ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Criticità della configurazione del condominio come consumatore - 2. L'evoluzione della giurisprudenza nel tempo: i precedenti nazionali - 3. Le sentenze della Corte di Giustizia europea (sent. 3 aprile 2020, in causa C-329/19 e sent. 27 ottobre 2022, in causa C-485/21) - 4. Rilievi conclusivi e possibili scenari futuri.
1. Criticità della configurazione del condominio come consumatore
La questione oggetto della presente riflessione può essere sinteticamente espressa in questi termini: “può il condominio essere considerato un consumatore?”, o meglio, “si può pensare di applicare la disciplina prevista a tutela del consumatore, dagli art. 33 ss. c. cons., anche ai negozi giuridici conclusi dall’amministratore di condominio?”. Posto che il condominio, nell’ordinamento giuridico italiano, non è da considerarsi né una persona fisica né una persona giuridica, e sul presupposto che le disposizioni in materia di tutela del consumatore indicano la “fisicità del soggetto” come caratteristica essenziale ai fini dell’attribuzione della qualifica di “consumatore”, è lecito chiedersi se, e in che modo eventualmente, possa estendersi la disciplina del consumatore nei confronti dell’istituto condominiale.
I dubbi circa la configurabilità del condominio come consumatore sono da ascrivere non solo alla compagine condominiale frequentemente eterogenea, potendo risultare costituita sia da condòmini che ivi svolgono attività imprenditoriale o commerciale sia da condòmini che fruiscono delle proprie unità immobiliari a scopi meramente residenziali, ma anche all’annosa, e non ancora risolta, questione riguardante la soggettività giuridica dell’istituto condominiale. Il condominio (evocando Pirandello) è, infatti, nell’ordinamento giuridico italiano, ancora “un personaggio in cerca di autore”.
Non è possibile rintracciare una soluzione legislativa al problema in disposizioni comunitarie o nazionali. Invero, né nei considerando e nei lavori preparatori alle direttive, né nel codice del consumo si rinvengono elementi utili a fornire una pacifica soluzione.
Peraltro, è appena necessario sottolineare che, qualora si attribuisse al condominio la qualifica di consumatore, si giungerebbe ad una conclusione non priva di conseguenze. Basti pensare alle innumerevoli disposizioni di tutela applicabili esclusivamente ai rapporti tra professionista e consumatore; a partire dal così detto foro del consumatore, passando per il principio di trasparenza, per finire alla disciplina delle clausole vessatorie.
2. L'evoluzione della giurisprudenza nel tempo: i precedenti nazionali
Occorre partire da una considerazione concreta: il condominio è, da diverso tempo e sia pure senza una condivisa giustificazione, considerato un consumatore dalla giurisprudenza di merito e dalla stessa Corte di Cassazione.
Si pensi alla sentenza del 24 luglio 2001, n. 10086, in cui la Cassazione stabilisce che al contratto concluso con il professionista dall'amministratore del condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si debbano applicare, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, gli artt. 1469 bis ss. c.c. (oggi 33 ss. c. cons.), atteso che l'amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari condòmini, i quali “vanno senz’altro considerati consumatori, essendo persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
Poco dopo la stessa Corte, in una controversia riguardante l’individuazione del foro competente, stabilisce che si debba ritenere competente il giudice del luogo in cui il consumatore, in questo caso il condominio, abbia la residenza o il domicilio elettivo e che sia da considerarsi vessatoria la clausola che stabilisce una diversa località come sede del foro competente, posto che “per quanto concerne la qualificazione del condominio quale soggetto consumatore non sussistono ragioni per discostarsi dalla sentenza n. 10086/01”[1].
Seguendo lo stesso iter logico-giuridico, e sulla base delle medesime motivazioni, la Corte di Cassazione si pronuncia, con la sentenza del 22 maggio 2015, n. 10679, in una controversia in cui si discute della vessatorietà di una clausola compromissoria, che prevede la rimessione in arbitrato irrituale di tutte le controversie concernenti l’esecuzione del contratto[2].
Diverse sono le sentenze della giurisprudenza di merito che condividono l’orientamento di legittimità, estendendo al condominio le disposizioni previste, dall’ordinamento italiano e comunitario, a tutela del consumatore[3].
Tuttavia non mancano pronunzie disomogenee rispetto ad un orientamento giurisprudenziale consolidato.
In particolar modo, nella sentenza del 16 gennaio 2019, il Tribunale di Bergamo, a proposito di una controversia concernente l’applicabilità della disciplina prevista per il sovraindebitamento, precisa che sia “inammissibile il piano del consumatore proposto da un condominio di edifici in quanto soggetto privo dei requisiti di cui all’art. 6 perché non riconducibile ad una persona fisica”[4].
L’orientamento giurisprudenziale favorevole all’applicabilità della disciplina consumeristica al condominio si è basato, e continua a basarsi, sul presupposto che l’amministratore agisca quale rappresentante della comunità dei condòmini, sicché i rapporti giuridici scaturenti dai contratti così stipulati fanno direttamente e collettivamente capo all’insieme dei condòmini, e non al condominio inteso come soggetto separato e distinto rispetto a questi ultimi[5]. Si tratta di una conclusione influenzata dall’orientamento prevalente in giurisprudenza secondo cui il condominio è un mero ente di gestione sfornito di personalità giuridica. Questa considerazione, infatti, fa sì che gli effetti giuridici dei negozi conclusi dall’amministratore si producano direttamente in capo ai singoli condòmini, e non al condominio in quanto tale.
In nessuna delle sentenze citate viene presa in considerazione l’eventualità che non tutti i proprietari delle singole unità immobiliari perseguano scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta, né vengono esaminate le conseguenze che potrebbero derivare dalla presenza di un “professionista” all’interno della compagine condominiale. Non viene affrontata nemmeno la questione se la circostanza che l’amministratore stipuli, agendo nell’ambito della sua attività professionale, contratti per il condominio, possa valere ad escludere l’applicabilità della disciplina consumeristica[6].
3. Le sentenze della Corte di Giustizia europea (sent. 3 aprile 2020, in causa C-329/19 e sent. 27 ottobre 2022, in causa C-485/21)
Di recente è intervenuta la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 2 aprile 2020, in causa C-329/19, resa su domanda di rinvio pregiudiziale formulata dal Tribunale di Milano.
In una questione riguardante la vessatorietà di una clausola inserita in un contratto di fornitura di energia termica stipulato tra un condominio e una società, il Tribunale di Milano si chiede “se la nozione di consumatore quale accolta dalla direttiva n. 93/13/CEE osti alla qualificazione come consumatore di un soggetto (quale il condominio nell’ordinamento italiano) che non sia riconducibile alla nozione di “persona fisica” e di “persona giuridica”, allorquando tale soggetto concluda un contratto per scopi estranei all’attività professionale e versi in una situazione di inferiorità nei confronti del professionista sia quanto al potere di trattativa, sia quanto al potere di informazione”.
La Corte di Giustizia, nel risolvere la questione, viene fortemente influenzata dalla sua formulazione e dalla ricostruzione del diritto italiano offerta dal giudice remittente, sostanzialmente sbilanciata verso la concezione atomistica, e comunque imprecisa nel declinare il tradizionale concetto di “ente di gestione”, elaborato dall’orientamento collettivistico maggioritario[7].
Il giudice di Lussemburgo parte dalla problematica applicabilità, all’istituto condominiale, della nozione di “consumatore” contenuta nella lettera b dell’art. 2 della direttiva n. 93/13/CEE, e dalla necessità che siano soddisfatti entrambi i requisiti: occorre che si tratti di una persona fisica, e che abbia altresì agito per fini che non riguardano l’attività economica o imprenditoriale eventualmente svolta.
Nella domanda di rinvio pregiudiziale, il giudice remittente descrive l’orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui “da un lato, i condomini, pur non essendo persone giuridiche, si vedono riconoscere la qualità di soggetto giuridico autonomo”, dall’altro, secondo la medesima giurisprudenza, le norme a tutela dei consumatori si applicano ai contratti stipulati tra un professionista e l’amministratore di un condominio, definito come un “ente di gestione sfornito dipersonalità distinta da quella dei suoi partecipanti”, in considerazione del fatto che “l’amministratore agisce per conto dei vari condòmini, i quali devono essere considerati come consumatori”.
A proposito della qualificazione del consumatore come “persona fisica”, occorre immediatamente ribadire come la giurisprudenza comunitaria ne abbia sempre fornito una definizione restrittiva[8].
Infatti, la Corte di Giustizia ha costantemente negato il riconoscimento della qualifica di “consumatore” alle persone giuridiche, sottolineando come la nozione di “consumatore”, contenuta nell’art. 2 lettera b della direttiva n. 93/13/CEE, debba essere interpretata esclusivamente nel senso di “persona fisica”[9].
È evidente che, alla luce del rilievo che la “fisicità” assume ai fini della qualificazione dell’individuo-consumatore, l’orientamento consolidato della C.G.U.E. non permette di estendere l’applicabilità della relativa disciplina al caso del condominio, non potendo essere quest’ultimo una persona fisica.
Resta da stabilire se la giurisprudenza italiana, che estende la normativa di recepimento della suddetta direttiva in materia di clausole vessatorie anche al condominio, sia compatibile con quanto disposto dalla disciplina comunitaria a tutela dei consumatori. Nel caso in analisi, risulta che l’orientamento della giurisprudenza nazionale sia effettivamente volto a tutelare maggiormente il consumatore, ampliandone la tutela anche all’istituto condominiale.
Alla luce dei predetti presupposti, nella sentenza del 2 aprile 2020, la Corte concludeva che “alla questione sollevata occorre rispondere che l’articolo 1, paragrafo 1, e l’articolo 2, lettera b), della direttiva n. 93/13 devono essere interpretati nel senso che non ostano a una giurisprudenza nazionale che interpreti la normativa di recepimento della medesima direttiva nel diritto interno in modo che le norme a tutela dei consumatori che essa contiene siano applicabili anche a un contratto concluso con un professionista da un soggetto giuridico quale il condominio nell’ordinamento italiano, anche se un simile soggetto giuridico non rientra nell’ambito di applicazione della suddetta direttiva”.
Il 26 novembre 2020, a seguito della pronuncia sulla questione pregiudiziale della Corte di Giustizia, il Tribunale di Milano è intervenuto con sentenza definitiva.
