ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Mario Serio
Sommario: 1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale - 2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese - 3. Il giudizio davanti alla Supreme Court - 3.1. La rilevanza delle questioni dedotte - 3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court - 3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale - 3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court - 3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza - 4. Tratti conclusivi.
L'intensità e la frequenza dei flussi migratori globali ormai da tempo interpella il mondo politico e quello giuridico che si trovano, così, alla ricerca di misure che rendano, almeno nelle intenzioni, compatibili i fondamentali principii via via elaborati dal diritto internazionale, pattizio e consuetudinario, e dagli ordinamenti sovranazionali e nazionali con le esigenze in concreto manifestate dai singoli Stati. Si assiste, pertanto, alla proliferazione di soluzioni adottate a livello interno o negoziale interstatale le quali sempre più spesso sono sottoposte a rigorose e doverose verifiche giudiziali al fine, appunto, di controllare l'effettiva realizzazione del non semplice obiettivo di compatibilità prima ricordato: solo da tale positivo riscontro è possibile, infatti, affermare la legittimità di tali soluzioni. Il problema è certamente noto anche in Italia. Questa circostanza conferisce ancor maggiore interesse ad accadimenti che si sono di recente verificati in altri paesi ed hanno costituito oggetto di rilevanti interventi giurisprudenziali.
È il caso della severa ed ampiamente motivata pronuncia resa all'unanimità il 15 novembre 2023 dalla Supreme Court del Regno Unito a proposito dell'accordo dell'aprile 2022 tra il governo inglese e quello del Ruanda in materia di trattamento dei richiedenti asilo trasferiti dal territorio del primo a quello del secondo.
1. Il complesso sfondo delle vicende migratorie in una prospettiva globale
La complessità, che si manifesta anche sotto forma di varietà spesso irriducibile ad unità, delle concrete situazioni, spaziali, climatiche, politiche, istituzionali che fanno capo alle persone in tutto il mondo è spesso la causa induttiva dei loro movimenti migratori alla ricerca di nuove e migliori condizioni che rendano le loro vite degne di essere vissute [1]. Si tratta di un contesto drammatico nel quale si collocano insieme vite umane, orientamenti politici, questioni giuridiche: la loro composizione riesce molto frequentemente ardua e combattuta. Avviene, così, che le soluzioni escogitate per la gestione dei movimenti nello spazio di consistenti gruppi di espatriati desiderosi di guardare per necessità ad altri angoli del pianeta auspicabilmente meno amari vengano perseguite mediante accordi negoziali tra due stati diretti ad assicurare, mediante sistemi di riconoscimento di costi rimborsabili e compensi, la ricollocazione di persone arrivate nel territorio del primo, generalmente più vasto ed economicamente sviluppato, in quello del secondo, generalmente privo di questi attributi.
Non mancano, tuttavia, esempi in cui il coordinamento tra i fattori inizialmente descritti, talora in vicendevole conflitto, avviene applicando la necessaria e soddisfacente ricerca dei criteri che più incisivamente lascino svettare la dignità della persona in virtù dei numerosi strumenti che la pluralità degli ordinamenti, nazionali, internazionali, transnazionali, è in grado di offrire. In altri termini, è il primato dei principii e delle regole giuridiche il mezzo più sicuro per governare fenomeni presenti su larga scala e con caratteristiche che di per sé possono suscitare divisioni e contrasti. Naturalmente, il ricorso alla via del diritto, di quel diritto che protegga il valore della persona, va effettuato con sapiente rigore in vista del reperimento degli strumenti adatti a risolvere i problemi connessi alla materia del trasferimento di esseri umani dal territorio di origine ad altri.
Un ottimo esempio di equilibrata ed attenta considerazione delle circostanze che circondavano un accordo intervenuto tra i governi del Regno Unito e del Ruanda in materia di richieste d'asilo è certamente costituito dalla sentenza resa lo scorso 15 novembre dalla UK Supreme Court [2] sul ricorso originariamente proposto davanti la Divisional Court della High Court da un gruppo di richiedenti asilo, in prevalenza medio-orientali, contro la decisione del governo inglese di giudicare inammissibili le loro richieste e di ricollocazione in Ruanda in esecuzione del citato accordo tra i due paesi della primavera del 2022.
2. La vicenda sottoposta all'esame della giustizia inglese
La controversia culminata nella sentenza della Supreme Court, che nel giro di alcuni mesi soltanto ha percorso tutti e tre i gradi di giudizio, nasce dall'azione proposta da alcuni cittadini stranieri che mirava alla dichiarazione di illegittimità, ed al conseguente annullamento, di una serie di provvedimenti dell'amministrazione britannica dell'interno (Home Office), che aveva dichiarato inammissibili le loro richieste di asilo e disposto al contempo la ricollocazione degli stessi in Ruanda in forza di un accordo del 13 aprile 2022 stipulato tra il governo inglese e quello del Ruanda denominato Migration and Economic Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due Note Verbali diplomatiche. La ragione della dichiarazione di inammissibilità della richiesta d'asilo era individuata nelle disposizioni comprese tra i paragrafi 345 A e D del regolamento in materia di immigrazioni (Immigration Rules), adottato in conformità all'Immigration Act del 1971. Tali disposizioni prevedono che le richieste di asilo vengano dichiarate inammissibili allorquando il loro autore avrebbe potuto rivolgerle ad un paese terzo sicuro ma non l'abbia fatto. In tal caso è nel potere dell'amministrazione provvedere al trasferimento della persona interessata ad un paese terzo sicuro che sia disposto ad accoglierla. In particolare, il paragrafo 345 B esige, ai fini della definizione di un paese terzo come sicuro (Safe third country), che lo stesso rispetti il principio di “non respingimento” (non refoulement) previsto dalla Convenzione ONU del 1951 sullo status di rifugiato (Convention on the status of refugees), integrata dal Protocollo del 1967. Esso implica il divieto di respingimento, diretto o indiretto, dei richiedenti asilo verso un paese in cui la loro vita o la loro libertà possa essere minacciata a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale, delle opinioni politiche; analogamente nel caso in cui i richiedenti corrano un rischio effettivo di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Sulla base delle assicurazioni che il governo inglese aveva ricevuto da quello ruandese circa l'effettivo rispetto del divieto di respingimento appena illustrato il primo stabilì che il suo interlocutore rientrasse nella categoria dei paesi terzi sicuri e dispose in conseguenza il trasferimento nello stato africano dei richiedenti asilo la cui domanda era stata dichiarata inammissibile nel presupposto che avrebbe potuto essere formulata nei confronti di un paese terzo sicuro, quale il Ruanda, rispettoso del divieto in parola.
Su queste basi i cittadini stranieri, vistisi dichiarare inammissibili le richieste di asilo, percorsero la via giudiziaria davanti la Divisional Court [3] al congiunto fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità delle politiche migratorie del Ruanda in quanto contrarie al diritto internazionale consuetudinario e pattizio nonché della decisione del governo inglese di trasferirli nello stato africano.
Al procedimento intervenne l'Alto Commissario per i rifugiati dell'ONU (UNHCR) depositando documenti e rapporti concernenti proprio le politiche migratorie del Ruanda accertate anche alla luce di recenti esperienze.
Con sentenza del 19 dicembre 2022 [4] la Divisional Court dichiarò che in linea di principio l'intera sequenza dell'accordo tra i due governi, dal suo sorgere fino alla fase esecutiva del trasferimento dei richiedenti asilo, non presentava profili di illegittimità; tuttavia furono riscontrate delle irregolarità formali in taluni dei singoli provvedimenti con conseguente rinvio degli atti alle autorità di provenienza per il riesame.
Su impugnazione degli originari ricorrenti la Court of Appeal, con una lungamente argomentata pronuncia a maggioranza del 29 giugno 2023 [5], dichiarò, in riforma della sentenza gravata, l'illegittimità della politica migratoria del Ruanda in quanto, alla stregua del materiale probatorio raccolto dalla Divisional Court, sussistevano solide ragioni per ritenere che vi fossero concreti rischi di un esame inappropriato delle domande di asilo da parte delle autorità di quel paese. Ciò comportava l'ulteriore, concreto rischio del respingimento e la connessa conseguenza che, in difetto della modificazione di tale politica, il trasferimento in Ruanda dei richiedenti asilo in Ruanda, avrebbe causato la violazione dell'articolo 6 dello Human Rights Act del 1998 inglese, traspositivo dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani che proibisce la tortura ed ogni trattamento inumano e degradante. Fu, al contrario respinta la tesi degli appellanti secondo cui nella fattispecie si sarebbe verificata anche la violazione della parte del diritto comunitario ancora in vigore nel Regno Unito (retained EU law) e segnatamente della direttiva 2005/85 che fissa gli standard minimi da applicare nei procedimenti relativi al conferimento ed alla revoca dello status di rifugiato in quanto, a differenza da quanto richiesto dagli articoli 25 e 27 [6] nessuno dei richiedenti asilo presentava alcun collegamento con il Ruanda.
La sentenza è stata impugnata dal governo inglese in via principale con riguardo alla statuizione dell'illegittimità della politica migratoria del Ruanda ed alle conseguenze ricadenti sull'accordo dell'aprile 2022. Anche i cittadini stranieri hanno impugnato la sentenza in via incidentale per quanto attiene al diniego di violazione del diritto comunitario.
La stessa Court of Appeal ha autorizzato il ricorso di tutte le parti davanti la Supreme Court in considerazione della rilevanza delle questioni sollevate.
3. Il giudizio davanti alla Supreme Court
3.1. La rilevanza delle questioni dedotte
Del tutto fondata si rivela l'opinione espressa dalla Court of Appeal circa la rilevanza delle questioni scaturenti dalla fattispecie che ha giustificato il fatto di investire la Supreme Court. Proprio il giudizio che quest'ultima ha formulato si rivela per la ricchezza e profondità degli argomenti sviluppati e, in special modo, per l'atteggiamento di apertura mentale che da esso traspare, consente di affermare che ci si trova dinanzi ad un'autentica pietra miliare della civiltà giuridica ad un livello globale, corrispondente all'estensione globale dei temi trattati. Molteplici sono gli aspetti che consentono di attribuire a quello in esame la patente di documento giudiziario fondativo di un promettente ordine concettuale da cui certamente trarrà ulteriore ed esemplare beneficio il dibattito sui rapporti trilaterali tra l'esercizio della libertà migratoria, gli interventi legislativi ed amministrativi nazionali (in ineliminabile e coerente rapporto con la normativa di derivazione internazionale e transnazionale), il conseguente ed altrettanto ineliminabile momento di controllo giurisdizionale. Ed infatti, come si vedrà, il tema centrale della sentenza della Supreme Court è stato proprio quello indirizzato alla chiara delimitazione della possibile area di intervento giudiziario sui provvedimenti amministrativi di diretta incidenza nella sfera delle libertà personali dei migranti richiedenti asilo. E la Corte di ultima istanza ha dissentito in modo profondo e sistematico dall'atteggiamento minimalistico e formalistico adottato dalla Divisional Court, auto-relegatasi ad un compito di semplice verifica della legittimità estrinseca degli atti di governo, così rinunciando alla più estesa e penetrante opera di sindacato dell'intrinseca razionalità e conformità al complesso apparato normativo di varia derivazione dei provvedimenti impugnati: attività diligentemente ed accuratamente posta in essere proprio dai supremi giudici inglesi attraverso ragionamenti certamente candidati a divenire prezioso modello da imitare ed esportare. Ed ancora, la sentenza ribalta la conservativa impostazione della Divisional Court per ciò che attiene alle fonti probatorie utilizzabili in procedimenti nei quali si controverta sugli indici sintomatici della legittimità dell'azione amministrativa ed include in termini molto netti atti ed indagini esterne alla giurisdizione domestica ma saldamente poste nel circuito istituzionale internazionale quale l'alto commissariato per i rifugiati istituito presso le nazioni unite. Ancora una volta esce sconfitto un modello di controllo giurisdizionale che sacrifica la cruda e drammatica effettività dei fenomeni giudici sottoposti al vaglio di legittimità/legalità al timido rispetto dei soli sintomi esterni di apprezzamento dei provvedimenti del potere esecutivo. Lungo la medesima linea la Supreme Court ha proceduto allorquando ha spinto il proprio esame anche al versante della compatibilità, con il sistema internazionalmente costruito della protezione dei richiedenti asilo, del complessivo aspetto istituzionale-economico-politico del paese ricevente (nella fattispecie il Ruanda), così ampliando il proprio sguardo. Questo è stato lasciato spaziare dall'accertamento del contenuto dell'accordo tra paese inviante e paese di destinazione alla verifica in concreto delle modalità di relativa esecuzione da parte di quest'ultimo. Ed infine, la pronuncia di ultimo grado ha il merito, spendibile anche in funzione didascalica, della ricognizione e del collegamento tra le plurime fonti, di rango e derivazione differente, operanti sul terreno della disciplina dei flussi migratori.
3.2. Le dimensioni dell’intervento della Supreme Court
Ciò premesso in punto di prospettazione del taglio generale e connotativo della sentenza, va anticipato che essa ha all'unanimità (con un'opinione redatta congiuntamente dal Presidente Lord Reed e da Lord Lloyd Jones, cui tutti gli altri 3 giudici hanno senza riserve aderito) rigettato il ricorso dell'amministrazione britannica dell'interno nonché, per ragioni di successione di leggi nel tempo conseguenti alla fuoriuscita del Regno Unito dall'Unione Europea, quello incidentale dei richiedenti asilo.
Va adesso seguito in maniera precisa l'articolato itinerario di pensiero della Supreme Court perché solo attraverso la sua razionale consequenzialità possono cogliersene significato ed effetti.
La Supreme Court ha immediatamente chiarito le dimensioni del proprio intervento, sottolineando che il suo esclusivo oggetto è quello di valutare l'intrinseca legittimità delle politiche migratorie adottate dal Ruanda in esecuzione dell'accordo con il governo inglese nonché dell'idoneità di questo a soddisfare i requisiti imposti dall'ordinamento internazionale in termini cogenti, pattizi, spontanei. Altrettanto limpido e rassicurante è il messaggio iniziale, di dichiarato rifiuto di ingresso a qualsiasi giudizio di natura politica e di rigetto di ogni possibile interpretazione in chiave politica della propria decisione [7]: avvertenza assolutamente insolita per una corte inglese di giustizia, evidentemente resa necessaria dall'incandescenza della discussione condotta sul delicato e divisivo tema che non improbabilmente risente degli accenti che in altri evoluti ordinamenti dell'occidente del continente europeo sono esplosi a riguardo di provvedimenti ed orientamenti giurisprudenziali di impatto sulla (discutibile ortodossia della) disciplina dei fenomeni migratori.
Il perno della controversia riguarda, in ultima e sintetica analisi, l'osservanza nell'accordo negoziale tra i governi del Regno Unito e del Ruanda, del fondamentale principio di non respingimento, noto nella comunità internazionale come del non-refoulement. La declinazione di tale principio è stata in primo luogo effettuata sulla falsariga delle già sommariamente richiamate disposizioni interne [8] le quali, nel definire la nozione di paese terzo sicuro cui poter inviare richiedenti asilo, pongono i seguenti requisiti, necessariamente oggetto di riscontro giudiziale: a) che la vita e la libertà del richiedente asilo non sia minacciata, nel paese terzo, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o dell'espressione di opinioni politiche; b) che venga rispettato nel paese terzo il principio del non-refoulement in conformità alla convenzione ONU sui rifugiati del 1951; c) che nel paese terzo venga rispettato il divieto di trasferimento ad altro paese e non venga violato il diritto di libertà dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani e degradanti sancito dal diritto internazionale; d) che ai richiedenti asilo venga riconosciuto dal paese terzo il diritto ad ottenere lo status di rifugiato e, nel caso di accertamento di tale condizione, a ricevere protezione in conformità alla Convenzione del 1951.
Nella declamata cornice di queste regole il governo inglese stipulò con quello ruandese nell'aprile 2022 il Migration and Development Partnership (MEDP), integrato da un Memorandum of Understanding (MOU) e da due note verbali diplomatiche riguardanti il procedimento di asilo di singoli richiedenti e l'accoglienza e l'alloggio dei richiedenti asilo trasferiti nello stato ricevente: di entrambi i documenti la Supreme Court nega la riconducibilità a fonti di diritto internazionale. Ai sensi del paragrafo 9 del MOU il governo del Ruanda ha assunto l'impegno “a trattare ogni richiedente asilo, e a gestire il relativo procedimento, in conformità alla Convenzione sui rifugiati, alle norme interne in materia di immigrazione, ai criteri internazionale ed interni, incluse le norme internazionali ed interne in materia di diritti umani nonché, ma non in maniera tale da escludere l'applicazione di altre norme, quelle rivolte ad assicurare protezione dai trattamenti inumani e degradanti ed a proibire il refoulement”, ossia il respingimento verso paesi terzi non sicuri. All'interno del Memorandum era anche inserita una previsione [9] secondo cui il governo ruandese avrebbe potuto trasferire in un paese in cui avessero diritto di risiedere i richiedenti asilo ai quali fosse negata la condizione di rifugiato e che fossero privi della necessità di protezione o di base giuridica per permanere in quel paese.
3.3. Il quadro normativo nazionale ed internazionale
Così descritto il tessuto negoziale su cui si fonda l'accordo dell'aprile 2022 la sentenza esplora nitidamente il campo delle plurime disposizioni ad esso applicabili. In primo luogo, annovera l'art.33 (1) della Convenzione sui rifugiati del 1951 che vieta ad ogni stato contraente di espellere o respingere in qualunque forma un rifugiato verso le frontiere di paesi in cui la vita o la libertà di questo sarebbero messe in pericolo a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell'appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle opinioni politiche. Questa fondamentale disposizione è già stata interpretata estensivamente dalla giurisprudenza inglese nel senso di impedire non soltanto il trasferimento diretto verso un paese terzo nel quale il rifugiato possa temere di essere perseguitato ma anche quello indiretto attuato attraverso un paese terzo di transito [10]. In materie rilevanti ai fini della soluzione del caso in questione l'ONU è intervenuta con The United Nations International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR) del 1966, accordo cui aderirono 173 stati, che riafferma il principio dell'obbligatorietà per le parti stipulanti del rispetto del divieto di respingimento di richiedenti asilo verso paese che presentino i rischi paventati dalla Convenzione del 1951. Principio analogo fu espresso dalla United Nations Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984 (UNCAT) che vieta agli stati aderenti l'espulsione, il respingimento o l'estradizione verso stati nei quali sia concreto il rischio che la persona possa essere soggetta a tortura.
Il diritto convenzionale europeo risultante dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani del 1950 a propria volta vieta all'articolo 3 l'espulsione di richiedenti asilo verso paesi nei quali possano affrontare il pericolo di respingimento diretto o indiretto verso il paese d'origine [11]. E la giurisprudenza di Strasburgo si è mostrata preoccupata di porre al centro della propria indagine in merito all'esatta applicazione dell'articolo 3 appena citato la possibilità per il richiedente asilo di accedere a una adeguata procedura nel paese terzo ricevente [12].
Di grande rilievo è la circostanza che l'articolo 6 dello Human Rights Act inglese del 1998 abbia espressamente e letteralmente recepito l'articolo 3 della CEDU.
La Supreme Court ha per completezza osservato che il principio del non-refoulement concorre alla formazione del diritto internazionale consuetudinario, così vincolando tutti gli stati. Ed infatti, la Dichiarazione degli stati contraenti della Convenzione del 1951 ed aderenti al collegato Protocollo del 1967 sottoscritta nel 2001 [13] racchiude nel suo quarto “considerando” premesso al Preambolo il riconoscimento della continua rilevanza e resistenza del regime internazionale dei diritti e dei principi relativi alla protezione dei rifugiati, “incluso quello basilare del non-refoulement inglobato nel diritto internazionale consuetudinario. Questo importante riconoscimento rende il principio ius cogens per tutti gli stati della comunità internazionale e contribuisce, quindi, a disegnarne il peso vincolante anche per il Regno Unito. Tale ordinamento ha, a propria volta, posto in essere coerenti ed univoche misure normative sempre facenti perno sul principio del non-refoulement. In questo filone trova spazio, ad esempio, la sezione 2 dell'Asylum and Immigration Appeals Act del 1993 che dispone nel senso che nessuna delle disposizioni contenute nelle Immigration Rules, corollario dell'Immigration Act del 1971 possa ammettere pratiche contrarie alla Convenzione del 1951. Analogamente, la sezione 82 (1) del Nationality, Immigration and Asylum Act del 2002, in combinato disposto con la successiva sezione 82(2), conferisce ai richiedenti asilo la facoltà di appellare le decisioni governative che si pongano in contrasto con la Convenzione ONU, con il logicamente incluso inglobamento del divieto di respingimento. Ed infine, il paragrafo 17 dell'allegato 3 all'Asylum and Immigration (Treatment of claimants) Act del 2004, consente al segretario di Stato di certificare che il paese terzo cui inviare un richiedente asilo possa definirsi “sicuro” solo laddove la sua vita e la sua libertà non siano messe a repentaglio per ragioni razziali, religiose, politiche o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale.
Sulla scorta del quadro normativo così individuato, la sentenza procede all'esame delle questioni devolute alla sua cognizione (di una soltanto delle quali, quella relativa al ricorso incidentale fondato su una norma comunitaria non più in vigore dopo il 31 dicembre 2020 [14], e, pertanto, rigettato non è necessario in questa sede occuparsi).
3.4. Le questioni devolute alla cognizione della Supreme Court
Non considerando adesso, per le ragioni spiegate in chiusura del paragrafo precedente, l'oggetto del ricorso incidentale, la Supreme Court ha concentrato la propria attenzione sulla questione basilare attorno alla quale ruota la propria sentenza, ossia l'effettiva osservanza nella fattispecie del cardine dell'intero sistema planetario di trattamento dei richiedenti asilo, il non-refoulement principle. Per pervenire alla decisione sul punto, che in realtà investiva l'intera materia sviluppata nel ricorso del governo inglese contro la pronuncia per sé negativa della Court of Appeal, i giudici supremi suddividono in tre sotto-temi, di cui si andrà fornendo illustrazione, la complessiva materia, sapendovi dare una risposta unitaria ed armoniosa.
Si è già preannunciato che il vero obiettivo della pronuncia è stato quello di rispondere alle censure sollevate dal governo contro la decisione di secondo grado ponendola costantemente a raffronto, in termini di aderenza ad un idoneo percorso argomentativo ed al nugolo dei poteri esercitabili in materia dall'autorità giudiziaria, con quella della Divisional Court che aveva, al contrario, sancito la legittimità dell'operato del governativo e, per diretta e meccanica conseguenza, quella del sistema operante in Ruanda in materia di protezione dei rifugiati richiedenti asilo.
Ed invero, il primo quesito cui la Supreme Court si è assegnata il compito di dare risposta è stato quello sull'esattezza del metodo utilizzato in primo grado, e rovesciato in appello, di accertamento dell'esistenza del rischio del respingimento dei richiedenti asilo da parte del Ruanda.
Seguendo un ormai consolidato approccio sistematico alla definizione del proprio ufficio decisorio, ed in sostanza assolvendo la propria funzione al tempo stesso nomofilattica e di sindacato costituzionale e, più in particolare interpretando nel modo più proficuo il proprio ruolo di garante della rule of law, epicentro del Constitutional Act del 2005, la sentenza fissa il modello di riferimento cui ancorarsi. E lo individua, a dimostrazione del proprio incontaminato animo europeista in senso lato, in una sentenza della Corte EDU in un caso di estradizione del 1989 che riguardava proprio il Regno Unito [15]. La regula iuris consacrata fu che il dovere degli stati contraenti, nascente dal citato articolo 3 della Convenzione del 1950, di non sottoporre alcuno a tortura o a trattamenti inumani e degradanti si accompagna al correlato obbligo di non trasferimento verso stati rispetto ai quali si presentino fondate ragioni per ritenere attuale e concreto il rischio che ivi si pratichino maltrattamenti.
Del massimo interesse sul piano del legal reasoning è la conseguenza che la Supreme Court trae da quella che, provenendo dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, ben si assesta tra i precetti di diritto positivo. Ed infatti, i giudici supremi rinvengono nel caso Soering un sicuro elemento che giustifica l'affermazione secondo cui il test da applicare per verificare l'effettiva osservanza del principio proibitivo dei respingimenti di richiedenti asilo non può che essere quello, ignorato dalla Divisional Court e, all'opposto fatto giustamente proprio dalla Court of Appeal, che impone al Giudice di appurare e decidere direttamente e sulla base di un proprio, autonomo metro di giudizio se la fattispecie esibisca dati concreti che consentano di affermare che il trasferimento del richiedente asilo dal Regno Unito ad un altro stato (nella specie il Ruanda) esponga la persona ad un reale rischio di maltrattamenti. Viene ulteriormente affermata l'assoluta insufficienza al riguardo del metodo che aveva indotto i primi giudici ad assolvere l'operato governativo da ogni ombra sospetta di illegittimità, ovvero l'esistenza di assicurazioni dallo stesso fornite, ed a propria volta frutto di garanzie puramente verbali date dal governo del Ruanda, circa la conformità al diritto internazionale delle politiche in materia di immigrazione praticate in quel paese. Resta, così, platealmente bocciato l'atteggiamento remissivo e rinunciatario della Divisional Court, tenutasi prudentemente ai margini del merito della questione centrale vertente sull'assenza o presenza di rischi concreti circa il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Severa è la censura rivolta ai primi giudici, cui si è imputato di essersi accontentati di valutare la ragionevolezza del giudizio governativo classificatorio del Ruanda come paese terzo sicuro e di aver abdicato alla propria inerente prerogativa di ergersi a giudice dei duri fatti e non solo degli atti ufficiali. È il metodo di giudizio a costituire il vizio motivazionale che intacca la prima sentenza, pronunciata in carenza assoluta di un controllo giudiziale intrinseco dell'effettivo rispetto del principio del non-refoulement. E, come si vedrà, la Supreme Court non si è sottratta all'impresa, omogenea rispetto al principio di diritto enunciato, di desumere dall'ampio materiale probatorio a disposizione le ragioni di un convincimento contrario alla legittimità dell'intera operazione di delocalizzazione umana senza particolari scrupoli giuridici realizzata dal governo britannico. La automatica conclusione è stata quella di ratifica del contrario e corretto atteggiamento assunto dalla Court of Appeal, assuntasi la responsabilità di dire la propria parola sulla presenza del rischio della violazione della Convenzione ONU del 1951 insito nell'accordo con il Ruanda.
Il secondo sotto-tema, derivante dalla questione essenziale relativa alla stretta osservanza, nell'intero accordo negoziale, del principio proibitivo del respingimento, consiste nel giudicare della correttezza della riforma, da parte della Court of Appeal, della statuizione principale della Divisional Court. La risposta positiva è in misura chiarissima il logico effetto del ragionamento appena illustrato.
Alla critica di fondo imperniata sulla concezione riduttiva dell'intervento giudiziale se ne aggiunge altra non meno abrasiva, rivolta a sottolineare la povertà del metodo adibito alla valutazione delle risultanze probatorie in atti. Lacuna, questa, a propria volta traente origine dalla trascurata valorizzazione dell'orientamento della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo in uno specifico passaggio della sentenza Ilias c.Ungheria del 2019. In esso il giudice europeo indica in modo stentoreo i criteri ai quali è tenuto ad attenersi lo stato contraente che intenda trasferire ad uno stato terzo i richiedenti asilo che si trovino nel proprio territorio. Sul primo stato incombe il dovere di esaminare approfonditamente la questione della sussistenza di un rischio effettivo che lo stato terzo ricevente possa negare accesso ai richiedenti asilo ad una procedura adeguata che li protegga dal grave pericolo del respingimento. E tale esame deve essere compiuto mediante la scrupolosa analisi delle modalità di funzionamento in concreto, nel paese terzo ricevente, del sistema di riconoscimento del diritto di asilo, tenendo conto delle eventuali carenze segnalate da organismi internazionali quali l'alto commissariato dell'ONU per i rifugiati ed avendo, altresì, riguardo a tutte le circostanze rilevanti note al momento. Questa osservazione fa giustizia del duplice errore addebitato dalla Supreme Court ai giudici di primo grado. Questi, infatti, non avrebbero, innanzitutto, potuto accontentarsi delle assicurazioni date dal governo ruandese a quello britannico circa l'effettivo rispetto dei divieti derivanti dalla Convenzione del 1951 in materia di respingimento. Ancora una volta è la giurisprudenza di Strasburgo il faro che orienta il ragionamento della Supreme Court. Ed infatti, in una sentenza del 2015 [16] la Corte EDU affermò che il peso da attribuire alle assicurazioni dello stato ricevente dipende volta per volta dalle circostanze concrete, così escludendone il valore assoluto. Indirizzo confermato da una sentenza del 2021 del medesimo organo giudicante inglese, ossia la Supreme Court [17], che sottolineò la necessità che i giudici chiamati a pronunciarsi su una richiesta di estradizione delibino accuratamente la sufficienza delle garanzie dello stato richiedente l'estradizione circa l'insussistenza di rischi di maltrattamenti alla luce di tutte le specifiche circostanze del caso e senza alcun automatismo. A questa stregua si è rivelato erroneo e carente il ragionamento seguito dalla Divisional Court che omise di considerare la concreta situazione del Ruanda con riguardo a lacune di sistema riscontrabili negli organi competenti ed alle procedure utilizzate per decidere sulle domande di asilo. Ancor più manchevole ed apodittico è apparso agli occhi della Supreme Court il passaggio motivazionale di primo grado fondato sul credito accordato, al fine di asseverare le assicurazioni del governo ruandese, alla competenza ed all'esperienza degli incaricati del governo inglese chiamati a pronunciarsi su di esse. E ciò perché non può essere delegato ad altri organi il giudizio, proprio della corte giudicante, circa l'insussistenza del concreto rischio della violazione del non-refoulement principle. Viene a questo proposito richiamato un caso-guida venuto all'esame della House of Lords nel 2001 [18] che, con l'opinione di Lord Hoffmann, affermò che, nell'ipotesi in cui la deportazione di un cittadino straniero in un altro paese comporti il rischio che gli vengano inflitte torture, è cedevole anche l'interesse inglese alla propria sicurezza nazionale ed è necessario che il governo metta in campo soluzioni alternative al trasferimento all'estero.
