciò che nasce in Israele e da lì se ne esce poi alla fine torna in Israele (primi fra tutti gli stessi ebrei) con un carico composto dal bagaglio che nel frattempo è stato raccolto. E questo bagaglio è anche un bagaglio di relazioni, di storie, di incontri. Quindi in Israele c’è tutta la storia della diaspora e del ritorno del popolo ebraico, ma anche la storia della nascita e della diffusione dell’Islam, nonché ovviamente quella di Gesù e dei suoi discepoli, e noi siamo parte di queste storie, che segnano e sconvolgono la Terra che è madre e fine di innumerevoli destini, la Terra che è inscindibile (ci piaccia o no) dalla nostra identità più profonda.
Possiamo quindi solo sperare (e operare di conseguenza) per la pace della Terra a cui siamo in questo modo legati, confidando che il 2024 sia un anno prospero di buone notizie per i popoli che ci vivono, un anno di pace e di riconciliazione nel luogo della Promessa in cui Dio si è degnato di nascere, vivere, morire e risuscitare.
(Immagine: Frederic Edwin Church, Jerusalem from the Mount of Olives, olio e grafite su cartoncino, 1868, Smithsonian Design Museum Collection, Washington, D.C.)
di Claudio Castelli
Sommario: 1. Introduzione - 2. L'attuale quadro normativo - 3. Gli elementi insostenibili dell’ultradecennalità - 4. I fattori positivi - 5. I limiti e riverberi negativi dell’attuale ultradecennalitá e qualche proposta.
1. Introduzione
Periodicamente viene rimessa in discussione, senza peraltro approdare a soluzioni alternative salvo l’abolizione tout court, l’ultradecennalità nella permanenza nelle funzioni. Ora l’occasione sembra fornita dalla (saggia, ma peraltro sinora teorica) intenzione ministeriale di sospendere la vigenza dell’ultradecennalità sino al 2026 per facilitare il raggiungimento degli obiettivi del PNRR. Pausa che appare opportuna anche per consentire una adeguata riflessione (e concrete proposte) sull’istituto, ma che segnala come l’ultradecennalità odierna crei ostacoli all’efficienza organizzativa del sistema.
2. L’attuale quadro normativo
È l’art.19 del D. Leg. 5 aprile 2006 n.160 che prevede una permanenza massima nella stessa posizione tabellare o nel medesimo gruppo di lavoro nell’ambito delle stesse funzioni per un periodo stabilito dal Consiglio superiore della magistratura entro il massimo di 10 anni. In caso il magistrato abbia presentato domanda di trasferimento ad altra funzione, anche all’interno del proprio ufficio, almeno sei mesi prima della scadenza del periodo massimo di permanenza, può rimanere nella stessa posizione sino alla decisione del CSM e comunque non oltre sei mesi dalla scadenza del termine.
Mentre il Regolamento in materia di permanenza dell’incarico in data 13 marzo 2008 e le Circolari consiliari sulla formazione delle tabelle (artt. 146 -152 della Circolare vigente) a loro volta disciplinano l’applicazione della normativa e prevedono il percorso per l’assegnazione del magistrato ultradecennale attraverso la partecipazione ad un concorso interno, un’assegnazione provvisoria in caso di esito negativo e successivamente la partecipazione ad un nuovo concorso e l’assegnazione di ufficio, in caso di nuovo esito negativo.
L’art. 156 co. 1 della Circolare sulle tabelle poi dispone che nell’ipotesi di permanenza nelle precedenti funzioni per un periodo eccedente i nove anni e sei mesi, il magistrato non può essere nuovamente destinato al posto di origine prima di cinque anni.
3. Gli elementi insostenibili dell’ultradecennalità
Vi sono almeno due elementi che fanno ritenere l’attuale normativa insostenibile e iniqua. Da un lato la sua applicazione solo alle funzioni che rientrano nei progetti tabellari e organizzativi di Tribunali e Procure, escludendo le funzioni specializzate. Nessuna ultradecennalità quindi per magistrati del lavoro e di sorveglianza, con una evidente disparità di trattamento e irrazionalità. Se vi sono ragioni a monte dell’ultradecennalità finalizzate ad evitare possibili incrostazioni di potere e stimolare un costante rinnovamento, queste esistono anche per funzioni molto specializzate. Nè la differenza con funzioni altamente specialistiche (quali le materie della famiglia, fallimentare, societaria) è tale da suggerire una così elevata differenza di trattamento.