Si tratta di una pronuncia che induce a qualche perplessità non solo e non tanto per l’improvviso capovolgimento delle posizioni espresse dal giudice di rinvio nell’ordinanza di rimessione, quanto perché, lungi dal risultare una mera applicazione del principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia, risulta sostanzialmente svilirne la portata innovativa. Inoltre, chi auspicava di ricevere una risposta definitiva sulla natura giuridica del condominio è rimasto deluso nello scoprire che, né a livello comunitario né a livello nazionale, vi sono tutt’oggi certezze sul punto.
La Corte, infatti, ha basato la sua pronuncia sulla valorizzazione della natura giuridica della parte contraente, ovvero il dover essere una “persona fisica”, ponendo in secondo piano l’altra condizione, cioè l’agire per scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta. Quest’ultima deve essere verificata unicamente nel caso in cui risulti sussistente la prima.
È chiaro che, in questo ragionamento, non vi può essere spazio per la configurazione del condominio come consumatore, posto che esso non è evidentemente una persona fisica ma neanche una persona giuridica, per l’ordinamento giuridico italiano.
A contrario, il Tribunale di Milano fonda la sua pronuncia su di un punto di vista differente, non più nella prospettiva “sfuggente” della teoria del soggetto (che, invece, aveva costituito proprio il punto di partenza nell’ordinanza di rinvio), ma in quella del rapporto giuridico.
È necessario, precisa il Tribunale, verificare caso per caso la destinazione delle unità immobiliari appartenenti alla compagine condominiale, dovendosi considerare “consumatore” unicamente il condominio che sia costituito “prevalentemente” da unità immobiliari di proprietà di persone fisiche, destinate a scopi estranei all’attività imprenditoriale e/o professionale da essi eventualmente svolta. Tale ragionamento consente di risolvere la questione del regime giuridico degli atti compiuti da un imprenditore con una parte plurisoggettiva.
Nel caso di specie si è ritenuto che il condominio fosse un consumatore, ma quello contiguo (diversamente composto) potrebbe non esserlo, e allo stesso modo anche il primo potrebbe mutare la propria qualificazione giuridica qualora venisse modificata la compagine condominiale.
In un’ulteriore e più recente decisione la Corte di Giustizia ha confermato i propri assunti ritenendo legittima l’estensione della disciplina prevista a tutela del consumatore anche alla compagine condominiale.
Con la sentenza del 27 ottobre 2022, in causa C-485/21, la Corte ha ribadito che “una persona fisica, proprietaria di un appartamento in un immobile in regime di condominio, deve essere considerata un «consumatore», ai sensi di tale direttiva, qualora essa stipuli un contratto con un amministratore di condominio ai fini della gestione e della manutenzione delle parti comuni di tale immobile, purché non utilizzi tale appartamento per scopi che rientrano esclusivamente nella sua attività professionale”.
Ciò significa che, tenuto conto dell’orientamento nazionale (l’unico, a voler essere precisi, considerato dalla Corte di Giustizia) che qualifica il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica, i singoli condòmini devono essere considerati consumatori laddove stipulino contratti per scopi che non siano esclusivamente professionali.
Anche in questa occasione, dunque, i giudici di Lussemburgo non fanno altro che confermare la stretta connessione che lega la questione della natura giuridica del condominio all’estensibilità ad esso delle tutele previste dal Codice del Consumo.
4. Rilievi conclusivi e possibili scenari futuri
Partendo dall’analisi della pronuncia della Corte di Giustizia del 2 aprile 2020, il primo punto che desta qualche perplessità è che la decisione, fortemente influenzata dal contenuto dell’ordinanza di rimessione del giudice meneghino, ha dato per scontato che, per l’ordinamento giuridico italiano, il condominio sia da considerare un centro autonomo di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, distinto dai singoli condòmini[10].
In conseguenza di ciò, la Corte ha omesso di pronunciarsi sulla possibilità di estendere la nozione di “consumatore” alla parte soggettivamente complessa ma priva di soggettività giuridica (come il condominio in Italia), e si è limitata a precisare di non poterlo considerare come un consumatore, in quanto non è “persona fisica”.
La conseguenza di questo travisamento è che il decisum della Corte risulta vincolante in tutti gli Stati membri che riconoscono autonoma soggettività giuridica, ma non per quelli che non la riconoscono, compreso l’ordinamento giuridico italiano[11].
Non si può non concordare, quindi, con chi evidenzia che, per quanto possa apparire paradossale, la rilevanza della sentenza, pronunciata per risolvere una questione pregiudiziale sollevata da un giudice italiano, per questo stesso ordinamento finisce per dipendere, in modo decisivo, dalla soluzione che verrà data alla vexatissima quaestio della soggettività del condominio[12].
Finora, nell’innegabile indeterminatezza della natura giuridica del condominio, il ricorso all’ambiguo concetto di ente di gestione, sostenuto dalla prevalente giurisprudenza, ha permesso di ritenere integrati i requisiti della figura del consumatore e di conseguire il risultato voluto, ovvero la nullità delle clausole vessatorie.
Volendo aderire alla tesi prevalente nella giurisprudenza, che fa coincidere le parti del contratto con i singoli condòmini, occorrerebbe verificare, caso per caso, la compagine condominiale, al fine di accertare la sussistenza della qualità di consumatore in capo a ciascuno dei condòmini. Di conseguenza, la tutela dovrebbe essere negata nel caso di unità immobiliari tutte destinate a scopi professionali. Invece, nell’ipotesi di composizione mista, si potrebbe pensare ad un trattamento giuridico differenziato, a seconda che siano in maggioranza consumatori o no. Quest’ultima teoria sembra proprio il criterio applicato dal Tribunale di Milano. Tuttavia, la stessa sentenza non chiarisce quale sia il criterio da utilizzare per verificare la prevalenza: se debba essere calcolata per quote, oppure per teste.
Peraltro, i giudici di merito sembrano lontani dall’approdare ad una soluzione univoca, invocando, in alcuni casi, il criterio della “prevalenza” e sostenendo, altre volte, l’applicazione della disciplina consumeristica, anche ai complessi edilizi in cui sono ubicate solo unità immobiliari destinate ad attività commerciali o professionali, sul presupposto che l’atto concluso sarebbe sempre estraneo all’attività professionale, in quanto finalizzato soltanto alla gestione delle parti comuni[13].
Una parte della dottrina ha sottolineato le criticità che derivano dall’adozione del criterio della prevalenza, in quanto, per tale via, non vi sarebbe alcuna prevedibilità, dovendosi procedere necessariamente ex post ad una verifica della destinazione degli immobili e, inoltre, si troverebbero a beneficiare della tutela alcuni soggetti, quali enti e persone giuridiche che, in condizioni di normalità, ad essa sarebbero sottratti ex lege[14] o, per esempio, persone fisiche che, locando gli appartamenti dello stabile, esercitano la loro precipua attività professionale di agenti immobiliari[15].
Al fine di risolvere tali criticità, vi è chi ha proposto la tesi secondo cui bisognerebbe “oggettivare il profilo consumeristico” degli atti di gestione dei beni comuni, in virtù del fatto che essi non perdono il proprio “lineamento necessariamente personalistico” e la propria funzionalizzazione al godimento della proprietà da parte di più persone fisiche anche quando la situazione formale di appartenenza delle porzioni di immobile faccia a capo a enti e/o professionisti. Di conseguenza, sotto una “dimensione dinamico-utilitaristica”, lo sfruttamento del condominio rappresenterebbe “una forma speciale, soggettivamente neutra e oggettivamente tipizzata (...), di atto di consumo”. Una tale soluzione avrebbe il vantaggio di garantire certezza del diritto sottraendo il giudice all’odiosa spada di Damocle, laddove la situazione rimessa allo scrutinio giudiziale presenti evidenti chiaroscuri, come accade nel caso in cui il condominio abbia una composizione mista o nel caso in cui le persone giuridiche proprietarie degli immobili lochino i medesimi a terzi per scopi abitativi[16].
Altra parte della dottrina, invece, ha proposto la creazione di una definizione transtipica di consumatore, che superi le dicotomie classiche di persona fisica e persona giuridica, facendo prevalere il profilo teleologico, che connota il comportamento del consumatore, su quello prettamente soggettivo. In questo modo, rilevando quale unico discrimen la situazione di inferiorità e debolezza in cui versa il soggetto nei confronti del professionista, si garantirebbe il raggiungimento di un equilibrio tra le parti, reale e non solo formale, in tutte le situazioni caratterizzate da uno squilibrio di potere contrattuale e da un’asimmetria informativa, e si realizzerebbe quell’eguaglianza sostanziale che è l’obiettivo di tutta la disciplina consumeristica[17].
Secondo un altro orientamento[18], trattandosi di parte plurisoggettiva mista, composta da consumatori e professionisti, la disciplina del codice di consumo, letta come diritto speciale, sarebbe del tutto inapplicabile, dovendo trovare applicazione la disciplina generale del codice civile. A sostegno della citata tesi, si fa riferimento all’art. 54 dell’abrogato codice di commercio ai sensi del quale “se un atto è commerciale per una sola delle parti, tutti i contraenti sono per ragione di esso soggetti alla legge commerciale, fuorché alle disposizioni che riguardano le persone dei commercianti, e salve le disposizioni contrarie di legge”.
Un ultimo orientamento giunge, invece, a conclusioni opposte ritenendo di poter applicare, in presenza di una parte plurisoggettiva mista, la disciplina del codice del consumo, in ogni caso e anche ai professionisti, in quanto tra un eccesso di tutela, ove si applichi a tutti i soggetti la disciplina del codice di consumo, ed un rischio di eccesso di rigore, ove si applichi a tutti i soggetti la disciplina del codice civile, “tutto sommato è forse preferibile correre il primo pericolo”[19].
Il criterio della prevalenza fa sorgere anche il problema dell’identificazione della parte su cui grava l’onere di dimostrare di essere un consumatore. La dimostrazione spetta all’amministratore del condominio che ha concluso il contratto, in quanto tale qualifica costituisce un elemento strutturale della domanda o dell’eccezione, da porre a carico di chi rivendica l’applicabilità alla fattispecie contrattuale della disciplina pro consumatore[20].
