Sono particolarmente grato agli organizzatori del Convegno per avermi dato l’opportunità di partecipare a questo importante dibattito[1] nel quale viene data voce ai componenti del Consiglio nelle diverse consiliature.
Spesso ho sentito dire – ed a mia volta ho avvalorato tale tesi – che ciascun Consiglio fa storia a sé.
Questa espressione sintetizza un dato di fatto inconfutabile, nel senso che ciascuna consiliatura, già solo per gli eventi che deve affrontare, ed in disparte la variabilità della sua composizione, agisce secondo dinamiche proprie.
Un’altra espressione ricorrente sintetizza un convincimento diffuso: i protagonisti di una stagione ritengono di avere vissuto momenti epocali ed irripetibili.
Anche questo è vero, almeno in parte: considerato il ruolo dell’ordine giudiziario, le funzioni di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza di esso attribuite al CSM, le molteplici scelte che l’organo di governo autonomo compie quotidianamente, è innegabile che ciascuna consiliatura incida profondamente sugli equilibri della magistratura e, spesso, anche sui rapporti tra questa e gli altri poteri dello Stato[2].
Nondimeno credo che la consiliatura 2006-2010, della quale ho fatto parte, davvero abbia vissuto un momento storico di particolarissimo rilievo.
È stato, quello, il Consiglio investito dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, introdotta dalla l.d. n. 150 del 2005 ed attuata con il d.lgs. n. 160 del 2006, a sua volta profondamente modificato dalla l. n. 111 del 2007.
Con la riforma vennero, ad esempio, introdotte le valutazioni di professionalità e con esse modificato il precedente sistema di progressione in carriera.
La legge n. 111 è del 30 luglio 2007 ed a me era stata attribuita la presidenza della Quarta commissione, competente in materia, proprio in quel periodo.
Ho il vivo ricordo di una estate trascorsa ad esaminare la normativa primaria e ad immaginare quella secondaria da introdurre. Quest’ultima doveva, in ossequio alle prescrizioni di legge, essere adottata entro 90 giorni. Non adempiere avrebbe significato paralizzare la progressione in carriera – e quella economica – dei magistrati; occorreva al contempo “creare” una disciplina per l’inquadramento nelle nuove classi valutative dei magistrati che avevano conseguito i precedenti “gradi” (magistrato di tribunale, di appello e così via); infine, occorreva introdurre una disciplina transitoria non potendo procedersi contestualmente alla valutazione di migliaia di magistrati[3].
Sempre in quegli anni intervenne la legge con cui si impediva ai magistrati di prima nomina di essere destinati alle funzioni requirenti, con conseguente collasso degli organici degli uffici del pubblico ministero e torsione dell’intero sistema. Pochi cenni per illustrare la questione.
È noto che, stante il principio dell’inamovibilità dei magistrati, l’unico trasferimento di ufficio possibile (salvo i casi di patologia: incompatibilità parentale o funzionale, irrogazione di gravi sanzioni disciplinari; altre rare e peculiari ipotesi di ricollocamento in ruolo) è l’assegnazione della sede ai magistrati al termine del tirocinio.
Precluso l’unico serbatoio di ingresso per così dire coattivo e non essendo possibile impedire i trasferimenti in uscita, su domanda, vi furono casi nei quali in alcuni uffici di piccole dimensioni rimase un solo magistrato (ricordo per tutti Gela)[4].
Ciò posto, le novità che cambiarono più radicalmente l’assetto ordinamentale della magistratura furono quelle in tema di incarichi direttivi e semidirettivi.
Il nuovo ordinamento giudiziario introdusse due fondamentali novità: 1) la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi; 2) i criteri per il conferimento dei medesimi.
A quest’ultimo riguardo, il legislatore, in sintesi, previde, da un lato, un assoluto ridimensionamento del parametro dell’anzianità, trasformato da criterio di selezione avente carattere prioritario (e nella prassi spesso di per sé decisivo) a mero requisito di legittimazione alla partecipazione al concorso, dall’altro, la contestuale valorizzazione, quanto alla scelta selettiva, dei parametri delle attitudini e del merito.