Il secondo, altrettanto decisivo nell'economia della ratio decidendi della Supreme Court, errore commesso dalla Divisional Court ed analiticamente censurato anche dalla Court of Appeal è caduto sulla sostanziale pretermissione dei più significativi ed inequivocabili elementi probatori presenti in atti che cospiravano a favore della conclusione che le concrete circostanze lasciavano con certezza emergere la presenza del rischio reale che il trasferimento dal Regno Unito al Ruanda di cittadini richiedenti asilo si sarebbe risolto nell'inosservanza del divieto di respingimento. Con acribia la Supreme Court effettua l'elenco di tali elementi, in larga parte tratti da rapporti dell'UNHCR [19] ed altrettanto largamente trascurati dalla Divisional Court, qui di seguito sommariamente riportati. Innanzitutto, in un recente passato il governo ruandese aveva mancato di adempiere le assicurazioni date a quello israeliano in relazione ad un accordo per il trasferimento dal secondo al primo di richiedenti asilo. Vi è poi un’esperienza molto allarmante di casi di respingimenti compiuti in violazione del diritto internazionale da parte del governo ruandese nonché di gravi manchevolezze nel sistema di amministrazione delle domande di asilo rivelatosi privo di garanzie circa l'adozione di decisioni motivate a livello governativo: d'altra parte, non vi è evidenza di un solo caso di ricorso giurisdizionale contro una decisione di rigetto delle domande d'asilo. Ad aggravare le omissioni appena ricordate è stato l'atteggiamento sprezzante dei primi giudici verso la preziosa opera informativa dell'UNHCR, sistematicamente ignorata ed altezzosamente sottovalutata in quanto priva di un particolare peso (“carries no special weight”). L'atteggiamento è stato pesantemente criticato dalla Supreme Court che, oltre a ricordare l'importanza delle circostanze di cui i rapporti dell'organismo danno conto, ha voluto corrispondere un tributo al ruolo da esso svolto, definito da un precedente della stessa Supreme Court come il “titolare di un ufficio rispettato a livello internazionale e detentore di elevati livelli di conoscenza e competenza che eccedono quelli di cui ordinariamente è dotata una corte di giustizia” [20]: sotto questo profilo è stato reputato ammissibile l'intervento in giudizio (una sorta di amicus curiae) dell'UNHCR, teso a riaffermare il principio per cui i richiedenti asilo hanno il diritto di vedere esaminate le proprie domande nel territorio dello stato in cui approdano o di quello che abbia giurisdizione nei loro confronti.
La somma di questi motivi ha portato la Supreme Court a concludere, quanto al secondo profilo del motivo principale di ricorso, che non meritava censure la decisione della Court of Appeal, la quale, come detto, aveva riformato quella di primo grado, autrice della serie di errori censurati.
Il terzo profilo del fondamentale tema incentrato sul rischio che i richiedenti asilo trasferiti in Ruanda potessero veder violato il non-refoulement principle ha riguardo alla esattezza della statuizione della Court of Appeal, di riforma di quella della Divisional Court che aveva escluso l'esistenza di fondati motivi per ritenere la sussistenza di tale rischio. Le osservazioni precedenti in punto di criteri di giudizio e di sostanza probatoria orientano ancora una volta in senso affermativo la risposta volta a confermare la correttezza della sentenza di secondo grado impugnata dal governo inglese.
Ulteriori e probanti elementi vengono portati a suffragio della tesi dell'alto grado di pericolo di attentato ai diritti umani dei richiedenti asilo nel caso di trasferimento in Ruanda. Si ricorda, a tal proposito, che la recente esperienza dimostra che il Ruanda è stato teatro di spaventosi periodi di violenza, solo in parte superati da successivi progressi in campo economico e sociale. Tuttavia, la corte non giudica questi ultimi idonei a superare il negativo impatto dei precedenti. Viene sottolineato che curiosamente era stata la stessa Divisional Court, seppur in diversa composizione, a definire in un caso del 2017 [21] il Ruanda come un paese che “ha istigato, in tempi molto recenti, omicidi politici, inducendo la polizia inglese ad avvertire cittadini ruandesi abitanti nel Regno Unito dell'esistenza di piani credibili, messi in opera dal governo, per ucciderli”. È anche accertato ormai che il Ruanda mantiene sì una politica di porte aperte nei confronti di rifugiati provenienti da paesi in cui alti sono i conflitti civili (quali la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica del Burundi) senza, tuttavia, di norma definire positivamente le domande di asilo. È altrettanto noto, come fatto risaltare nella prima citata sentenza del 2017 della Divisional Court, il timore di una scarsa indipendenza del potere giudiziario (nonché, perfino, dell'avvocatura) da quello esecutivo: il che mette a repentaglio la possibilità di un vaglio autonomo in sede giurisdizionale delle domande di asilo respinte nella fase amministrativa. Le statistiche dimostrano che in tale fase si è registrato il 100% di rigetti delle domande. Ed ancora, i rapporti dell'alto commissariato danno contezza di prassi di refoulement adottate nel paese, tanto da aver indotto uno dei giudici di maggioranza della Court of Appeal, Underhill, a descrivere, nella migliore delle ipotesi, come insufficiente la cultura del rispetto, da parte delle autorità governative ruandesi competenti in materia di immigrazione [22], degli obblighi internazionalmente assunti: mentre, nella peggiore delle ipotesi quella politica viene definita come improntata al deliberato disprezzo verso tali obblighi. Né, al momento della sottoscrizione dell'accordo o in epoca successiva, l'autorità governativa inglese si è in alcun modo curata di indagare circa le prassi di respingimento vigenti nel paese dell'altro contraente, come criticamente messo in rilievo in un inascoltato rapporto stilato da un'autorità indipendente inglese, l'Independent Advisory Group on Country Information (IAGCI) [23]. Si desume, altresì, dai rapporti dell'UNHCR l'assoluta mancanza di preparazione professionale dei funzionari statali incaricati di trattare le pratiche di asilo: ciò che fa temere che non sia possibile modificare, almeno nel breve periodo, le prassi del passato. Né, si osserva dalla Supreme Court, i funzionari del governo inglese sembrano essersi minimamente curati, prima di esprimersi sull'incipiente accordo, di verificare se l'analogo accordo stipulato con Israele avesse dato luogo-come in effetti era avvenuto-a patenti violazioni della Convenzione del 1951 a causa del mancato rispetto dei diritti dei richiedenti asilo.
3.5. Le conclusioni della Supreme Court e la ratio decidendi della Sentenza
Al termine di una minuziosissima analisi delle circostanze emergenti dall'imponente compendio probatorio le conclusioni cui perviene la Supreme Court si fondono in modo coeso e danno vita ad una convincente e congrua ratio decidendi. Questa gira, dall'inizio alla fine della lunga sentenza, attorno al presupposto basilare ai fini della decisione del caso, ossia il pieno potere-dovere dell'autorità giudiziaria inglese di sottoporre a stringente scrutinio l'attività posta in essere dagli organi del potere esecutivo nella doverosa prospettiva di verificarne rispondenza e coerenza con i principii fondamentali consegnati da norme internazionali ed interne, nonché dallo stesso common law inteso nella sua origine e formazione giurisprudenziale. In questo completo rovesciamento dell'ottica dalla quale guardare al caso risiede il completo rigetto dell'ingiustificata autolimitazione impostasi dalla Divisional Court, solo attenta al controllo esteriore e formale della legittimità dei provvedimenti in discussione. Questo atteggiamento contraddittorio rispetto alla pienezza della propria funzione ha condotto i giudici di primo grado ad ergere a piattaforma di valutazione della legittimità dei provvedimenti impugnati, non la ricca ed obiettiva evidenza probatoria sgorgante dagli atti ma, la semplice messe di interessate assicurazioni fornite dal governo del Ruanda (a favore del quale, come sostegno finanziario dell'accordo era stata stanziata dal governo inglese per il 2022 l'ingente somma di 140 milioni di sterline) circa la compatibilità del proprio sistema istituzionale considerato nel suo complesso con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e di divieto di respingimento implicati dalla gravità del caso. Ancora una volta è netta e radicale la cesura rispetto a questa posizione tanto della Court of Appeal a maggioranza quanto della Supreme Court all'unanimità, pronunciatesi concordemente nel senso della ineludibile esigenza di esaminare ogni elemento acquisito al processo onde giudicare del thema decidendum. E questo era unicamente costituito non dalla esistenza della buona fede del governo ruandese nel concludere l'accordo ma dalla sua obiettiva-tale perché deducibile da dati obiettivi-capacità di adempiere le obbligazioni assunte, prima e fondamentale tra esse quella di rispettare il divieto di respingimento. La ponderata valutazione delle circostanze, condotta senza aprioristici dinieghi di rilevanza ad alcuna fonte di conoscenza, ha portato a ritenere che sia ancora inadeguata la percezione in Ruanda dell'efficacia cogente ed inderogabile di principii fondamentali stabiliti dalla Convenzione ONU del 1951, quale quello del non-refoulement. È risultata altrettanto chiara la necessità, avallata dallo sbrigativo trattamento di rifugiati richiedenti asilo medio-orientali ed afghani, che rimarchevoli modifiche di sistema vengano apportate prima che si possa nutrire fiducia nell'osservanza incondizionata di tali principii. Non poteva, pertanto, concepirsi conclusione diversa da quella fatta propria dalla Supreme Court secondo cui sono affiorati rilevanti e fondati motivi per ritenere che ricorra un reale rischio che le istanze dei richiedenti asilo possano non essere decise in Ruanda in modo appropriato e che essi possano essere esposti al rischio di essere respinti, in forma diretta o indiretta, verso i loro paesi d'origine nei quali concreto è il pericolo della sottoposizione a trattamenti vietati dalle norme internazionali.
4. Tratti conclusivi
Il terreno delle considerazioni finali è sparso di argomenti eterogenei ma non per questo inadatti a restituire l'immagine di un filo conduttore comune al discorso fin qui svolto.
Il tema dei flussi migratori, per la sua incidenza globale e per la sensibilità nei suoi confronti mostrata in ogni parte del mondo ampiamente dimostrata dal mondo politico-istituzionale, ha frequentemente aguzzato la fantasia dei decisori nazionali sbrigliandola in direzioni spesso avventurose ed immeditate come il caso inglese, tutt'altro che unico in Europa, prova. L'accentramento di decisioni così delicate nelle mani del solo potere esecutivo trascurando l'interlocuzione parlamentare (è proprio il caso inglese a lasciar auspicare che diverso debba essere il percorso da seguire in casi di accordi internazionali di siffatta portata), oltre a menomare la possibilità di un controllo pubblico diffuso sull'attività del governo, aumenta in modo rimarchevole la possibilità di dar luogo ad istruttorie affrettate, superficiali, carenti (imperdonabili appaiono, nel modo in cui sono state stigmatizzate dalla Supreme Court, ad esempio, le mancate indagini da parte dei funzionari governativi circa i comportamenti tenuti dal Ruanda in occasione di precedenti accordi e sullo stato generale delle garanzie democratiche indipendentemente dalle auto-certificazioni). Altra spia della cautela che avrebbe dovuto circondare l'intera operazione poi cassata dalla Supreme Court andava individuata nella disparità di consistenza economica dei due paesi contraenti, destinata ad incrementare il desiderio di concludere ad ogni costo l'accordo da parte del paese più debole in vista del corrispettivo conseguibile.
Ma insieme a questi messaggi che suggeriscono grande prudenza e ponderazione nel trattare la materia dei diritti dei migranti e le connesse obbligazioni degli stati operanti nello scenario internazionale non è difficile cogliere note rosee ed incoraggianti.
Invero, ove, seppur soltanto per (sterile) esercizio dialettico, dovesse dubitarsi dell'esistenza di un robustissimo telaio costituzionale nel diritto inglese, a dispetto della consolidata formazione di una inviolabile costituzione materiale, la vicenda cui è dedicata la presente ricerca presterebbe uno strumento potente ed incontrovertibile di rassicurazione. Ed infatti, volendo, e forse dovendo, elevare la vicenda stessa ad un piano conformativo e descrittivo dei caratteri dell'ordinamento inglese, viene da considerare che la sentenza della Supreme Court costituisce la più limpida e persuasiva esemplificazione e spiegazione della tanto spesso invocata (non sempre e non da tutti con pieno controllo concettuale) rule of law. Essa, epitome delle molteplici forme di manifestazione dello stato di diritto ordinatamente articolato secondo la divisione dei poteri, vive e si incarna nell'esempio fornito dall'esercizio quotidiano dei poteri stessi e dal loro coordinamento. Dicevano che, nell'impedire la sopraffazione di uno ad opera dell'altro, al contempo esige che ciascuno si esplichi senza timori o costrizioni in modo pieno. Ed è, pertanto, un segnale di vitalità di uno stato di diritto che il potere giudiziario non si lasci imprigionare dall'utilitaristica tentazione del quieto vivere e rinunci alle proprie funzioni di custode e promotore, attraverso l'espressione delle proprie decisioni, della legalità. E ciò anche a costo di esibire con motivata pronuncia l'illegittimità dell'agire governativo. In questo senso l'esempio che proviene da una indomita Supreme Court potrebbe sperabilmente rivelarsi contagioso e capace di valicare i confini nazionali.
[1] Sul carattere fondamentale ed antico del diritto di emigrare v.Ferrajoli, Crisi del diritto e dei diritti nell'età della globalizzazione in Questione Giustizia del 20 novembre 2023. Il testo riproduce l'intervento svolto dall'Autore al XXIV congresso di Magistratura Democratica, svoltosi a Napoli tra il 9 e l'11 novembre 2023.
[2] (2023) UKSC 42.
[3] Organo in composizione collegiale della High Court competente, tra l'altro, in materia di impugnazione, attraverso lo speciale procedimento della judicial review di atti e provvedimenti dell'autorità amministrativa.
[4] (2022) EWHC 320 (Admin.).
[5] (2023) EWCA Civ 745.
[6] Le due norme consentono il trasferimento dei richiedenti asilo in un paese terzo sicuro nella sola ipotesi della ricorrenza di un collegamento degli stessi con tale paese.
[7] Vale la pena riportare nel testo originale il passaggio per la sua forza persuasiva: “The court is not concerned with the political debate surrounding the policy, and nothing in this judgment should be regarded as supporting or opposing any political view of the issues”.
[8] Paragrafo 345 B delle Immigration Rules del 2016 emanate in omaggio alla previsione dell'Immigration Act 1971.
[9] Paragrafo 10.4.
[10] R v Secretary of State for the Home Department, Ex p Bugdaycay (1987) AC 532.
[11] Principio applicato dalla Corte EDU nel caso MSS c Belgio e Grecia del 2011 relativo al trasferimento di un richiedente asilo verso un paese in cui era transitato.
[12] Ilias v Hungary del 2019.
[13] Declaration of States Parties to the 1951 Convention and/or its 1967 Protocol Relating to the Status of Refugees (documento ONU 2001/09).
[14] In virtù delle previsioni del paragrafo 6 (1) dell'allegato 1 all'Immigration and Social Security Co-ordination (EU Wirhdrawal) Act 2020, caparbiamente propugnato dal governo di Boris Johnson in attuazione del procedimento conseguente al voto referendario del 23 giugno 2016.
[15] Soering c Regno Unito (1989).
[16] Othman c. Regno Unito. Il caso riguardava la deportazione in Giordania di un cittadino richiedente asilo nel Regno Unito e la sufficienza delle garanzie fornite dal paese di destinazione in ordine all'assenza di concreti rischi di maltrattamenti.
[17] Zabolotnyi v la Mateszalka District Court, Hungary (2021) UKSC 14 attinente alla sufficienza delle garanzie offerte dal governo ungherese ricevente sull'inesistenza del concreto rischio che l'estradizione del ricorrente non lo avrebbe esposto a maltrattamenti. È notevole il fatto che redattore della sentenza fu Lord Lloyd Jones, co-estensore con Lord Reed, di quella qui commentata.
[18] Secretary of State for the Home Department v Rehman (2001) UKHL 47. Il principio, illustrato nel testo, fu poi seguito dalla Supreme Court 20 anni dopo in R (Begum) v Special Immigration Appeals Commission (2021) UKSC 7. La sentenza resa in quest'ultimo caso, in cui si riaffermava l'infungibilità della valutazione giudiziale in ordine alla possibile violazione da parte dell'autorità governativa degli obblighi internazionalmente assunti in base all'articolo 6 dello Human Rights Act 1998 (che traspose nel diritto inglese il divieto di tortura sancito dall'articolo 3 della CEDU), fu redatta da Lord Reed, coestensore di quella odierna.
[19] La stessa Supreme Court ha riconosciuto quanto considerevolmente autorevoli siano i rapporti dell'alto Commissariato ONU definiti unici ed ineguagliabili nel caso IA (Iran) v Secretary of State for the Home department (2014) UKSC 6.
[20] Così si espresse, citando le parole usate nel primo grado di quel procedimento dal giudice Sedley, Lord Kerr in R (EM(Eritrea) v Secretary of State for the Home Department (2014) UKSC 12.
[21] Government of Rwanda v Nteziryayo (2017) 191 EWHC (Admin).
[22] Il Directorate General of Immigration and Emigration in Rwanda (DGIE)
[23] In tale rapporto sono menzionate le numerose falle registrate nel sistema amministrativo, di cui viene denunciata la mancanza di trasparenza, che regola le procedure per l'esame delle domande di asilo.
Recensione di Ilaria Buonaguro
Sulle colline di Tivoli, alla fine di un sentiero sterrato, incastonata fra gli alberi di ulivo c’è una casa di pietra. Lì, dopo la “curva del regresso” che costringeva il treno a vapore ad arrancare e a tornare verso Roma e che, oggi, altro non è che un’ennesima curva in salita da vincere scalando la marcia e facendo fare qualche giro in più al motore.
Una casa che è crocevia di storie diverse, ma che parlano tutte la lingua comune della solitudine. Ed è rifugio per chi passa e per chi resta. Per chi passa - Irene, fotografa romana trentottenne cresciuta in una famiglia algida del quartiere Prati, alimentando il gusto di negare soddisfazioni alla madre e imparando a sfuggire l’amore. Per chi resta - Adelia, una donna italo-portoghese di settant’anni che in quella casa, ereditata dal nonno materno, ha dato inizio a una nuova vita. E Osias, un ragazzo congolese diciannovenne arrivato in Italia grazie ad un’organizzazione umanitaria, con un futuro tutto da costruire rincorrendo sogni e stelle studiando astrofisica, eppure col ricordo ancora vivido della morte negli occhi e nel cuore. E che condivide con Adelia quella casa, perché un giorno, nel Villaggio dove Adelia lavorava e Osias era un groviglio di silenzi in un mare di dolori taciuti, l’empatia dei loro sguardi li ha uniti più del sangue.
Nella torrida estate del 2007 il desiderio di accoglienza di Adelia, il bisogno di affetto di Osias e l’esigenza di scappare di Irene si attraggono come poli opposti di un magnete. Istinti primordiali che agiscono come forze di un determinismo perfetto, dando vita ad un incontro che Adelia, Osias e Irene sanno riconoscere e trasformare in qualcosa di nuovo e di più grande.
Le storie dei tre protagonisti, narrate alternativamente in prima o in terza persona, prendono corpo attraverso prospettive diverse, intervallate da una voce “fuori campo” che, insinuandosi tra i capitoli, segue l’incedere del romanzo e dialoga talvolta con i personaggi, talvolta con il lettore, altre volte con lo scrittore stesso, instaurando rapporti diretti che trascendono il foglio di carta.
In quel luogo isolato, lontano da Roma tanto basta per vederla accendersi di luci all’orizzonte quando cala la sera, le resistenze di Irene scemano di giorno in giorno, tra l’esuberanza di Adelia e la presenza discreta di Osias, sottofondo di fado portoghesi e profumo, avvolgente, di biscotti allo zenzero appena sfornati.
Il rito di ritrovarsi ogni sera attorno allo stesso tavolo fa il resto, creando un’intimità familiare capace di abbattere le ultime fragili barriere. Attraverso la condivisione del proprio vissuto, Adelia, Osias e Irene si spogliano finalmente del proprio dolore, scoprendosi meno soli e trovando il coraggio di affrontare le proprie incertezze e le proprie paure.
In quella calda sera di luglio le fiamme - che hanno segnato traumaticamente il trascorso dei tre protagonisti - tornano a bruciare, ma questa volta con un significato diverso. Il fuoco che divampa non è più distruzione e fine, ma metafora di catarsi e cambiamento. E la fuga a cui costringe insieme Adelia, Osias e Irene non è più solo istinto di sopravvivenza ma slancio verso un futuro finalmente libero dalle ombre troppo lunghe di un passato ingombrante.
Attraverso una scrittura intima ma ritmata, l’autrice di Icarezenzero ci ricorda l’importanza e il senso profondo degli incontri, incastri di vite che il destino ci propone continuamente, ma il cui significato e valore sta a noi saper cogliere e saper alimentare. Per poter acquisire nuove consapevolezze, per far nascere un legame, per riuscire a lasciarsi il passato alle spalle e trovare la forza di cambiare. Per scrivere, ancora, l’inizio di una nuova storia.
(Silvia Filippi, Icarezenzero, Pluriversum Edizioni, Ferrara, 2022).
di Raffaello Belli
Sommario: 1. L’“accomodamento ragionevole” - 1.1. L’“accomodamento” - 1.1.1 Società vivibile per tutti - 1.2. L’“accomodamento ragionevole" e l’assistenza personale - 1.3. L’onere sproporzionato o eccessivo - 1.3.1. L’onere sproporzionato o eccessivo nella Convenzione - 1.3.2. La legge n. 67 del 2006 - 2. Le “risorse disponibili” - 2.1. Una sfida concreta - 3. La “vita indipendente” - 4. Il “progetto di vita individuale” - 4.1. Non prendersi in giro - 5. Alcune altre questioni - 5.1. Il Garante - 5.2. Il “modello sociale della disabilità” - 5.3. Revisioni delle prestazioni - 5.4. La “presa in carico” - 6. Conclusioni.
4. Il “progetto di vita individuale”
Nella Legge n. 227 qui in esame, per “consentire” ai disabili di non essere discriminati e vivere le libertà, di fatto viene accantonata la “vita indipendente” e ben altro spazio viene dato al “progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato”.
Rispetto alla normativa preesistente, in quella riguardante il “progetto di vita individuale” di passi in avanti c’è che viene stabilito di “prevedere che sia garantita comunque l'attuazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato, al variare del contesto territoriale e di vita della persona con disabilità, mediante le risorse umane e strumentali di rispettiva competenza degli enti locali e delle regioni ai sensi della normativa vigente”[77]. Ovvero, se un disabile cambia zona di residenza, non deve più ricominciare tutto daccapo con i “servizi sociali” come accade attualmente e accadrà fino a quando non ci saranno i decreti attuativi di questa legge.
E non è per niente negativo neppure il fatto che nella Legge n. 227 sia prevista la partecipazione alla determinazione del “progetto di vita” anche da parte dei disabili gravissimi[78]. Però sarebbe davvero inammissibile se ai gravissimi non venisse consentita nemmeno la partecipazione alla determinazione del proprio “progetto di vita”. E il fatto che si sia ritenuto necessario introdurre una norma per garantire tale partecipazione è indicativo dei rischi che corre chi è costretto a rivolgersi ai servizi sociali.
Si rileva poi che in questa Legge n. 227 per un disabile viene stabilito che è indispensabile fare il “progetto individuale”, mentre la “vita indipendente” è solo una possibilità subordinata. Cioè, il “progetto individuale” va fatto in ogni caso, poi si vedrà se in tale progetto rientra o meno la “vita indipendente”. Viceversa, fra l’altro, la Convenzione dell'Onu sui disabili e la Costituzione italiana tutelano rispettivamente, in maniera esplicita o implicita, la “vita indipendente” e non prevedono il “progetto di vita”.
Per di più “progetto individuale” non vuole affatto dire “progetto autodeterminato”: nella Legge n. 227 qui in esame viene infatti stabilito chiaramente che questo progetto deve sì tener conto delle specifiche esigenze del singolo disabile, ma viene fatto dai servizi sociali con la partecipazione del disabile.
In vari punti di questa Legge risulta chiaro che il “progetto di vita” non è fatto dalla persona disabile stessa. Fra l’altro viene stabilito di “prevedere [...] assicuri […] con la partecipazione della persona con disabilità [...] l'elaborazione di un progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato”[79]. E l’immediatamente successivo punto 5) stabilisce di "prevedere che il progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato sia diretto a realizzare gli obiettivi della persona con disabilità secondo i suoi desideri, le sue aspettative e le sue scelte". Cioè la persona con disabilità è parte terza rispetto all’estensore del progetto.
In relazione al “partecipato” riportato qui sopra, per esigenze di lunghezza non è qui possibile esaminare ogni dettaglio di quanto stabilito sulla capacità legale dall’art. 12 della Convenzione dell'Onu sui disabili cit. E, tanto meno, è possibile esaminare in dettaglio il “Commento Generale”, relativo a tale articolo, scritto dal Comitato dell’Onu cit.
Poiché l’essere titolari dei diritti fondamentali si risolve in una scatola vuota se per il soggetto non è possibile decidere liberamente tutto quanto riguarda il loro concreto esercizio, dell’art. 12 cit. vanno comunque accennate almeno alcune parole, da tener ben presenti anche per altre questioni che verranno esaminate più avanti in questo scritto. In base a tale art. 12 della Convenzione, lo Stato deve fornire il “sostegno” al disabile per quanto riguarda l’esercizio delle decisioni riguardanti la propria vita, e quindi il disabile non “partecipa” (come stabilisce la Legge n. 227), ma rimane il soggetto che prende tali decisioni, ovvero è il soggetto da sostenere. Si badi poi bene che, sempre secondo l’art. 12 cit., gli Stati devono fornire ai disabili “il sostegno […] di cui dovessero necessitare”. Cioè a dire che, secondo questa disposizione, ovvero a seguito della parola “dovessero”, il fatto che i disabili abbiano necessità di essere aiutati per le decisioni riguardanti la propria vita è solo un’eventualità.
E pure da parte del Comitato cit. si ribadisce che deve trattarsi di “sostegno”[80] e viene stabilito che è talmente essenziale che il disabile sia il protagonista di tutto ciò che lo riguarda che tale “sostegno” deve essere fornito pienamente anche se richiede un onere sproporzionato[81].
Viceversa, con quel “partecipato”, la Legge n. 227 stabilisce che nessun disabile fa da sé il proprio “progetto di vita”. Inoltre tale “sostegno” deve essere scevro da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita[82]. Viceversa, secondo la Legge n. 227, il disabile “partecipa” alla formazione del “progetto” insieme a più persone (quindi in posizione numericamente molto minoritaria), che sono quelle che poi prenderanno la decisione finale sul finanziamento del “progetto”, quindi il disabile “partecipa”, se non altro, soggetto a “influenze”.
Infine, ma non meno importante, l’operato di quelle persone (senza qui approfondire se si tratta di equipe o altro), così come è imposto di fatto dalla Legge n. 227, ma attenendosi a quanto stabilito dall’art. 12 della Convenzione cit., deve essere sottoposto “a periodica revisione da parte di un’autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario”. Invece questo non è previsto dalla Legge italiana.
Ben diversa è la situazione per chi non viene costretto a vivere da disabile. Infatti la singola persona normodotata, qualora decida di fare un “progetto di vita”, lo fa da sé o con i propri conviventi o familiari o con chi vuole lei, con la piena titolarità della propria autodeterminazione e della propria privacy. Ed è proprio anche per evitare ogni discriminazione che, secondo il Comitato dell’Onu cit., la persona disabile deve essere sempre il centro decisionale di ogni aspetto riguardante la propria assistenza personale tanto da poter decidere in ogni caso “liberamente il proprio grado di controllo personale sull'erogazione”[83].