Tuttavia, occorre rilevare come la pronuncia della Corte di Giustizia ha posto una grave ipoteca sul tema della sussumibilità del condominio nella nozione di “consumatore” giacché, nello stabilire che, qualora gli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri attribuiscano un’autonoma soggettività giuridica al condominio, al medesimo non possa essere data immediata applicazione della disciplina consumeristica, ha legato indissolubilmente la questione in esame al problema della soggettività giuridica[21].
Il punto è che, nell’ordinamento giuridico italiano, il condominio continua a rimanere un “personaggio in cerca di autore”, con l’aggravante che, in base alla sentenza in commento, non si potrà più considerare quest’ultimo sic et simpliciter consumatore[22].
A destare ulteriori perplessità è ancora il Tribunale di Milano che, dopo aver ottenuto dalla Corte sovranazionale una pronuncia che conferma e rende vincolante proprio il suo assunto di partenza, non si pronuncia poi sulla questione della soggettività giuridica del condominio e, tornando a considerare il condominio semplicemente come una parte soggettivamente complessa, giunge ad una conclusione che presupporrebbe risolta proprio la questione della natura giuridica.
Sembra ragionevole ritenere che così viene elusa la pronuncia della Corte di Giustizia dallo stesso giudice che l’aveva chiesta. Infatti, volendo considerare il condominio come una semplice parte soggettivamente complessa, una mera somma di comproprietari che partecipano uti singuli, rappresentati dall’amministratore, alla stipulazione del contratto, non sussisterebbero dubbi, qualora risultasse soddisfatto il criterio della prevalenza, circa l’estensibilità della disciplina consumeristica al condominio.
Sembra quasi che l’unico modo per garantire ai condòmini la qualità di parte “consumatrice” sia la negazione dalla soggettività giuridica del condominio[23].
Laddove, invece, si attribuisse al condominio un’autonoma soggettività giuridica, scatterebbe il vincolo interpretativo della Corte di Giustizia, e sarebbe esclusa a priori la qualificabilità del condominio come un consumatore. In tal caso, il sistema per assoggettare il condominio alla disciplina consumeristica sarebbe quello di ricorrere ad un’interpretazione estensiva dell’art. 3 lett. a del Codice del consumo, ovvero un’applicazione analogica delle disposizioni del codice medesimo.
A proposito del primo orientamento, vi è chi ha ritenuto che “il gruppo condominiale sia tanto particolare (…) da non poter essere comunque ascritto agli enti collettivi cui il legislatore risulta aver negato la qualifica di consumatori” [24]. Tuttavia, questi assunti non sembrano convincenti, come sostenuto da altra parte di dottrina, in quanto “vi è un punto di rottura oltre il quale l’elasticità semantica del testo non consente all’interprete di procedere”[25].
Per quanto concerne, invece, l’ipotesi di applicazione analogica, appare difficile da giustificare in un ordinamento giuridico come quello italiano per due motivi fondamentali: 1) la normativa a tutela del consumatore è inserita nel codice del consumo o in decreti legislativi di natura settoriale, che sono posti in rapporto di specialità rispetto al diritto privato comune affidato al codice civile; 2) l’art. 32, lett. c, l. n. 234 del 24 dicembre 2012 (recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”), stabilisce che gli atti di recepimento di direttive dell’UE “non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse”, per “livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive” dovendosi intendere, fra l’altro[26], “l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, laddove ne derivino maggiori oneri amministrativi per i destinatari”[27] [28].
A questo punto, per superare i limiti dell’interpretazione analogica, le soluzioni proposte dalla dottrina sono due.
La prima è quella di estendere la disciplina consumeristica al condominio al fine di un’interpretazione sistematica. Questa soluzione[29] si basa su due presupposti fondamentali: da un lato, la coerenza e la completezza del sistema impone di prevedere soltanto due possibili categorie di contraenti, quelle di “professionista” e di “consumatore”, non essendovi spazio per un tertium genus, sicché indipendentemente dalla natura giuridica della parte contraente e dagli scopi per i quali agisce, è sempre indispensabile qualificarlo come un “professionista” o un “consumatore”; dall’altro, occorre valorizzare la circostanza che nel diritto italiano l’ambito di operatività di alcune disposizioni consumeristiche è stato esteso anche ai rapporti contrattuali intercorrenti fra “professionisti” e “microimprese” e, dunque, se si escludesse la possibilità di equiparare il condominio al consumatore, si perverrebbe ad un risultato paradossale: l’applicazione delle disposizioni citate potrebbe essere invocata dalle microimprese, cioè da soggetti che agiscono in ogni caso nell’ambito di un’attività imprenditoriale, ma non dal condominio.
Pertanto, qualora si ritenesse il condominio un ens tertium dotato di soggettività giuridica, non vi sarebbero dubbi circa l’applicabilità ad esso della disciplina consumeristica, in virtù del fatto che il condominio, agendo per finalità sicuramente estranee a qualsiasi attività imprenditoriale e/o professionale (beninteso, quando agisce per soddisfare le esigenze relative alle parti in comune dell’edificio condominiale), è da considerarsi non un consumatore in senso stretto, ma un soggetto che, per ragioni sistematiche, di completezza e di coerenza, non può non essere equiparato ad un consumatore[30].
La seconda soluzione proposta dalla dottrina è quella di analizzare la ratio della disciplina posta a tutela del consumatore. Laddove la si rinvenisse nella protezione del fruitore finale di beni o di servizi, non si potrebbe più sottrarre il condominio alla sua applicazione, in quanto quest’ultimo, al pari del consumatore, si inserisce nel mercato per consumare e non per produrre ricchezza. Sostenendo questa tesi, anche qualora si volesse propendere per il riconoscimento della soggettività giuridica al condominio, lo si potrebbe assoggettare alla disciplina consumeristica, senza superare la definizione di consumatore, e trovando un avallo nella sentenza della Corte di Giustizia[31].
Non è difficile rendersi conto che il condominio si pone esattamente a metà strada tra la nozione di “consumatore” e la nozione di “professionista”: non è un consumatore in quanto non può essere una persona fisica, ma non è neanche un professionista perché, almeno quando conclude negozi giuridici al fine di garantire la gestione, l’amministrazione e il godimento delle parti comuni, non agisce per fini professionali e/o imprenditoriali.
In definitiva, per quanto consapevole che concludere l’analisi di un istituto giuridico auspicando l’intervento del legislatore non si caratterizzi per originalità metodologica, credo non ci si possa esimere dal ritenere che solo una novella normativa chiarificatrice consenta di evitare le inevitabili incertezze derivanti da una verifica caso per caso.
In quest’ottica, una soluzione che risulterebbe efficace, al fine di porre un punto fermo alla vexata questio, potrebbe consistere nell’estendere, sul modello di altri Paesi europei e per opera del legislatore, la nozione di “consumatore”.
Allo stato attuale della giurisprudenza, e senza una risposta certa sulla natura giuridica del condominio che possa far propendere in un senso piuttosto che nell’altro, è innegabile che il condominio (e non i singoli condòmini che concorrono a formare la parte soggettivamente complessa, qualora si continui ad aderire a quest’ultima tesi) non sia e non possa essere, in quanto tale, un “consumatore”, ma semplicemente possa godere (condivisibilmente) delle stesse tutele giuridiche.
[1] Cass., 12 gennaio 2005, n. 452.
[2] La Corte Suprema precisa, infatti, che “va ricordato che al contratto concluso con il professionista dall'amministratore del condominio, ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applica la normativa a tutela del consumatore, atteso che l'amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari condòmini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale”.
[3] Ex multis: Trib. Ravenna 27 settembre 2017; Trib. Massa 26 giugno 2017; Trib. Milano 21 luglio 2016; Trib. Cagliari 19 giugno 2014, n. 1890; Trib. Genova, 14 febbraio 2012; Trib. Milano, 8 settembre 2008, n. 10854; Trib. Reggio Emilia, 6 marzo 2008; App. Catania, 26 febbraio 2008; Trib. Genova, 6 novembre 2007; Trib. Monza, 28 giugno 2007; Trib. Milano, ord., 20 novembre 2004; Trib. Modena, 20 ottobre 2004; Trib. Pescara, 28 febbraio 2003; Trib. Bologna, 3 ottobre 2000.
[4] www.condominioelocazione.it, nota a sentenza del 29 settembre 2020; vedi anche Cerri, La Suprema Corte definisce la nozione di consumatore nella composizione della crisi da sovraindebitamento, in Il diritto fallimentare, 2016, pp. 1291 ss.
[5] De Cristofaro, Diritto dei consumatori e rapporti contrattuali del condominio: la soluzione della Corte di Giustizia UE, in Nuova giur. civ. comm.,2020, I, p. 844.
[6] De Cristofaro, Contratti del condominio e applicabilità delle disposizioni concernenti i contratti dei consumatori: il diritto italiano dopo la sentenza della Corte Giust. UE del 2 aprile 2020, in Nuove leggi civili commentate, 2021, pp. 594-596.
[7] Oliviero, Mandato dell’amministratore di condominio e disciplina consumeristica nel quadro delineato dalle recenti pronunce della corte di giustizia UE, in Nuove leggi civili commentate, 2020, pp. 1375-1376.
[8] Ex multis: Corte di Giustizia, 5 dicembre 2013, in causa C-508/12; Corte di Giustizia. 19 gennaio 1993, in causa C-89/91 e Corte di Giustizia, 21 giugno 1978, in causa C-150/77.
[9] Corte di Giustizia, 22 novembre 2001, cause riun. C-541/99 e C-542/99, nella quale sono state escluse dalla nozione di consumatore sia la società in nome collettivo sia la società a responsabilità limitata, facendo leva proprio sulla impossibilità di ricondurre questi tipi sociali alla nozione di “persona fisica”.
[10] A tal proposito, il ragionamento della Corte è evidente, ad esempio: al punto 22 (“occorre stabilire se un soggetto giuridico che non sia una persona fisica possa (...) rientrare nella nozione di consumatore”); al punto 26 (“il giudice del rinvio indica che nell’ordinamento italiano un condominio è un soggetto giuridico che non è né una “persona fisica”, né una “persona giuridica”); al punto 28 (ove muovendosi dalla considerazione che il condominio non può essere considerato una persona fisica si riconosce che gli Stati membri sono liberi di decidere se esso sia una vera e propria “persona giuridica” (...) ovvero un tertium genus non riconducibile né all’una né all’altra categoria) e al punto 37 della sentenza della Corte (ove si afferma che gli Stati membri possono estendere l’applicazione delle norme di recepimento della direttiva n. 93/13 CEE anche a “soggetti giuridici” (...) che non rientrano nella nozione di consumatore” e si individua esplicitamente proprio nel condominio, quale concepito nel diritto italiano, un esempio tipico di soggetti giuridici siffatti).