Si trattava di riforme condivisibili, la prima delle quali, la temporaneità, del resto, invocata dalla magistratura da lungo tempo.
Difatti, già nel 2002, il Consiglio aveva adottato un parere sulla riforma, nel quale tra l’altro si rimarcava come “la temporaneità degli incarichi direttivi è antica rivendicazione della magistratura, già presente nel progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario elaborato dall’Associazione nazionale magistrati nel lontano 1958. In particolare, nella temporaneità dei compiti di direzione di uffici giudiziari è stato individuato lo strumento per contrastare il formarsi di centri di potere, per riaffermare concretamente la natura di “servizio” della funzione di direzione dell’ufficio giudiziario, per consentire l’avvicendamento non traumatico di dirigenti non rivelatisi pienamente all’altezza del compito e la piena utilizzazione di nuove energie. In sintesi: l’ufficio direttivo come “incarico” e non più come “status” o come posizione gerarchica stabilmente acquisita e resa potenzialmente immutabile dal riconoscimento al magistrato che è a capo di un ufficio della prerogativa dell’inamovibilità posta a garanzia del magistrato che esercita attività giudiziaria”.
Anche se con minore perentorietà, pure la seconda era auspicata ed invocata da molti settori della magistratura associata.
L’analisi della storia della mia consiliatura passa anche per la verifica della ricaduta di tale riforma.
Ebbene, la legge di riferimento[5] classificava gli uffici direttivi e semidirettivi, definiva gli indicatori dell’attitudine direttiva distinguendo i criteri attitudinali specifici in ragione delle diverse funzioni da conferire; infine, disciplinava i tramutamenti di funzione da giudicante a requirente e viceversa.
Si trattava di una normativa prima facie dettagliata e stringente, in grado quindi di contenere la discrezionalità dell’organo di governo autonomo, secondo l’evidente intenzione del legislatore: necessariamente, essa, tuttavia, affidava al Consiglio superiore della magistratura la specificazione di alcuni aspetti di assoluto rilievo, quali, ad esempio, gli indicatori per l’attitudine direttiva, peraltro da individuarsi d’intesa col Ministro della giustizia.
Il Consiglio, quindi, dovette in primo luogo, anche al riguardo, provvedere ad emanare una propria normativa secondaria. Si procedette per gradi: dapprima adattando le circolari consiliari previgenti ai princìpi dettati dalla riforma, successivamente smantellando il vecchio impianto e introducendo una normativa nuova e radicalmente diversa dalla precedente. Cito in proposito: una prima delibera del 21 novembre 2007, la risoluzione del 10 aprile 2008 in tema di individuazione degli indicatori di cui all’art. 11, comma 3, lett. D), d.lgs. n. 160 del 2006 (deliberazione assunta d’intesa con il Ministro della giustizia), poi la deliberazione del 30 aprile 2008 sul conferimento degli incarichi semidirettivi, settore fino a quel momento non modificato; ancora, la delibera del 24 luglio 2008 in tema di conferma per gli incarichi direttivi e semidirettivi, che costituiva l’altro aspetto di novità della riforma; la delibera del 4 febbraio 2010, con la quale veniva eliminato il sistema dei punteggi per il conferimento degli incarichi semidirettivi; infine, la delibera del 30 luglio 2010, di emanazione di un testo unico sulla dirigenza giudiziaria, significativamente adottata allo scadere della consiliatura della quale ho fatto parte, quale suggello conclusivo al percorso riformatore.
Quale l’effetto complessivo delle risoluzioni generali adottate e della concreta declinazione delle nuove regole nelle singole delibere di attribuzione di specifici incarichi? Indiscutibilmente, il radicale ridimensionamento del criterio dell’anzianità e la valorizzazione assoluta di quelli delle attitudini e del merito.
Quale fu la reazione della magistratura in un primo tempo? Direi la sofferta accettazione di questa vera e propria rivoluzione.
Ricordo, nella diversità delle reazioni individuali, una costante: quando un magistrato, risultato soccombente nella procedura comparativa, apprendeva della nomina di un collega più anziano nel ruolo, accettava la decisione come equa; quando, al contrario, un soccombente si vedeva “scavalcato” (questo il termine sovente utilizzato) da un prescelto più giovane, immediatamente si chiedeva in cosa avesse, a giudizio del Consiglio, demeritato.