Viceversa, con la Legge in esame, per quanto riguarda i disabili gravi, la titolarità del “progetto di vita” viene spostata ai servizi sociali, il che è una gravissima discriminazione. Infatti il disabile può solo partecipare alla stesura del progetto, quindi viene meno anche la sua piena autodeterminazione, pure in spregio della “vita indipendente”. In tal modo non c’è neppure la privacy per i disabili, la quale, non va dimenticato, è un diritto fondamentale e inviolabile. E l’inviolabilità di questo diritto deriva in larga misura dal fatto che, senza privacy, in concreto c’è meno, e talvolta nessuna, libertà di esercitare i propri diritti fondamentali, che quindi, in concreto, diventano violabili. In definitiva, già sotto questi primi profili, il “progetto di vita”, come viene imposto da questa Legge, in concreto per i disabili significa un livello di autodeterminazione molto inferiore a quello garantito alle persone normodotate e questa è una grave discriminazione.
Si osservi poi che questa Legge dispone di "dare attuazione al progetto medesimo, stabilendo ipotesi in cui lo stesso, in tutto o in parte, possa essere autogestito"[84]. E ancora "ferma restando la facoltà di autogestione del progetto da parte della persona con disabilità"[85]. Cioè a dire che nella Legge n. 227 cit., con le parole “ipotesi” e “facoltà", l’autogestione della propria vita da parte della persona disabile in pratica è un’eccezione alla regola. E questo mentre invece essa è la regola secondo i primi tre articoli della Costituzione italiana e secondo la Convenzione dell'Onu sui disabili, per cui pure questi autogestiscono la propria vita salvo eccezioni. Inoltre, nel punto 9) di cui qui sopra, con la parola “ipotesi”, l’autogestione sembra essere un possibile riconoscimento al disabile da parte dei servizi sociali, mentre nel punto 11) di cui qui sopra, con la parola “facoltà", l’autogestione, pur essendo da un punto di vista formale una libera scelta, e quindi un diritto, del disabile, in pratica si propone come un’eccezione alla regola, per chi riesce ad essere consapevole e a farsi valere.
Per di più moltissime persone normodotate vivono pienamente la loro vita senza l’onere di dover fare preventivamente un “progetto di vita”. E magari vogliono e hanno il diritto di vivere alla giornata, cioè senza tale progetto. E non c’è nessun motivo valido per sostenere che una vita vissuta “alla giornata” sia meno valida di quella con “progetto”. Tanto più che molte persone, appartenenti al popolo sovrano, sostengono che, con le turbolenze del modo contemporaneo, vivere “alla giornata” sia l’unico modo per preservare la propria salute mentale.
Ciononostante il disabile grave, se vuole avere l’assistenza e gli altri strumenti necessari per non morire prima dell’inevitabile, viene costretto di fatto a fare un “progetto di vita”. Anche questa è una grave discriminazione.
Pure ad una persona normodotata, che fa un “progetto di vita”, capita, o può capitare, nella vita di doverlo cambiare più volte. Però questo cambiamento lo fa in proprio, senza alcuna burocrazia. Viceversa il disabile grave, se deve cambiare qualcosa nella propria vita, con la conseguente necessità di supporti almeno un po’ differenti, viene costretto sia a chiedere tale cambiamento ai cd. servizi sociali e sia a farlo in accordo con loro, iI che è un’altra grave duplice discriminazione.
Ovvero la Repubblica ha il dovere giuridico di agevolare chi ha grave disabilità. Per chi ha queste gravi difficoltà fisiche, sensoriali ecc., rispetto a chi è normodotato, è materialmente senz’altro più complicato dover fare un “progetto di vita”. Per cui, costringere un disabile a farlo, vuol dire ribaltare i compiti della Repubblica: non semplificare la vita ai disabili, ma complicarla. E poi, con talune gravi difficoltà, la vita è comunque molto più complicata in sé. Per cui costringere un disabile grave, per ogni cambiamento della propria vita, a dover ottenere l’’approvazione dei servizi sociali, è un’ulteriore grave discriminazione.
E ancora: per poter fare un “progetto di vita” è necessario prima conoscere come si può vivere, com’è il mondo, quali sono le proprie possibilità ecc. Tant’è che, pure chi è normodotato, se decide di fare un “progetto di vita”, prima conosce un po’ sia se stesso che la situazione esterna e poi, semmai, fa il progetto. In tutti i processi educativi e di orientamento scolastico prima si mettono a disposizione gli strumenti conoscitivi e poi si fanno i progetti. Anche in amore prima ci si conosce liberamente e poi si fanno progetti. E non mi paiono condivisibili quei costumi in cui c’è prima il matrimonio e poi la conoscenza. Inoltre nell’art. 2 Cost. l’inviolabilità dei diritti (cioè l’opposto del progetto partecipato) è anche “nelle formazioni sociali”. E nel co. 2 dell’art. 3 Cost. c’è il precetto della rimozione degli ostacoli che limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”.
Il punto centrale è poi che un disabile grave può conoscere il mondo, le proprie possibilità, la vita reale, “soltanto se” la Repubblica gli dà gli strumenti (accessibilità, ausili, assistenza personale ecc.) per inserirsi nella vita e capire cosa può e vuole fare. La conoscenza del mondo dove si deve vivere è un principio generale perfino del mondo animale anche non umano. Nessun genitore diligente, anche non umano, nega al proprio figlio gli strumenti per conoscere un po’ del mondo prima di costruirsi una propria vita. E, quando c’è un figlio con una grave disabilità, per i genitori da soli può essere impossibile fornire tutti tali strumenti.
In questa Legge n. 227 cit. però, se un disabile grave non presenta un progetto, non gli vengono dati dalla collettività gli strumenti per conoscere se stesso e il mondo: quindi il “progetto individuale”, anche sotto questo punti di vista, è una prigione. E, a tal fine, non è affatto decisivo, come stabilito dalla Legge n. 227 cit., che il disabile venga informato su quali strumenti possono essergli messi a disposizione con il “progetto individuale”. Ad esempio, un contadino, che si trova a dover lavorare un terreno sconosciuto, può seriamente scegliere quantità e qualità dei semi, fra quelli a disposizione, solo dopo aver camminato sul nuovo terreno per rendersi conto della sua vastità nonché delle sue qualità e posizione.
Infine, ma significativo: abbiamo già visto che, per l’eventuale “progetto di vita” della persona normodotata, non viene imposta alcuna partecipazione o valutazione da parte di persone esterne. Viceversa, per il “progetto di vita” della persona disabile viene perfino imposta la valutazione da parte di un’“equipe multidisciplinare”, ovvero da un gruppo di persone esterne per niente scelte dal disabile e non indipendenti.
Abbiamo già esaminato che i supporti forniti dalla collettività servono a chi ha gravi disabilità innanzitutto per il concreto esercizio dei diritti inviolabili. Ebbene rientra nella definizione stessa di tali diritti l’insindacabilità del loro concreto esercizio (ovviamente fatti salvi i limiti posti dalla Costituzione e dal codice penale). E, solo fra molto altro, ad esempio, è sicuramente illegittimo sottoporre alla valutazione dell’“equipe multidisciplinare” la necessità per un disabile grave di più assistenza personale al fine di non limitarsi a votare un partito politico costituito, ma di voler partecipare attivamente, anche o soltanto, a delle attività pubbliche per la difesa della Costituzione.
Da un altro punto di vista si rileva che il disabile, pur non avendo commesso niente nemmeno lontanamente rilevante dal punto di vista penale, viene costretto a mettere a nudo tutta la propria vita davanti a persone non scelte da lui e, se vuole viverle, deve far venire fuori davanti a loro le proprie necessità e aspirazioni (atto estremamente difficile e umiliante) e poi, alla fine, sono quelle persone a decidere quali e quanti supporti (molto spesso soprattutto quanto denaro per l’assistenza personale) dare a quel disabile. E quindi, in definitiva, quasi sempre è quell’“equipe multidisciplinare” (in base alle direttive ricevute) a decidere, se non altro di fatto, quali diritti fondamentali, e in quale misura, verranno consentiti di vivere in concreto a quel disabile.
È necessario far chiarezza sul fatto che, per qualunque essere umano, anche normodotato, è difficile e umiliante dover esprimere tutte le proprie esigenze di vita ad alcune persone, tanto più non di propria scelta. Inoltre, almeno fino a quando la Repubblica non metterà a loro disposizione gli strumenti per vivere pienamente nel concreto almeno i diritti fondamentali, è probabile che una gran parte delle persone disabili riesca ad avere meno relazioni sociali di molte persone normodotate. Ed è quindi verosimile che, comprensibilmente, queste persone disabili gravi abbiano più difficoltà di molte persone normodotate ad esprimere ad altri tutte le proprie private, se non privatissime, esigenze di vita. Ed è un gravissimo errore ritenere che il supporto psicologico da parte dell’equipe sia idoneo a superare queste difficoltà sia perché è naturale e umano (e nient’affatto patologico) avere difficoltà ad aprirsi ad un’equipe di estranei (e sarebbe patologico il contrario). E sia perché nessun supporto psicologico può sostituire la forza e la ricchezza che vengono dal vivere in concreto una vita sociale.
E, invece di agevolare doverosamente queste persone disabili dando loro di necessari supporti senza procedure umilianti, al fine di far sì che riescano a vivere pienamente tutta la loro personalità, la Repubblica pone a loro carico un ulteriore balzello inesistente per chi è normodotato: mettersi a nudo davanti ad un’equipe multidisciplinare. Il risultato finale del “progetto di vita” è mettere molti disabili gravi nell’impossibilità di vivere in concreto pienamente i diritti personalissimi e i diritti fondamentali più in generale. E questa impossibilità può essere tanto maggiore quanto più rilevante è la disabilità. Ovvero l’opposto della non discriminazione.
Riepilogando, in sintesi c’è dunque una questione di enorme proporzioni giuridiche e pratiche che la scienza giuridica risulta incapace di risolvere alla radice: una persona normodotata esercita in concreto liberamente i propri diritti fondamentali “a meno che” la Repubblica, o altri, intervengano (legittimamente o con arbitrio) per limitare o impedire ciò. Viceversa i disabili esercitano in concreto i propri diritti fondamentali “soltanto se” la Repubblica o altri intervengono fornendo loro i necessari supporti. Il che pone i disabili in una situazione di inferiorità di non poco conto. Il legislatore ha tentato di rimediare con la legge n. 67 sulla non discriminazione cit.: è un primissimo passo in una strada ancora molto lunga, ma non risolve per niente il problema alla radice.
Tornando all’“equipe multidisciplinare” e connessi, si badi poi bene: anni fa in un atto della Regione Toscana fu possibile far inserire la norma per cui il piano individualizzato deve avere il consenso dell’interessato. Si tratta di una norma che, a se stante, ha un valore pratico molto relativo perché in concreto i servizi sociali hanno vari agevoli strumenti per ottenere il consenso dell’interessato. Però, almeno il principio giuridico di un minimo di civiltà, è stato creato. Ebbene questo principio giuridico minimale è assente nella Legge n. 227 qui in esame.
È vero che in questa Legge, a proposito del “progetto di vita”, c’è scritto "e all'attuazione dello stesso con modalità tali da garantire la soddisfazione della persona interessata"[86]. Però, innanzitutto sono parole scritte al termine di una frase inammissibilmente lunga e complessa, al punto da renderne difficile un’interpretazione univoca.
Ma soprattutto, fra quelle parole, non c’è il “consenso” ma c’è la “soddisfazione”. Ebbene, il “consenso”, da parte di chi lo dà, presuppone necessariamente un ruolo decisionale attivo e, di regola, determinante circa l’esecuzione dell’evento. E, di conseguenza, di regola, il “consenso” c’è prima dell’esecuzione dell’evento. Viceversa la “soddisfazione” non presuppone necessariamente un ruolo decisionale preventivo, da parte di chi la esprime, circa l’esecuzione dell’evento. E c’è prevalentemente durante o dopo l’esecuzione del medesimo. Dunque un conto è il doveroso “consenso” sull’esistenza, il contenuto e l’attuazione del “progetto di vita”, ben altro conto può essere la mera “soddisfazione” su come viene attuato.
A differenza di quanto disposto da alcune Regioni italiane e in conformità a quanto stabilito nella Convenzione dell'Onu sui disabili, nella Legge n. 227 i disabili con difficoltà psichiche o mentali non vengono esclusi dalla “vita indipendente”. E questo è importante. Però poi in sostanza dietro al “progetto di vita”, che ingloba la“vita indipendente”, c’è l’inammissibile pregiudizio che tutti i disabili di fatto non hanno la piena capacità di agire, al punto che la Repubblica si deve occupare sempre anche dei loro diritti fondamentali e perfino dei loro diritti personalissimi. Esattamente l’inverso di quanto stabilito, se non altro, nei primi tre articoli della Costituzione italiana e nella Convenzione dell'Onu sui disabili.
Da quest’ultima, fra l’altro, consegue che l’eventuale non piena capacità di agire non può neppure essere legittimamente stabilita, oltretutto in maniera generalizzata e di fatto, dai servizi sociali (i quali, di conseguenza, in concreto impediscono al disabile anche di evitare il “progetto di vita” e/o di farlo in privato), ma, solo qualora davvero necessario, va accertata preliminarmente dalla magistratura con le procedure e le garanzie del caso.
In definitiva dunque, per tornare alla disposizione riportata anche più sopra secondo cui “nell'ambito del progetto di vita individuale” possono “essere individuati [...] che supportino la vita indipendente”, subordinare la “vita indipendente” dei disabili al “progetto di vita” vuol dire incatenarla nel suo opposto e quindi distruggerla.
E, si badi bene, su questo pianeta ci sono molte valide esperienze[87] a dimostrazione del fatto che, pure con disabilità gravi, è possibile autodeterminare pienamente la propria vita senza intrusioni esterne. E quindi non si può legittimamente neppure dire che è un’impresa troppo difficile, e tanto meno impossibile.
Conseguentemente è da ritenere che in questa Legge n. 227 non ci sono nemmeno lontanamente indicazioni sufficienti per garantire il diritto alla “vita indipendente” dei disabili.
4.1. Non prendersi in giro
È poi evidente che, come per le persone normodotate, pure (e spesso anche di più per via degli ostacoli naturali e sociali incontrati) per la singola persona con gravi disabilità può essere particolarmente necessario chiarirsi un po’ le idee su come muoversi per il proprio futuro, e in tal senso il “progetto di vita” potrebbe, ma non è affatto detto, essere utile. Però:
È stato inoltre già esaminato più sopra il fatto che le persone normodotate non vengono condizionate, o limitate, quando esercitano molte delle proprie libertà inviolabili anche perché l’esercizio di queste libertà è spesso, ma non sempre, possibile senza l’impiego diretto di risorse pubbliche. Così l’ergastolano normodotato si gira nel letto e va in bagno quante volte vuole (però il wc e il letto sono stati pagati con risorse pubbliche anche per l’ergastolano normodotato) e la mamma normodotata tiene in braccio il proprio bambino quanto vuole (però difficilmente quel bambino sarebbe nato senza l’aiuto di altre persone, che molto spesso vengono retribuite con risorse pubbliche).
Viceversa, per consentire ai disabili gravi di esercitare in concreto le libertà fondamentali, a prima vista risulta che possono essere direttamente necessarie sempre molte più risorse che per le persone normodotate. Allora, e non solo per questo, la Repubblica (attraverso il Parlamento, i Consigli regionali ecc.) pone dei limiti alle risorse da destinare ai disabili, e controlla anche come tale denaro viene speso[89]. E questo, purché fatto in maniera rispettosa (è illegittimo trattare il bisogno di vivere di chi ha grosse difficoltà fisiche-psichiche-mentali-sensoriali con lo stesso “fiscalismo” che sarebbe, o dovrebbe essere, attuato per la smania di profitto delle imprese), non sarebbe del tutto privo di giustificazione perché si tratta pur sempre di risorse pubbliche, perché, come a tutte le altre persone, anche a chi è disabile può capitare di sbagliare e perché “con quattro occhi si” potrebbe vedere (ma non sempre accade) “meglio che con due”.
Solo che tali limiti e controlli pongono oggettivamente i disabili in condizione di inferiorità rispetto a chi è normodotato perché, come è stato visto più sopra, per i disabili si tratta di esercitare libertà inviolabili e personalissime e per via di altre difficoltà concrete nel rendicontare. Per cui sono doverose molta cautela e mille attenzioni al fine di effettuare questi controlli soltanto nella misura strettamente indispensabile, e senza inidonee rigidità, come peraltro già stabilito in linea di principio dal “Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali”[90]. Questione invece non prevista nella Legge qui in esame, ma che il Governo non può legittimamente trascurare nei decreti legislativi attuativi.
Il punto chiave, per non intromettersi indebitamente nella vita della persona disabile e nei suoi diritti inviolabili e perseguire l’impiego ottimale delle risorse pubbliche, è valutare seriamente e rispettosamente le linee fondamentali di ciò che la persona non può fare da sé e fornire i supporti necessari a compensare le capacità mancanti. Poi, come tutte le altre persone, anche chi ha determinate difficoltà (fisiche, psichiche, mentali, sensoriali) decide da sé della propria vita e l’autogestisce. Non c’è altra via per non discriminare i disabili. Qui sotto lo si esamina, a fini esemplificativi, in riferimento specifico all’assistenza personale. Si presti però attenzione al fatto che il ragionamento è applicabile anche a tutti gli altri supporti necessari a chi ha gravi disabilità.
Per stabilire di quanta assistenza personale ha necessità un disabile grave, senza creare discriminazioni, vanno presi in considerazione soltanto due fattori. Il primo fattore è sindacabile dalla Repubblica, sebbene evitando intromissioni indebite. Il secondo fattore lo è molto meno, solo nelle linee generali e soltanto per illogicità, impossibilità, violazione di legge.
Il primo fattore consiste nel difficilissimo dovere della Repubblica di accertare nel merito le effettive incapacità del soggetto disabile. Questo al fine di evitare errori di valutazione, senza in alcun modo prescindere dall’indispensabile e decisivo dialogo vero con il soggetto interessato e con la piena consapevolezza che, durante tale accertamento, solo in alcuni momenti si è oggettivamente lontani dalla linea di confine oltre la quale vengono violati i diritti fondamentali del soggetto.
Il secondo fattore consiste nel definire la quantità e qualità di assistenza personale eventualmente necessaria al soggetto. E qui, per ottemperare a quanto stabilito dalla Costituzione, la Repubblica può porre dei limiti, alle necessità espresse dal soggetto, soltanto per illogicità, impossibilità, violazione di legge. Questo perché, come abbiamo esaminato in sintesi in precedenza, la possibilità per il soggetto di esercitare in concreto i propri diritti inviolabili dipende sempre, parzialmente o totalmente, dalla quantità e/o dalla qualità dell’assistenza personale che ha a disposizione.
Per esemplificare in estrema sintesi supponiamo che in un soggetto venga accertata una minima o nulla capacità di utilizzare gli arti inferiori, una parziale capacità di utilizzare gli arti superiori e l’autosufficienza durante il riposo notturno. Se questo soggetto manifesta la necessità, ad esempio, di 22 ore al giorno di assistenza personale, è molto probabile che qualcosa non sia corretto perché, avendo sempre solo due ore di riposo a notte, non si vive a lungo, e quindi, soltanto per l’indispensabile, la Repubblica è tenuta ad ulteriori accertamenti. Se invece quel soggetto manifesta la necessità, ad esempio, di 14 ore al giorno di assistenza personale perché ha poca forza fisica e poca velocità per la sua aspirazione di essere scassinatore di sportelli bancomat, è evidente la legittimità giuridica del rifiuto da parte della Repubblica di fornire l’assistenza personale necessaria a tale scopo. E ancora, se quel soggetto con quelle difficoltà soltanto fisiche, manifesta alla Repubblica la necessità di risorse sufficienti per avere 5 ore al giorno di traduttori dal linguaggio dei segni per sordi, è possibile che qualcosa non torni dal momento che lui non ha manifestato alcuna sordità, e quindi da parte della Repubblica ulteriori accertamenti possono essere legittimi, purché riservati e invasivi solo per l’indispensabile.
Ma, sempre ad esempio, prendiamo invece due soggetti con difficoltà solo fisiche analoghe e riconducibili a quelle indicate all’inizio del paragrafo precedente. Supponiamo che il primo manifesti alla Repubblica la necessità di ricevere un finanziamento sufficiente per avere 7 ore medie al giorno di assistenza personale perché, oltre ad essere aiutato per le mere attività vitali, ritiene di esercitare autonomamente i propri diritti fondamentali all’interno della propria abitazione (leggendo libri, navigando su internet ecc.). Mentre supponiamo che il secondo soggetto manifesti alla Repubblica la necessità di ricevere un finanziamento sufficiente per avere 14 ore medie al giorno di assistenza personale perché, oltre ad essere anche lui aiutato per le mere attività vitali, ha necessità di assistenza personale per esercitare i propri diritti fondamentali all’esterno della propria abitazione (passeggiando nei parchi, frequentando biblioteche, partecipando a iniziative culturali, a rassegne cinematografiche, a dibattiti ecc.).
Ebbene, per l’assistenza personale a queste due differenti persone con analoghe difficoltà fisiche, la Repubblica non può sindacare sul fatto che sono necessari esborsi finanziari molto diversi fra loro perché si tratta di due modi, insindacabilmente diversi, di gestire i propri diritti inviolabili. E, per quando è dato di conoscere al momento attuale su questo pianeta, senza tale insindacabilità è impossibile conciliare l’inviolabilità dei diritti fondamentali e la non discriminazione dei disabili gravi, che sarebbero due temi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano.
Sul tema fondamentale dell’assistenza personale un tentativo di affrontare correttamente la disabilità è stato fatto con una “Proposta di legge regionale”[91].
5. Alcune altre questioni
5.1. Il Garante
Nella Legge n. 227 c’è l’istituzione di un “Garante nazionale delle disabilità”[92]. Fra varie cose da osservare ci si limita al fatto che non è previsto che il Garante possa e debba intraprendere le azioni giudiziarie eventualmente necessarie a tutela del/i disabile/i. Inoltre, se, come stabilito anche dalla Legge in esame e che vedremo qui sotto, ci si attiene alla definizione di disabilità accolto nella Convenzione dell’Onu sui disabili, un nome più corretto potrebbe essere “Garante nazionale per il superamento della disabilità” perché da detta definizione emerge che la disabilità è un costrutto sociale.
5.2. Il “modello sociale della disabilità”
Nella Legge n. 227 qui in esame è stabilita l’“adozione di una definizione di “disabilità” coerente con l'art. 1, secondo paragrafo, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”[93]. Cioè in questa Legge n. 227 viene recepito il cd. “modello sociale della disabilità”. A riprova di ciò c’è anche il fatto che nell’art. 1 co. 1 di questa legge del 2021 non è previsto che essa sia attuativa dell’art. 32 Cost., cioè quello sulla tutela della salute.
Il punto è molto importante e rappresenta una rivoluzione culturale e giuridica in materia. Questo perché, in base al cd. “modello sociale della disabilità”, per chi ha determinate difficoltà fisiche-psichiche-sensoriali-mentali (che a chiunque può capitare di avere nella vita), l’impossibilità di vivere pienamente dipende non da tali incapacità, ma da come la società si comporta verso chi ha tali difficoltà. Quindi, in definitiva, la società non solo ha il compito di non lasciare a se stessi i disabili, ma è direttamente responsabile del fatto che queste persone siano costrette a vivere incontrando molte più difficoltà delle altre. Il che alza di parecchio il livello della responsabilità della società, e quindi anche della Repubblica.
In altre parole, un conto è dire ad una persona, ad esempio: “Lei non può più muovere le gambe perché ha avuto la sfortuna di un tuffo eccezionalmente andato male e io società, attraverso la Repubblica, La devo aiutare il più possibile per via di questo evento straordinario che può capitare nella vita”. Ben altro conto è dire alla stessa persona: “Lei non può più muovere le gambe per una delle tante cause che a chiunque (e purtroppo a non pochi) possono capitare nella vita, però ora non può vivere pienamente e liberamente la Sua vita perché io società, attraverso la Repubblica, mi sono organizzata non in maniera semplice e onesta a misura di tutti (quindi anche accessibilità, oggetti per la vita quotidiana semplici da usare, pochi inganni, poca burocrazia, ausili tecnici, assistenza personale ecc.), ma a misura soltanto di una parte della popolazione”.
E, di conseguenza, a seguito del “modello sociale della disabilità”, non si tratta più soltanto del dovere della società alla solidarietà, e quindi a fornire accessibilità, assistenza ecc. Viceversa la società deve essere organizzata in modo da essere vivibile e accogliente per tutte le persone. Se così non è, allora il deficit è nella società, e non nelle persone a cui è capitato un evento che può accadere a tutti. Ovvero, sempre ad esempio, se in una zona dove piove regolarmente, ma non tutti i mesi, viene costruita una casa senza tetto, in caso di pioggia il deficit non è nella pioggia, ma nella testa di chi ha progettato e/o voluto quella casa.
5.3. Revisioni delle prestazioni
Nella Legge n. 227 qui in esame è prevista la “separazione dei percorsi valutativi previsti per le persone anziane da quelli previsti per gli adulti e da quelli previsti per i minori”[94]. Questo punto può essere estremamente pericoloso perché spesso c’è la prassi di riconoscere meno servizi ai disabili anziani rispetto a chi è più giovane[95]. In primo luogo ad un’identica incapacità non si può far fronte con prestazioni inferiori qualora il soggetto sia diventato anziano. Questo, se non altro, perché l’età in cui si “diventa” anziani[96] è stabilito in maniera convenzionale e quindi artificiale, per cui risulta inammissibile, ad esempio, che una persona che acquisisce una certa incapacità (ad esempio paraplegia da incidente) a 66 anni di età riceva dalla società un supporto inferiore rispetto a chi è così “fortunato” da acquisire la stessa incapacità a 64 anni di età[97].
Inoltre, un disabile grave in pensione da attività lavorativa, spesso può avere più necessità di prima di assistenza personale e/o di ausili e/o di accessibilità perché è alto il rischio che, senza un’attività lavorativa, si trovi chiuso in casa e quindi muoia in tempi brevi, per cui erogare meno prestazioni agli anziani significa omettere il dovuto ossequio al diritto di vivere. Oltre al fatto che tante patologie legate alla senilità si prevengono e si curano proprio con l’autodeterminazione e con la socialità. Dunque il fatto che nella Legge n. 227 sia previsto un percorso valutativo diverso per gli anziani suscita numerose riserve e perplessità in relazione ai principi sia di eguaglianza[98] che di solidarietà[99].
In questa stessa Legge n. 227 viene stabilito di accertare e valutare la disabilità[100] in base all’ICF, al’ICD e a quanto stabilito dalla Convenzione dell’Onu cit.[101] con la “previsione di un efficace e trasparente sistema di controlli”[102].
Queste “novità”, e, non da meno, le modalità in cui vengono applicate ed effettuate, vanno seguite con attenzione per via del fatto che possono essere pericolose perché tante rilevanti conquiste, tuttora esistenti in Italia nel campo di disabilità, sono state ottenute dopo anni di importanti lotte in un periodo storico molto più aperto, democratico e pluralista di quello attuale.
Salvo precisare che per i disabili meno giovani, almeno in teoria, questi pericoli dovrebbero essere inferiori perché, viene stabilito “fermi restando i casi di esonero già stabiliti dalla normativa vigente”[103]. E questi minori pericoli per i disabili meno giovani dovrebbero esserci pure considerando che viene stabilito “facendo salvi le prestazioni, i servizi, le agevolazioni e i trasferimenti monetari già erogati ai sensi della normativa vigente in materia di invalidità civile, di cecità civile, di sordità civile e di sordocecità e della legge 5 febbraio 1992, n. 104”[104]. Ovvero l’esistente (assegni, indennità ecc.) dovrebbe rimanere. Tuttavia c’è da preoccuparsi molto per il futuro di chi oggi è più giovane o bambino e sarà costretto a vivere senza o con pochissimi diritti, nonché per l’urgente necessità di migliorare di parecchio le possibilità che pure i disabili meno giovani hanno di esercitare in concreto i loro diritti inviolabili.
In altre parole viola, se non altro il co. 2 art. 3 Cost., il fatto che, come in tanti altri campi, anche per quanto riguarda la disabilità, al giorno d’oggi ci si debba preoccupare non di andare avanti, ma di porre un argine alla perdita di quanto già conquistato.
5.4. La “presa in carico”
Infine c’è da rilevare che nella Legge in esame c’è la “presa in carico”[105] del disabile da parte dei servizi sociali: una bruttissima e offensiva espressione in tema di disabilità in uso da alcuni anni nella legislazione italiana.
Innanzitutto chi ha certe difficoltà fisiche-psichiche-sensoriali-mentali non è un peso per la società, se non altro perché chiunque ha delle incapacità e a chiunque, come abbiamo visto poco sopra, nel corso della vita può capitare di avere altre incapacità. Questo vuol dire essere tutti animali “umani”. E, poiché tutti nel corso della vita abbiamo delle incapacità permanenti o temporanee, tanto che senza incapacità vi sarebbe pochissima, o nessuna, vita umana, ritenere queste incapacità un carico significa disprezzare la vita. Oltre a contrastare con la Costituzione italiana e a capovolgere la Convenzione dell'Onu sui disabili cit.