[11] Foresta, Il recente approdo della Corte di Giustizia sul condominio consumatore, in Studium iuris, 2021, p. 18.
[12] De Cristofaro, Diritto dei consumatori e rapporti contrattuali del condominio: la soluzione della Corte di Giustizia UE, cit., pp. 845 ss.
[13] App. Milano, 13 novembre 2019, n. 4500. Si consideri, per esempio, la sentenza della Corte d’Appello di Genova il 20 novembre 2020, in cui si trattava di stabilire se un condominio-centro commerciale potesse essere considerato come consumatore. I giudici della Corte d’Appello hanno ritenuto che il condominio in questione rientri nella categoria dei consumatori. Posto che, precisava la Corte, la questione rilevante consisteva nel verificare se il condominio svolgesse un’attività imprenditoriale o professionale o se tale attività fosse svolta da tutti i suoi condòmini o da una parte prevalente di essi, tale ultima situazione non ricorreva nel caso di specie, non potendosi escludere, per la sola denominazione di “condominio-centro commerciale”, che il complesso edilizio fosse costituito da negozi ed abitazioni, anziché esclusivamente da persone giuridiche e/o imprenditori. La Corte d’Appello sembra correlare la qualifica di consumatore non ad una “formalistica” condizione permanente del soggetto, bensì alla “sostanziale” attività dello stesso, ed alla finalità dell’atto negoziale posto in essere. Si dovrebbe escludere la qualità di consumatore non al condominio-centro commerciale in quanto tale, ma solo a quello in cui tutti i condòmini svolgano un’attività commerciale, essendo necessaria, per tale via, una verifica ex post dello scopo per cui sia stato concluso il contratto. Se tale situazione non ricorre, si deve ritenere che tutti i contratti condominiali, in quanto volti alla conservazione/manutenzione delle parti dell’edificio o al funzionamento dei servizi comuni, non sono connessi all’attività imprenditoriale e/o professionale eventualmente svolta nelle singole unità immobiliari (Bordolli, Il condominio destinato a centro commerciale, composto di negozi e abitazioni, può essere considerato come un “consumatore”, 2021, in condominioelocazioni.it).
[14] Chiesi, Condominio: “essere o non essere” (consumatore)?, in Immobili&Proprietà, 2020, p. 498.
[15] Celeste, Il condominio diventa "consumatore" sia pure solo se le unità immobiliari dell'edificio risultino prevalentemente di proprietà di persone fisiche, 2021, in condominioelocazione.it
[16] Calvo, Complessità personificata o individualità complessa del condominio-consumatore, in Giur. It., 2020, p. 1326, il quale aggiunge che il criterio della prevalenza, se applicato a tali soluzioni, “rende a nostro avviso arbitraria e sindacabile qualunque soluzione prescelta. Si rinnovi alla memoria che le ipotizzate impasse sono in apicibus annientate ove si segua l’orientamento da noi proposto, facente perno sulla categoria razionalizzante e unificatrice dell’atto obiettivo di consumo”. A tal proposito, Pagliantini, Il consumatore “frastagliato” (Istantanee sull’asimmetria contrattuale tra vicende circolatorie e garanzie), Pisa, 2021, pp. 77 ss., ha obiettato che “ragionare di un atto oggettivo di consumo, scisso dalla qualità soggettiva dei condòmini (…) riscrive il disposto dell’art. 3 lett. a) c. cons.”, dove non vi è menzione “di una neutralità soggettiva degli atti soppiantata da una rilevanza del loro contenuto oggettivo”.
[17] Cerri, Il condominio è qualificabile come consumatore? La questione rimessa alla Corte di giustizia, in il Corriere giuridico, 2020, pp. 207-208.
[18] Stella Richter, Il tramonto di un mito: la legge eguale per tutti (dal diritto comune dei contratti al contratto dei consumatori), in Giust. Civ., 1997, II, pp. 201 ss., ove si precisa che “l’orientamento non merita consenso: non convince né l’assunto secondo cui il diritto dei consumatori sarebbe diritto speciale come tale non applicabile quasi per definizione, né il richiamo ad una norma ormai abrogata quale l’art. 54 c. comm”.
[19] Atelli, Consumo individuale e consumo “aggregato”: insufficienze del modello legale del consumatore in Tendenze evolutive nella tutela del consumatore, 1998, p. 34; a tal proposito, vedi anche Minervini, Condominio e consumatore, in Giur. It., 2022, p. 253, dove si sottolinea che “neanche questo orientamento merita consenso: l’arbitrarietà dell’argomentazione addotta a sostegno è palese”.
[20] Calvo, Complessità personificata o individualità complessa del condominio-consumatore, cit., p. 1326.
[21] Oliviero, Mandato dell’amministratore di condominio e disciplina consumeristica nel quadro delineato dalle recenti pronunce della corte di giustizia UE, cit., pp. 1380-1381.
[22] Spoto, Il condominio non è un consumatore ma ha le stesse tutele, in Corriere giuridico, 2020, p. 901.
[23] Oliviero, Mandato dell’amministratore di condominio e disciplina consumeristica nel quadro delineato dalle recenti pronunce della corte di giustizia UE, cit., p. 1381.
[24] Simeon, Il condominio è un consumatore? La decisione della Corte di Giustizia non scioglie i dubbi, in Giur. Comm., 2021, II, pp. 476 ss.
[25] Bin, Clausole vessatorie: una svolta storica (ma si attuano così le direttive comunitarie?), in Contratto Impr./Europa, 1996, p. 436; vedi anche Minervini, Condominio e consumatore, cit., p. 251, ove si aggiunge che la tesi va ben oltre il “punto di rottura” in quanto l’art. 3 lett. a c. cons. parla chiaro e non ammette una siffatta interpretazione estensiva.
[26] Ai sensi del comma 24 ter, lett. b, dell’art. 14 l. n. 246 del 28 novembre 2005, espressamente richiamato dallo stesso art. 32 cit.
[27] De Cristofaro, Contratti del condominio e applicabilita` delle disposizioni concernenti i contratti dei consumatori: il diritto italiano dopo la sentenza della Corte Giust. Ue del 2 aprile 2020, cit., p. 619.
[28] A tal proposito, Pagliantini, Il consumatore “frastagliato” (Istantanee sull’asimmetria contrattuale tra vicende circolatorie e garanzie), cit., p. 70, sottolinea che non è ammissibile il ricorso all’analogia in quanto quest’ultima non è una “formula magica”, sicchè se non vi è una lacuna “l’interprete non può maneggiare lo scopo di protezione come se questa ci fosse”.
[29] De Cristofaro, Contratti del condominio e applicabilità delle disposizioni concernenti i contratti dei consumatori: il diritto italiano dopo la sentenza della Corte Giust. Ue del 2 aprile 2020, cit., p. 621.
[30] A contrario, Minervini, Condominio e consumatore, cit., p. 251, obietta che “non si rinvengono ragioni di coerenza e completezza del sistema, tali da giustificare siffatta equiparazione”.
[31] Scapellato, Per la Corte di giustizia UE la tutela del consumatore può estendersi al condominio, in Giurisprudenza italiana, 2021, p. 1594.
Sommario: 1. Premessa: Il contenzioso bancario. Uno sguardo d’insieme dell’intero problema. - 2. L’ordinanza del Tribunale di Salerno del 19 luglio 2023. - 3. Il provvedimento della Prima Presidente della Corte di Cassazione. - 4.1. L’ammortamento cd. alla francese ed il divieto di anatocismo. - 4.2. L’ammortamento cd. alla francese: maturazione ed l’esigibilità degli interessi. - Segue: 4.2.1. Ancora sulla maturazione ed l’esigibilità degli interessi: Cass. Civ. sez. I, 11 novembre 2021, n. 33474. - 5. Ammortamento alla francese: fra determinatezza, trasparenza e (non?) meritevolezza. Una recente posizione dell’ABF. - 6. Ammortamento alla francese: una questione di determinatezza? - 7. Ammortamento alla francese: …una questione di trasparenza. Il controverso utilizzo dell’interesse composto. - 8. segue: Ammortamento alla francese: …una questione di trasparenza. La rilevanza del piano di ammortamento. - 9. Ammortamento alla francese: rimedi esperibili per una questione di trasparenza. - 10. Conclusioni.
1. Premessa: Il contenzioso bancario. Uno sguardo d’insieme dell’intero problema.
Alla fine, saranno le Sezioni Unite a dirci se l’ammortamento alla francese sia legittimo o meno.
È da qualche tempo, in verità, che, sulla spinta delle discussioni di matematici e giuristi, nelle aule di Tribunale di tutta Italia si discute della legittimità o meno di tale modalità di rimborso.
Salito sul banco degli imputati degli imputati con l’accusa di un malcelato effetto anatocistico insito nello sviluppo rateale del piano di rimborso, più di recente il dito viene puntato sulla determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto e sulla violazione della c.d. trasparenza bancaria, in relazione alla ritenuta applicazione del regime di capitalizzazione “composto” degli interessi debitori e del conseguente, ma inespresso e quindi non convenuto, incremento del costo complessivo del denaro preso a prestito.
Ecco che, sfruttando immediatamente le potenzialità del nuovo rinvio pregiudiziale, il Tribunale di Salerno investe la Corte di Cassazione della questione che presenta evidenti difficoltà interpretative e che ha già dato luogo, nella giurisprudenza di merito, alle più disparate letture delle norme di riferimento e su cui, salvo, in verità, sporadiche pronunce di cui si farà menzione, la Corte non si è ancora ex professo pronunciata.
Alle origini di tale contrasto giurisprudenziale – che trascende la questione specifica devoluta – si pongono, in generale, alcune motivazioni di fondo.
È sufficiente una rapida “carrellata” all’interno dei repertori di giurisprudenza per cogliere che il contenzioso bancario e finanziario è, forse, uno degli argomenti in questo momento maggiormente divisivi e le ragioni di una tale conflittualità (giudiziaria) possono rinvenirsi in una pluralità di fattori.