Era questo un portato della sopravvivenza culturale del parametro dell’anzianità senza demerito, per decenni adottato dal Consiglio superiore della magistratura e scomparso con la riforma.
Tali reazioni, di sostanziale accettazione dell’operato del Consiglio, ben presto mutarono.
Questo per una ragione molto semplice: la temporaneità determinò un aumento delle procedure per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, anche per effetto dell’assenza di previsioni transitorie che interrompessero con gradualità gli incarichi ultraottennali in essere.
Tutto ciò si tradusse nel fatto che dal settembre 2007 al luglio 2009 vennero conferiti oltre 670 incarichi, numero grossomodo equivalente a quello degli interi conferimenti della consiliatura precedente (2002-2006).
Dal settembre 2009 al luglio 2010, furono conferiti altri 320 incarichi, per un totale di quasi mille incarichi attribuiti secondo le nuove regole.
Un numero così elevato di conferimenti comportò, fisiologicamente, l’impossibilità di utilizzare parametri valutativi sempre ineccepibili o, comunque, sempre percepibili dalla comunità dei magistrati come immutabili nella concreta applicazione. Tanto più, occorre dirlo, che, se errori nelle scelte concrete vi sono stati, essi vanno ascritti all’intero circuito del governo autonomo, sia centrale, sia periferico[6].
Il parametro dell’anzianità, che pure spesso aveva dato cattiva prova di sé (rivelandosi la scelta concreta operata, alla luce dei fatti, non la migliore; e davvero non vi è bisogno di citare i casi più evocativi, a tutti noti), aveva nondimeno il pregio di fondarsi su un dato certo (il famoso ruolo di anzianità in magistratura). I criteri delle attitudini e del merito, destinati a sostituirlo, invece, oltre ad essere in sé per qualche verso opinabili e comunque non immediatamente incontrovertibili come il primo, necessitavano di essere concretamente declinati in modo serio e rigoroso, ancorandoli a precisi dati fattuali.
A tanto non erano pronti, forse ancor più dell’organo di governo autonomo centrale, gli organi periferici, da decenni “abituati” alla redazione di pareri tanto generalmente elogiativi, quanto spesso disancorati da un’armonica e complessiva valutazione delle concrete esperienze lavorative. Ciò comportò che specie la nostra consiliatura si trovò a compiere scelte, in taluni specifici concorsi, tra candidati tutti valutati come eccezionali, al medesimo livello.
Di qui il risultato: in una comunità di diecimila persone, si provvide a nominare mille Capi con criteri che apparvero altamente discrezionali.
Il tempo concesso non mi consente di meglio esplicitare, dunque mi limito a descrivere la generale linea di tendenza.
Di fronte a questo fenomeno, percependo i primi scricchiolii del sistema, in punto di credibilità dell’organo destinato a tutelare l’autonomia e l’indipendenza dell’intera magistratura, ho pensato e detto (in quegli anni e, invero, anche successivamente) che avremmo dovuto adottare un criterio di discrezionalità “variabile”: per gli incarichi direttivi più è grande, importante e peculiare (in ragione, per esempio, della sua collocazione in un territorio affetto da pervasive forme di criminalità mafiosa) un ufficio, maggiore è la discrezionalità esercitabile alla stregua dei parametri delle attitudini e del merito; per gli incarichi semidirettivi, più è di modeste dimensioni un ufficio, minore deve essere il ricorso alla discrezionalità, al limite anche ricorrendo al parametro (ormai residuale) dell’anzianità.
Tutto ciò per una evidente ragione, che esplicito esemplificando e riferendomi alla mia esperienza dell’epoca, nella quale, come consigliere, avevo modo di ascoltare l’opinione di tanti colleghi: quando si trattava di scegliere il dirigente di una importante Procura distrettuale, era generalmente condiviso il fatto che il prescelto potesse-dovesse vantare una proficua esperienza in materia di criminalità organizzata, per ciò prevalendo sul candidato che tale esperienza avesse in grado minore, benché più anziano; quando, invece, si trattava di nominare un presidente di sezione che, di fatto, in ragione delle ridotte dimensioni dell’ufficio, fungeva sostanzialmente da presidente di un collegio, con limitati compiti organizzativi, ben più arduo era far comprendere ai colleghi come su una maggiore anzianità, spesso considerevole, avessero prevalso le doti organizzative, ritenute più spiccate, di un magistrato con minore anzianità.