Eppoi la diversità è una ricchezza, uno stimolo a cambiare e a crescere, a non morire di noia. Si pensi a come sarebbe statica e noiosa una società in cui fossimo tutti uguali. E si pensi al fatto che, verosimilmente, senza diversità non ci sarebbe crescita.
Inoltre, almeno a parere di chi scrive, i carichi per la società sono ben altri, quali, ad esempio, i colossali profitti delle multinazionali, le spese per le armi, le risorse assorbite dalle mafie, i vitalizi che tutti i parlamentari e i consiglieri regionali si guardano bene dal togliersi, tutta la restante enorme evasione fiscale e altri ancora.
Infine, ma non meno importante, abbiamo già esaminato che pure i disabili, al pari di tutte le altre persone, hanno lo stesso diritto inviolabile di autodeterminare pienamente la propria vita, di viverla interamente e di contribuire come tutti alla crescita collettiva. E hanno diritto di essere aiutati in tal senso quando questo è più difficile. E vedere una persona con talune gravi difficoltà, che riesce a vivere pienamente le gioie e le libertà della vita, è un fatto bellissimo, semmai da festeggiare, e non un carico.
È dunque fondamentale e doveroso da parte della Repubblica, e quindi anche del Governo, nell’emanare i decreti legislativi attuativi, far conoscere e imporre il fatto che i disabili non sono esseri passivi, ma sono esseri vivi.
Da ultimo, se si pensa, seriamente, in concreto e consapevolmente alle mille difficoltà che un disabile grave deve affrontare nella vita reale per non soccombere prima dell’inevitabile, oltre alle fondamentali e irrinunciabili questioni di autodeterminazione, libertà e privacy viste più sopra, è davvero irrealistico ritenere che i servizi sociali possano acquisire tutte le conoscenze tecniche, le competenze e i poteri necessari per occuparsi in maniera dignitosa e nella sua globalità della vita vera dei disabili gravi. E quindi, anche sotto questo profilo subordinato, la “presa in carico” è fuori luogo.
6. Conclusioni
In sintesi in questa Legge delega manca il dovuto rispetto per la dignità delle persone costrette a vivere da disabili. E non viene tenuto nella dovuta considerazione che pure ai disabili deve essere comunque assicurata la concreta possibilità di esercitare pienamente i diritti fondamentali.
In questa Legge viene menzionato spesso l’“accomodamento ragionevole”: per evitare disastri è di fondamentale importanza che venga applicato in maniera costituzionalmente corretta, come si cerca di esaminare in questo lavoro. Soltanto nella misura in cui ciò accadrà, questo aspetto della Legge può rappresentare un significativo passo avanti in tema di disabilità in Italia.
Nella Convenzione dell’Onu cit. viene stabilito che al superamento della disabilità dev’essere destinato il “massimo” delle “risorse disponibili”. Viceversa nella Legge qui esaminata viene stabilito che la disabilità va affrontata nell’ambito delle “risorse disponibili” e viene omessa la parola “massimo”, il che, in astratto e in pratica, significa lasciare più spazio ai tagli di risorse in tema di disabilità.
Nella Legge qui esaminata viene finalmente riconosciuta a livello nazionale la necessità di garantire il diritto alla vita indipendente, però poi la Legge viene decisamente sviluppata in senso contrario.
In particolare fa rabbrividire che di fatto tutti i disabili vengono considerati privi della piena capacità di intendere e di volere, omettendo che una notevole maggioranza di loro ha pienamente tale capacità. In tal modo vengono sovvertiti i principi fondanti sia della Costituzione italiana che della Convenzione dell’Onu sui disabili. Come pure è spaventoso che chi ha determinate incapacità venga considerato un “carico” per la collettività.
Un ringraziamento particolare a Beniamino Deidda per il consueto rigore con cui ha puntualizzato alcune questioni fondamentali sviluppate in questo scritto.
[77] Ibidem, lett. c) punto 7).
[78] Ibidem, punto 6).
[79] Ibidem, lett. c) punto 4).
[80] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality on equality cit., punto 48: “The fact that support to exercise capacity may impose a disproportionate or undue burden does not limit the requirement to provide it.” In italiano: Il fatto che il sostegno alla capacità di esercizio possa imporre un onere sproporzionato o eccessivo non limita l'obbligo di fornirlo.
[81] Idem.
[82] Convenzione cit., art. 12 cpv. 4°: “Such safeguards shall ensure that measures relating to the exercise of legal capacity respect the rights, will and preferences of the person, are free of conflict of interest and undue influence”. In italiano: Tali garanzie assicurano che le misure relative all'esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, siano prive di conflitto di interessi e di influenza indebita.
[83] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 16: “(d) (iv) Self-management of service delivery. Persons with disabilities who require personal assistance can freely choose their degree of personal control over service delivery according to their life circumstances and preferences. Even if the responsibilities of “the employer” are contracted out, the person with disability always remains at the centre of the decisions concerning the assistance, the one to whom any inquiries must be directed and whose individual preferences must be respected. The control of personal assistance can be exercised through supported decision-making.” In italiano: Autogestione dell'erogazione del servizio. Le persone con disabilità che necessitano di assistenza personale possono scegliere liberamente il proprio grado di controllo personale sull'erogazione dei servizi in base alle proprie circostanze e preferenze di vita. Anche se le responsabilità del “datore di lavoro” sono appaltate, la persona con disabilità resta sempre il centro delle decisioni in merito all'assistenza, colui al quale devono essere rivolte le indagini e le cui preferenze individuali devono essere rispettate. Il controllo dell'assistenza personale può essere esercitato attraverso un processo decisionale supportato.
[84] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[85] Ibidem, punto 11).
[86] Ibidem, punto 6).
[87] Fra moltissime: STIL a Stoccolma https://www.stil.se/, ULOBA vicino a Oslo https://www.uloba.no/ e CIL di Berkeley in California https://www.centerforindependentliving.org/.
[88] Idem.
[89] Legge n. 227 cit. art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[90] Decreto Direttoriale n. 669 del 28.12.2018.
[91] In http://www.avitoscana.org/index.php/vita-indipendente/toscana/documentazione-toscana/252-proposta-di-legge-regionale-su-assegno-per-l-assistenza-personale-per-la-vita-indipendente-e-autodeterminata-di-persone-con-handicap-grave-quarta-versione.
[92] Legge n. 227 cit., art. 1 co. 5 lett. f).
[93] Ibidem, art. 2 co. 2 lett. a) punto 1).
[94] Ibidem, punto 3).
[95] Il punto è stato sollevato da più parti al convegno Exploring cit.
[96] In genere 65 anni.
[97] Adolf Ratzka al convegno Exploring cit.
[98] Art. 3 co. Cost. e molti trattati, accordi, carte internazionali e sovranazionali, che vietano la discriminazione in base all’età.
[99] Se non altro art. 2 Cost.
[100] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. b): “con riguardo all'accertamento della disabilità e alla revisione dei suoi processi valutativi di base”.
[101] Ibidem, punto 1): “previsione che, in conformità alle indicazioni dell'ICF e tenuto conto dell'ICD, la valutazione di base accerti, ai sensi dell'art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato in coerenza con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, la condizione di disabilità e le necessità di sostegno, di sostegno intensivo o di restrizione della partecipazione della persona ai fini dei correlati benefici o istituti”.
[102] Ibidem, punto 5).
[103] Idem.
[104] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. h) punto 1).
[105] Ibidem, lett. c) punto 2).
di Raffaello Belli
Sommario: 1. L’“accomodamento ragionevole” - 1.1. L’“accomodamento” - 1.1.1 Società vivibile per tutti - 1.2. L’“accomodamento ragionevole" e l’assistenza personale - 1.3. L’onere sproporzionato o eccessivo - 1.3.1. L’onere sproporzionato o eccessivo nella Convenzione - 1.3.2. La legge n. 67 del 2006 - 2. Le “risorse disponibili” - 2.1. Una sfida concreta - 3. La “vita indipendente” - 4. Il “progetto di vita individuale” - 4.1. Non prendersi in giro - 5. Alcune altre questioni - 5.1. Il Garante - 5.2. Il “modello sociale della disabilità” - 5.3. Revisioni delle prestazioni - 5.4. La “presa in carico” - 6. Conclusioni.
Nella Legge 22 dicembre 2021, n. 227, “Delega al Governo in materia di disabilità” (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 309 del 30-12-2021)[1], vengono stabiliti i criteri in base ai quali, entro il mese di agosto del 2023, il Governo è autorizzato ad emanare uno o più decreti legislativi attuativi in materia di disabilità.
1. L’“accomodamento ragionevole”
Nella Legge n. 227 qui in esame, contro la discriminazione dei disabili, è previsto il cd. “accomodamento ragionevole”, ripreso espressamente dalla “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”[2]. Innanzitutto va sottolineato che il rifiuto di un “accomodamento ragionevole” costituisce discriminazione “soltanto se” e quando le necessarie e appropriate modifiche e adeguamenti, che vengono richiesti e che sono negati, in realtà sono necessari per garantire la parità di godimento o di esercizio di un diritto umano o di una libertà fondamentale[3].
Va subito tenuto ben presente che la non discriminazione è il punto centrale di tutti i trattati sui diritti umani[4], che i precetti egualitari stabiliti nell’art. 3 Cost. non si sottraggono certamente a questo ruolo e che il divieto di discriminazione non è soltanto il principio generale dell’ordinamento giuridico (almeno in Italia), ma, secondo la Convenzione cit., è anche un vero e proprio diritto, se non altro nei confronti dei disabili, e deve essere rispettato sia dagli enti pubblici che dai soggetti privati[5].
Inoltre, almeno in Italia, non c’è dubbio che pure ai disabili deve essere garantita la possibilità concreta di esercitare pienamente almeno i diritti fondamentali. Pertanto, quando è finalizzato a tale scopo, l’“accomodamento ragionevole” non può avere un contenuto compromissorio.
1.1. L’“accomodamento”
La lingua inglese è una delle lingue ufficiali della Convenzione dell'Onu sui disabili, la lingua italiana non lo è. La legge italiana n. 18 del 2009 ha disposto la ratifica della Convenzione nel testo in lingua inglese. In questa Convenzione ha un ruolo rilevante la parola “accommodation”. Qui la si traduce in italiano con la parola “accomodamento”[6], sia perché cosi è stato fatto ufficialmente dall’Unione Europea[7] e nella Legge n. 227 cit. e sia perché con tale traduzione si sottolinea l’importanza del dialogo e della comodità.
Ebbene, sia nella lingua inglese la parola "accommodation” e sia nella lingua italiana la parola “accomodamento”, hanno due significati, che possono essere anche molto diversi fra loro, soprattutto nel caso di gravi disabilità. E cioè in ambedue le lingue queste parole vogliono dire “comodo”, ma significano anche trovare un accordo, fare un compromesso.
Ebbene, per tutto quello che discende dalla Legge n. 227 qui in esame, la parola “accomodamento”, fra i due diversi significati, per quanto riguarda i suoi diritti fondamentali, va intesa comunque come “comodo” in concreto per il singolo disabile. Questo, se non altro, perché:
Dunque non si può che essere d’accordo con Maria Rita Saulle (già giudice della Corte costituzionale) quando scrisse come questo “accomodamento” sta a significare che, per la singola persona disabile vittima di una discriminazione, deve essere trovata una soluzione comunque comoda per lei. Di conseguenza, nei decreti legislativi attuativi che verranno, il Governo è vincolato a disporre che venga realizzato in maniera comoda tutto quanto è necessario per superare la disabilità, almeno nella parte in cui è indispensabile ad assicurare a queste persone la concreta possibilità di esercitare pienamente i propri diritti inviolabili. Il che richiede, come minimo, che tali decreti legislativi attuativi siano scritti da chi conosce a fondo l’argomento e ha la capacità di avere il doveroso ossequio per la dignità di tutte le persone.
1.1.1 Società vivibile per tutti
Se non altro nei primi tre articoli, la Costituzione italiana impone la costruzione di una società pienamente vivibile da tutti. Ancora più chiara e specifica è la Convenzione dell'Onu sui disabili, la quale, fra l’altro all’ultimo capoverso dell’art. 2, stabilisce che “per “progettazione universale” si intende la progettazione di prodotti, strutture, programmi e servizi utilizzabili da tutte le persone, nella misura più estesa possibile, senza il bisogno di adattamenti o di progettazioni specializzate. La “progettazione universale” non esclude dispositivi di sostegno per particolari gruppi di persone con disabilità ove siano necessari”[12]. E nel successivo art. 3 sono stabiliti una serie di principi fondamentali anche a tal fine.
Perciò la “progettazione universale” è interesse dell’intera collettività, sia perché si è visto che spesso è più comoda anche per chi è, o appare, normodotato, sia perché si vive meglio tutti se si vede che il nostro simile, con ridotte capacità fisiche-sensoriali-mentali-psichiche, può vivere tranquillamente, senza incontrare particolari difficoltà, e si vive meglio tutti se si è in una società accogliente, dove, qualunque evento della vita dovesse accaderci, sarà possibile continuare a vivere tranquillamente. Di conseguenza la “progettazione universale” è un dovere ex ante[13] che deve essere seguito ogniqualvolta si progetta qualcosa (un edificio, una struttura, un’attrezzatura, un contenitore, un indumento, un parco, un servizio ecc.). In subordine a questo, nel doveroso ossequio per l’eguale diritto di tutti di sviluppare pienamente la propria personalità, per chi ha particolari necessità, che richiedono specifiche soluzioni non estendibili, allora si ricorre all’“accomodamento ragionevole”, fermo restando che questo, per le specifiche persone, deve essere esaustivo quanto lo è la “progettazione universale” per tutti. E con la consapevolezza che, quanto più la “progettazione universale” viene realizzata in maniera compiuta, tanto minore è il numero di “accomodamenti ragionevoli” necessari e tanto più si vive in una società per tutti.
Dunque la grande forza innovativa, e giuridicamente cogente, di questa ”progettazione” sta nel fatto che devono essere affrontate e prevenute in concreto le necessità egualitarie anche di chi incontra difficoltà nel vivere attualmente comune. E l’innovatività e la cogenza dell’“accomodamento” vuol dire trovare comunque una soluzione adeguata a qualcosa che non è stato fatto in maniera pienamente vivibile da quella/e persona/e specifica/he. Se questo è accaduto perché non è stata rispettata la normativa vigente, allora è necessario utilizzare i rimedi previsti, o non vietati, dall’ordinamento per costringere alla piena applicazione di tale normativa. Se invece quella cosa o servizio non fossero costruiti in maniera pienamente vivibile da tutti perché nulla prevede in tal senso la normativa vigente, allora, oltre a fare qualcosa per consentire comunque la vivibilità nell’immediato, è necessario agire per far sì che questa lacuna normativa venga colmata.
Quando poi si tratta di una situazione concreta talmente particolare e rara da non poter essere regolamentata nel dettaglio da chi ha scritto la normativa, allora, e solo in questo caso, è doveroso e legittimo ricorrere all’“accomodamento”.
Dunque, l'“accomodamento” è soltanto per una singola situazione “particolare”. Tant’è vero che ci deve essere quando necessario non per casi particolari al plurale, ma “per un caso particolare” al singolare[14]. In tal senso è perciò significativo che nella Legge n. 227 cit. viene stabilito di introdurre nella legge-quadro sull’handicap l’“accomodamento ragionevole” e di disporlo al singolare[15].
Tuttavia, nella Legge n. 227 qui in esame, è del tutto assente il precetto che la “progettazione universale” deve essere talmente diffusa e accurata da far sì che soltanto in casi particolari sia necessario ricorrere all’“accomodamento” e non c’è neppure il fatto che deve trattarsi di adattamenti “appropriati”[16], cioè adeguati a soddisfare le esigenze egualitarie del singolo soggetto. Ma il fatto che l’“accomodamento” non è un rimedio, tanto meno approssimativo, contro discriminazioni diffuse verso i disabili, non può essere legittimamente trascurato dal Governo almeno perché, nella stesura dei decreti legislativi attuativi, la Legge delega n. 227 va letta e interpretata alla luce, se non altro, della Convenzione dell’Onu cit.
In tal senso si osserva pure che, nella versione ufficiale in lingua inglese della Convenzione cit., la parola “accommodations” al plurale c’è solo 1 volta e per il resto c’è sempre la parola “accommodation” per 7 volte al singolare, mentre nella Legge n. 227 italiana la parola “accomodamenti” è 3 volte al singolare e 4 volte al plurale. Cioè, nella Convenzione, pure sotto questo profilo, l’“accommodation” prevale nettamente al singolare e si riferisce solo ad ogni singola situazione “particolare”. Nella Legge italiana si è scelto di non fare riferimento alla situazione “particolare”. Si è invece deciso di far prevalere “accomodamenti” al plurale.
In primo luogo si osserva che è stato stabilito in maniera vincolante anche per l’Italia che gli “accomodamenti ragionevoli” non devono e non possono essere numerosi perché la “progettazione universale” è un dovere ex ante, mentre l’“accomodamento ragionevole” è un dovere ex nunc[17], ovvero deve essere solo integrativo di ciò che non è stato fatto in modo da poter essere utilizzato da tutti. Per cui, fin da subito, l’unico modo corretto per interpretare queste scelte del legislatore sembra quello per cui il plurale prevalente sta ad indicare che possono essere necessari più “accomodamenti” differenti perché esistono più persone con differenti disabilità fra loro. Tant’è che, nel caso di persone che presentano disabilità rare, di cui non si è tenuto conto al momento dell'elaborazione degli standard di accessibilità o che non utilizzano tali standard, allora possono e devono essere applicati “accomodamenti ragionevoli”[18]. E i casi in cui possono essere necessari “accomodamenti” sono multipli solo perché sono multiple disabilità rare, ma si tratta comunque di rarità, come pure sono appunto pochissime le persone con ogni specifica disabilità rara.
Dunque l’utilizzo di detti “accomodamenti” al plurale non vuol affatto dire che questa Legge italiana delega il Governo ad emanare decreti legislativi attuativi talmente generici e/o discriminatori da rendere poi necessari molti “accomodamenti” per far fronte alle specifiche necessità di molte persone con differenti disabilità. Da una lettura non costituzionalmente orientata della Legge in esame potrebbe risultare invece che gli “accomodamenti” vengono considerati il rimedio diffuso per la disabilità. Dato l’alto numero di volte in cui questa dizione è presente nella Legge n. 227 cit., è probabile che ciò accada. Però questo va comunque evitato perché, se saranno necessari molti “accomodamenti”, allora vorrà dire essere in una società chiusa, con leggi, decreti ecc. che non terranno conto delle necessità di tutti, emarginando ed escludendo molte persone. Viceversa, come esaminato più sotto, sia la Costituzione italiana che la Convenzione dell'Onu sui disabili, impongono una società inclusiva, nella quale tutte le persone possono vivere pienamente senza necessità di “accomodamenti” per loro.
Inoltre gli “accomodamenti ragionevoli” sono ammessi dalla Convenzione cit. soltanto per “un caso particolare”[19] per cui uno scorretto ricorso ad essi susciterebbe rilevanti perplessità, che vedremo più avanti, pure in relazione alla legge n. 67 del 2006[20]. Perciò nella Legge n. 227 questo uso esteso del plurale “adattamenti” fa nascere il legittimo timore che non si voglia puntare ad una società inclusiva.
In tal senso si noti che, nell’Introduzione al primo numero del nuovo e promettente periodico promosso dall’Università di Leeds, “International Journal of Disability and Social Justice”, è stata correttamente riportata con rilievo la frase secondo cui per i disabili può esserci giustizia sociale soltanto in una società pienamente a misura di tutte le persone in modo tale da non esserci più necessità di "accomodamenti" per chi al mondo d’oggi viene costretto a vivere da disabile.
È da ritenere che, pure in una società pienamente inclusiva, e con una “progettazione universale” estremamente avanzata, qualche "accomodamento", sebbene non complesso, sia comunque necessario perché le differenze fra gli individui, e quindi anche le “menomazioni”, sono tendenzialmente infinite. Però, come si è accennato più sopra, tanto più una società è pienamente inclusiva e tanto più ha una “progettazione universale” sviluppata quanti meno “accomodamenti” sono necessari, rendendo la vita dei “disabili” più semplice e meno costosa.
Il punto pare recepito dal Comitato dell’Onu cit. nell’osservazione secondo cui le riforme strutturali progettate per migliorare l'accessibilità complessiva all'interno della comunità possono ridurre la domanda di servizi specifici per la disabilità[21], salvo specificare che quel “possono” è riferito ai singoli casi concreti. Questo, se non altro perché, come abbiamo visto poco sopra, “per “progettazione universale si intende [...] senza il bisogno di adattamenti o di progettazioni specializzate”[22].
E ancora l'obbligo di “accomodamento ragionevole” non è soggetto alla “realizzazione progressiva”[23], bensì va attuato subito, per cui sarebbe inammissibile, anche sotto il profilo economico, progettare (in senso ampio, quindi non solo architettonicamente, ma anche in termini di servizi e prestazioni) un futuro in cui può essere necessario provvedere poi a molti ulteriori adattamenti per i disabili.
Il fatto che l’“accomodamento ragionevole” non può essere un “rimedio” a cui far ricorso in maniera diffusa è confermato dal fatto che l’obbligo di attuare l'accessibilità generalizzata è incondizionato, ovvero chi è obbligato a fornire tale accessibilità non può giustificare la propria omissione facendo riferimento all'onere eccessivo da sostenere per fornire l'accesso alle persone con disabilità, nel senso che si tratta di una rilevante priorità, e quindi non si possono porre limiti di onere. Il dovere di “accomodamento ragionevole”, al contrario, sussiste solo se l'attuazione non costituisce un onere eccessivo per chi lo deve sostenere[24], nel senso che, se costa molto, è necessario impegnarsi a trovare altre soluzioni egualmente soddisfacenti per il soggetto disabile perché sui diritti fondamentali non è lecito transigere.
Di conseguenza c’è poi il fatto che, se una persona disabile manifesta la necessità di un “accomodamento ragionevole”, chi è tenuto a realizzarlo può sottrarsi a tale obbligo soltanto se riesce a dimostrare che non può esistere alcuna soluzione specifica tale da evitare che il relativo costo sia “sproporzionato o eccessivo”[25] in relazione sia al rilievo che alcuni precetti hanno nella Costituzione e sia considerando le enormi ricchezze e le rilevanti conoscenze tecnico-scientifiche attualmente esistenti. Tutto questo può non essere semplice da provare. Se poi, per via della mancata “progettazione universale”, dovesse accadere che più persone disabili manifestassero la necessità di differenti “accomodamenti ragionevoli”, allora ben difficilmente risulterebbe ancora più evidente la convenienza pure economica di tale “progettazione universale”.
Questo punto dell’“onere della prova” è di un qualche rilievo almeno per altri due motivi:
Inoltre nell’art. 19 lett. b) e c) della Convenzione cit. il diritto di accedere a validi servizi di supporto individualizzati e il diritto di accedere a molti servizi fondamentali sono diritti economici, sociali e culturali e la loro progressiva realizzazione comporta l'obbligo immediato di progettare e adottare strategie, piani d'azione e risorse concrete per sviluppare i servizi di supporto[26]. Più nello specifico gli “accomodamenti ragionevoli” vanno invece realizzati immediatamente, seppur senza oneri sproporzionati[27]. Per cui la cd. “inversione dell’onere della prova” riduce l’eventuale contenzioso e accelera i tempi.
1.2. L’“accomodamento ragionevole" e l’assistenza personale
Va anche tenuto presente il fatto che, secondo l’UNCRPD, l’“accomodamento ragionevole" non deve essere confuso con "misure specifiche". Sebbene entrambi i concetti mirino a raggiungere l'eguaglianza de facto, un “accomodamento ragionevole” è un dovere di non discriminazione, mentre misure specifiche implicano un trattamento preferenziale delle persone con disabilità rispetto ad altre per affrontare l'esclusione storica dall'esercizio dei diritti. Esempi di misure specifiche includono programmi di sostegno per aumentare il numero di studenti con disabilità nell'istruzione. Parimenti l’“accomodamento ragionevole" non va confuso con il sostegno necessario per esercitare la capacità giuridica[28].
Dunque l’“accomodamento ragionevole” può essere richiesto solo per modificare o adeguare ciò che esiste già[29]. Non si può invece invocare l’“accomodamento ragionevole” per avere, accessibile anche ai disabili, ciò che non esiste neanche per chi è normodotato. Ovvero, ad esempio, se in un paese il cinema è inaccessibile ai disabili, allora si può chiedere l’“accomodamento ragionevole”. Ma, se in quel paese non c’è alcun cinema, allora in astratto non si potrebbe invocare l’“accomodamento ragionevole” per avere un cinema, ovviamente accessibile a tutti.
Parimenti, se in un paese manca del tutto il servizio postale, in astratto non si potrebbe invocare l’“accomodamento ragionevole” per avere il servizio postale per tutti. Viceversa, se il servizio postale c’è, ma il postino suona il campanello e va via quasi subito senza dare ad un disabile un tempo ragionevole per rispondere, allora si può invocare l’“accomodamento ragionevole”. E fino a qui il ragionamento logico-giuridico astratto è corretto perché, se una cosa o servizio manca per tutti, allora non c’è discriminazione.
Va tuttavia osservato che, in concreto, una mancanza per tutti può svantaggiare maggiormente una persona disabile: ad esempio, rispetto a chi è normodotato, per chi è disabile può essere più difficile, o impossibile, andare al cinema nel paese vicino. Per cui la mancanza del cinema in quel paese di fatto discrimina i disabili.
Non è infatti ammissibile affermare che i disabili gravi devono vivere e poi non assicurare loro la certezza di poter esercitare in concreto nemmeno i diritti fondamentali in una realtà come quella italiana in cui esistono ampiamente (ad esempio applicando in modo costituzionalmente corretto la progressività al sistema fiscale) le risorse per garantire ciò.
Il fatto che i disabili gravi “liberi”, per quanto riguarda una buona parte dei diritti fondamentali (e astrattamente inviolabili) hanno la certezza di poterne essere titolari soltanto per quanto riguarda la loro versione astratta non è un dettaglio, bensì è utile, ma non è risolutiva, mentre l'eguaglianza sostanziale è quella che combatte la discriminazione indiretta[30], è contenuta, oltre che nell’art. 3 Cost., anche nella Convenzione sui disabili cit.[31] ed è recepita nella legge n. 67 del 2006 cit.[32].
Di frequente eliminare le barriere esistenti costa molto denaro; inoltre, e spesso soprattutto, per un disabile grave è costosissimo avere adeguata assistenza personale e, rispetto a chi è normodotato, dover sostenere anche altre spese in più. E questo, oltretutto, mentre in media i disabili gravi hanno redditi e situazioni patrimoniali inferiori alla media delle persone normodotate. Per cui, sotto vari punti di vista, per consentire ai disabili gravi di vivere in concreto i propri diritti fondamentali, è necessario e doveroso l’intervento della collettività, soprattutto attraverso la Repubblica, e in ogni caso passando dalla non discriminazione e dal riconoscimento in concreto dei diritti.
E allora, per tornare all’astrattezza menzionata poco sopra, quando l’assistenza personale per la vita indipendente dei disabili manca del tutto, ad esempio in un’intera regione, la situazione concreta cambia moltissimo fra disabili gravi e normodotati. Questi ultimi non hanno comunque necessità di assistenza personale, quindi per loro non cambia niente se l’assistenza personale c’è o meno e continuano ad esercitare normalmente i loro diritti fondamentali anche se tale assistenza non c’è in quella regione. Viceversa i disabili gravi, senza assistenza personale, di solito non possono esercitare nemmeno i diritti fondamentali più vitali, quali alzarsi la mattina, andare in bagno, bere ecc., e quindi sono vittime della più pesante delle discriminazioni di fatto perché, quando viene negata la possibilità concreta di esercitare questi diritti basilari, ogni altra discriminazione diventa irrilevante in concreto. Questo perché di fatto è ininfluente essere discriminati, ad esempio, per accedere all’autobus, al posto di lavoro ecc. se prima non c’è in concreto l’assistenza personale adeguata per alzarsi la mattina, andare in bagno ecc. E in concreto la mancanza, anche in assoluto, di assistenza personale costituisce discriminazione perché, a differenza dei disabili gravi, di fatto, chi è normodotato continua ad esercitare normalmente tali diritti fondamentali.
E ancora: se in una zona due persone, con identiche difficoltà e le stesse necessità, ricevono due diverse quantità/qualità di assistenza personale, è evidente che c’è una classica discriminazione.
Abbiamo già visto che, contro la discriminazione, la Convenzione cit. prevede l’“accomodamento ragionevole”[33] e che la stessa Convenzione mira all’eguaglianza de facto[34].
Per cui parrebbe logico che la mancanza o l’insufficienza di assistenza personale costituisca una pesante discriminazione e si possa quindi richiedere l’“accomodamento ragionevole” essendo l’unico rimedio previsto dalla Convenzione stessa contro le discriminazioni. Viceversa è stabilito che l’“accomodamento ragionevole” non deve essere confuso con la fornitura di sostegno, come gli assistenti personali, nell'ambito del diritto di vivere in modo indipendente e di essere inclusi nella comunità[35].