Il secondo punto molto negativo è la mobilità drogata che l’ultradecennalità inevitabilmente provoca. Ultradecennalità vuol dire che il 10 % dell’ufficio é costretto a cambiare funzioni ogni anno. Se a questo si sommano i trasferimenti ordinari (quindi tra uffici diversi) ed i pensionamenti giungiamo al 15 - 20 % annuo, una quota che nessuna amministrazione può sopportare. Perché il trasferimento significa ruoli lasciati ad altri, perdita di know how, rallentamento dei tempi. I pochi studi svoltisi sul tema evidenziano come il passaggio di testimone da un giudice all’altro come titolare di un processo porti ad un aumento dei tempi del 50%.
L’ultradecennalità si scontra ulteriormente con le esigenze del nostro sistema giudiziario di una sempre più accentuata specializzazione. Costringere magistrati che hanno affinato competenze e celerità nella trattazione di una materia a trasferirsi non solo è un’evidente perdita di know how, ma rallenta inevitabilmente i tempi dato che ogni nuovo arrivato ha bisogno di tempo per capire il nuovo settore, ufficio e ruolo e inevitabilmente nei primi tempi sarà più lento. Certo si potrebbero adottare percorsi che potrebbero attenuare di molto queste difficoltà, quali percorsi professionali agevolati per chi ha svolto ruoli specializzati e specialistici, sia all’interno dell’ufficio, che per i trasferimenti. Ciò porterebbe ad individuare grandi branche di materie (procedure concorsuali, famiglia e minori, lavoro, commerciale ed economia, ambiente) in cui l’esperienza professionale svolta dia una precedenza nei concorsi interni ed esterni per posti che si occupano di queste materie, esteso ad uffici sia giudicanti che requirenti. Ed inoltre un serio percorso di riconversione (non limitato a una settimana episodica) con periodi di affiancamento e accompagnamento.
4. I fattori positivi
L’ultradecennalità non è un’idea balzana o punitiva, ma anche il portato di esperienze negative. Le prime applicazioni, allora prive di una copertura legislativa, si sono avute nel 1996 quando il CSM delineó questo limite per due categorie di magistrati, le sezioni fallimentari e i pretori mandamentali. Le ragioni erano diverse: la particolare delicatezza e rischio ambientale (riscontrato da diverse esperienze negative) per chi gestiva procedure spesso del valore di miliardi dell’epoca con rapporti con curatori e parti, la sovraesposizione territoriale e il ruolo apicale che assumeva il pretore mandamentale. Per essere chiari vi erano all’epoca pretori mandamentali che esercitavano le loro funzioni nello stesso Comune da oltre 30 anni, diventando veri e propri ras locali, con rapporti e un ruolo del tutto anomalo per chi dovrebbe amministrare giustizia. L’estensione a tutti é stata un’iniziativa legislativa che in parte riprendeva queste esigenze di rotazione e di estensione delle opportunità ed in parte disegnava una magistratura in cui le specializzazioni erano solo le tre tradizionali (minori, sorveglianza e lavoro). Va anche detto che molti magistrati guardavano con favore ad una normativa che evitava un’occupazione stabile dei posti più ambiti da parte dei magistrati più anziani.