E ancora una volta semplificando e scusandomi per il doverlo fare, se in un concorso x viene prescelto il decimo in ordine di ruolo, anche il (potenziale) decimo in un altro concorso nutre legittime aspirazioni e, dunque, prima di tutto, propone domanda o più domande per posti diversi.
Per questo, nella mia consiliatura, ci trovammo non solo a coprire mille posti ma, inoltre, a scrutinare centinaia di domande.
Sono queste le basi, a mio avviso, di un fenomeno iniziato da quella riforma e culminato, poco più di un decennio dopo, nella situazione descritta da un altro degli odierni relatori, il consigliere Cascini, in un drammatico plenum presieduto dal Capo dello Stato il 21 giugno 2019, nel quale tra l’altro fu convalidata l’elezione dei subentranti Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. Disse Cascini: “nel 2006 è stata approvata una riforma dell’ordinamento giudiziario con la quale è stato eliminato il peso dell’anzianità nella scelta dei dirigenti, che ha implicato una pericolosa trasformazione del rapporto dei magistrati con la carriera … tale mutamento si è andato a saldare con la trasformazione dei metodi di raccolta del consenso accentuandone gli aspetti deteriori di cura degli interessi particolari”.
Molte altre concause vi sono, ovviamente, ma credo che quella descritta sia la causa prima della cd. degenerazione del correntismo.
Ne è derivata una generale perdita di credibilità - e di consenso, circa le concrete modalità del suo agire - dell’Istituzione.
Se, quando viene nominato un magistrato ad un incarico direttivo, tutti gli altri concorrenti dubitano della maggiore idoneità del prescelto e, al contempo, ascrivono al correntismo il torto che assumono subito, la credibilità dell’organo di governo autonomo è minata alle fondamenta.
Né la stessa può esser recuperata dai consiglieri pervenendo a scelte unanimemente condivise all’interno del Consiglio, poiché, come è stato da altri sottolineato, se tutte le componenti associative sono concordi su una opzione si potrà sostenere che l’accordo è frutto del deteriore correntismo; al contrario, se tale condivisione non si realizza, il risultato viene ascritto alle divisioni tra i gruppi, vissute a loro volta come contingenti scontri e spaccature tra componenti interessate soltanto a prevalere.
Quali rimedi?
Una riforma della composizione del Consiglio (pure da taluni invocata) che, ferma restando la necessaria maggioranza di togati, consenta di contenere il peso delle spinte deteriori del correntismo e, al contempo, salvaguardi le necessarie diversità culturali, è destinata, in definitiva, a risolversi in una ennesima riforma della legge elettorale e si è potuto constatare, ripetutamente, come nessun positivo esito abbiano dato le precedenti.
Deve, dunque, agirsi soprattutto sui criteri di attribuzione degli incarichi direttivi, che costituiscono il vero punto controverso dell’agire del Consiglio superiore della magistratura; quello, in altri termini, sottoposto a più aspre e generalizzate critiche.
Nell’impossibilità di esaminare in questa sede tutti i possibili rimedi, inclusi quelli strutturali, mi limito ad enunciare quello di più immediata applicazione: bisogna agire sui criteri e gli indicatori delle attitudini direttive.
Il discorso in questione mi consente di chiarire un possibile equivoco: l’avere sottolineato i mali derivati dalla riforma con la quale è stato ridimensionato il peso dell’anzianità non significa che io invochi un ritorno al passato.
Come è stato giustamente, da tempo e da più parti, evidenziato, in passato il profilo del buon dirigente era identificabile in quello del magistrato indipendente e capace professionalmente, con ciò riferendosi essenzialmente alla sua qualità di “bravo giurista”, estensore di impeccabili provvedimenti.