Il fatto che l’assistenza personale venga posta fra diritti economici, sociali e culturali e vada finanziata per tutto il necessario fino al massimo delle risorse disponibili[36] perché è una prestazione essenziale, è un grande riconoscimento per chi non può vivere senza tale assistenza. E rappresenta un preciso precetto per il legislatore, importante perché c’è estrema urgenza di un intervento generale in tema di assistenza personale per la vita indipendente.
Tuttavia è un grande palazzo costruito su piedi d’argilla.
Il fatto è che, per il disabile esemplificativo di cui sopra, la mancanza, o l’insufficienza, dell’assistenza personale per la “vita indipendente”, costituisce una situazione in cui non è possibile esercitare in concreto i diritti fondamentali, quindi vi è una realtà di enorme discriminazione, se non altro di fatto, pure perché se il disabile muore (per assenza o enormi carenze nell’assistenza personale) ogni suo diritto viene meno. È perciò evidente l’essenzialità dell’intervento immediato[37], e pienamente adeguato a specifiche necessità, da parte della Repubblica, per cui, stando alla lettera della Convenzione cit.[38], non rimarrebbe che ricorrere all’“accomodamento ragionevole” essendo l’unico rimedio concretamente immediato ivi previsto contro le discriminazioni. Sennonché, abbiamo visto poco sopra, per quanto riguarda l’assistenza personale, da parte del Comitato dell’Onu cit. non è ammesso l’“accomodamento ragionevole”[39], per cui al disabile grave disperato, o comunque in enormi difficoltà, verso il quale è doverosa una tutela prioritaria, in realtà non rimarrebbe che attendere la morte precoce o i tempi ben più lunghi della “realizzazione progressiva”[40].
È vero che pure per questa “realizzazione” è prevista l’immediatezza, ma è ben diversa da quella stabilita per l’“accomodamento ragionevole” perché riguarda i progetti e le strategie, e non l’intervento. D’altra parte, per un argomento così cruciale, costoso e complesso come l’assistenza personale, per i motivi accennati in precedenza sarebbe ampiamente insufficiente limitarsi all’“accomodamento ragionevole”.
Lo scioglimento di questo nodo è indispensabile anche per evitare che possano verificarsi situazioni sia drammatiche che paradossali, quali, ad esempio, quella di una lunga agonia del disabile privo di assistenza personale oppure quella in cui un disabile grave può chiedere al giudice che gli venga assicurata in concreto la possibilità di entrare in un cinema, ma non può chiedere al giudice che gli venga assicurata in concreto l’assistenza personale indispensabile per non morire, ovvero per potersi alzare dal letto, nutrirsi ecc., attività propedeutiche per poter poi andare al cinema.
Probabilmente, riflettendo sul fatto che l’assistenza personale deve essere un servizio ordinario per tutta la collettività[41], si arriva alla soluzione nel senso che l’assistenza personale deve essere parte della “progettazione universale”[42], e quindi deve diventare pure corretto poter ricorrere all’“accomodamento ragionevole” per ottenere subito l’assistenza mancante, sia in attesa di tale “progettazione” e sia come adattamento alle specifiche necessità di ciò che eventualmente esiste. Salvo aggiungere che, se questa è la via da seguire, allora, ancora una volta, sono stati i disabili stessi a far fare un balzo in avanti alla Convenzione cit.
Abbiamo poi approfondito che il diritto all’“accomodamento ragionevole” introduce nell’ordinamento il fondamentale precetto che ogni supporto deve essere fornito al singolo disabile tenendo conto delle sue specifiche necessità. L’assistenza personale è uno dei supporti per il quale ciò è particolarmente essenziale. Per cui la non applicabilità ad essa dell’“accomodamento ragionevole” risulta inadeguata.
Sia la Convenzione dell’Onu sui disabili che la Legge n. 227 non usano la parola “accomodamento” da sola, bensì essa è insieme alla parola “ragionevole”, cioè l’espressione è “accomodamento ragionevole” (“reasonable accommodation” in inglese).
Va chiarito che “accomodamento ragionevole” è un termine unico e "ragionevole" non deve essere frainteso come clausola di eccezione; il concetto di “ragionevolezza” non dovrebbe fungere da qualificatore o modificatore distinto del dovere. Non è un mezzo attraverso il quale è possibile valutare i costi dell'“accomodamento” o la disponibilità di risorse: ciò avviene in una fase successiva, quando viene intrapresa la valutazione dell’"onere sproporzionato o eccessivo". Piuttosto, la ragionevolezza di un “accomodamento” è un riferimento alla sua rilevanza, adeguatezza ed efficacia per la persona con disabilità. Un “accomodamento” è ragionevole, quindi, se raggiunge lo scopo (o gli scopi) per cui è stato realizzato ed è adeguato alle esigenze della persona con disabilità[43]. Tanto più che, abbiamo visto, subito dopo la Convenzione cit. specifica che gli “adattamenti” devono essere “appropriati”[44].
Questo punto fondamentale è affrontato nella Legge n. 227 cit. soltanto indirettamente mediante rinvio alla Convenzione cit. Per cui, nei decreti legislativi attuativi, il Governo deve prestare molta attenzione a tener conto di quanto stabilito in proposito dalla Convenzione dell'Onu sui disabili ovvero l’“accomodamento”è “ragionevole” soltanto se eliumina la discriminazione.
1.3. L’onere sproporzionato o eccessivo
Nell’art. 2 della Convenzione dell'Onu sui disabili cit. viene poi stabilito che l’“accomodamento” non deve consistere in un “onere sproporzionato o eccessivo”.
Innanzitutto questo dovrebbe essere inteso come un unico concetto che fissa il limite dell'obbligo di fornire soluzioni ragionevoli. Entrambi i termini sono da considerarsi sinonimi in quanto rimandano alla stessa idea: che la richiesta di “accomodamento ragionevole” deve essere vincolata ad evitare un eventuale onere eccessivo o ingiustificato a carico del soggetto che deve provvedere[45].
1.3.1. L’onere sproporzionato o eccessivo nella Convenzione
Solo che, stando all'“accomodamento” stabilito nella Convenzione dell'Onu sui disabili, nel singolo caso "particolare" la collettività interviene per le relative spese “soltanto se” l’onere non è “eccessivo o sproporzionato”.
Allora, in primo luogo, si deve aver chiaro che il fatto se un costo è “eccessivo o sproporzionato” va misurato in relazione al fine per cui è necessario sostenerlo e richiede una valutazione del rapporto proporzionale tra il mezzo impiegato e la natura del diritto in questione[46]. Questo anche perché la Repubblica, per le questioni davvero importanti, le risorse le deve trovare comunque e, quando “così vuolsi colà ove si puote”, vengono sempre trovate. Si pensi, fra l’altro, alla rapidità con cui sono state trovate ingenti risorse per le armi per la guerra in Ucraina, sebbene la Costituzione ripudi la guerra. E quindi, in tema di disabilità, per misurare se la spesa è eccessiva o meno, è doveroso basarsi sul fatto che il concreto esercizio di diritti fondamentali deve essere sempre garantito.
Ovvero, ad esempio, un conto sono i valori costituzionali da considerare per stabilire se è “eccessivo o sproporzionato” spendere € 1.000 in più per consentire ad un Parlamentare di dormire in hotel a 4 stelle anziché in uno comodissimo a 3 stelle. Altro conto sono i valori costituzionali da considerare per stabilire se è “eccessivo o sproporzionato” spendere € 1.000 in più al mese per consentire ad un disabile grave, ad esempio, di uscire tutti i giorni di casa, oppure di andare a scuola, o di avere un lavoro, o di formarsi una famiglia ecc. Tant’è che, nella sentenza n. 215 del 1987, la Corte costituzionale italiana stabilì che non possono essere messi limiti di spesa per l’inserimento scolastico dei disabili. Ed è la stessa Convenzione cit. a stabilire che l’”accomodamento ragionevole” serve proprio a garantire in concreto alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali[47].
E qui iniziano le difficoltà. Per l'“accomodamento” stabilito nella Convenzione dell'Onu sui disabili ci vuole che, nello specifico caso particolare, l’onere non sia “eccessivo o sproporzionato” e ci vuole chi decide in tal senso. Ovvero, ad esempio, un ergastolano normodotato in ogni caso va comunque in bagno, beve l’acqua ecc. quando vuole senza dover avere l’approvazione di nessuno, e questo gli può essere impedito solo con colpo di Stato. Viceversa, sempre stando all'“accomodamento ragionevole”, una persona disabile grave in situazione "particolare", pur rimanendo pienamente titolare in astratto dei diritti fondamentali al pari di chi è normodotato, in concreto può andare in bagno, può bere l’acqua ecc., “soltanto se” la Repubblica accerta che la soluzione adottata ha un costo non eccessivo e non sproporzionato. Quindi nella vita reale è una condizione di enorme inferiorità concreta a cui l'“accomodamento”, e quindi anche la Legge n. 227 in esame e la Convenzione dell'Onu sui disabili, costringono il singolo disabile grave in situazione "particolare".
Il problema è che la decisione sul fatto se l’“accomodamento” è “ragionevole” e se il suo costo non è “eccessivo o sproporzionato”, ovvero se al disabile viene consentito di esercitare in concreto i propri diritti fondamentali, in pratica si basa su chi viene preposto a decidere (e quindi pure, volenti o nolenti, sulla sua intelligenza), sulle regole da seguire per arrivare a tale decisione e sull’entità dei fondi a disposizione. Solo che quasi tutto ciò dipende non dalla Volontà Divina (se esiste), o da altre cause soprannaturali o da limiti naturali insuperabili, ma dalle decisioni del Parlamento, dei Consigli regionali ecc. Sennonché, in tempi migliori degli attuali, in queste assemblee le decisioni dipendevano dalle maggioranze politiche, e, per non vanificare l’inviolabilità e/o l’art. 3 Cost. (nel senso di rendere concretamente violabili i diritti fondamentali dei disabili), già risulta inammissibile il fatto che la possibilità di esercitare in concreto i diritti inviolabili dipenda da dette maggioranze.
Attualmente poi tali assemblee elettive sono ormai ridotte a meri organi di ratifica di decisioni prese da pochissime persone ben più in alto nella gerarchia del potere reale. Inoltre il dimezzamento del numero dei parlamentari e altri fattori riducono il pluralismo, e questo comprime anche la possibilità che i disabili hanno di far sentire la propria voce in Parlamento. Voce che, ad esempio, è stata essenziale per scrivere la Convenzione dell'Onu sui disabili[48] al punto che potrebbe essere interessante esaminare le differenze fra come viene inteso l’“accomodamento ragionevole” nella Convenzione cit. e come viene invece inteso dall’Unione Europea[49].
E, sempre ad esempio, non si può non pensare agli effetti devastanti che ci sono stati a seguito dei grandi tagli fatti ai servizi sociali in nome del cd. principio supremo dell’equilibrio di bilancio imposto dall’alto e al successivo brusco abbandono di questo principio per altre priorità decise durante vertici ristretti sottratti al controllo degli elettori.
Partendo un po’ più da lontano, diventa allora rilevante il fatto che ogni persona (normodotata o disabile) è titolare di tutti i propri diritti inviolabili e questo non può essere intaccato da nessuno, neanche dal Parlamento quando rivede la Costituzione, e neppure da altri poteri più o meno occulti, salvo che ci sia un colpo di Stato.
Inoltre, sia per chi è normodotato e sia per chi è disabile, non può essere toccata da nessuno neppure la facoltà di esercitare in concreto (entro i limiti stabiliti dalla Costituzione) quei diritti inviolabili per il cui godimento non è necessaria la collaborazione della società. Dunque, almeno nell’Italia contemporanea, sotto questo profilo non c’è, e non può esserci, legittimamente discriminazione neanche dei disabili. Il problema sta però tutto nella differenza fra “facoltà” e “possibilità” di esercitare in concreto i diritti inviolabili.
Innanzitutto il fatto è che, nelle società contemporanee, anche per le persone normodotate, la possibilità di esercitare in concreto una parte dei rispettivi diritti “inviolabili” richiede l’intervento della collettività, e quindi dipende dalle decisioni di chi conta veramente nella società. Così, ad esempio, se i trasporti pubblici funzionano male, la possibilità di esercitare in concreto la libertà di circolazione viene compressa o espansa da chi ha veramente il potere di decidere di farli funzionare male. Parimenti, la facoltà di esercitare il diritto supremo (perché chi muore perde tutti i diritti) a morire solo quando è davvero inevitabile, nel concreto viene compressa o espansa da chi ha veramente il potere di decidere di far funzionare male il servizio sanitario.
Dunque, sia per le persone normodotate che per le persone disabili, anche la possibilità concreta di esercitare i diritti fondamentali non è totalmente inviolabile, bensì dipende, in misura rilevante, dalle scelte di chi ha il potere di decidere. Perciò, pure fino a qui, non ci sono differenze fondamentali fra persone normodotate e persone disabili, e quindi non c’è discriminazione strutturale. E si tratta di una realtà che dovrebbe ulteriormente indurre a riflettere sul fatto che, alla fin fine, nella vita vera non siamo poi su barche molto diverse fra loro.
Sennonché, basta andare un millimetro più avanti in questa analisi che iniziano a vedersi le diversità strutturali fra le possibilità che hanno le persone normodotate di esercitare in concreto i propri diritti inviolabili e le possibilità che hanno in concreto le persone disabili di esercitare tali diritti. E qui iniziano le realtà e i rischi di discriminazione.
Sotto questo profilo, fra persone normodotate e persone disabili, ci sono almeno due differenze fondamentali:
Dunque, ai fini del concreto esercizio dei diritti fondamentali, rispetto a chi è normodotato, le persone disabili sono più soggette alle decisioni di chi ha il potere, quindi la loro possibilità concreta di esercitare i propri diritti fondamentali è più violabile, e da qui nasce il rischio di gravissime discriminazioni (oltre a quelle, non meno gravi, legate al pregiudizio generalmente figlio dell’ignoranza) e sono perciò doverose almeno mille attenzioni.
Le discriminazioni, soprattutto in tema di diritti fondamentali, sono comunque inammissibili anche se riguardano una sola persona. A ben maggior ragione sono inammissibili se riguardano moltissime persone. Il fatto è che molte delle specifiche esigenze, originariamente nate come necessarie ai disabili, in realtà riguardano quasi tutta la popolazione. Si pensi a due questioni fondamentali per l’autodeterminazione dei disabili: le barriere e l’assistenza personale. In realtà la presenza delle prime e la mancanza o insufficienza della seconda penalizzano gravemente (anche fino alla morte) tutti i bambini, chi ha infortuni temporanei anche nel pieno della gioventù e molte delle persone che non muoiono giovani. Dunque, anche per questi motivi, sono più che mai necessarie molte attenzioni per evitare discriminazioni verso i disabili.
Ebbene, per rimediare alle discriminazioni concrete nei confronti del singolo disabile in situazione "particolare", la Convenzione dell'Onu prevede l'“accomodamento” purché però questo non comporti un “onere sproporzionato o eccessivo”. Abbiamo già visto che ciò vuol però dire sottoporre quel singolo disabile al potere di chi deve decidere se quell'“accomodamento” costa troppo. E questo, a livello di principio, pone comunque il disabile in una condizione di inferiorità rispetto a chi è normodotato, e quindi discrimina. Infatti, ad esempio, un ergastolano normodotato esce comunque di cella per l’ora d’aria, un disabile “libero” esce di casa “soltanto se” non costa troppo eliminare le barriere (oppure cambia casa, “soltanto se” la trova accessibile ad un prezzo sostenibile).
È da ritenere che l’“accomodamento” individuato dal disabile di regola debba essere considerato ragionevole purché, per individuarlo, il disabile stesso abbia avuto a disposizione adeguati supporti tecnici e, solo se indispensabili, decisionali. Tutto questo salvo diversa decisione adeguatamente motivata da parte di chi è tenuto a dirimere eventuali controversie. Decisione da adottare comunque con moltissime cautele perché non si è comunque mai “nei panni” di quello specifico disabile ed è impossibile capire fino in fondo tutte le difficoltà, anche più minute, che deve affrontare quotidianamente.
È anche da ritenere che un “accomodamento ragionevole” così individuato non comporti un “onere sproporzionato o eccessivo” a meno che non ne venga indicato un altro meno oneroso, ma altrettanto adeguato da quella specifica persona disabile, oppure a meno che l’adozione di quell’“accomodamento ragionevole” comporti un sacrificio dei diritti fondamentali di chi deve adempiere almeno altrettanto grave, per non dire maggiore, di quello che deriverebbe a quella specifica persona disabile dalla mancata adozione di tale “accomodamento”.
Va comunque osservato che nella Legge n. 227 italiana qui in esame non è previsto che si possa ricorrere all’“accomodamento” “soltanto se” non comporta un “onere sproporzionato o eccessivo”.
Da un lato va prestata molta attenzione per evitare che questo fatto dell’“onere sproporzionato o eccessivo” non venga poi in qualche modo infilato, magari malamente, nei decreti legislativi attuativi di tale Legge. Tanto più in considerazione sia del fatto che, come vedremo qui sotto, in questa Legge, davanti alle parole “risorse disponibili”, non è stato messa la parola “massimo”, che invece c’è nella Convenzione dell'Onu sui disabili[50] e sia per evitare il pericolo che venga erroneamente applicato il fatto che in questa Legge n. 227 c’è un rinvio agli “accomodamenti” molto più esteso di quello stabilito dalla Convenzione. Salvo osservare che questo pericolo dovrebbe essere inesistente in considerazione del fatto che, nella Legge qui in esame, per quanto riguarda l’“accomodamento ragionevole” ci sono ripetuti rinvii alla Convenzione cit.
Dall’altro lato invece l’assenza dell’“onere sproporzionato o eccessivo” nella Legge n. 227 cit. non sembra essere affatto un’omissione del legislatore perché risulta pienamente coerente con la legge n. 67 del 2006 cit.
1.3.2. La legge n. 67 del 2006
Dunque, riassumendo, la Convenzione cit. stabilisce in maniera ampia e precisa il contenuto della discriminazione verso i disabili[51] e per prevenirla e rimuoverla impone la “progettazione universale”[52] che è un dovere ex ante[53]. Poiché però la sua realizzazione non è certo immediata, e comunque non comprende per intero tutte le specifiche necessità di ogni persona disabile, come rimedio per consentire ai disabili di non soccombere, è previsto l’“accomodamento ragionevole” che è, in teoria, solo un dovere ex nunc[54] (ovvero solo ad integrazione di ciò che non è stato possibile fare in modo da poter essere pienamente vivibile da tutti), ma, in pratica, non può essere inutilizzabile per far vivere le persone in attesa della piena realizzazione della “progettazione universale”. E quindi, in pratica, prima di allora, “caso particolare” è qualunque disabile che non possa esercitare pienamente i propri diritti fondamentali per via della mancata universalità della progettazione.
Accanto agli indubbi e fondamentali pregi dell’“accomodamento ragionevole”, qui sopra abbiamo però esaminato anche i limiti e pericoli nella sua errata applicazione pratica, i quali sono ancor più rilevanti in considerazione dei tempi, realisticamente biblici per non dire infiniti, necessari per la realizzazione in concreto della “progettazione universale”. Di conseguenza in Italia l’“accomodamento ragionevole” va applicato soltanto in funzione migliorativa della legge italiana contro la discriminazione dei disabili[55], nonché più in generale della normativa esistente a tutela dei disabili, e, per quanto riguarda la vita indipendente, in combinato disposto con un punto fondamentale[56], che verrà esaminato più avanti.
Infatti, a miglioramento dell’“accomodamento ragionevole”, nella legge italiana n. 67 del 2006, fra l’altro, viene consentito al giudice di ordinare la “rimozione” degli effetti della discriminazione (che è cosa più netta dell’“accomodamento”), non viene imposto al giudice il limite dell’“onere sproporzionato”, a livello normativo non viene esclusa l’assistenza personale dall’azione discriminatoria e viene consentito al giudice di condannare al risarcimento del danno derivante dalla discriminazione.
Inoltre, e non di poco conto, l’“accomodamento ragionevole” esiste solo per modificare o adeguare ciò che esiste già[57]. Viceversa la legge n. 67 cit., con le parole “un comportamento apparentemente neutro” mette “una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone”[58], a differenza dell’“accomodamento ragionevole”, colpisce anche le omissioni assolute nei confronti dei disabili: ad es. l’assistenza personale non esiste per niente e questo pone la persona disabile in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone normodotate. E ancora, almeno in teoria, potrebbero ricorrere all’“accomodamento ragionevole” soltanto i disabili discriminati, che si trovano in situazione particolare[59] rispetto agli altri disabili. Viceversa alla legge n. 67 cit. possono ricorrere tutti i disabili discriminati.
E questa legge non deve essere abrogata dai decreti legislativi attuativi della Legge n. 227 cit., sia per non tornare indietro e sia perché si tratta di norma di ordine generale.
Va tuttavia rilevato che, almeno in teoria, è possibile ricorrere all’“accomodamento ragionevole” senza doversi rivolgere al giudice, mentre, per avere i benefici di cui alla legge n. 67 cit. è comunque necessario rivolgersi al giudice.
2. Le “risorse disponibili”
Nella Convenzione dell'Onu sui disabili viene stabilito che a queste persone deve essere destinato il “massimo delle risorse disponibili”[60]. Omettendo alcune importanti questioni di ordine più generale, va tuttavia osservato che, in tale Convenzione, detta parola “massimo” in ogni caso sta a significare che il Parlamento, il Governo, le Regioni ecc. devono fare ogni sforzo per destinare più risorse possibili alla disabilità.
Il fatto è però che, a differenza della Convenzione dell'Onu sui disabili, nella Legge n. 227 italiana qui in esame viene stabilito soltanto il limite delle “risorse disponibili”, cioè senza la parola “massimo”. La mancanza di tale parola in questa Legge non può non avere un preciso significato giuridico e politico. Questa mancanza, insieme ad altri elementi visti in questo scritto, sta a significare che, nella Legge n. 227 italiana, il Parlamento delegherebbe il Governo a non sforzarsi poi troppo a cercare risorse per i disabili, che devono invece “accontentarsi di quel che passa il convento”.
Tuttavia, per certi versi meno esplicitamente nella Costituzione italiana e un po’ più esplicitamente nelle decisioni della Corte costituzionale italiana, il contenuto della parola “massimo” è comunque ben presente. Inoltre è stato ribadito che, in tema di disabilità, per “attuare la progressiva realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali, gli Stati parti devono adottare misure al massimo delle loro risorse disponibili”[61]. E il Governo deve tenerne conto nell’emanare i decreti legislativi attuativi che seguiranno alla Legge n. 227 perché si tratta di precetti di ordine più generale che stanno al di sopra di questa Legge.
2.1. Una sfida concreta
In definitiva, è necessario far sì che la soluzione adottata per il singolo “accomodamento” sia comoda, efficace e utile per il singolo disabile, e, al tempo stesso, conciliare questo con il fatto che non ci sia un “onere sproporzionato o eccessivo” (nel senso esaminato in questo scritto) e con il fatto che non ci siano costi a carico del disabile[62].
Ebbene tutto ciò è possibile solo affrontando la materia con adeguata preparazione tecnica e senza conflitti d’interesse. Ecco perché è allora fondamentale il fatto che l’“accomodamento ragionevole” deve essere negoziato caso per caso con il/i richiedente/i e necessita che il soggetto obbligato faccia in concreto tutto il necessario per entrare in dialogo con la persona con disabilità[63]. Questo se non altro perché quasi sempre la persona disabile interessata è l’unica che può aiutare a progettare e stabilire con certezza qual’è la soluzione più economica adeguata alle sue necessità. Oltre al fatto che, nella pur lunga Legge n. 227 cit., non viene indicato l’organo preposto a valutare l’“accomodamento” richiesto[64], se non per i servizi sociali e in maniera da far sorgere le enormi riserve che vedremo.
Si tratta di una questione di cruciale importanza per non discriminare in concreto i singoli disabili perché in materia, soprattutto in Italia, l’incompetenza tecnica e le violazioni della normativa sono dilaganti. E il Governo deve tenerne adeguatamente conto nei decreti legislativi attuativi.
Solo per citare due esempi di carattere generale fra molti, basti pensare ai numerosi e costosi interventi per l’“accessibilità” fatti senza un minimo di conoscenze tecniche, senza il rispetto della normativa vigente e senza un minimo di banale buon senso per cui in concreto si risolvono in spreco di risorse per creare ulteriori barriere. Oppure si può pensare alle intermediazioni imposte, anche solo di fatto mediante omissioni, in tema di assistenza personale, che fanno aumentare i costi e peggiorare le prestazioni.
Il punto, che pare trascurato nella Legge n. 227 qui in esame, è invece rilevante al fine di garantire che l'“accomodamento ragionevole” sia idoneo a raggiungere l'obiettivo essenziale della promozione dell'eguaglianza e dell'eliminazione della discriminazione nei confronti di tutte le persone con disabilità[65]. Al punto da venir indicato in dettaglio nella Convenzione sia che l’“accomodamento” deve risolvere la discriminazione e sia che potenziali fattori da considerare per valutare la fattibilità dell'“accomodamento ragionevole” includono gli oneri finanziari, le risorse disponibili (comprese le sovvenzioni pubbliche), la dimensione del soggetto ospitante (nella sua interezza), l'effetto della modifica sull'ente o sull'impresa, i benefici di terzi, gli impatti negativi su altre persone e ragionevoli requisiti di salute e sicurezza. Per quanto riguarda lo Stato parte, inteso nel suo insieme, e gli enti del settore privato, devono essere considerati i beni complessivi piuttosto che le sole risorse di un'unità o di un dipartimento all'interno di una struttura organizzativa[66]. Considerando lo Stato nel suo insieme è comunque da escludere che non sia seriamente possibile disporre di risorse sufficienti.
In ogni caso, qualunque sia l’interpretazione che si vuol dare al co. 2 art. 3 Cost., esso vieta di tornare indietro nel percorso di inclusione dei disabili.
3. La “vita indipendente”
Secondo il Comitato dell’Onu cit. “vita indipendente” significa avere tutti i mezzi necessari per prendere tutte le decisioni riguardanti la propria vita compreso l'accesso ai trasporti, all'informazione, alla comunicazione e all'assistenza personale, al luogo di residenza, alla routine quotidiana, alle abitudini, al lavoro dignitoso, ai rapporti personali, all'abbigliamento, all'alimentazione, all'igiene e alla salute, alle attività religiose, attività culturali e diritti sessuali e riproduttivi compreso decidere dove viviamo e con chi, cosa mangiamo, se ci piace dormire o andare a letto la sera tardi, stare dentro o fuori, avere una tovaglia e candele accese al tavolo, avere animali domestici o ascoltare musica. Inoltre non va interpretata unicamente come capacità di svolgere le attività quotidiane[67].
È una definizione di “vita indipendente” notevole ed è vincolante per l’Italia. Dunque si può affermare che, ogniqualvolta una persona disabile non ha la possibilità di esercitare in concreto tutto quanto riportato qui sopra, ciò significa che la Repubblica italiana non ha adempiuto al proprio obbligo di assicurare la “vita indipendente” ai disabili. Il che, salvo successivi approfondimenti, non esclude necessariamente che siano stati rispettati i tempi stabiliti nella Convenzione cit.
Sempre in breve, e limitandoci solo ad alcuni cenni, la “vita indipendente” dei disabili è innanzitutto tutelata dall’art. 1 Cost. italiana quando stabilisce che la sovranità appartiene al popolo. Cioè a dire che il popolo è composto da tante persone singole, che decidono da loro stesse della propria vita. Quindi, se non si vuole discriminare, questo potere di decidere da se stessi della propria vita appartiene anche ai singoli disabili gravi.
La “vita indipendente” dei disabili è poi tutelata dalla Costituzione italiana, se non altro, nell’art. 2 laddove stabilisce che i diritti fondamentali sono inviolabili e nell’art. 3 laddove stabilisce, fra l’altro, che tutti abbiamo gli stessi diritti.
E ancora: l’essenza della “vita indipendente” dei disabili gravi dipende dalla possibilità di poter esercitare in concreto prima di tutto i propri diritti fondamentali e inviolabili. Questo esercizio “in concreto” dei diritti, anche da parte dei disabili gravi, è tutelato, se non altro, dall’art. 2 Cost. con le parole “doveri inderogabili di solidarietà” (strettamente connessi con l’inviolabilità dei diritti fondamentali) e dall’art. 3 co. 2 Cost. con le parole “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Inoltre, e non meno importante, tutti gli studi, anche a livello internazionale, sulla Convenzione dell'Onu sui disabili cit., oscillano fra lo scrivere che la “vita indipendente” è l’aspetto centrale della Convenzione e lo scrivere che è uno degli aspetti centrali della medesima.
Nell’art. 1 co. 1 di questa Legge italiana n. 227 è prevista la necessità di “garantire alla persona con disabilità [...] il diritto alla vita indipendente […] nel rispetto dei principi di autodeterminazione e di non discriminazione”.