V’è, da un lato, la complessità del sistema normativo derivante da una normazione “multilivello”: i testi normativi, quando non ne siano diretta promanazione, sono condizionati dal formante sovranazionale che incide sull’attività del Legislatore, prima, e dell’interprete, poi, chiamato a ricondurre le disposizioni normative (o la loro interpretazione) in linea con la legislazione eurounitaria, antitrust o, ancora, con il cd. Statuto del consumatore.
V’è, ancora, l’elevato tasso di tecnicismo che connota la materia: le categorie tradizionali del diritto contrattuale sono, infatti, chiamate a confrontarsi ed arricchirsi dei contenuti propri delle scienze matematiche, non sempre di immediata intellegibilità, di modo che è (anche) sulla scorta di queste che devono, poi, compiersi valutazioni giuridiche afferenti alle prime, in un dialogo sempre più difficile che rende il settore dei contratti bancari e finanziari quasi un “microcosmo” del diritto contrattuale, governato da regole sue proprie.
Dall’altro lato, v’è, poi, una contrapposizione di matrice che potremmo definire in un certo senso “ideologica”.
Il contenzioso bancario e finanziario è, infatti, uno di quelli ove maggiormente si riscontra l’asimmetria contrattuale – che è anzitutto, ma non solo, asimmetria informativa – dove ad un professionista certamente qualificato sul mercato si contrappone una vasta platea di soggetti, che su quel mercato agiscono per le più disparate finalità o per soddisfare le più diverse esigenze ed il cui potere negoziale, siano essi consumatori o meno, può essere, spesso, marginale quando non del tutto inesistente[1].
Del resto, la difficoltà di addivenire ad un momento di sintesi di tali contrapposti fattori ben la si coglie sol che si ponga mente alla diversità di posizioni espresse dalla giurisprudenza di merito ed al rapido susseguirsi, anche nel recente periodo, di plurimi interventi della giurisprudenza di legittimità, anche nella sua più autorevole composizione, tanto con riferimento ai contratti finanziari che a quelli bancari.
Così, senza pretesa alcuna di esaustività e limitando il richiamo agli esempi più rilevanti del “fermento” che attraversa la materia – evidente espressione di un’esigenza di chiarezza ma, al contempo, anche di ricerca di stabilità di un intero sistema il cui rilievo va oltre il momento della singola contrattazione – nel volgere di pochi anni la giurisprudenza, è intervenuta dapprima affermando una lettura funzionale e non strutturale del requisito della forma scritta del contratto-quadro, posto a pena di nullità (azionabile dal solo cliente) dall’art. 23 del d.lgs. n. 58 del 1998[2].
A tale intervento ha, poi, fatto seguito l’affermazione della possibilità dell’investitore di “gestire” a suo vantaggio gli effetti processuali e sostanziali della nullità per difetto di forma scritta contenuta nell’art. 23 comma 3 del d.lgs. n. 58 del 1998, potendo questa essere fatta valere esclusivamente dell’investitore, con il temperamento che, ove la domanda fosse diretta a colpire soltanto alcuni ordini di acquisto, l’intermediario avrebbe potuto opporre l’eccezione di buona fede qualora la “selezione” della nullità avesse determinato un ingiustificato sacrificio economico a suo danno alla luce della complessiva esecuzione degli ordini conseguiti alla conclusione del contratto quadro[3].
Nella materia bancaria, poi, si sono registrate, dapprima, le pronunce sull’usura sopravvenuta[4], quindi, quelle sui rapporti tra disciplina dell’usura e la Commissione di Massimo Scoperto[5], ancora quelle sul rilievo che nella disciplina dettata in tema di usura hanno gli interessi moratori, con affermazioni importanti tanto in ordine all’interesse ad agire quanto in ordine alla disciplina concretamente applicabile[6].
Il tutto senza tralasciare il dibattito, presente in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità, ad esempio, quanto alla necessità del previo esperimento della richiesta ex art. 119, comma 4, t.u.b., al fine di poter invocare in giudizio la consegna di copia della documentazione relativa alle operazioni dell’ultimo decennio ai sensi dell’art. 210 c.p.c.[7], al superamento del limite di finanziabilità, anch’esso di recente oggetto di un intervento delle Sezioni Unite[8], alla nullità del tasso di interesse per la violazione del parametro EURIBOR[9], in relazione al quale sarà interessante verificare se ed in che misura, nelle differenti posizioni già emerse in seno alla giurisprudenza di merito (e che non si possono qui indagare) la soluzione che adotterà la giurisprudenza di legittimità sarà influenza dagli approdi cui si è pervenuti in una fattispecie, certo non sovrapponibile ma sicuramente contigua, rappresentata dalle sorte delle fideiussioni omnibus reiterative del modello ABI[10].
Da ultimo, tutto il contenzioso giudiziario è, di recente, chiamato ad occuparsi delle vicende connesse alle cessioni del credito ed alla prova delle stesse.
Non è evidentemente questa la sede per soffermarsi, analiticamente, su tutti gli argomenti che si sono appena indicati; può, tuttavia, ritenersi che tutti tali interventi abbiano un minimo comune denominatore che è quello di contemperare, sul piano rimediale, le diverse esigenze di trasparenza, correttezza, informazione, equilibrio contrattuale, ma anche equità, proporzionalità e stabilità di un sistema che, negli ultimi anni, ha visto un costante incremento del tasso di litigiosità.
Tornando, allora, all’oggetto delle considerazioni che seguiranno, ad occupare, oggi, l’attenzione degli interpreti si pone la questione – predicata in termini di (in)validità, (in)determinatezza, (maggiore) onerosità, modalità di imputazione ed esigibilità degli interessi – dell’ammortamento alla francese e delle condizioni – tra tutte l’utilizzo o meno dell’interesse composto – che il piano rateale di rimborso pone.
Per cogliere i termini del problema posti dal piano di ammortamento ala francese, ancora una volta potrebbe essere sufficiente scorrere rapidamente in rassegna le pronunce – in larghissima parte rinvenibili nelle banche dati di giurisprudenza – delle sentenze di merito in materia.
Procedendo in via di prima approssimazione, da un lato v’è la posizione di quanti ritengono che la modalità di rimborso rateale del mutuo secondo le formule dell’ammortamento alla francese dia luogo ad una forma di anatocismo vietato dall’art. 1283 c.c., derivante dall’uso della capitalizzazione composta per il calcolo della rata costante.
Dall’altro lato, la posizione, che nel panorama giurisprudenziale appare, allo stato, essere ampiamente maggioritaria, che esclude tale fenomeno sull’assunto che l’anatocismo è vietato nel caso in cui gli interessi scaduti si sommino al capitale e producano a loro volta interessi e tale fenomeno si verifica solo nel caso in cui la banca determini l’ammontare della rata applicando il tasso stabilito nel contratto sia sull’ammontare del capitale complessivo ancora da rimborsare, sia su una quota di interessi scaduti nel periodo preso a riferimento per l’addebito della rata in scadenza, ma non nel caso in cui alla scadenza della rata il tasso pattuito in contratto viene applicato sul capitale ancora da restituire giacché in tal caso nessun addebito di interessi su interessi scaduti verrà addebitato al mutuatario.
Da qui la conclusione per cui tale modalità di rimborso risulta più rispettosa del principio di cui all’art. 1194 c.c. dal momento che prevede un criterio di restituzione del debito che privilegia, sotto il profilo cronologico, l’imputazione dei pagamenti agli interessi piuttosto che al capitale laddove l’eventuale maggior onere di interessi rispetto di tale piano di ammortamento rispetto a quello all’italiana costituisce un rilievo fattuale inidoneo ad incidere sulla validità del piano di ammortamento.
Tale questione – dopo essersi già tradotta in un ampio e diffuso contenzioso, che la pronuncia della S.C. più che prevenire, come ipotizza il Tribunale di Salerno nell’ordinanza di remissione, potrebbe, semmai sedare – giunge, quindi, all’attenzione delle Sezioni Unite non già per effetto della proposizione degli ordinari mezzi di impugnazione, ma attraverso l’attivazione del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c. cui ha fatto seguito il provvedimento che ha investito direttamente le Sezioni Unite della Suprema Corte della questione.
Nel vasto panorama giurisprudenziale, la pronuncia del Tribunale di Salerno merita di essere segnalata in quanto rivolge il proprio sguardo non all’esistenza di profili di antigiuridicità intrinseci del piano di ammortamento alla francese, di cui la pronuncia salernitana, per il vero, non sembra farsi carico, ma perché dubita della (carenza di) trasparenza e determinatezza del regolamento contrattuale e, ancor prima, di una compiuta informazione sulle sue caratteristiche.
Plurimi sono, quindi, i fronti problematici aperti da tale pronuncia sia in merito alla violazione delle regole di trasparenza sia, qualora positiva sia la risposta a tale primo quesito, in merito alle conseguenze che da ciò dovrebbero farsi discendere.
Su tali interrogativi, dunque, pur senza pretesa di esaustività argomentativa, è opportuno soffermarsi.
2. L’ordinanza del Tribunale di Salerno del 19 luglio 2023.
Veniamo, allora, alle coordinate di fondo in cui si iscrivono le questioni poste al Tribunale di Salerno ed oggetto del rinvio pregiudiziale.
Da quanto si ricava dalla ricostruzione in fatto operata nel provvedimento in commento, la questione origina da un contratto di mutuo caratterizzato dalla presenza di un piano di ammortamento.
Più nel dettaglio, all’attenzione del Tribunale, in particolare, era stato portato un contratto di mutuo che non recava alcuna indicazione della modalità di ammortamento, del regime finanziario adottato e della modalità di calcolo degli interessi, pur essendo presente – ed in tale direzione era andata la difesa dell’istituto di credito – il piano di ammortamento, recante l’indicazione del numero delle rate, del relativo ammontare e della composizione quanto a quota capitale ed interessi.
Da qui, quindi, la richiesta da parte del mutuatario di declaratoria di nullità della clausola recante la pattuizione del tasso di interesse passivo per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto, sull’assunto che a fronte della mancata indicazione del regime finanziario adottato in punto di capitalizzazione degli interessi, il piano di ammortamento alla francese a parità di importo finanziato, di tasso di interesse convenuto, di durata del finanziamento, avrebbe comportato costi “diversi ed ulteriori” rispetto ad altri piani di ammortamento, tra cui, ad esempio, quello cd. all’italiana che, sovente al primo viene contrapposto.