Ed in effetti vi sono altri due fattori che vanno valorizzati a favore della temporaneità delle funzioni. Da un lato la rotazione obbligata che impone in uffici ambiti e prestigiosi. Se non ci fosse questa disciplina, sarebbe facile prevedere che in posizioni normalmente molto richieste come le DDA per le Procure e il Tribunale delle imprese avremmo una presenza degli stessi magistrati per decenni, evitando quel moderato turn over che è benefico per l’ufficio. Dall’altro lo stimolo che dà ai singoli per cambiare posizione professionale dopo un congruo periodo di tempo e agli stessi uffici inserendo negli stessi nuove idee ed esperienze. La permanenza nella stessa funzione e nello stesso ambiente inevitabilmente fa affievolire motivazioni e capacità di cambiare modalità di lavoro, quando un cambio può essere benefico per il singolo e per la sezione e ufficio. É poi sbagliato vedere il mutamento obbligato di funzioni come punitivo per il singolo. La tesi secondo cui incrostazioni di potere ed affievolimento delle motivazioni dovrebbero essere accertate caso per caso a livello ispettivo o di valutazione di professionalità e non con soglie determinate dalla legge, non solo é molto più insidiosa e punitiva, ma manifestamente impraticabile per l’impossibilità di sperimentare serie verifiche su scala diffusa.
5. I limiti e riverberi negativi dell’attuale ultradecennalitá e qualche proposta
Non ci troviamo quindi a fronte di una normativa irrazionale, folle e punitiva, dovendosi svolgere considerazioni molto più articolate, ma gli attuali assetti del l’ultradecennalità non sono reggibili e andrebbero rapidamente modificati.
In primis, perché limitare a dieci anni la permanenza? Non a caso nel testo originario della proposta di legge il periodo di permanenza era contenuto nel range tra i 5 ed i 15 anni, demandando al Consiglio la determinazione del periodo massimo di permanenza per ogni funzione. La modifica poi approvata, che indicava il periodo massimo di permanenza tra i 5 ed i 10 anni, induceva il Consiglio ad adottare l’ultradecennalità per tutte le funzioni. Al riguardo va precisato che non vi è alcuno studio sulla permanenza massima ideale in un ufficio giudiziario, meglio ancora se mirata a singole funzioni. In realtà il termine decennale deriva dal fatto che abbiamo un sistema di misurazione decimale, oltre alla constatazione che prevedere tre o quattro mutamenti di funzione nella propria vita professionale poteva apparire congruo.
In realtà l’attuale normativa e la sua rigidità porta a deprivare lo stesso ufficio contemporaneamente di più magistrati mettendolo in ginocchio, dato che l’intervento è mirato sul singolo e non sull’ufficio e sulla sua funzionalità. Si potrebbe quindi partire dall’ufficio e non dal singolo magistrato, evitando un numero di trasferimenti superiore al 10% della sezione (o superiore ad uno all’anno qualora la sezione o dipartimento abbia meno di dieci componenti), preso come parametro di un tasso moderato e benefico di turn over, limitando i trasferimenti a seguito di ultradecennalità solo nell’ambito di questa quota (ovviamente comprensiva di altri tramutamenti e pensionamenti).
Un equilibrio che cerchi di contemperare i fattori positivi della temporaneità con le esigenze di specializzazione e di stabilità si può quindi probabilmente raggiungere con tre interventi correttivi:
riportare il limite massimo a 15 anni;
escluderne l’applicazione se la sezione o ufficio abbia già avuto un turn over complessivo annuo pari o superiore al 10 % (o ad uno in caso di sezioni o dipartimenti composti da meno di dieci magistrati);
creare percorsi professionali agevolati per funzioni specialistiche.
I primi due interventi richiedono una modifica legislativa, mentre la creazione di percorsi professionali e di un periodo di riconversione e di affiancamento potrebbe già oggi essere pensato e realizzato con una collaborazione tra C.S.M. e Scuola Superiore della Magistratura. Così pure una semplice modifica della Circolare sulle tabelle potrebbe ridurre al periodo ordinario (due anni) il tempo necessario per poter tornare alle funzioni precedentemente svolte. I cinque anni oggi previsti non hanno difatti giustificazione alcuna e suonano come inutilmente punitivi.
Per concludere l’unica speranza è che finalmente si esca dalle mere lamentazioni per giungere ad un nuovo assetto.
(Immagine: Giorgio De Chirico, L'enigma dell'ora, olio su tela, 1911, Collezione Mattioli, Milano)
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