Dunque, nel primo articolo di questa Legge, c’è una tutela molto importante per la “vita indipendente” perché viene stabilito che si tratta di “garantire [...] un diritto”. Tuttavia, andando avanti nella Legge n. 227, le cose cambiano parecchio.
Innanzitutto, nel lungo testo di questa Legge n. 227, l’espressione “vita indipendente” viene usata soltanto altre due volte e in maniera al quanto defilata.
Inoltre in questa Legge n. 227 viene stabilito di “prevedere […] ipotesi in cui […] possa essere autogestito”[68]. Quindi in questa Legge n. 227 l’autogestione (che è l’essenza della “vita indipendente”) è solo una possibile ipotesi, e non un dovere fondamentale da garantire da parte della Repubblica e tanto meno un diritto fondamentale della persona.
Parimenti in questa Legge viene stabilito di “prevedere che, nell'ambito del progetto di vita individuale [...] possano essere individuati [...] modelli di assistenza personale autogestita che supportino la “vita indipendente” delle persone con disabilità in età adulta”[69]. Quindi anche in questo punto della Legge n. 227 in esame la “vita indipendente” è forse una possibilità fra altre. E poi quel “possano” mette la “vita indipendente” dei disabili gravi in una situazione ben diversa dall’essere quel diritto garantito di cui all’art. 1 di questa stessa Legge ora in esame, e ben diversa anche da quanto stabilito nella Costituzione italiana e dalla Convenzione dell'Onu sui disabili cit.
Poiché per i disabili gravi la “vita indipendente”, con tutti gli accorgimenti individuati per consentire la massima inclusività, è l’unica soluzione sinora individuata per garantire la maggiore possibilità di esercitare in concreto i diritti fondamentali, la dizione costituzionalmente corretta dovrebbe essere esattamente l’opposto, e cioè, più o meno: “Soluzioni diverse dalla vita indipendente possono essere individuate soltanto quando strettamente indispensabili”. Questo anche perché pure l’Onu stabilisce correttamente che la vita indipendente è per tutti i tipi di disabilità[70].
Inoltre il punto della Legge n. 227 citato poco sopra prevede la “vita indipendente” soltanto per le “persone con disabilità in età adulta”[71]. Viceversa l’Onu stabilisce che la “vita indipendente” è per le persone con disabilità di tutte le età[72], quindi anche per i bambini, perché è fondamentale che, coerentemente con le esigenze naturali della crescita, si abituino a giocare anche senza i genitori. E parimenti è fondamentale che gli adolescenti minorenni vivano la loro indipendenza fisiologica dai genitori. Questo aspetto della vita indipendente per i disabili minorenni è completamente assente dalla Legge n. 227 cit. Al punto che le parole “età adulta”, viste sopra, paiono rinnegare le parole “of all persons with disabilities”[73].
In questa Legge n. 227 viene stabilito di “assicurare che, su richiesta della persona con disabilità o di chi la rappresenta, l'elaborazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato coinvolga attivamente anche gli enti del Terzo settore”[74].
Con questa disposizione in primo luogo il coinvolgimento del “Terzo settore”, quando richiesto e necessario, non è più solo consentito, bensì deve essere “assicurato” dai servizi sociali. E di conseguenza questa disposizione stabilisce il dovere per i servizi sociali di tener sempre presente che il “Terzo settore” esiste fra i possibili supporti per i disabili.
Il fatto è però poi che per un disabile grave, soprattutto se vive da solo in un’abitazione, la vulnerabilità può essere estrema, per cui è particolarmente importante che questa persona possa tutelarsi in concreto e con facilità. Viceversa, nella realtà della vita, può accadere di frequente che, per il singolo disabile grave, nell’avere a che fare con il “Terzo settore”, non sia per niente agevole tutelare in maniera adeguata la propria vulnerabilità. In questo senso, nel complesso, sono superiori gli strumenti di tutela del disabile grave concretamente disponibili laddove esistono esperienze consolidate di “vita indipendente”.
Ecco allora che la disposizione qui in esame acquista tutta la sua ulteriore, e per certi versi centrale, importanza nel divieto di coinvolgere il “Terzo settore” quando non c’è la “richiesta della persona con disabilità” e “legalizza” la cautela con cui è necessario avvicinarsi a questo settore, se non altro per talune necessità. Il fatto è però che, una volta aperta espressamente la porta al “Terzo settore” da un punto di vista legislativo, nella realtà concreta della vita può essere facile per i servizi sociali fare una serie di pressioni per “convincere” il singolo disabile grave, concretamente privo di tanti supporti essenziali, a “richiedere” l’intervento del “Terzo settore”. Questa opera di “convincimento” è particolarmente agevole per via della cronica e vasta mancanza di risorse pubbliche per la vita indipendente dei disabili gravi.
Ed è perciò necessario che nei decreti legislativi attuativi vengano adeguatamente sviluppati sia il divieto di far intervenire il “Terzo settore”, se non c’è la richiesta del disabile, e sia il fatto che in pratica questo divieto può essere facilmente aggirato.
C’è poi un’altra questione. In questa Legge n. 227 viene stabilita “la possibilità di effettuare controlli, che contengano anche le informazioni relative ai benefici eventualmente spettanti ai familiari o alle persone che hanno cura della persona con disabilità”[75]. Cioè a dire che un punto centrale della “vita indipendente” è non dover dipendere dai genitori, come accade per l’autodeterminazione di tutte le persone normodotate adulte. Oltre a poter togliere ai genitori il fatto che l’assistenza al figlio disabile grave pesi su di loro per tutta la vita. Il che pare essenziale in termini sia di solidarietà che di non discriminazione. Viceversa la Legge n. 227 qui in esame stabilisce che la Repubblica entri nel denaro di cui hanno disponibilità le persone che si sono trovate e/o si trovano costrette ad aiutare il disabile grave.
Insomma nemmeno un minimo di rispetto e di respiro neppure per quei genitori, magari anziani, che dedicano, o hanno dedicato, la vita all’impegnativo compito di assistere i figli con gravi disabilità. E neppure un po’ di rispetto per il/la partner, che, pur nell’ambito del proprio meraviglioso amore, adempie comunque anche a compiti il cui onere sarebbe intelligente e doveroso rispettare e condividere da parte di tutta la collettività. Oltre al fatto che questa intromissione della Repubblica negli “averi” di familiari ecc. è, se non altro, una gravissima violazione dell’indipendenza della persona (disabile).
Andando avanti in questa Legge n. 227, per quanto riguarda la “programmazione strategica” viene stabilito di “prevedere la partecipazione dei rappresentanti delle associazioni delle persone con disabilità maggiormente rappresentative”[76]. Personalmente sono contrario alle “dittature della maggioranza”. Nel caso specifico poi il fatto qui previsto di far partecipare soltanto le associazioni più rappresentative sembra ancora più inammissibile perché “vita indipendente” vuol dire pure avere a che fare con i diritti personalissimi e più inviolabilissimi ai quali spetta la massima tutela, anche se riguardano le peculiarità di una sola persona. Per cui è essenziale quella competenza specifica che non è necessariamente data dall’essere maggioranza. Oltre al fatto che, escludere le minoranze dalle decisioni riguardanti il concreto esercizio dei diritti fondamentali, vuol dire pure uccidere anche qualche residuo barlume di democrazia.
Un ringraziamento particolare a Beniamino Deidda per il consueto rigore con cui ha puntualizzato alcune questioni fondamentali sviluppate in questo scritto.
[1] In https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-12-30&atto.codiceRedazionale=21G00254&tipoDettaglio=multivigenza&qId=6b81d058-cf5d-45ee-8e02-c4029af188d2&tabID=0.8029187744006283&title=Atto%20multivigente&bloccoAggiornamentoBreadCrumb=true.
[2] United Nations, Convention on the Rights of Persons with Disabilities, art. 2 cpv. 4°, in https://www.un.org/development/desa/disabilities/convention-on-the-rights-of-persons-with-disabilities/convention-on-the-rights-of-persons-with-disabilities-2.html, in italiano in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=OJ:JOL_2010_023_R_0035_01&from=IT, ratificata dall'Italia con Legge 3 marzo 2009 n. 18. Si ricorda che l’Italia ha ratificato anche il “Protocollo Opzionale”, in https://www.un.org/development/desa/disabilities/convention-on-the-rights-of-persons-with-disabilities/optional-protocol-to-the-convention-on-the-rights-of-persons-with-disabilities.html. Di conseguenza i “General comments” del “Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità” hanno valore giuridico in Italia che è tenuta ad adeguarsi e il contenuto di tali “Comments” può essere fatto valere nei giudizi davanti alla magistratura.
[3] United Nations Committee on the Rights of Persons with Disabilities (UNCRPD), General comment No. 6 (2018) on equality and non-discrimination, in https://docstore.ohchr.org/SelfServices/FilesHandler.ashx?enc=6QkG1d%2fPPRiCAqhKb7yhsnbHatvuFkZ%2bt93Y3D%2baa2qtJucAYDOCLUtyUf%2brfiOZckKbzS%2bBsQ%2bHx1IyvGh6ORVZnM4LEiy7ws5V4MM8VC4khDIZJSuxotVqfulsdtPv, punto 18: “(c) “Denial of reasonable accommodation”, according to article 2 of the Convention, constitutes discrimination if the necessary and appropriate modification and adjustments (that do not impose a “disproportionate or undue burden”) are denied and are needed to ensure the equal enjoyment or exercise of a human right or fundamental freedom”. In italiano: La negazione di un “accomodamento ragionevole”, ai sensi dell'art. 2 della Convenzione, costituisce discriminazione se le necessarie e appropriate modifiche e adeguamenti (che non impongono un “onere sproporzionato o eccessivo”) sono negati e sono necessari per garantire il pari godimento o esercizio di un diritto umano o una libertà fondamentale.
[4] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 4, “Equality and non-discrimination are among the most fundamental principles and rights of international human rights law. Because they are interconnected with human dignity, they are the cornerstones of all human rights.” e punto 5 “Equality and non-discrimination are the core of all human rights treaties.” In italiano: L'eguaglianza e la non discriminazione sono tra i principi dei diritti fondamentali del diritto internazionale dei diritti umani. Poiché sono interconnessi con la dignità umana, sono le pietre miliari di tutti i diritti umani”. e punto 5: “Eguaglianza e non discriminazione sono il fulcro di tutti i trattati sui diritti umani.
[5] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 13: “Article 5 of the Convention, like article 26 of the International Covenant on Civil and Political Rights, provides in itself an autonomous right independent from other provisions. It prohibits de jure or de facto discrimination in any field regulated and protected by public authority. Read together with article 4 (1) (e), it is also evident that it extends to the private sector.” In italiano: L'art. 5 della Convenzione, come l'art. 26 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, prevede di per sé un diritto autonomo e indipendente da altre disposizioni. Vieta la discriminazione de jure o de facto in qualsiasi campo regolato e protetto dalla pubblica autorità. Letto insieme all'art. 4, paragrafo 1, lett. e), è anche evidente che si estende al settore privato.
[6] Anziché: soluzione, sistemazione.
[7] Convenzione cit., in Italiano in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=OJ:JOL_2010_023_R_0035_01&from=IT cit.
[8] Indispensabile al disabile per il concreto esercizio dei propri diritti inviolabili.
[9] In particolare, per quanto riguarda l’onere a carico della Repubblica, va tenuto ben presente che è spalmato fra tutto il popolo italiano, e dovrebbe essere a carico soprattutto di chi ha situazioni economiche molto floride, e che tanto più viene adottata la “progettazione universale” e tanti meno “accomodamenti” sono necessari.
[10] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently and being included in the community, in https://docstore.ohchr.org/SelfServices/FilesHandler.ashxenc=6QkG1d%2fPPRiCAqhKb7yhsnbHatvuFkZ%2bt93Y3D%2baa2q6qfzOy0vc9Qie3KjjeH3GA0srJgyP8IRbCjW%2fiSqmYQHwGkfikC7stLHM9Yx54L8veT5tSkEU6ZD3ZYxFwEgh, punto 36: “support service (...) are often offered to persons with disabilities on the premise of cost efficiency. However, while this premise itself can be rebutted in terms of economics, aspects of cost efficiency must not override the core of the human right at stake”. In italiano: “i servizi di supporto (...) sono spesso offerti alle persone con disabilità sulla base dell'efficienza della spesa. Tuttavia, mentre questa stessa premessa può essere confutata in termini economici, gli aspetti dell'efficienza della spesa non devono prevalere sul nucleo dei diritti umani in gioco”.
[11] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 4°: ““Reasonable accommodation” means necessary and appropriate modification and adjustments”. In italiano: “Accomodamento ragionevole" significa modifiche e adeguamenti necessari e appropriati.
[12] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 5°: ““Universal design” means the design of products, environments, programmes and services to be usable by all people, to the greatest extent possible, without the need for adaptation or specialized design. “Universal design” shall not exclude assistive devices for particular groups of persons with disabilities where this is needed.”
[13] UNCRPD, General comment No. 2 (2014) Article 9: Accessibility, in https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/15/treatybodyexternal/Download.aspx?symbolno=CRPD%2fC%2fGC%2f2&Lang=en, punto 25: “Accessibility is related to groups, whereas reasonable accommodation is related to individuals. This means that the duty to provide accessibility is an ex ante duty.”
[14] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 4° cit.
[15] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. a) punto 5): “introduzione nella legge 5 febbraio 1992, n. 104, della definizione di «accomodamento ragionevole», prevedendo adeguati strumenti di tutela coerenti con le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”.
[16] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 4° cit.
[17] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 24: “Reasonable accommodation duties are different from accessibility duties. Both aim to guarantee accessibility, but the duty to provide accessibility through universal design or assistive technologies is an ex ante duty, whereas the duty to provide reasonable accommodation is an ex nunc duty”. In italiano: I doveri di accomodamento ragionevole sono diversi dai doveri di accessibilità. Entrambi mirano a garantire l'accessibilità, ma il dovere di fornire l'accessibilità attraverso la progettazione universale o le tecnologie assistive è un dovere ex ante, mentre il dovere di fornire una sistemazione ragionevole è un dovere ex nunc.
[18] UNCRPD, General comment No. 2 (2014) Article 9: Accessibility, cit., punto 25: “In the case of individuals who have rare impairments that were not taken into account when the accessibility standards were developed or who do not use the modes, methods or means offered to achieve accessibility (not reading Braille, for example), even the application of accessibility standards may not be sufficient to ensure them access. In such cases, reasonable accommodation may apply.” In italiano: Nel caso di individui che hanno menomazioni rare, che non sono state prese in considerazione quando sono stati sviluppati gli standard di accessibilità o che non utilizzano le modalità, i metodi o i mezzi offerti per ottenere l'accessibilità (non leggono il Braille, per esempio), anche l'applicazione degli standard di accessibilità potrebbe non essere sufficiente per garantire loro l'accesso. In tali casi, può essere applicata una sistemazione ragionevole.
[19] Convenzione, art. 2 co. 1 cpv. 4° cit.
[20] Legge 1 marzo 2006, n. 67, "Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni", così come modificata dal Decreto Legislativo 1 settembre 2011, n. 150, in https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2006-03-06&atto.codiceRedazionale=006G0090&tipoDettaglio=multivigenza&qId=3f74ad30-9e7b-4a40-818b-b47b1290b429&tabID=0.655380874705416&title=Atto%20multivigente&bloccoAggiornamentoBreadCrumb=true.
[21] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 33 ultima frase: “Structural reforms designed to improve overall accessibility within the community may reduce the demand for disability-specific services”.
[22] Convenzione dell’Onu cit., art. 2 ultimo cpv.
[23] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 10 ultima frase: “The duty to provide reasonable accommodation (art. 5 (3)) is ... not subject to progressive realization” e UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 12: “Promoting equality and tackling discrimination are cross-cutting obligations of immediate realization. They are not subject to progressive realization.”.
[24] UNCRPD, General comment No. 2 (2014) Article 9: Accessibility, cit., punto 25: “The obligation to implement accessibility is unconditional, i.e. the entity obliged to provide accessibility may not excuse the omission to do so by referring to the burden of providing access for persons with disabilities. The duty of reasonable accommodation, contrarily, exists only if implementation constitutes no undue burden on the entity.” In italiano: L'obbligo di attuare l'accessibilità è incondizionato, ovvero l'ente obbligato a fornire l'accessibilità non può giustificare l'omissione facendo riferimento all'onere di fornire l'accesso alle persone con disabilità. Il dovere di accomodamento ragionevole, al contrario, sussiste solo se l'attuazione non costituisce un onere eccessivo per chi lo deve sostenere.
[25] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 26: “Ensuring that the burden of proof rests with the duty bearer who claims that his or her burden would be disproportionate or undue.” In italiano: Garantire che l'onere della prova spetti al soggetto obbligato che sostiene che il suo onere sarebbe sproporzionato o eccessivo.
[26] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 39: “Article 19 (b), the right to access individualized, assessed support services, is an economic, social and cultural right. Article 19 (c), the right to access service facilities, is an economic, social and cultural right, as many mainstream services, such as accessible information and communications technologies, websites, social media, cinemas, public parks, theatres and sports facilities, serve both social and cultural purposes. Progressive realization entails the immediate obligation to design and adopt concrete strategies, plans of action and resources to develop support services”. In italiano: L'art. 19, lett. b), il diritto di accedere a servizi di supporto individualizzati e valutati, è un diritto economico, sociale e culturale. L'art. 19, lett. c), il diritto di accedere alle strutture di servizio, è un diritto economico, sociale e culturale, così come molti servizi tradizionali, come le tecnologie dell'informazione e della comunicazione accessibili, i siti web, i social media, i cinema, i parchi pubblici, i teatri e gli impianti sportivi, servire a scopi sia sociali che culturali. La progressiva realizzazione comporta l'obbligo immediato di progettare e adottare strategie concrete, piani d'azione e risorse per lo sviluppo dei servizi di supporto.
[27] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 41 (b).
[28] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 25: “(c) “Reasonable accommodation” should also not be confused with “specific measures”, including “affirmative action measures”. While both concepts aim at achieving de facto equality, reasonable accommodation is a non-discrimination duty, whereas specific measures imply a preferential treatment of persons with disabilities over others to address historic and/or systematic/systemic exclusion from the benefits of exercising rights. Examples of specific measures include temporary measures for countering the low numbers of women with disabilities employed in the private sector and support programmes to increase the number of students with disabilities in tertiary education. Similarly, reasonable accommodation should not be confused with the provision of ... support to exercise legal capacity”.
[29] Ibidem: “25.The duty to provide reasonable accommodation in accordance with articles 2 and 5 of the Convention can be broken down into two constituent parts. The first part imposes a positive legal obligation to provide a reasonable accommodation which is a modification or adjustment that is necessary and appropriate where it is required in a particular case to ensure that a person with a disability can enjoy or exercise her or his rights. The second part of this duty ensures that those required accommodations do not impose a disproportionate or undue burden on the duty bearer.”. In italiano: Il dovere di fornire un accomodamento ragionevole ai sensi degli articoli 2 e 5 della Convenzione può essere suddiviso in due parti costitutive. La prima parte impone un obbligo legale positivo di fornire un accomodamento ragionevole che è una modifica o un adeguamento necessario e appropriato laddove sia richiesto in un caso particolare per garantire che una persona con disabilità possa godere o esercitare i propri diritti. La seconda parte di questo obbligo garantisce che gli adattamenti richiesti non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al portatore di obblighi.
[30] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality on equality cit., punto 10: “Formal equality seeks to combat direct discrimination by treating persons in a similar situation similarly. It may help to combat negative stereotyping and prejudices, but it cannot offer solutions for the “dilemma of difference”, as it does not consider and embrace differences among human beings. Substantive equality, by contrast, also seeks to address structural and indirect discrimination and takes into account power relations.” In italiano: L'eguaglianza formale cerca di combattere la discriminazione diretta trattando allo stesso modo le persone in una situazione simile. Può aiutare a combattere stereotipi e pregiudizi negativi, ma non può offrire soluzioni al “dilemma della differenza”, poiché non considera e non abbraccia le differenze tra gli esseri umani. L'eguaglianza sostanziale, al contrario, cerca anche di affrontare la discriminazione strutturale e indiretta e tiene conto delle relazioni di potere.
[31] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 11: “It embraces a substantive model of equality”. In italiano: Abbraccia un modello sostanziale di eguaglianza.
[32] Legge n. 67 del 2006 cit., art. 2 co. 3: “Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone”.
[33] Convezione, art. 2 cpv. 4° cit.
[34] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 13 cit., Ibidem, punto 25 c).
[35] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 25: “(c) “... Similarly, reasonable accommodation should not be confused with the provision of support, such as personal assistants, under the right to live independently and be included in the community ...”.
[36] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 41: “In order to achieve the progressive realization of economic, social and cultural rights, States parties must take steps to the maximum of their available resources.” In italiano: Al fine di conseguire la progressiva realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali, gli Stati parti devono attivarsi al massimo delle loro risorse disponibili.
[37] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 12: “Promoting equality and tackling discrimination are cross-cutting obligations of immediate realization. They are not subject to progressive realization.” In italiano: Promuovere l'eguaglianza e combattere la discriminazione sono obblighi trasversali di immediata realizzazione. Non sono soggetti alla realizzazione progressiva.
[38] Convezione, art. 2 cpv. 3° cit.
[39] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 25: “(c) “... Similarly ...”.
[40] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 39: “Progressive realization entails the immediate obligation to design and adopt concrete strategies, plans of action and resources to develop support services as well as making existing, as well as new, general services inclusive for persons with disabilities.” In italiano: La realizzazione progressiva”comporta l'immediato obbligo di progettare e adottare concrete strategie, piani di azione e risorse per sviluppare servizi di supporto e rendere inclusivi per le persone con disabilità i servizi generali esistenti, così come quelli nuovi.
[41] Al convegno “Exploring the Future of Independent Living”, Bruxelles, 28 settembre 2022, da più parti si è sottolineato che l’assistenza personale deve essere un servizio normalmente disponibile per tutta la popolazione.
[42] Convenzione, art. 2 co. 1 cpv. 5° cit., nella “progettazione universale” sono inclusi anche i servizi.
[43] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 25: “(a) “Reasonable "accommodation” is a single term, and “reasonable” should not be misunderstood as an exception clause; the concept of “reasonableness” should not act as a distinct qualifier or modifier to the duty. It is not a means by which the costs of accommodation or the availability of resources can be assessed — this occurs at a later stage, when the “disproportionate or undue burden” assessment is undertaken. Rather, the reasonableness of an accommodation is a reference to its relevance, appropriateness and effectiveness for the person with a disability. An accommodation is reasonable, therefore, if it achieves the purpose (or purposes) for which it is being made, and is tailored to meet the requirements of the person with a disability”.
[44] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 4° cit.
[45] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 25: “(b) “Disproportionate or undue burden” should be understood as a single concept that sets the limit of the duty to provide reasonable accommodation. Both terms should be considered synonyms insofar as they refer to the same idea: that the request for reasonable accommodation needs to be bound by a possible excessive or unjustifiable burden on the accommodating party”.
[46] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 26: “(d) ... the determination of whether a reasonable accommodation is disproportionate or unduly burdensome requires an assessment of the proportional relationship between the means employed and its aim, which is the enjoyment of the right concerned”. In italiano: ... la determinazione del carattere sproporzionato o indebitamente oneroso di un accomodamento ragionevole richiede una valutazione del rapporto proporzionale tra i mezzi impiegati e il suo scopo, che è il godimento del diritto in questione.
[47] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 4° cit.: ““Reasonable accommodation” means [...] to ensure to persons with disabilities the enjoyment or exercise on an equal basis with others of all human rights and fundamental freedoms”. In italiano: per “accomodamento ragionevole” si intendono [...] per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
[48] Monia Paré, Dipartimento degli Affari economici e sociali dell’Onu cit. in T.M. Collingbourne, Realising Disability Rights? Implementation of the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities in England – A Critical Analysis, PhD thesis, School of Law of The University of Sheffield, 2012, pp. 68-9 e Don Mckey, presidente del Comitato ad Hoc per la stesura della Convenzione cit. in Ibidem, p. 70.
[49] Ad esempio: “Direttiva (UE) 2019/882 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi”, in https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwj9tOuylZ_7AhUXVfEDHdcDAtYQFnoECA0QAQ&url=https%3A%2F%2Feur-lex.europa.eu%2Flegal-content%2FIT%2FTXT%2FPDF%2F%3Furi%3DCELEX%3A32019L0882%26from%3DEN&usg=AOvVaw1vjeRRaXJ3uz0Mjuq-BI3i.
[50] Convezione cit., art. 4 co. 2 e UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently, punto 41 cit.
[51] Convenzione, art. 2 cpv. 3° cit.: ““Discrimination on the basis of disability” means any distinction, exclusion or restriction on the basis of disability which has the purpose or effect of impairing or nullifying the recognition, enjoyment or exercise, on an equal basis with others, of all human rights and fundamental freedoms in the political, economic, social, cultural, civil or any other field. It includes all forms of discrimination, including denial of reasonable accommodation”. In italiano: per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole.
[52] Convenzione, art. 2 co. 1 cpv. 5° cit.
[53] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 24: “... the duty to provide accessibility through universal design or assistive technologies is an ex ante duty ...”.
[54] Ibidem, “... the duty to provide reasonable accommodation is an ex nunc duty”.
[55] Legge n. 67 del 2006 cit.
[56] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 16 (a).
[57] Ibidem: “25.The duty to provide reasonable accommodation in accordance with articles 2 and 5 of the Convention can be broken down into two constituent parts. The first part imposes a positive legal obligation to provide a reasonable accommodation which is a modification or adjustment that is necessary and appropriate where it is required in a particular case to ensure that a person with a disability can enjoy or exercise her or his rights. The second part of this duty ensures that those required accommodations do not impose a disproportionate or undue burden on the duty bearer.”. In italiano: Il dovere di fornire un accomodamento ragionevole ai sensi degli articoli 2 e 5 della Convenzione può essere suddiviso in due parti costitutive. La prima parte impone un obbligo legale positivo di fornire un accomodamento ragionevole che è una modifica o un adeguamento necessario e appropriato laddove sia richiesto in un caso particolare per garantire che una persona con disabilità possa godere o esercitare i propri diritti. La seconda parte di questo obbligo garantisce che gli adattamenti richiesti non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al portatore di obblighi.
[58] Legge n. 67 cit., art. 2 co. 3.
[59] Convenzione cit., art. 2 co. 1 cpv. 4°.
[60] Convezione cit., art. 4 co. 2.
[61] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 16 (a).
[62] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 26: “Key elements that guide the implementation of the duty to provide reasonable accommodation include: ... (f) Ensuring that the persons with a disability more broadly do not bear the costs”. In italiano: Gli elementi chiave che guidano l'attuazione dell'obbligo di fornire un accomodamento ragionevole includono: (f) garantire che le persone con disabilità in generale non sostengano i costi.
[63] UNCRPD, General comment No. 6 (2018) on equality cit., punto 24: “(b) Reasonable accommodation must be negotiated with the applicant(s). ...... Reasonable accommodation requires the duty bearer to enter into dialogue with the individual with a disability” e Ibidem, punto 26: “(e) A case-by-case approach based on consultations with the relevant body charged with reasonable accommodation and the person concerned is therefore required.” In italiano: Un accomodamento ragionevole deve essere negoziato con il/i richiedente/i [...] e il soggetto obbligato entri in dialogo con la persona con disabilità”, e Ibidem, punto 26: “(e) È quindi richiesto un approccio caso per caso basato su consultazioni fra la persona interessata e l'organo competente incaricato di provvedere all’accomodamento ragionevole.
[64] Ibidem, punto 26: “e) [...] based on consultations with the relevant body charged with [...]”. in Italiano: sulla base di consultazioni con l'organo competente incaricato .
[65] Ibidem, “(e) Ensuring that the reasonable accommodation is suitable to achieve the essential objective of the promotion of equality and the elimination of discrimination against persons with disabilities”.
[66] Ibidem, “(e)... Potential factors to be considered include financial costs, resources available (including public subsidies), the size of the accommodating party (in its entirety), the effect of the modification on the institution or the enterprise, third-party benefits, negative impacts on other persons and reasonable health and safety requirements. Regarding the State party as a whole and the private sector entities, overall assets rather than just the resources of a unit or department within an organizational structure must be considered.”