Il giudice campano, ritenendo sussistenti tutti i presupposti previsti dall’art. 363 bis c.p.c., ha sollevato il rinvio pregiudiziale dinanzi la Suprema Corte di Cassazione, ricostruendo gli aspetti problematici della questione.
Anzitutto, osserva il Tribunale di Salerno, quanto alla mancata espressa indicazione della modalità di ammortamento cd. alla francese, che, alla tesi secondo cui dalla mancata specificazione del regime finanziario prescelto, non deriverebbero conseguenze in punto di determinatezza delle condizioni contrattuali né in punto di trasparenza (vuoi perché desumibile dal piano di ammortamento, vuoi perché lo stesso non attiene al “prezzo” o alle “condizioni praticate”), si contrappone altra opzione interpretativa che, di contro, ravvisa una carenza del regolamento contrattuale, non colmabile con la presenza del piano di ammortamento.
Quest’ultimo, infatti, potrebbe non essere compreso dal cliente, perché magari non in possesso delle conoscenze necessarie a comprendere la portata economica di un determinato assetto negoziale (recte: finanziario).
Dall’altro lato, prosegue il giudice salernitano, gli istituti di credito sono tenuti a rendere edotti i clienti del tasso di interesse ma anche di prezzo e condizione praticati in modo da consentire ai clienti, specie se consumatori, di orientare le proprie scelte; in quest’ottica, dunque, anche l’indicazione della modalità dell’ammortamento costituirebbe un costo o un prezzo che deve essere indicato nel contratto.
Sul piano delle conseguenze, il Tribunale di Salerno muove dal duplice presupposto che venga impiegato il regime di capitalizzazione composta e che nel regime di capitalizzazione composto gli interessi prodotti in ogni periodo sarebbero destinati a sommarsi al capitale per cui producono a loro volta interessi a differenza di quanto accade nel regime di capitalizzazione semplice, determinandosi, per l’effetto, una maggiore onerosità del primo regime di capitalizzazione rispetto al secondo.
Rileva, pertanto, il provvedimento in commento che, accanto alla tesi per cui già la lettura delle condizioni contrattuali potrebbe fare emergere il regime di capitalizzazione applicato, v’è l’opzione interpretativa in base alla quale l’esigenza di trasparenza bancaria (e di determinatezza del regolamento contrattuale) sarebbe soddisfatta solo da una precisa ed esplicitainformazione nei confronti del cliente di tutte le condizioni applicate, agendo anche la modalità di ammortamento ed il regime di capitalizzazione applicato sul terreno del (maggior) prezzo del denaro mutuato e, dunque, del suo costo in termini di interessi, con conseguente nullità per mancato rispetto del requisito di forma.
Ciò, sostiene il Tribunale di Salerno, per una duplice ragione: da un lato, la maggiore onerosità del regime di capitalizzazione composto potrebbe non essere ravvisata dal cliente, privo delle necessarie competenze; dall’altro, i principi di derivazione sovranazionale non si accontentano della intellegibilità della clausola sul piano sintattico-lessicale, ma richiedono che il consumatore medio sia messo in condizione di comprendere il funzionamento concreto delle modalità di calcolo del tasso e valutare le conseguenze economiche delle clausole che va a sottoscrivere.
3. Il provvedimento della Prima Presidente della Corte di Cassazione.
Riepilogati i termini della questione, il provvedimento della Prima Presidente della Suprema Corta si vede costretto, in realtà, a dedicare un intero paragrafo ad una questione procedurale, ritenuta, tuttavia, non integrare assorbenti profili di inammissibilità, tali già di per sé da risultare ostativi all’ingresso del rinvio pregiudiziale: la mancata attivazione del contraddittorio con le parti prima di disporre il rinvio pregiudiziale.
Trattasi, tuttavia, di aspetto che allontanerebbe queste brevi riflessioni dal tema su cui intendono focalizzarsi sicché sullo stesso non ci si può attardare[11].
Nel merito, il provvedimento presidenziale condivide e fa proprie le diverse letture ed opzioni interpretative sollevate dal Tribunale campano, ritenendo, pertanto, di investire, anche alla luce delle ricadute processuali del profilo concernente la mancata attivazione del contraddittorio prima dell’adozione dell’ordinanza di rinvio, che si è sopra unicamente accennata, le Sezioni Unite della Corte[12].
Una precisazione.
Mantenendo fede alla premessa di metodo che si è fatta in apertura, le considerazioni che seguiranno si concentreranno – in termini necessariamente sommari – unicamente sulle sorti dell’ammortamento alla francese, nel difficile dialogo tra le formule di matematica finanziaria sottese al calcolo degli interessi e le regole di validità contrattuale previste dalla normativa bancarie.
Nel far ciò, però, non si seguirà integralmente lo schema adottato dalla decisione in commento: come sarà osservato anche in seguito, la pronuncia del Tribunale di Salerno non ha inteso contestare la validità del piano di ammortamento alla francese in quanto tale.
Non è chiaro, in realtà, se ciò avvenga perché si dia per scontata la legittimità di tale modalità di ammortamento o perché la valutazione condotta dal giudice campano e l’individuazione delle relative questioni siano avvenute attenendosi alle allegazioni ed alle domande svolte dalle parti che avevano sostenuto la nullità parziale del finanziamento per la mancata indicazione della modalità di ammortamento, del regime finanziario prescelto e della mancata pattuizione e indicazione della modalità di calcolo degli interessi passivi.
Nondimeno, l’eco delle problematiche, che continuano a dividere la giurisprudenza di merito e che poco più sopra si sono sinteticamente anticipate, è certamente presente anche nella pronuncia in commento che, pur non affrontandole espressamente, da queste appare nella realtà muovere, sicché è bene da queste prendere l’avvio.
4.1. L’ammortamento cd. alla francese ed il divieto di anatocismo.
Nell’ambito dei finanziamenti a rimborso graduale, nei mutui costruiti secondo l’ammortamento cd. alla francese, il piano di rimborso prevede la restituzione del capitale erogato secondo un meccanismo rateale che incorpora in ciascuna rata una quota (crescente) di capitale e una quota (decrescente) di interessi calcolata sul capitale residuo, caratterizzata dall’iniziale imputazione dei pagamenti ai secondi ma con invarianza dalla rata corrisposta nel tempo[13].
In tale modalità di rimborso, in ogni rata, la quota di interessi è calcolata tramite il prodotto fra tasso di interesse e debito residuo al termine di ciascun periodo di ammortamento e la quota capitale rimborsata per differenza tra l’ammontare della rata e gli interessi di periodo; il calcolo degli interessi sul capitale residuo comporta che gli interessi si riducano progressivamente di rata in rata in ragione dell’ammortamento del debito capitale, che nella invarianza della rata viene rimborsato per quote capitali, invece, crescenti.
Trattasi della modalità di restituzione certamente più diffusa (ma, altrettanto certamente, non l’unica possibile) nell’operatività (recte: prassi) dei finanziamenti a restituzione rateale, e che, proprio in ragione della sua diffusività all’interno del sistema bancario è stata ritenuta idonea a fondare, un vero e proprio uso in grado di derogare all’art. 1283 c.c.[14]
Riprendendo quanto prima accennato, e come del resto suggerisce lo stesso provvedimento in esame, attorno a tale modalità di rimborso, oramai da qualche tempo, è insorto un vivace dibattito tanto nella dottrina quanto nella giurisprudenza in merito alla legittimità dei piani rateali di restituzioni costruiti secondo tale modalità di ammortamento, la cui legittimità è stata via via contesta, talvolta per l’effetto anatocistico che si anniderebbe al suo interno, talaltra per la ritenuta maggiore onerosità di tale piano di rimborso, talaltra ancora in relazione alla esigibilità degli interessi[15].
Problematiche, queste, che, per la verità, sono tenute presenti nell’ordinanza qui in esame, di cui costituiscono, in qualche modo, “l’ossatura”; ciò che cambia è che le stesse non sono declinate quali vizi propri del piano di ammortamento cd. alla francese bensì lette sotto la diversa prospettiva della carenza di determinatezza e trasparenza delle condizioni contrattuali applicate.
Per il vero, mentre le posizioni assunte in dottrina, pur sembrando convergere per l’esclusione della violazione del divieto di anatocismo posto dall’art. 1283 c.c.[16], seguitano ad evidenziare alcuni aspetti ed elementi problematici in merito alla concreta costruzione del piano di ammortamento, nella giurisprudenza di merito l’orientamento più recente e diffuso tende, oramai, ad escludere che il piano di ammortamento alla francese comporti la violazione del divieto di anatocismo previsto dall’art. 1283 c.c. quest’ultimo “…frettolosamente assimilato all’impiego del regime composto”.[17]
In particolare, al netto di poche pronunce di segno contrario, la posizione più recente assunta dalla giurisprudenza di merito (ma che inizia ad affacciarsi anche nella giurisprudenza di legittimità[18]) si è andata progressivamente assestando nel senso che l’ammortamento alla francese altro non è che un metodo di restituzione i cui elementi sono dati dal capitale dato in prestito, dal tasso di interesse fissato per periodo di pagamento nonché dal numero delle rate e che consente di pianificare, in base alla periodicità di restituzione stabilita, la restituzione del capitale mutuato e degli interessi pattuiti con un piano di pagamento a rata costante, di talché, al termine del periodo stabilito di ammortamento, il debito sia completamente estinto, sia in linea capitale sia per interessi.
Tale modalità di rimborso, si legge ancora, comporta che gli interessi vengano calcolati unicamente sulla quota di capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata, senza possibilità che sugli interessi maturati in relazione a ciascuna di essa possano maturare ulteriori interessi, con conseguente esclusione della violazione del divieto di anatocismo.
Ed anzi, correttamente distinguendo il fenomeno dell’anatocismo da quello della capitalizzazione composta[19], l’esclusione della violazione dell’art. 1283 c.c. è fatta pur nella prospettiva che nel piano di ammortamento alla francese la composizione della rata evidenzi il meccanismo dell’interesse composto sul capitale in scadenza: ciò in quanto si ha anatocismo, rilevante ai fini dell’art. 1283 c.c., soltanto se gli interessi maturati sul debito in un determinato periodo si aggiungono al capitale, andando così a costituire la base di calcolo produttiva di interessi nel periodo.
Tali conclusioni appaiono, invero, condivisibili.