Quel modello, tuttavia, si era imposto in un’epoca connotata da modalità di lavoro meno complesse delle attuali, da una domanda di giustizia estremamente meno diffusa di quella odierna, con la conseguenza che era al tempo valida, mentre oggi non lo è più, almeno non sempre, l’equazione tra “buon magistrato” e “buon dirigente”, con conseguente necessario prevalere della maggiore esperienza professionale.
L’epoca attuale, invece, fa registrare una mutazione delle forme e delle modalità di gestione degli uffici giudiziari, i quali, anche in ragione delle loro accresciute dimensioni (conseguenti a varie riforme) risultano essere strutture complesse, necessitanti anche del ricorso a risorse tecnologiche evolute.
L’ottimizzazione e la gestione delle risorse, spesso insufficienti, impongono al dirigente il possesso di doti organizzative elevate, tali da consentire di rendere un effettivo servizio ai cittadini.
Occorre, dunque, che il Consiglio, individuato il modello di magistrato dirigente, si doti di regole chiare e funzionali allo scopo, e che esse siano applicate immancabilmente.
Naturalmente, ribadisco che è mia convinzione che tali regole possano esser diversamente declinate per i semidirettivi, avuto riguardo alla minore decisività delle doti manageriali richieste a questi ultimi[7].
Occorre, anche e soprattutto, che il circuito del governo autonomo decentrato, compia uno sforzo analogo in tema di individuazione, nei casi concreti, delle capacità che imprescindibilmente deve possedere un buon dirigente[8].
Occorre, infine, che gli amministrati, cioè tutti i magistrati, accettino l’idea che l’amministrazione della giurisdizione, come ogni attività amministrativa, è caratterizzata da un ineliminabile (per quante regole si possano dettare) margine di discrezionalità tecnica.
È comprensibile che taluni, nel complesso quadro descritto, possano ritenere che l’istituzione non ha sinora dato buona prova di sé e che tale circostanza non consente di nutrire speranza in un positivo cambiamento.
Sennonché, fermo restando che l’amministrazione della giustizia, chiunque la eserciti, non si sottrae ad un margine di necessaria discrezionalità, invocherei, a difesa del Consiglio, il concetto evocato da Winston Churchill a sostegno delle forme democratiche di governo: “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Ecco, coloro che, non senza qualche ragione, sottolineano difetti e limiti del Consiglio, dovrebbero por mente, come tutti noi, alle passate forme di governo della magistratura, quando i direttivi venivano nominati dal Ministro di grazia e giustizia e, in concreto, individuati da funzionari governativi.
(Intervento di Alfredo Pompeo Viola nel seminario La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al CSM (1990-1994) e le successive " stagioni", Università di Pisa, 15 dicembre 2023.
Immagine: A classroom with children sitting at long tables and a teacher standing with a book in her hand, litografia di J.B. Sonde, Wellcome Collection, Londra).
[1] Il testo che segue è la versione estesa dell’intervento orale. Il compendio di note contiene una esplicazione delle riflessioni svolte nella sede convegnistica, che avrebbe appesantito l’esposizione.
[2] Il Consiglio, difatti, in ogni sua delibera, attua scelte di governo della magistratura, che per loro natura implicano valutazioni che determinano gli assetti dell’ordine giudiziario. Non è questa la sede per discutere funditus se ti tratti di valutazioni tecnico - discrezionali di natura meramente amministrativa, sia pure “alta” o se esse abbiano contenuto politico, ovviamente inteso il termine in senso lato. E’ tuttavia opportuno chiarire, a mero titolo esemplificativo, e senza fare ricorso al facile richiamo ai pareri sui provvedimenti normativi (potere pure previsto dalla legge n. 195 del 1958), che le decisioni in ordine alla c.d. mobilità orizzontale, nel caso in cui l’organico effettivo sia inferiore alla dotazione organica prevista dalla legge, hanno comunque un impatto considerevole sull’assetto degli uffici giudiziari: in questo senso, sono scelte di “politica della magistratura” quelle connesse al numero dei posti da bandire, agli uffici presso i quali bandirli, alle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio, all’impostazione generale nei confronti dei collocamenti fuori ruolo. Tali scelte, a loro volta, influenzano i rapporti con gli altri poteri dello Stato in maniera fisiologica; ancora, a mero titolo esemplificativo, ove il Consiglio, nell’adottare le indicate scelte, rilevi situazioni che rendano necessario un intervento legislativo, ai sensi della citata legge n. 195 del 1958, ha il potere di intervenire con risoluzioni e proposte al Ministro della giustizia.