[67] UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 16: “(a) Independent living. Independent living/living independently means that individuals with disabilities are provided with all necessary means to enable them to exercise choice and control over their lives and make all decisions concerning their lives. Personal autonomy and self-determination are fundamental to independent living, including access to transport, information, communication and personal assistance, place of residence, daily routine, habits, decent employment, personal relationships, clothing, nutrition, hygiene and health care, religious activities, cultural activities and sexual and reproductive rights. These activities are linked to the development of a person’s identity and personality: where we live and with whom, what we eat, whether we like to sleep in or go to bed late at night, be inside or outdoors, have a tablecloth and candles on the table, have pets or listen to music. Such actions and decisions constitute who we are. Independent living is an essential part of the individual’s autonomy and freedom and does not necessarily mean living alone. It should also not be interpreted solely as the ability to carry out daily activities.” In italiano: Vita indipendente/vivere in modo indipendente significa che alle persone con disabilità vengono forniti tutti i mezzi necessari per consentire loro di esercitare la scelta e il controllo sulla propria vita e prendere tutte le decisioni che la riguardano. L'autonomia personale e l'autodeterminazione sono fondamentali per una vita indipendente, compreso l'accesso ai trasporti, all'informazione, alla comunicazione e all'assistenza personale, il luogo di residenza, la routine quotidiana, le abitudini, il lavoro dignitoso, le relazioni personali, l'abbigliamento, l'alimentazione, l'igiene e l'assistenza sanitaria, le attività religiose , attività culturali e diritti sessuali e riproduttivi. Queste attività sono legate allo sviluppo dell'identità e della personalità di una persona: dove viviamo e con chi, cosa mangiamo, se ci piace dormire fino a tardi o andare a letto tardi, stare in casa o all'aperto, avere una tovaglia e candele accese a tavola, avere animali domestici o ascoltare musica. Tali azioni e decisioni costituiscono ciò che siamo. La vita indipendente è una parte essenziale dell'autonomia e della libertà dell'individuo e non significa necessariamente vivere da soli. Inoltre, non dovrebbe essere interpretato esclusivamente come la capacità di svolgere le attività quotidiane.
[68] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. c) punto 9).
[69] Ibidem, punto 12).
[70] Convenzione cit., art. 19: “... recognize the equal right of all persons with disabilities ...”. In italiano: riconosce il diritto di tutte le persone con disabilità [alla “vita indipendente”]. UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 8: “The right to live independently and be included in the community refers to all persons with disabilities, irrespective of [...] birth and age, or any other, status.” In italiano: Il diritto a vivere in modo indipendente e ad essere inclusi nella comunità si riferisce a tutte le persone con disabilità, indipendentemente da [...] nascita ed età, o qualsiasi altro stato.
[71] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. c) punto 12).
[72] Convenzione cit., art. 19: “recognize” cit.; UNCRPD, General comment No. 5 (2017) on living independently cit., punto 8: “The right to live independently” cit.
[73] Art. 19 della Convenzione cit.
[74] Legge n. 227 cit., art. 2 co. 2 lett. c) punto 8).
[75] Ibidem, lett. d).
[76] Ibidem, lett. e).
di Giacomo Biasutti
Sommario: 1. La vicenda processuale e la questione sottoposta al Consiglio di Stato nel giudizio rescindente; 2. La decisione: i parametri di riferimento dell’errore di fatto revocatorio; 3. La decisione della fase rescissoria; 4. Sui limiti di rilevanza revocatoria dell’errore processuale; 5. Difetto di pronuncia e denegata giustizia: sulla possibile concorrenza dei mezzi di censura; 6. Interazione tra pregiudiziale sportiva, errore revocatorio e denegata giustizia; 7. Conclusioni
1. La vicenda processuale e la questione sottoposta al Consiglio di Stato nel giudizio rescindente
La vicenda sottoposta al Consiglio di Stato trae origine dalla giustizia domestica sportiva[1], ove la società calcio Chievo Verona (poi sottoposta a procedura concorsuale e rappresentata dunque in giudizio dalla propria curatela fallimentare) aveva impugnato il provvedimento della Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio Professionistiche – COVISOC[2] che accertava il mancato rispetto degli obblighi tributari cui le società calcistiche erano tenute sulla base del Manuale delle licenze redatto dalla F.I.G.C. Dapprima, la A.C. Chievo Verona s.r.l. presentava ricorso avverso detta decisione avanti al Consiglio Federale, il quale tuttavia nel respingere il gravame disponeva ulteriormente l’esclusione dal campionato di serie B della società[3]. A sua volta la decisione consiliare veniva censurata avanti al Collegio di garanzia[4] che tuttavia rigettava a sua volte le contestazioni elevate avverso i provvedimenti.
Indi, la società interponeva ricorso avanti al T.A.R. per il Lazio, censurando a seguire con motivi aggiunti l’ulteriore provvedimento federale di svincolo dei giocatori e contestando -per la prima volta avanti al giudice amministrativo- il c.d. Sistema delle licenze nazionali[5]. In via derivata, peraltro, la società censurava l’illegittimità dei provvedimenti perché basati su disposizioni di legge a loro volta ritenute incostituzionali dacché non avevano esteso la normativa emergenziale tributaria[6] ai mancati pagamenti delle rateazioni già disposte dall’agenzia delle entrate. Proprio questo profilo giunge ad interesse nella vicenda de qua, laddove il Tribunale capitolino ha ritenuto irrilevante la questione di legittimità costituzionale sul presupposto della omessa censura tempestiva[7] del sistema delle licenze avanti agli organi della giustizia. In particolare, in primae curae il Collegio ha rilevato come fosse ben noto alla ricorrente il contenuto del sistema delle licenze e, nello specifico, la relativa portata escludente rispetto alla propria situazione quanto all’iscrizione ai campionati professionistici[8]. Dunque, rilevata l’inoppugnabilità del Manuale per omessa contestazione avanti agli organi sportivi, difettava a dire del T.A.R. il presupposto della rilevanza della questione ai fini del decidere[9].
La sentenza era quindi impugnata avanti al Consiglio di Stato, che tuttavia confermava la pronuncia di primae curae[10]. In particolare, ed ai fini che interessano, i giudici di Palazzo Spada ritenevano, al pari del Tribunale, inammissibile la questione di costituzionalità per difetto del requisito di rilevanza[11], dal momento che la società calcistica aveva omesso di contestare il Manuale che prevedeva il requisito della regolarità contabile ai fini della iscrizione al campionato professionistico.
È proprio avverso tale pronuncia, invero, che il fallimento della società calcistica interponeva ricorso per revocazione, nel tentativo di censurare un errore di fatto ex art. 106, d.lgs. n. 104/2010 e art. 395, comma 1, n. 4, del Codice di procedura civile. In buona sostanza, il Consiglio di Stato avrebbe travisato la questione di legittimità sottoposta dalla ricorrente: la società non sosteneva che l’illegittimità costituzionale della norma tributaria avrebbe consentito di dichiarare illegittimo il Manuale delle licenze, invece non impugnato, bensì che la l’incostituzionalità della disposizione avrebbe consentito l’ammissione della società a prescindere da ogni ulteriore valutazione circa la legittimità del Manuale, che a quel punto sarebbe divenuta irrilevante ai fini del decidere. In altri termini, se la norma tributaria fosse stata dichiarata incostituzionale, A.C. Chievo Verona sarebbe stata ammessa a disputare il campionato perché avrebbe avuto i requisiti previsti dal Manuale[12].
Di qui, pertanto, a dire del ricorrente il concretarsi dell’errore di fatto richiesto dalle disposizioni precitate per ottenere la revocazione[13]: il Consiglio di Stato avrebbe positivamente affermato come esistente un fatto in realtà escluso – ossia la necessità di preventiva elisione del Manuale onde dare corso alla necessaria valutazione sulla legittimità costituzionale della disposizione tributaria dallo stesso applicata.
2. La decisione: i parametri di riferimento dell’errore di fatto revocatorio
Nel prendere il passo quanto al giudizio rescindente, il Consiglio di Stato individua chiaramente i limiti della c.d. omissione di pronuncia[14] rispetto a quelli dell’errore di fatto revocatorio[15].
Anzitutto, vengono richiamate le due opposte correnti giurisprudenziali in merito. Da un lato, vi è quella più risalente[16], che rileva come l’omesso riscontro puntuale alle censure formulate dal ricorrente concreti a tutti gli effetti un error in procedendo, ponendosi in violazione dell’art. 112 c.p.c. In buona sostanza, in questi casi si nega che l’omessa pronuncia possa avere una rilevanza revocatoria, rimanendo confinata all’errore processuale censurabile in un ulteriore grado di giudizio, ove presente[17]. Di contro, vi è altra parte della giurisprudenza e della dottrina[18] che ritiene, invece, che l’omissione di pronuncia costituirebbe ipso facto un errore suscettibile di emenda revocatoria, poiché frutto di un abbaglio cartolare rispetto alle domande effettivamente presentate dal ricorrente. E questo, con l’ulteriore precisazione che, in ogni caso, non può costituire oggetto dell’azione revocatoria la contestazione delle valutazioni operate dal giudice, anche laddove portino ad assorbimento -dunque omessa pronuncia- di determinate domande[19]. Tra queste due visioni alternative, se ne inserisce una – concretamente seguita dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento – che concede espressa rilevanza al fatto che non sempre, e non necessariamente, l’omessa pronuncia integra un errore di fatto, ma ciò si verifica ove sia ictu oculi evidente dagli atti processuali[20] che vi sia stato un abbaglio sensoriale del giudicante. L’errore revocatorio, insomma, deve risultare particolarmente evidente quando si tratta di omissione di pronuncia[21].
Se dunque è necessario che si verifichi un falso presupposto fattuale[22] derivante da una svista dei sensi, è pure imprescindibile che questo si appunti su di un profilo non controverso ma decisivo della vicenda processuale. In questi termini, pertanto, l’errore non incide sul momento valutativo del giudicante, ma solo su quello percettivo della lettura degli atti[23]. Donde non si tratta di una anomalia del procedimento logico, ma solamente del suo presupposto sensoriale.
Di conseguenza è solo qualora si verifichi questo presupposto “abbaglio dei sensi” e, a valle, ciò porti ad una omissione di pronuncia, che può avere agio il rimedio revocatorio nell’eventuale violazione dell’art. 112 c.p.c.
Fissati questi assi cartesiani, pertanto, il Consiglio di Stato afferma sussistenti nel caso in esame i presupposti per disporre la revocazione della sentenza. Ritiene infatti il giudicante che la ricorrente in appello avesse graficamente articolato una diversa questione di legittimità costituzionale: non revocava in dubbio la legittimità del sistema delle licenze, ma sosteneva che la declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina tributaria avrebbe consentito alla società di iscriversi al campionato anche senza toccare i requisiti previsti dal Manuale delle licenze medesime. In questi termini, allora, il giudice d’appello, nel confermare la sentenza di primae curae con riguardo alla irrilevanza della questione per inoppugnabilità del sistema delle licenze, aveva omesso la pronuncia, non già errato una applicazione delle norme processuali[24].
3. La decisione della fase rescissoria
Esaurito in questi termini l’esame della questione processuale in ordine all’ammissibilità del mezzo di impugnazione, il Consiglio di Stato passa quindi alla fase rescissoria del giudizio[25].
Anzitutto, la sentenza qualifica il Manuale delle licenze quale atto presupposto[26] dei successivi provvedimenti di ammissione o esclusione dai campionati professionistici. Nondimeno, i Giudici chiariscono che quest’ultimo atto richiama un elemento normativo estrinseco, ossia la regolarità fiscale delle squadre partecipanti. E tale elemento non deriva dalle disposizioni del Manuale o del plesso disciplinare sportivo, bensì dalla applicazione di norme tributarie. Nondimeno il provvedimento, a quella fattispecie normativa estranea al diritto sportivo, assegna -con valenza costitutiva- un preciso significato nell’ambito del procedimento valutativo circa l’ammissione ai campionati[27]. Ma si tratta, a dire della sentenza, di una situazione di fatto che deve meramente essere verificata: gli organi sportivi debbono solo verificare il fatto della regolarità contabile, non già apprezzare i provvedimenti fiscali. Questo porta il Consiglio di Stato a concludere per l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale sulla base di un diverso ragionamento.
Invero, la regolarità fiscale della società rileva come mero oggetto di una verifica, mentre in sé, tale posizione, riguarda un rapporto tra la società calcistica e l’agenzia delle entrate. Rapporto la cui legittimità non può essere oggetto di apprezzamento, nemmeno in via incidentale, ad opera del giudice amministrativo. Diversamente opinando -ossia se la posizione fiscale non fosse una circostanza fattuale da verificare, ma una species acti che può essere valutata dal giudice- si dovrebbe ogni volta mettere in discussione la legittimità di provvedimenti tributari anche non tempestivamente impugnati e per di più ad opera di una giurisdizione non competente a conoscerli. Di qui, allora, l’anticipata irrilevanza, per altra via, della questione proposta dalla società calcistica: la declaratoria di incostituzionalità non gioverebbe alla ricorrente, poiché i provvedimenti di accertamento, non tempestivamente impugnati, rimarrebbero in vita, facendo permanere quella condizione ostativa alla ammissione al campionato prevista dal Manuale. Di più, in ogni caso il giudice amministrativo non potrebbe sollevare una questione rispetto a provvedimenti tributari che non sono stati contestati nel proprio giudizio.
Per tali ragioni, quindi, revocata la sentenza, il Consiglio di Stato ha nondimeno respinto l’appello, ritenendo irrilevante la questione di legittimità costituzionale proposta.
4. Sui limiti di rilevanza revocatoria dell’errore processuale
Il profilo che suscita maggiore interesse la pronuncia sul piano del diritto processuale è sicuramente l’individuazione del perimetro di rilevanza dell’errore revocatorio.
La sentenza ha infatti il pregio di chiarire il momento dell’errore ed il suo oggetto, quali elementi intrinsecamente connessi e che nella loro combinazione consentono di stabilire quando l’omissione di pronuncia possa trovare sanzione nell’ambito di una impugnazione ex art. 106 c.p.a. Invero, è da tempo chiaro al plesso giurisdizionale ordinario[28] che onde avere rilevanza ai fini impugnatori, l’errore deve essere immediatamente percepibile. Nondimeno, il Consiglio di Stato mette in luce come sia altrettanto essenziale che né l’oggetto dell’errore né eventuali norme applicate nella sentenza revocanda possono essere contestati quali frutto di una attività valutativa. Infatti, la sentenza chiarisce che per quanto il giudicante possa commettere errores in procedendo, questi rilevano solo se la norma processuale violata è l’art. 112 c.p.c.[29]. E, a sua volta, la violazione del precetto giusprocessuale deve derivare da un abbaglio dei sensi emergente dagli atti.
Queste premesse consentono di sviluppare due ulteriori predicati.
Il primo, è che nella valutazione dell’errore revocatorio l’attività del giudice dell’impugnazione è meramente di accertamento fenomenico[30]. Esso si limita, infatti, a prendere atto della discrasia tra gli atti di causa e la risposta resa dal giudice, non potendo interpolare valutazioni di sorta: si tratta di un’attività di riscontro meccanico tra domanda e sentenza[31].
Il secondo predicato che si deriva da questa premessa di ordine generale riguarda invece l’assorbimento delle domande. Infatti, dalla natura meccanica del rilevamento dell’errore processuale deriva l’impossibilità che, implicitamente, il giudice della sentenza impugnata abbia inteso assorbire il motivo non esaminato[32]. È invero prassi che il giudicante, ritenendo risolutivo un punto controverso tra le parti, abbia a statuire su di esso assorbendo -eventualmente appunto in maniera implicita- la risposta alle ulteriori questioni delle quali è causa[33]. Se però questa prassi assume diversi connotati a seconda che il giudice accolga il ricorso o lo rigetti -poiché nel secondo caso si dovrebbe esplicitare le ragioni dell’assorbimento mentre nel primo, soddisfando la pretesa di chi fa la domanda[34] questo onere può dirsi affievolito- nel caso di dell’omissione di pronuncia non deve invece potersi dedurre nemmeno implicitamente una operazione logica del genere. In altri termini, per avere omissione di pronuncia revocatoria, non deve potersi dedurre nemmeno indirettamente l’intenzione di assorbimento dei motivi ulteriori.
Tuttavia, ove una tale decisione venga censurata per revocazione, pare allora che una operazione valutativa debba essere operata da parte del giudice dell’impugnazione: è inevitabile dover apprezzare il senso logico della pronuncia per avere conferma che si sia trattato di una svista omissiva rispetto ad uno o alcuni dei motivi di diritto invece che l’assorbimento implicito delle questioni operato per ragioni di liquidità e -dunque- di economicità processuale. Tale valutazione, peraltro, appare avere a sua volta diversa consistenza a seconda della tipologia di pronuncia esaminata, laddove nel caso di una sentenza semplificata[35] giocoforza la motivazione si riferisce ad un solo punto controverso ovvero si riduce al richiamo ad un precedente conforme ritenuto risolutivo per la questione. In tali casi, allora, è più semplice individuare una volontà di assorbimento che non fa luogo a errore omissivo.
Occorre però anche in questo caso operare una attenta distinzione.
Infatti, ove la sentenza semplificata venga emessa in esito all’udienza cautelare[36], è chiaro che si ritiene risolutivo un profilo sottoposto al giudice dalle parti, dunque che si voglia operare in assorbimento degli ulteriori motivi non espressamente esaminati. Viceversa, ove, invece, la forma semplificata sia imposta dal codice di rito sulla base della tipologia della controversia[37], la forma non individua di per sé ragioni di particolare semplicità decisoria della res litigiosa e, pertanto, questa sorta di “presunzione di assorbimento” dei motivi non specificamente esaminati viene meno. Con la conseguenza che, in questi casi, l’esame della pronuncia ai fini di determinare la sussistenza di eventuali omissioni suscettibili di revocazione si atteggerà in buona sostanza tale e quale a quanto avviene per le sentenze non semplificate[38].
In questi termini, insomma, l’esame dell’errore revocatorio, pur irregimentato nei binari indicati dalla giurisprudenza, si arricchisce di ulteriore complessità. Resta sempre uno strumento impugnatorio a critica vincolata[39], ma si declina diversamente, nella omissione di pronuncia da parte del giudice amministrativo, a seconda della tipologia di sentenza impugnata, poiché si deve apprezzare prudentemente la possibilità che si siano assorbiti motivi di censura.
5. Difetto di pronuncia e denegata giustizia: sulla possibile concorrenza dei mezzi di censura
Un ulteriore elemento che stimola alla riflessione nella pronuncia in commento è il possibile concorso dello strumento revocatorio con il ricorso per Cassazione per c.d. denegata giustizia[40]. Con questa espressione ci si suole riferire alle impugnazioni proposte avanti al giudice di legittimità[41] invocando l’eccesso di potere giurisdizionale[42] concretatosi nella interpretazione delle norme processuali tale da limitare in maniera sproporzionata ed irragionevole l’accesso alla tutela giurisdizionale[43].
Pare invero una via percorribile, in parallelo alla contestazione dell’errore revocatorio[44], l’ipotesi di proporre innanzi alla Corte di Cassazione la questione della denegata giustizia provocata dall’omissione della pronuncia ad opera del giudice speciale. D’altro canto, laddove si ricordi che l’errore revocatorio deve essere -in quanto tale- del tutto palese ed immediatamente percepibile alla semplice lettura degli atti di causa, sorge spontaneo il parallelo con quella giurisprudenza che afferma come “alla regola della non estensione agli errori in iudicando o in procedendo del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, può derogarsi nei casi eccezionali o estremi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, tale da ridondare in manifesta denegata giustizia”[45].
Dunque, pare potersi -quantomeno in astratto- ipotizzare la proponibilità di ricorso per Cassazione nel caso in cui vi sia una manifesta omissione di pronuncia sui motivi del ricorso e, quindi, sostenendo che il giudice amministrativo abbia in buona sostanza abdicato alla propria funzione giurisdizionale di tutela del cittadino[46].
La tesi, per quanto suggestiva, deve essere raffrontata però con l’interpretazione notevolmente restrittiva dei margini operativi del mezzo impugnatorio in parola che ne dà la corrente giurisprudenza. Invero, secondo gli Ermellini, il ricorso per denegata giustizia avverso le pronunce del giudice amministrativo è ammesso solamente “quando il giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento) ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); ovvero nelle ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, che si ha quando il giudice amministrativo affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici (Cass., Sez. Un., 12 marzo 2021, n. 7031)”[47]. Di converso, l’eventualità in cui vi sia una effettiva abdicazione della funzione giudiziale da parte del giudice speciale, si rinverrebbe solamente ove questo neghi in via generale la tutelabilità di una determinata posizione giuridica soggettiva[48]. Nell’eventualità di un errore singolare di applicazione della norma processuale[49], pertanto, resta solamente le possibilità di impugnazione all’interno del plesso giurisdizionale amministrativo, non potendo venire in rilevo l’error in procedendo quale motivo di giurisdizione.
Le maglie attraverso le quali giungere ad una pronuncia ad opera della Corte di Cassazione, al di là di assonanze lessicali circa la patente evidenza dell’errore, insomma, sono molto strette[50]. Tanto strette, da far ritenere che lo strumento impugnatorio innanzi agli Ermellini possa essere utilizzato solo in caso di infruttuoso esperimento della revocazione presso il Consiglio di Stato, a guisa di extrema ratio[51]. Con la conseguenza che, in effetti, non pare potersi parlare di una concorrenza in senso proprio dei due strumenti di tutela.
6. Interazione tra pregiudiziale sportiva, errore revocatorio e denegata giustizia
Un ulteriore profilo sul quale si intrattiene la pronuncia in esame riguarda la c.d. pregiudizialità sportiva[52]. In particolare, nei diversi gradi di giudizio, il giudice amministrativo si concentra sulla circostanza che il Manuale delle licenze[53], quale di atto presupposto al provvedimento in iudicio deducto, dovesse essere contestato seguendo la trafila impugnatoria che trova scaturigine nel plesso giustiziale sportivo. La validità del Manuale, in altre parole, doveva essere contestata ab origine innanzi la giustizia sportiva per poter essere successivamente dedotta in contestazione avanti al giudice amministrativo. Non avendo proceduto il ricorrente in tal senso, il Consiglio di Stato non ha potuto che limitarsi a valutare se vi fosse possibilità per il giudice amministrativo di sindacare l’atto di accertamento tributario presupposto a guisa di motivo di esclusione dal campionato ad opera del Manuale stesso. E, non ravvisando tale possibilità, dichiarare per altra via irrilevante la dedotta questione di costituzionalità.
Vi è tuttavia da chiedersi, alla luce dei referenti utilizzati dalla pronuncia in commento per delimitare il perimetro di rilevanza dell’errore revocatorio, quale possa essere l’interazione dei due diversi plessi giurisdizionali. È invero cosa nota, infatti, che la giustizia amministrativa arrivi a guisa di valutazione impugnatoria devolutiva delle questioni delibate dalla giustizia domestica sportiva. Nondimeno, laddove la giustizia sportiva ometta di pronunciarsi su di una questione, si concreta un errore revocatorio in termini sostanzialmente analoghi a quelli analizzati nella pronuncia in commento. Errore che, a sua volta è passibile di revocazione all’interno del plesso sportivo ai sensi dell’art. 63 del Codice di giustizia sportiva[54] in termini sostanzialmente analoghi -quantomeno sul piano fenomenico della nozione di errore- a quelli applicabili avanti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa.
La domanda che si pone, a questo punto, è se l’errore revocatorio nel quale può essere incorso il giudice sportivo debba essere giocoforza coltivato in via esclusiva avanti allo stesso ovvero se possa essere validamente delato alla cognizione del T.A.R. per il Lazio. Ebbene, alla luce del principio di pregiudizialità della decisione sportiva affetta da vizio revocatorio “ordinario”, dovrebbe dirsi che la decisione affetta da tale vizio sia impugnabile esclusivamente innanzi al plesso sportivo, poiché l’errore percettivo è immediatamente riscontrabile e, altresì, poiché il sistema di giustizia sportiva prevede un rimedio interno apposito[55]. Sarà quindi poi l’eventuale -ulteriore- pronuncia emessa in esito al procedimento di revocazione a poter essere oggetto di attenzione avanti al giudice amministrativo. Tuttavia, in relazione agli esiti di questa ricostruzione, non è inutile richiamare l’attenzione sulla posizione di altri giudici degli ordinamenti europei. In alcuni rilevanti casi, infatti, questi ultimi hanno dimostrato anche in tempi recenti un certo disfavore per i sistemi di giustizia domestica che escludano o rendano difficoltoso l’accesso ad un giudizio avanti alle magistrature dello Stato[56]. Queste riflessioni, in certi casi estemporanee, sono comunque occasione per ribadire che l’articolazione del sistema di tutele in ambito sportivo non può avere l’effetto di menomare l’effettività della tutela per il sovrapporsi dei diversi limiti che ciascuna plesso di giustizia fa propri.
Ciò detto, nondimeno, però, si deve chiarire che il caso in esame -ossia quello di un errore revocatorio intercorso nella declaratoria di inammissibilità per irrilevanza di una questione di legittimità costituzionale proposta dal ricorrente- ha delle caratteristiche specifiche che non consentivano al giudice sportivo una decisione. Invero, i referenti normativi, come noto, ascrivono il potere di sollevare questione di costituzionalità solamente alle autorità giurisdizionali[57] a fronte della paventata illegittimità di una legge o di un atto avente forza di legge. Ebbene, gli organi di giustizia sportiva e le disposizioni dagli stessi applicate, paiono difettare di quei requisiti. Invero, la Corte d’Appello Federale della F.I.G.C.[58], con pronuncia nomofilattica delle proprie sezioni unite, ha recentemente chiarito che non può né ritenersi che la giustizia sportiva si caratterizzi per i requisiti di una autorità giurisdizionale[59] né che gli atti regolatori interni del sistema sportivo possono essere qualificati come “aventi forza di legge”[60], e, per conseguenza, essere delati avanti alla Cort costituzionale.
7. Conclusioni
Volendo trarre alcune conclusioni da quanto sin qui illustrato, si può sicuramente dire che la pronuncia in esame ha il pregio di definire i caratteri della natura percettiva dell’errore revocatorio. Ad essere reso ben evidente, infatti, è come il giudice della revocazione, in fase rescindente, non debba intrattenersi sul procedimento valutativo operato nella sentenza revocanda né, per parte propria, deve sovrapporvi una valutazione sulla applicazione delle norme rispetto a quella del giudice a quo. L’individuazione dell’errore è semplice frutto della meccanica comparazione del testo di ricorso e del testo della sentenza: in ciò si concreta l’omissione di pronuncia revocatoria.
La pronuncia consente però lo sviluppo di ulteriori riflessioni, che interrogano sulla interazione di diverse forme di tutela presenti tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Si è visto che l’omissione revocatoria è certo denegata giustizia, ma altresì che lo strumento garantito dall’art. 106 c.p.a. è ben più efficace dell’invocare questioni di mancato esercizio del potere giurisdizionale rispetto a ipotetici ricorsi avanti alla Corte di Cassazione, alla luce dell’attuale interpretazione che la stessa fa propria circa l’ipotesi di c.d. denegata giustizia.
Inoltre, l’addentellarsi del giudizio sportivo rispetto alla impugnazione avanti al T.A.R. sollecita il lettore ad interrogarsi pure sulla tenuta complessiva di un sistema di tutela ove l’errore revocatorio trova sanzione anche nella giustizia domestica, la quale però in esercizio di self restraint non ritiene di poter sollevare questioni di legittimità costituzionale[61].
Nel complesso, le soluzioni giuridiche operate dalla pronuncia sono sicuramente coerenti dal punto di vista sistematico. Tuttavia, resta aperta la domanda su quale sarebbe stato l’esito del giudizio nel caso in cui la società avesse impugnato gli atti dell’amministrazione tributaria e, in quella sede, fosse stata sollevata la questione di legittimità avanti al Giudice delle Leggi. Una declaratoria incompatibilità costituzionale del sistema tributario, infatti, avrebbe certo propagato i propri effetti anche presso la giustizia domestica sportiva e, in esito, presso il giudice amministrativo. Ma questo solo in esito a defatiganti impugnazioni avanti a diverse autorità giurisdizionali; forse a detrimento di quel principio di effettività della tutela giurisdizionale che dovrebbe essere punto di partenza e di arrivo del sistema processuale nel suo complesso[62].
[1] Per un inquadramento generale delle diverse questioni attinenti all’esercizio della funzione giustiziale sportiva e del conseguente controllo successivo da parte del giudice amministrativo si veda F. Luiso, Giustizia sportiva, in Digesto Discipline Privatistiche, Torino, 1993, vol. IX, nonché, più recentemente, F. Goisis, La giustizia sportiva tra funzione amministrativa e arbitrato, Milano, 2007, P.. Sandulli – M. Sferrazza, Il giusto processo sportivo. Il sistema di giustizia sportiva della Federcalcio, Milano, 2015, M. Sanino, Diritto Sportivo, Padova, 2002, come pure Giustizia sportiva, Milano, 2022, nonché L. Di Nella – E. Indraccolo – A. Lepore – P. Del Vecchio – S. Palazzi, Manuale di diritto dello sport, Napoli, 2021, S. Papa, Il processo sportivo dopo il codice CONI, Torino, 2018, P. Sandulli, Argomenti e riflessioni in tema di giustizia sportiva, Roma, 2021, P. Del Vecchio – L. Giacomardo – M. Sferrazza – R. Stincardini (a cura di), La giustizia nello sport, Napoli, 2022.
[2] Cfr. L. Zambelli, La natura e il funzionamento dei controlli sulle società di calcio professionistiche in Italia, in Diritto dello sport, III-IV, 2015, pag. 301 ss., il quale, nell’illustrare le funzioni del Comitato, sottolinea in particolare come quest’ultimo operi essenzialmente un controllo di merito sulle gestioni finanziarie delle società sportive, verificando anzitutto il rispetto di parametri formali imposti ope legis, ma ancor più riferendosi al complesso dell’equilibrio economico finanziario e alla sostenibilità dei debiti di queste ultime secondo parametri di efficienza. Si tratta, insomma, sostanzialmente di un controllo gestionale di merito ex post.