Il fenomeno dell’anatocismo vietato non pare essere caratteristica riferibile a tale modalità di rimborso laddove si consideri che lo stesso è configurabile solo ove gli interessi maturati sul debito in un certo periodo si aggiungono al capitale, andando così a costituire, in un meccanismo di produzione secondaria ed esponenziale, la base di calcolo produttiva di interessi nel periodo successivo.
Tale fenomeno non può, invece, ritenersi ricorrente nel piano di ammortamento alla francese la cui modalità di rimborso comporta che gli interessi vengano comunque calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata e non anche sugli interessi pregressi: ciascuna rata comporta la liquidazione ed il pagamento degli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce e gli interessi conglobati nella rata successiva sono al loro volta calcolati unicamente sulla residua quota di capitale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti.
Detto altrimenti, il pagamento della singola rata estingue del tutto gli interessi maturati in relazione alla rata mensile medesima, mentre gli interessi considerati nella rata successiva vengono, a loro volta, calcolati unicamente sulla residua somma dovuta in linea capitale ed unicamente per il periodo successivo al pagamento della rata precedente.
E d’altro canto, come osservato in maniera condivisibile in giurisprudenza[20], la produzione di interessi su interessi è elemento, certamente, necessario del divieto di anatocismo, ma da solo non sufficiente in quanto “…determinanti nella considerazione legislativa del divieto sono: dal lato del creditore, l’esigibilità immediata dell’interesse prima; dal lato del debitore, il pericolo di indefinita crescita del debito d’interessi, incalcolabile ex ante, prima che l’inadempimento si sia verificato…”.
Senonché “…nel mutuo con ammortamento francese, o a rata costante, mancano entrambe le caratteristiche determinanti del divieto di anatocismo – rischio di crescita indefinita e incalcolabile ex ante del debito d’interessi dal lato del debitore; esigibilità immediata del pagamento degli interessi primari dal lato del creditore – anche a considerare la circostanza che il calcolo della rata utilizza l’interesse composto.
Il primo rischio non sussiste, se si considerano gli interessi corrispettivi (o “di ammortamento”). Anche se la quota interessi, calcolata sulla quota capitale in scadenza, rende evidente la produzione di interessi su interessi per annualità successive alla prima, è decisiva la considerazione che gli interessi corrispettivi sono conosciuti o conoscibili ex ante sulla base degli elementi contenuti nel contratto e non sono esposti a una crescita indefinita, poiché la loro produzione cessa alla scadenza del periodo di ammortamento…”.
4.2. L’ammortamento cd. alla francese: maturazione ed l’esigibilità degli interessi.
Proseguendo nell’esame delle posizioni assunte dalla giurisprudenza, si è, di poi, ritenuto che tale strumento risulta rispettoso del principio di cui all’art. 1194 c.c. dal momento che prevede un criterio di restituzione del debito che privilegia, sotto il profilo cronologico, l’imputazione dei pagamenti agli interessi piuttosto che al capitale; ancora, si assume che lo stesso risponde anche all’interesse del mutuatario di avere contezza sin dal momento della stipulazione del contratto, dell’entità dell’impegno periodico assunto con la Banca[21].
In verità, anche a voler prescindere dalla correttezza dell’assunto[22], il rapporto fra maturazione ed esigibilità degli interessi impone alcune precisazioni alla luce delle posizioni emerse soprattutto in dottrina.
Se, come visto, la giurisprudenza di merito è concorde nel ritenere che il piano di ammortamento alla francese risulti rispettoso del meccanismo di imputazione descritto dall’art. 1194 c.c., è stato affermato che, pur condividendosi l’idea di fondo che il piano di ammortamento alla francese abbia struttura d’imputazione di pagamento, le regole di imputazione dei pagamenti dovrebbero essere lette in funzione della regola di maturazione del debito da interessi di cui all’art. 821, co. 3, c.c.
Ne seguirebbe, in tale prospettiva, per un verso, che gli interessi maturano giorno per giorno e divengono esigibili nel momento in cui, però, anche il capitale è divenuto esigibile e, per l’altro verso, che la modalità di imputazione degli interessi propria di tale piano di ammortamento è tale da determinare, nei fatti, “una rinuncia a un diritto che è proprio del debitore”, imponendo, dunque, una valutazione di meritevolezza del piano[23].
Nella medesima direzione si è, di poi, sostenuto che, se i frutti civili si ricavano dalla cosa “come corrispettivo del godimento che altri ne abbia” (art. 820 c.c.), il piano di ammortamento alla francese presterebbe il fianco a criticità laddove lo stesso non vada a remunerare alcun godimento di capitale, rendendo la relativa convenzione invalida in quanto priva di causa, nel momento in cui finisce con il remunerare interessi non ancora maturati[24].
Entrambi tali assunti, tuttavia, non sembrano condivisibili.
Ed infatti, se, per un verso, è certamente vero che maturazione ed esigibilità degli interessi attengono a profili differenti, paiono condivisibili le osservazioni di chi evidenzia, quanto alla maturazione degli interessi, che essa consegue al semplice fatto che il mutuante si è privato della somma che è andata, dunque, nella disponibilità del mutuatario, rinvenendo, da quello stesso istante, il debito di interessi la propria causa in ragione del mancato godimento del capitale messo a disposizione del mutuatario[25].
Quanto, invece, alla loro esigibilità, già si è detto sopra che il metodo alla francese comporta che gli interessi vengano comunque calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata e non anche sugli interessi pregressi.
Detto altrimenti, nel sistema progressivo secondo la periodicità stabilita, ciascuna rata comporta la liquidazione ed il pagamento di tutti gli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce, senza che sia dato apprezzare il pagamento di interessi che corrisponda ad una quota di capitale non goduto: il pagamento degli interessi avviene in funzione del tempo decorso e sul capitale residuo.
Con altre parole, “…il problema non è di interessi pagati in anticipo rispetto alla loro generazione (qui, non ve ne sono); ma di interessi che, in quanto commisurati a tutto il debito residuo, sono pagati – per la parte generatasi – in anticipo rispetto al rimborso del capitale cui si riferiscono…”.[26]
Ma, non essendo revocabile in dubbio la possibilità di disciplina convenzionale in punto di esigibilità degli interessi[27], muovendosi in tale prospettiva, non persuade l’idea di una rinuncia ad un diritto proprio del debitore ed al conseguente giudizio di meritevolezza che se ne fa discendere, anche in ragione del fatto che la previsione di cui all’art. 1193, da un lato, individua una facoltà per il debitore che potrebbe non essere esercitata, lasciando in tal caso spazio ai criteri legali di imputazione e, dall’altro, segna comunque una disciplina dispositiva derogabile dal differente accordo tra le parti.
Segue: 4.2.1. Ancora sulla maturazione ed l’esigibilità degli interessi: Cass. Civ. sez. I, 11 novembre 2021, n. 33474.
La questione concernente la divaricazione tra maturazione e debenza degli interessi era stata, in verità, posta da Cass. Civ. sez. VI, 24 maggio 2021, n. 14166, di cui è bene ripercorrere molto sinteticamente i fatti che ne stanno alla base.
In particolare, la vicenda originava da una domanda di ammissione al passivo in via di privilegio ipotecario di crediti derivanti da due distinti contratti di mutuo strutturati con ammortamento alla francese.
Con una prima pronuncia il giudice delegato aveva ammesso al passivo il credito in linea capitale, escludendo la quota di interessi.
Cassata, quindi, la decisione che aveva dichiarato inammissibile l’opposizione al passivo in quanto tardiva, il giudice del merito, nuovamente investito della questione, aveva disposto l’ammissione al passivo in grado ipotecario anche delle quote di interessi corrispettivi delle rate scadute calcolate al tasso convenzionale, riconoscendo, ai sensi del secondo comma dell’art. 2855 c.c., alla quota di interessi il medesimo rango ipotecario in forza dell’estensione del relativo privilegio agli interessi compensativi.
Su ricorso della Curatela, il procedimento perviene, quindi, nuovamente alla S.C. che ha ritenuto che l’assenza di precedenti sul tema ed il rilievo della questione in ragione della “diffusa operatività del mutuo ipotecario” consigliassero la decisione in pubblica udienza.
L’ordinanza interlocutoria aveva essenzialmente posto il dubbio che il rientro rateale del finanziamento potesse dar luogo al pagamento di interessi non ancora maturati in quanto corrispondenti a quote di capitale non ancora godute[28].
Orbene, la S.C., con la pronuncia Cass. Civ. sez. I, 11 novembre 2021, n. 33474, ha però dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla Curatela, ritenendo che lo stesso non abbia colto la effettiva ratio decidendi sottesa al provvedimento impugnato.
Più nel dettaglio, la Corte di Cassazione, nel richiamare l’incedere argomentativo del giudice del merito, ha osservato che lo stesso poggiava su una duplicità presupposti e cioè, da un lato, che lo scioglimento del rapporto operasse per il futuro, impedendo all’istituto di credito di richiedere la quota di interessi, già conteggiata nell’ammortamento ma in relazione alla rate a scadere; e dall’altro, che la particolare composizione della rata – comprensiva, come più volte detto, di una quota di interessi ed una di capitale in rapporto variabile tra di loro – non impedisse l’effetto estensivo dell’art. 2855, co. 2, c.c. nella parte in cui interessi dovuti erano quelli risultanti dal piano di ammortamento in relazione alla rate scadute nel limite del biennio.
Ritiene, cioè, la S.C. – e il rilievo dell’assunto sarà ripreso nella parte conclusiva delle presenti note – che attraverso il rinvio al piano di ammortamento, le parti avessero disciplinato la modalità di rientro dell’erogato “con coeva determinazione dell’entità dei frutti percentualizzati per ogni singola scansione del pagamento”, così dando luogo ad una clausola negoziale vincolante tra le parti, eventualmente da invalidare secondo le ordinarie azioni con riferimento alla singola clausola ovvero all’intero contratto.
V’è, in verità, un passaggio di detta pronuncia che potrebbe risultare “distonico” con quanto poco prima sostenuto.
Si legge, infatti, che la parte ricorrente non solo non avrebbe chiarito in base a quale parametro era stata determinata la composizione delle singole rate, ma, inoltre, sarebbe stato anche da verificare se gli interessi inglobati nelle rate fossero stati maggiori di quelli maturati in relazione al capitale in restituzione, soggiungendo, poi, che “…questo, infatti, potrebbe essere magari vero per le prime rate…che le stesse fossero quasi tutte composte di interessi, ma non necessariamente per quelle intermedie o per le ultime …in cui la quota capitale sarebbe maggiore”.