[3] Quello appena indicato è uno degli ulteriori classici e fisiologici esempi di attività “politica”, sia pure non in senso stretto, del Consiglio, chiamato dal legislatore ad adottare la normativa di rango secondario in una determinata materia. Con riguardo alle valutazioni di professionalità, lo sforzo del Consiglio è stato notevole, non tanto e non solo con riguardo al rigoroso rispetto dei tempi imposti dalla legge, ma soprattutto con riguardo all’obiettivo di dare vita a un corpus normativo solido e coerente, che ha resistito nel tempo. Le frequenti critiche che ad esso vengono rivolte non attengono all’astratta disciplina, ma alle modalità con le quali le disposizioni vengono applicate alle singole pratiche; modalità applicative che, peraltro, connotano in maniera peculiare ciascuna consiliatura, definendone il complessivo orientamento.
[4] A tal proposito, la consiliatura della quale mi onoro di aver fatto parte adottò una precisa e ferma linea, impegnandosi con tutti gli strumenti riconosciuti dall’ordinamento per evitare la c.d. “desertificazione” delle Procure e nel contempo mitigare gli effetti sul principio di inamovibilità derivanti dalla prima legge sui trasferimenti d’ufficio a sede disagiata, tanto vero che la suindicata previsione divenne oggetto di successive modifiche normative volte a consentire l’assegnazione dei MOT anche agli uffici requirenti.
[5] Il d.lgs. 160 del 2006, come modificato dalla l. 111 del 2007.
[6] Rectius: durante quella eccezionale stagione, da un lato il numero elevatissimo di pratiche trattate e dall’altro l’assoluta novità della disciplina applicata ha portato alla percezione di una non uniforme e coerente applicazione delle regole. In realtà, il Consiglio in ogni sua delibera ha fatto applicazione delle regole date, ma il margine di necessaria discrezionalità tecnica, il fisiologico annullamento di talune delibere ad opera del giudice amministrativo (numero comunque percentualmente scarso rispetto alla mole di delibere adottate e impugnate), l’altrettanto fisiologico margine di errore hanno portato alla convinzione della opinabilità delle scelte adottate dal Consiglio, opinabilità accentuata dalla resistenza al cambiamento rispetto alla tranquillizzante soluzione dell’anzianità senza demerito e dalla evoluzione che il sistema delle nomine e delle carriere ha avuto nel tempo (come si spiegherà più oltre).
[7] È pertanto necessario individuare con chiarezza il profilo professionale necessario all’esercizio da un lato delle funzioni direttive e dall’altro delle funzioni semidirettive, nel bilanciamento delle attitudini organizzative e delle capacità più strettamente giuridico professionali, laddove le prime devono essere particolarmente accentuate nel caso della direzione di uffici di grandi dimensioni, mentre le seconde dovrebbero – come già accennato – prevalere nelle funzioni semidirettive, dove maggiormente necessaria appare la propensione al coordinamento delle attività, anche e soprattutto con riguardo alla coerenza degli orientamenti giurisprudenziali.
[8] In senso più ampio, è assolutamente necessario che i pareri resi dagli organi di governo autonomo decentrato garantiscano degli strumenti realmente efficaci a descrivere la figura professionale dei magistrati che aspirano a un determinato incarico, uscendo dalla logica della standardizzazione dei pareri, in maniera tale da mettere il Consiglio nelle condizioni di esercitare la propria discrezionalità tecnica in maniera consapevole e, soprattutto, efficace per gli uffici. Solo in questo modo sarà possibile superare la visione del Consiglio come “nominificio” e allo stesso tempo evitare di confinare tale organo nei ristretti margini di una tecnicalità puramente amministrativa che ne snaturerebbe la natura di organo di rilievo costituzionale.