[3] L’esclusione o ammissione delle squadre dai campionati professionistici, è una competenza esclusiva del Consiglio federale sulla base dell’art. 8 dello Statuto della F.I.G.C.
[4] Sul procedimento cfr. A. Tatafiore – P. Di Salvatore, Diritto sportivo, Milano, 2022, in particolare pag. 79 e ss.
[5] Si tratta, in sintesi, del sistema che prevede il rilascio delle licenze per la partecipazione ai diversi campionati professionistici, preordinata, in particolare, a garantire la sostenibilità economica del sistema verificando il rispetto delle regole di bilancio da parte delle società, come sottolinea S. Bastianon, Dal Trattato di Lisbona al nuovo regolamento UEFA sulle licenze per club e sul fair-play finanziario, in Rivista di diritto sportivo, I, 2012, pag. 7 e ss.
[6] Che, in sintesi, consentiva la dilazione dei pagamenti dei debiti i natura fiscale, cfr. d.l. 18/2020 e s.m.i.
[7] In ordine alla pregiudiziale sportiva, imposta a livello generale dal d.l. n. 220/2003, vedasi F. Valerini, Quale giudice per gli sportivi? (a margine del d.l. 19 agosto 2003, n. 220), in Rivista di diritto processuale, IV, 2004, pag. 1203 e ss., nonché P. Sandulli, La giurisdizione “esclusiva” in materia di diritto sportivo, in Analisi giuridica dell’economia, II, 2005, pag. 395 e ss. nonché, del medesimo Autore, La legge 17 ottobre 2003, n. 280, ovvero una nuova giurisdizione esclusiva in materia di diritto sportivo, in Temi Romana – Rivista giuridica a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma, 2003.
[8] Sarebbe, infatti, stato chiaro che la mancata concessione della rateizzazione dei debiti tributari avrebbe portato de plano alla non ammissione al campionato professionistico, alla luce del tenore letterale del Manuale. Si ricorda, peraltro, come la giurisprudenza, in particolare ad esempio Consiglio di Stato, sez. V, 27 agosto 2014, n. 4382, affermi come “il requisito della regolarità fiscale può dirsi sussistente qualora … l’istanza di rateizzazione sia stata accolta con l'adozione del relativo provvedimento costitutivo”. Di qui, insomma, la sostanziale consapevolezza della irregolarità della propria posizione da parte della società calcistica. Irregolarità che non avrebbe che potuto portare all’esclusione dal campionato professionistico.
[9] E, pertanto, non si poteva dare accesso al giudizio di costituzionalità per via incidentale, posti i noti requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza, cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1984, A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, Padova, 2002, G. Zagrebelsky.– V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012, ex multis, nonché, con specifico riferimento alle questioni poste avanti al giudice amministrativo, cfr. S. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, in Federalismi.it, VI, 2021, pag. 97 ss. nonché T. Martines, Diritto costituzionale, Milano, 1992, pag. 559 e ss. e P. Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 2003, pag. 172 e ss. Il riferimento normativo corre, di contro, all’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87.
[10] Con la sentenza sez. V, 10 novembre 2022, n. 9876. Ancora, si evidenzia che la dottrina ricorda come “la rilevanza ricorre quando sussiste un nesso di pregiudizialità necessaria, di guisa che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale”. Così P. Virga, op. cit., pag. 172, cit.
[11] In particolare, tanto è dichiarato sulla base del combinato disposto dell’art. 3, d.l. 220/2003, ove si afferma che la pregiudiziale sportiva rispetto alle questioni di diritto sottoposte al T.A.R. sussiste ove sia previsto dagli statuti di autonomia delle federazioni uno strumento di tutela e degli art. 12-bis e 12ter dello Statuto della F.I.G.C. ove, per l’appunto, tale pregiudizialità è stata espressamente individuata.
[12] Poiché la questione di costituzionalità formulata dalla ricorrente atteneva essenzialmente alla circostanza per cui con la legislazione Covid si era disposta la proroga delle rateazioni esattoriali solamente quando era già stata emessa una cartella di pagamento, mentre la stessa facoltà non era stata riconosciuta alle rateazioni pre-esattoriali, cioè quelle relative a situazioni nelle quali non era ancora stata inviata la cartella esattoriale ma soltanto avviso bonario o di accertamento. La questione era dunque prospettata per violazione degli art. 3 e 53 Cost., cfr. G. de Luca, Diritto Tributario, Napoli, 2010, nonché con riferimento alla sistematica generale dei principi del diritto tributario, E. De Mita, Principi di Diritto Tributario, Milano, 2004.
[13] Si precisa, invero, che la giurisprudenza amministrativa ha chiarito come “L’errore di fatto revocatorio consiste nel c.d. “abbaglio dei sensi” e, cioè, nel travisamento delle risultanze processuali dovuto a mera svista, che conduce a ritenere inesistenti circostanze pacificamente esistenti o viceversa” (Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 11 giugno 2001, n. 3). Ulteriormente, si è specificato che “L’errore di fatto, insomma, consiste in una divergenza tra la realtà processuale e ciò che risulta espressamente dalla sentenza” (Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 22 gennaio 1997, n. 3).Questa ultima importante pronuncia è stata peraltro pubblicata con annotazione ad opera di A. Travi, in Foro italiano, III, 1997, pag. 820 e ss., ed è stata ulteriormente oggetto di commento ad opera di F. Francario, Revocazione ordinaria e processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, IV, 1997, pag. 830 e ss. Cfr. inoltre G. Abbamonte – R. Laschena, Giustizia amministrativa, in G. Santaniello (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1997, pag. 341 e ss. e, più recentemente, V. Colesanti, La revocazione è diventata un istituto inutile?, in Rivista di diritto processuale, I, 2014, pag. 26 e ss. Con riferimento, invece, all’inquadramento generale sul tema dei profili revocatori delle sentenze il riferimento corre a C. Consolo, La revocazione delle decisioni di Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989 e, con specifico riguardo al processo amministrativo F. Francario, Commento all’art. 28 l. TAR (e ss.), in A. Romano (a cura di), Commentario alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2009, come pure, del medesimo Autore, Giudicato e revocazione, in Il libro dell’Anno del Diritto 2018, Roma, 2018, in specie pag. 697 ss;.
[14] Si ricorda, anzitutto, il principio generale di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, suggellato all’art. 112 c.p.c. La giurisprudenza amministrativa ritiene applicabile il principio in via del richiamo generale esterno di cui all’art. 39 c.p.a., sebbene con alcuni correttivi dacché “il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado è configurabile e costituisce un tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo cui l’omessa pronuncia su di un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, così che essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo di impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile; in ogni caso, l’omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo, tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a., ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa. Non rientrando l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su di un motivo del ricorso nei casi tassativi di annullamento con rinvio, ne consegue che, in forza del principio devolutivo (di cui all’art. 101, comma 2, c.p.a.), il giudice di appello decide, nei limiti della domanda riproposta, anche sui motivi di ricorso non affrontati dal giudice di prime cure” (così Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2020, n. 6973, poi richiamato espressamente dalla sez. II, 8 aprile 2022, 2635). In dottrina vedasi invece V. Violante, Omessa pronuncia su questione puramente processuale da parte del giudice di appello, in Giustizia civile, 2013, il quale peraltro sottolinea come l’omissione di pronuncia, per la struttura dell’art. 395 c.p.c., non potrebbe verificarsi laddove il giudice abbia errato la valutazione di una questione esclusivamente processuale.
[15] Solo quest’ultimo, per l’appunto, è rilevante ai fini di determinare la possibilità di buon esito del giudizio rescindente, come bene illustra A. Liberati, Il processo innanzi al Consiglio di Stato, Padova, 2006, pag. 1310 e ss.
[16] Per la quale il riferimento corre alle sentenze Cons. Stato, sez. V, n. 476/1990 e sez. VI, n. 904/1999.
[17] Restando, peraltro, per il momento in disparte le questioni circa la rilevabilità dell’errore in termini di denegata giustizia, sui quali cfr. infra.
[18] Vedasi in particolare sul punto Cons. Stato, sez. IV, 1° settembre 2015, n. 4099; sez. IV 28 ottobre 2013, n. 5187; sez. III 29 ottobre 2012, n. 5510; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587. In dottrina, invece, il riferimento corre alla premessa svolta da S. Esposito, L’omessa pronuncia sull’istanza di rinvio pregiudiziale non integra l’errore di fatto revocatorio, Nota a Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 28 gennaio 2021, n. 836, in AmbienteDiritto.it, I, 2022, e giurisprudenza ivi citata, nonché ad inquadramento generale A. Lolli, Revocazione, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, pag. 992 e ss.
[19] Così, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2015, n. 3852; sez. V 12 maggio 2015, n. 2346; sez. III 18 settembre 2012, n. 4934.
[20] O, più precisamente, ove ciò sia immediatamente evidente alla lettura degli atti processuali, come evidenzia E. Grasso, La regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e le nullità̀ da ultra e da extra petizione, in Rivista di diritto processuale civile, I, 1965. Cfr. anche, con specifico riferimento alla natura dell’errore revocatorie ed al possibile concorso del rimedio in analisi con altre forme di gravame C. Consolo, La revocazione nel processo amministrativo, i suoi odierni limiti e le sue supposte peculiarità nel concorso con l’appello, in Diritto processuale amministrativo, IV, 1992, pag. 835 e ss., come pure F. Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato. Prime considerazioni su Corte cost., 26 maggio 2017, n. 123, in Federalismi.it, XIII, 2017, ove in particolare l’Autore esamina la vicenda relativa all’ammissibilità di una ipotesi di revocazione per contrarietà alla CEDU (peraltro escludendo che in tal caso si concreti una nuova ipotesi ex art. 395 c.p.c.) e la proponibilità di un ricorso per motivi di giurisdizione ove i termini ad impugnare non siano ancora spirati. In precedenza sul tema, del medesimo Autore, cfr. Revocazione per contrasto con pronuncia di corte internazionale, in Il libro dell’Anno del Diritto 2016, Roma, 2016, in specie pag. 745 e ss.
[21] Più nello specifico, la fase ove si viene a commettere l’errore percettivo nella pronuncia non è quello della scrittura, della sentenza ma quello, anteriore, della lettura degli atti da parte del giudicante, come chiarito tra gli altri da Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2021, n. 836, sez. IV, 14 aprile 2020, n. 2438 e sez. III, 3 giugno 2020, n. 3470).
[22] Costituito dalla risposta a una domanda non posta o dalla mancata risposta ad una domanda invece positivamente presentata.
[23] Resta escluso, insomma, dal novero dei casi di revocazione l’errore di giudizio, ossia quello attinente ai canoni ermeneutici di risoluzione della controversia, ovvero il caso in cui si erri nel rispondere alla domanda presente nel ricorso o le si risponda in maniera inesatta e, dunque, parziale. Così, ulteriormente, Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 2017, n. 1610 e 21 gennaio 2020, n. 477.
[24] Pertanto, sotto tale profilo, la pronuncia in esame conferma la giurisprudenza oramai consolidata sulla questione dell’errore percettivo del giudicante. Come correntemente affermato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, “l’errore revocatorio è configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dal ricorrente, purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima: si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione (così Cons. Stato, sez. IV, 1° settembre 2015, n. 4099 ed, in termini, sez. V, 6 aprile 2017, n. 1610).
[25] Che, come noto, ha la funzione di sostituire con una nuova decisione di merito la sentenza annullata, come illustrato da C. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2006, nonché, relativamente al procedimento di revocazione dei lodi arbitrali ma con spunti di riflessioni generalmente validi, M. Giorgetti, La consecutio rescindente-rescissorio nell’impugnazione per nullità del lodo arbitrale, in Giustizia civile, V, 2001, pag. 1601 e ss.
[26] La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire come possa essere ritenuto avvinto da nesso di presupposizione l’atto rispetto al quale i provvedimenti successivi sono da considerarsi applicazione diretta e necessaria. Così Cons. Stato, sez. III, 10 novembre 2020, n. 6922. In senso analogo, peraltro, E. Sticchi Damiani, La caducazione degli atti amministrativi per nesso di presupposizione, in Diritto processuale amministrativo, III, 2003, pag. 633 e ss., laddove peraltro l’Autore individua il nesso di presupposizione come causa automatica di caducazione dell’atto conseguente laddove venga meno l’atto presupposto, proprio in ragione della particolare intensità del legame che li collega.
[27] In altri termini, insomma, il Manuale ha un effetto costitutivo quanto al significato e alla rilevanza giuridica del requisito della regolarità fiscale. Regolarità fiscale che rimane un elemento di fatto pur estraneo al procedimento sportivo, ma che assume rilevanza solo in ragione del sistema delle licenze.
[28] Cfr. ex multis Corte di Cassazione, sez. VI, ordinanza 21 giugno – 31 agosto 2017, n. 20635.
[29] Ossia, in altri termini, l’unico errore processuale rilevante nel giudizio revocatorio è quello inerente all’obbligo di emanare una pronuncia che risulti corrispondente a quanto le parti hanno richiesto essere pronunciato. Vedasi in punto L.P. Comoglio, Azione e domanda giudiziale, in L.P. Comoglio – C. Ferri – M. Taruffo (a cura di), Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2007.
[30] È questo il senso proprio, infatti, della revocazione come strumento di impugnazione a critica vincolata: esso non dà mai adito ad una seconda valutazione sul merito che sia derivante dalla mera opinabilità nell’applicazione delle norme processuali o sostanziali, come chiarito da C. Mandrioli – A. Caratta, Diritto processuale civile. Processo ordinario di cognizione, Torino, 2022, pag. 501 e ss.
[31] Di qui, pertanto, la qualifica in termini di error in procedendo specifico dell’art. 112 c.p.c., come adombrato nello specifico da C. Valle, sub artt. 112-120 c.p.c., in Commentario al Codice di procedura civile, G. Verde – R. Vaccarella (a cura di), Torino, 2001
[32] La giurisprudenza ha infatti chiarito che “La figura dell'assorbimento in senso proprio ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte, la quale con la pronuncia sulla domanda assorbente ha conseguito la tutela richiesta nel modo più̀ pieno, mentre è in senso improprio quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità̀ di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande", cosicché́ "l'assorbimento non comporta un'omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà̀, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell'assorbimento, per cui, ove si escluda, rispetto ad una certa questione proposta, la correttezza della valutazione di assorbimento, avendo questa costituito l'unica motivazione della decisione assunta, ne risulta il vizio di motivazione del tutto omessa” (Cass. civ. sez. I, 27 dicembre 2013, n. 28663, cit. e in senso conforme 12 dicembre 2018, n 2899).
[33] Sulla nozione e limiti dell’assorbimento delle domande, il riferimento corre alla nota sentenza Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 27 aprile 2015, n. 5. Vedasi anche Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 13 aprile 2015, n. 4, con nota di on nota di G. Ferrari – L. Tarantino, Il principio della domanda tra annullamento e risarcimento, in Urbanistica e appalti, VI, 2015, pag. 733 e ss. La dottrina, peraltro, ha notato come il principio di assorbimento possa anche andare in contrasto con il generale potere di graduazione dei motivi e l’esercizio dello ius actionis da parte del ricorrente, cfr. A. Romano Tassone, Sulla disponibilità dell’orine di esame dei motivi di ricorso, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2012, pag. 803 e ss. In ordine alla corrente interpretazione dello strumento processuale dell’assorbimento, per tutti, vedasi il contributo di M.R. Spasiano nel volume collettaneo F. Francario – M.A. Sandulli, Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo, Napoli, 2019.
[34] In altri termini, una pronuncia di accoglimento del ricorso o dell’appello che rilevi un unico motivo di fondatezza e quindi, assorbiti tutti gli altri secondo il principio della questione più liquida, annulli provvedimenti gravati, non lede certo il diritto di difesa delle parti, poiché soddisfa la situazione giuridica soggettiva meritevole di protezione decidendo su di un profilo che è stato sottoposto al contraddittorio tra le parti. Con riguardo al principio della questione più liquida, nei termini ora riferiti, utile il richiamo a Cass. civ., sez. lav., 20 maggio 2020, n. 9309, ove si ricorda che “La causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza necessità di esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell'evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare ai sensi dell'art. 276 c.p.c.”. In dottrina il riferimento corre, ex multis, a F. P. Luiso, Diritto processuale civile, II, 2017, Milano, pag. 67 e ss., nonché R. Vaccarella, Economia di giudizio e ordine delle questioni, in Giusti processo civile, III, 2009, pag. 643 e ss.
[35] Art. 74, d.lgs. n. 104/2010, cfr. A. Police, Le decisioni in forma semplificata (cosiddetto giudizio immediato), in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 541 e ss., in cui l’Autore chiarisce come in caso di sentenza in forma semplificata si realizza una simmetria tra immediata percepibilità della situazione di torto o ragione delle parti e la -conseguente- limitatezza dell’apparato decisorio. L’Autore medesimo, peraltro, si rifà in questa conclusione a quanto sostenuto da A. Romano – R. Villata, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2009, pag. 885 e ss.
[36] In ossequio all’art. 60 c.p.a., cfr. N. Paolantonio, Il rito immediato, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2011, pag. 477 e ss., nonché, con riguardo alla disciplina previgente, A. Bertoldini, I riti immediati ed abbreviati previsti dalla legge 21 luglio 2000, n. 205: la mediazione giurisprudenziale tra certezza ed effettività di tutela, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2003, pag. 1290 e ss., laddove l’Autore sottolineava come il sistema del c.d. giudizio immediato trovava il giusto medio tra le esigenze di effettività della tutela ed economicità processuale con il principio generale della pienezza del contraddittorio.
[37] E, dunque, nel rito in materia di accesso agli atti amministrativi (art. 116 c.p.a.), nel giudizio avverso silenzio (art. 117 c.p.a.), nel giudizio di ottemperanza (art. 112 e ss. c.p.a.), nel c.d. rito appalti (art. 120 ss. c.p.a.) e nei giudizi elettorali riferentisi all’esclusione dalla competizione (art. 129 c.p.a.).
[38] Seppur si può dire, infatti, che la sentenza semplificata sarà più stringata, cionondimeno l’evidenza dell’intenzione implicita di voler operare un assorbimento dei motivi, pare dover emergere con ragionevole grado di sicurezza anche in questi casi.
[39] Cfr. in punto C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2023, pag. 609 e ss.
[40] Per una introduzione generale sui temi delle pronunce della Corte di Cassazione sulle ipotesi di c.d. denegata giustizia si veda La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia?, interviste di Roberto Conti a Renato Rordorf, Paolo Biavati, Giancarlo Montedoro e Fabio Francario, in questa Rivista. Con specifico riferimento, invece, ai limiti di rilevabilità e i mezzi di tutela in caso di omesso rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il riferimento corre a M.A. Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, in questa Rivista, 20 ottobre 2022, in uno con i referenti giurisprudenziali ivi richiamati, che sottolinea in particolare l’affanno dei giudici interni nel ricercare strumenti di tutela adeguati nel permanente silenzio del legislatore, oltre a F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in, Federalismi.it, IX, 2022, oltre a M. Magri, Rifiuto di rinvio pregiudiziale per travisamento dell’istanza di parte: revocazione della sentenza o “semplice” obbligo del giudice amministrativo di risarcire il danno? (Consiglio di stato, ordinanza 3 ottobre 2022, n. 8436, rimessione all’adunanza plen, in questa Rivista, 15 dicembre 2022, e M. Lipari, L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE, dopo la sentenza 6 ottobre 2021, c-561/2019: i criteri cilfit e le preclusioni processuali, in Giustamm.it, 14 dicembre 2021.
[41] Sulla base del combinato disposto dell’art. 111, comma 8, della Costituzione, dell’art. 362 del Codice di procedura civile e 110 del Codice del processo amministrativo.
[42] Cfr. Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 6, interpretativa di rigetto nell’affermare, tuttavia, la legittimità costituzionale della inammissibilità del mezzo per fare valere l’erronea applicazione delle regole processuali. In termini Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2018, n. 32622, 19 dicembre 2018, n. 32773, 11 novembre 2019, n. 29085 e 6 marzo 2020, n. 6460, ex multis. Cfr. F. Francario, Diniego di giurisdizione, in Il libro dell’Anno del Diritto 2019, Roma, 2019.
[43] In particolare, ci si riferisce a quell’”orientamento consolidato delle Sezioni Unite (sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018) ... (che riteneva) che, in sede di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo dei limiti esterni della giurisdizione – che l'art. 111 Cost., comma 8, affida alla vigilanza della Corte di cassazione – non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare meri errori ’in iudicando" o ‘in procedendo’, ‘salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento ( nazionali o dell'Unione ) tali da ridondare in denegata giustizia , ed in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore ‘in procedendo’ costituito dall'applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale nell'ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell'Unione Europea, direttamente applicabili, secondo l'interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia’ (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19598, e le ivi richiamate pronunce 29 dicembre 2017, n. 31226, 18 dicembre 2017, n. 30301, 17 gennaio 2017, n. 953, 8 luglio 2016, n. 14042, 29 febbraio 2016, n. 3915 e 6 febbraio 2015, n. 2242). Sul tema, in dottrina, cfr. F. Francario, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’Anno del Diritto 2017, Roma, 2017.
[44] O, successivamente alla decisione sullo stesso da parte del giudice amministrativo.
[45] Cass. Sez. Un., 27 dicembre 2017, n. 31226, cit. Vedasi anche B. Nascimbene – P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020, oltre a G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), parimenti in questa Rivista, 7 ottobre 2020.
[46] Il richiamo in questo caso corre ai principi di effettività della tutela che derivano nel nostro ordinamento anche dalle decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come sottolinea G.P. Cirillo, I prinicpi generali del processo amministrativo, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 15 e ss., nonché B. Sassani, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza ammnistrativa e tutela civile esecutiva, Milano, 1997, nonché Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto Contributo allo studio della tutela dichiarativa del processo civile e amministrativo, Padova, 1989.
[47] Così Cass., Sez. Un., ordinanza 29 aprile 2021, n. 11297, cit. La dottrina ha peraltro chiarito di conseguenza che l’errore commesso dal giudice amministrativo nel pronunciare solo su parte della domanda non potrebbe essere coltivato avanti alla Corte di Cassazione, cfr. In difetto si avrebbe un errore che non può essere fatto valere A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, pag. 342.
[48] Cosi Cass., Sez. Un., ordinanza 23 dicembre 2008, n. 30254, laddove ha affermato che “proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”. Cfr. M.M. Fracanzani, Per un giudice amministrativo veramente speciale, in Questione giustizia, I, 2021, il quale sostiene che la ragione della specialità della giurisdizione amministrativa risiede nella differenziazione delle situazioni giuridiche soggettive presenti nel nostro ordinamento, poiché T.A.R. e Consiglio di Stato garantiscono una tutela piena ed effettiva agli interessi legittimi. È quindi evidente che dove questa garanzia di tutela venga meno perché negata in via generalizzata, viene meno anche la ragione della specialità.
[49] Nel caso di specie sarebbe l’art. 112 c.p.c.
[50] Ancor più, lo sono in esito al revirément operato dalla giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 6/2018, già citata. La Corte di Cassazione, infatti, ha di recente ulteriormente chiarito che “la Corte costituzionale n. 6 del 2018 che, dichiarando inammissibile una questione di costituzionalità̀ proposta dalle stesse Sezioni Unite per difetto di rilevanza, aveva ritenuto ingiustificato il controllo cassatorio sulle sentenze del Consiglio di Stato, nei casi di violazione di norme dell’Unione, come interpretate dalla Corte di Giustizia. Come si è detto, tale più̀ recente interpretazione ‒ superando quella precedente che attribuiva alla nozione di eccesso di potere giurisdizionale la più̀ estesa accezione di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, nazionali o unionali, quale causa di denegata giustizia (in tal senso cfr. SU n. 2242 del 6 febbraio 2015 e n. 31226 del 29 dicembre 2017) – è stata fatta propria dalle Sezioni Unite che, con atteggiamento di self restraint, hanno scelto di conformarvisi (cfr. la già̀ citata SU n. 13243 del 2019 in fattispecie similare)” (Sez. Un., 30 agosto 2022, n. 25503, vedasi, però, anche la pronuncia 18 gennaio 2022, n. 1454).
[51] Non sempre, però, evidentemente questa soluzione porta ad esiti soddisfacenti sul piano della pienezza della tutela, come sottolinea E. Zampetti, Lesione del diritto di difesa e principio del doppio grado nel processo amministrativo. Studio sugli esiti del giudizio di appello, Napoli, 2020, il quale riconduce ad una lesione del diritto di difesa rilevante ex art. 111 Cost. le ipotesi di erronea chiusura in rito del giudizio e, ai fini che interessano, di omessa pronuncia: in particolare cfr. pag. 183 ss.
[52] Vedasi per un inquadramento generale C. Vaccà, Giustizia sportiva e arbitrato, Milano, 2006 come pure M. Sanino – F. Verde, Il diritto sportivo, Padova, 2008, oltre a G. Manfredi, Ordinamento Statale e ordinamento sportivo tra pluralismo giuridico e diritto globale, in Diritto amministrativo, III, 2012, pag. 299 e ss.
[53] Che la sentenza peraltro qualifica come atto plurimo inscindibile, cfr. R. Caranta, Atto collettivo, atto plurimo e limiti soggettivi del giudicato amministrativo di annullamento, in Giustizia civile, IV, 1989, pag. 916 e ss. e A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2012, pag. 365 e ss. Sugli effetti, invece, dell’annullamento giurisdizionale di questa tipologia di provvedimenti, il riferimento corre, ex multis, a Cons. Stato, Sez. VII, 16 novembre 2022, n. 10089.
[54] A mente del quale è passibile di revocazione innanzi alla Corte federale d’appello la pronuncia “se è stato omesso l’esame di un fatto decisivo che non si è potuto conoscere nel precedente procedimento, oppure sono sopravvenuti, dopo che la decisione è divenuta inappellabile, fatti nuovi la cui conoscenza avrebbe comportato una diversa pronuncia”. Tale mezzo impugnatorio è applicabile, nondimeno, nel termine di trenta giorni dalla pronuncia.
[55] Sul punto vedasi A. Gragnani, I “punti di contatto” fra autonomia dell’ordinamento sportivo e diritti costituzionali come “rapporti multipolari di diritto costituzionale” (sindacato “complessivo di” di proporzionalità e “regola generale di preferenza” in funzione di monito preventivo al legislatore nella sentenza n. 160/2019 della Corte costituzionale, in Consulta online, I, 2020, pag. 84 e ss., oltre a G. Clemente di San Luca, Dei limiti all’autonomia dell’ordinamento sportivo. Riflessioni intorno a calcio e diritto, in Rivista di diritto pubblico, I, 2007, pag. 33 e ss. ed A.E. Basilico, L’autonomia dell’ordinamento sportivo e il diritto ad agire in giudizio: una tutela "dimezzata"?, in Giornale di diritto amministrativo, II, 2011, pag. 734 e ss.
[56] In particolare, il riferimento corre alla pronuncia del Landgericht München I - Zivilkammer, del 26 aprile 2014, caso n. 37 O 28331/12, nella quale è stata dichiarata nulla la clausola compromissoria che vincolava l’atleta alla giurisdizione domestica sportiva in quanto sottoscritta in una situazione di troppo evidente squilibrio contrattuale delle parti. La pronuncia è stata edita in Rivista del commercio internazionale, II, 2014, pag. 542 e ss., con nota di V.C. Romano, Nullità di clausole compromissorie negli arbitrati sportivi per squilibrio strutturale dei contraenti. Vedasi anche E. Maio, Clausola compromissoria e meritevolezza nel sistema della giustizia sportiva, Napoli, 2020.
[57] Nello specifico, si fa riferimento a all’articolo 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), secondo il quale “La questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione” e all’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 il quale, a sua volta, prevede che “Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza, indicando: a) le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate.”
[58] Con la decisione n. 62 del 28 dicembre 2020.
[59] Vedasi Corte cost, 11 febbraio 2011, n. 49.
[60] La pronuncia, peraltro, ha il pregio di chiarire la non irragionevolezza della disposizione di rito sportiva che preclude la possibilità di adire in sede revocatoria gli organi di giustizia domestica nel caso in cui sia stato presentato ricorso avverso la decisione presso il giudice amministrativo. In tale caso la decisione n. 62 del 28 dicembre 2020, ritiene ancora che eventuali nuovi documenti potrebbero essere fatti valere innanzi al giudice. La pronuncia, nondimeno, non risolve il caso in cui si sia trattato di un errore costituito dal disassamento tra chiesto e pronunciato.
[61] Cfr. M. Luciani, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, Relazione al Convegno «Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo», Modanella, 24-25 maggio 2019, in Questione giustizia, III, 2019, il quale sottolinea la complessità dell’atto interpretativo del giudicante e i limiti all’interno dei quali un eventuale errore può essere fatto rilevare nel sistema processuale.
[62] In punto, ancora, E. Zampetti, op. cit.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.