Se tale ultimo inciso sembra effettivamente ammettere la possibilità di una non perfetta corrispondenza tra maturazione degli interessi e pagamento degli stessi ma anche, e verrebbe da dire a fortiori, l’inversione del medesimo rapporto quantitativo nel periodo finale dell’ammortamento, pare che l’epilogo della vicenda giudiziaria in esame conforti quanto prima detto in punto di maturazione (dalla data della dazione) ed esigibilità (concordata) degli interessi, identificando come dovuti gli interessi indicati nei piani di ammortamento perché, per dirla con le parole della Corte, “così pattuito tra le parti”, purché vi sia equivalenza tra i valori[29].
Ora, se tale affermazione è certamente condivisibile laddove dalla stessa si faccia discendere l’esistenza di una convenzione sulla modalità di imputazione degli interessi nello sviluppo diacronico dell’ammortamento, v’è da chiedersi quanto la stessa valga a rappresentare, più in generale, una convenzione sulle modalità e sulle condizioni di rimborso che possa dirsi trasparente.
5. Ammortamento alla francese: fra determinatezza, trasparenza e (non?) meritevolezza. Una recente posizione dell’ABF.
Le considerazioni che precedono, anche in punto di rilevanza del piano di ammortamento, consentono di tornare alle questioni poste dall’ordinanza del Tribunale salernitano.
Già lo si è detto e lo si ripete: il Tribunale di Salerno non si occupa della validità del piano di ammortamento alla francese ed, anzi, in un inciso del provvedimento sembra espressamente escludere qualsivoglia violazione del divieto di anatocismo.
Come si diceva, superata la dicotomia fra validità/invalidità del piano di ammortamento alla francese in base all’occulto effetto anatocistico che il piano celerebbe, sotto accusa finisce la compatibilità di tale piano di ammortamento con l’esatta determinatezza dell’oggetto contrattuale e con le norme in tema di trasparenza bancaria in ragione della mancata espressa menzione della modalità di ammortamento prescelto (“alla francese”) e – verrebbe da dire, soprattutto – della (mancata indicazione della) capitalizzazione composta accolta nel medesimo piano in luogo di quella semplice ritenuta, nel provvedimento in rassegna, la modalità fisiologica[30] di computo degli interessi, “con evidente maggiore onerosità” di tale modalità di rimborso.
Non può non osservarsi che la prospettiva, in verità, non è del tutto nuova.
Questi stessi contenuti, nel recente passato, sono stati infatti portati all’attenzione del Collegio dell’ABF e il Collegio di Coordinamento n. 14376 dell’8 novembre 2022[31], a fronte di censure sollevate dal mutuatario in quella sede sostanzialmente analoghe a quelle oggetto di scrutinio nell’ordinanza in rassegna, aveva ritenuto di poter escludere qualsivoglia profilo di illegittimità del piano di ammortamento, affermando che in caso di finanziamento con ammortamento alla francese la mancata consegna del piano di ammortamento al momento della conclusione del contratto non comporta violazione da parte dell’intermediario né rende indeterminato l’oggetto del contratto qualora nel contratto medesimo siano riportati tutti gli elementi e le informative previsti dalla normativa in materia.
La questione, forse troppo celermente risolta dall’Arbitro[32], merita una maggiore riflessione.
6. Ammortamento alla francese: una questione di determinatezza?
Giova muovere da una considerazione fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità: nei c.d. mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità di adempimento di due obbligazioni poste a carico del mutuatario – aventi ad oggetto l’una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l’altra la corresponsione degli interessi per il suo godimento – che sono ontologicamente distinte e rispondono a finalità diverse.
Il fatto che nella rata esse concorrano, allo scopo di consentire all’obbligato di adempiervi in via differita nel tempo, non è dunque sufficiente a mutarne la natura né ad eliminarne l’autonomia[33].
Ciò posto, come ritenuto in maniera condivisibile in giurisprudenza[34], per affermare la determinatezza o determinabilità dell’oggetto dell’obbligazione accessoria relativa agli interessi, è indispensabile che gli elementi estrinseci o i parametri della determinazione degli interessi ad un tasso diverso da quello legale siano specifici; mentre la determinabilità è definibile come la possibilità di identificare chiaramente l’oggetto sulla base dagli elementi prestabiliti dalle parti.
Si ha indeterminatezza quando le clausole, pur apparendo di per sé analitiche, da un punto di vista matematico finanziario, sono formulate in modo tale da non dar luogo ad un’univoca applicazione, richiedendo la necessità di una scelta applicativa tra più alternative possibili, ciascuna delle quali comportante l’applicazione di tassi di interessi diversi e, pertanto, non determinate o determinabili nel loro oggetto.
Orbene, provando, ora, a ripercorrere gli stessi passaggi motivazionali dell’ordinanza in rassegna, muovendo dalla diversità e dall’autonomia delle obbligazioni, par lecito ritenere che, nella vicenda da cui muove il Tribunale di Salerno, non sia, neanche astrattamente, ravvisabile una carenza di determinatezza o determinabilità dell’oggetto contrattuale: il contratto di mutuo portato all’attenzione del Tribunale recava l’indicazione delle rate da restituire, del relativo ammontare del tasso annuo nominale e del tasso annuo effettivo, quest’ultimo di entità maggiore del T.A.N. e, pertanto, esso stesso espressivo della capitalizzazione infrannuale degli interessi[35].
In sostanza ben può ritenersi che nel momento in cui il contratto rechi l’indicazione del capitale, l’indicazione del tasso di interesse nominale, l’indicazione del numero delle rate, non può esservi dubbio alcuno circa la determinatezza del tasso di interesse espresso, in realtà, in modo univoco.
Sicché, la tesi della carenza dell’oggetto appare francamente poco plausibile tutte le volte in cui risulti perfettamente determinata l’obbligazione degli interessi ed il costo complessivo del credito.
E ciò tanto più se, come nella specie scrutinata dal Tribunale di Salerno, il contratto sia corredato dal piano di ammortamento con indicazione delle rate, queste ultime, addirittura, espresse non solo nel loro ammontare ma anche nella relativa composizione circa la quota per capitale e per interessi.
Peraltro, quanto alla determinatezza o determinabilità del regolamento contrattuale, sembra corretto ritenere che a non dissimili conclusioni si dovrebbe pervenire anche per la differente ipotesi in cui il piano di ammortamento non risulti allegato[36], tutte le volte in cui, però, risultino espressi i dati economici del contratto, da cui poter desumere, per l’appunto, la stessa maggiore onerosità del finanziamento in ragione del meccanismo di capitalizzazione composta espressa dal valore maggiore del TAE rispetto al TAN.
7. Ammortamento alla francese: …una questione di trasparenza. Il controverso utilizzo dell’interesse composto.
Maggiormente spinosa può risultare la questione, su cui la S.C. è stata investita dall’ordinanza in commento, relativa alla mancata indicazione del regime di capitalizzazione (semplice o composta) adottato nel contratto, tale da determinare una maggiore onerosità del finanziamento costruito secondo la capitalizzazione composta rispetto ad uno analogo piano costruito, invece, secondo la metrica dell’interesse semplice.
L’ordinanza in commento nuove da un presupposto che sembra, invero, dare per assodato.
Si legge, invero, che il piano di ammortamento alla francese ponga il problema della modalità di rimborso degli interessi quali frutti civili (arg. art. 820 c.c.) e che la modalità di capitalizzazione semplice degli interessi ne costituisce la modalità ordinaria di loro computo, ai sensi dell’art. 821, co. 3, c.c., difformemente da quella invece adottata; anche nel provvedimento in rassegna, anzi, si afferma che in tali casi, l’interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce, a sua volta interessi, e viene calcolato con una formula dove il tempo è esponente e non fattore.
Evidente, dunque, risulta l’eco di numerosi pronunciamenti di merito – le cui citazioni potrebbero moltiplicarsi – ove si legge che “poiché il tempo è esponente e non fattore, nella determinazione della rata costante è implicito l’uso della legge di capitalizzazione composta per il calcolo della rata”.
Peraltro, sembra che ciò di cui il provvedimento in rassegna dubita non sia, neanche in tal caso, la legittimità del piano di ammortamento quand’anche costruito secondo la metrica dell’interesse composto rispetto a quella dell’interesse semplice.
Il dubbio espresso dal Tribunale di Salerno, invece, attiene al fatto che tale modalità venga adottata senza essere stata sorretta da una scelta consapevole da parte del prenditore.
Ora, proprio l’effettivo impiego dell’interesse composto nella costruzione dell’ammortamento è aspetto dove le posizioni giuridiche e quelle matematico/finanziarie segnano la maggiore distanza.
In particolare, come per il Tribunale di Salerno, nella giurisprudenza di merito è largamente diffusa l’affermazione per cui il metodo di ammortamento alla francese evidenzierebbe la composizione della rata secondo il meccanismo nell’interesse composto; ciò nonostante, come visto, sarebbe esclusa ogni coincidenza con il fenomeno anatocistico, rispetto a cui la costruzione della rata in interesse composto rimane eterogena, affermandosi che la capitalizzazione composta “è solo un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all’altra in esecuzione del contratto concluso tra loro; è, in altre parole, una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di espressione del tasso di interesse applicabile a un capitale dato”[37].
In dottrina, invece, accanto a chi ritiene che l’ammortamento alla francese evidenzi l’impiego dell’interesse composto[38], v’è la posizione di chi, invece, esclude categoricamente la sussistenza di tale fenomeno affermando che l’ammortamento alla francese “standard” non si svolge secondo le regole dell’interesse composto ma dell’interesse semplice, ritenendo che l’intera questione rimessa alla Suprema Corte si fondi, dunque, tutta su un equivoco[39].
Sta di fatto, peraltro, che nella prassi giudiziaria è tutt’altro che infrequente imbattersi in accertamenti tecnici da cui sembra emergere che l’ammortamento alla francese venga costruito mediante il ricorso all’interesse composto.
Sicché, anche a voler spostare il discorso sul differente terreno della concreta struttura del singolo mutuo di cui si discute – il che a sua volta impone di verificare che cosa sia stato eventualmente allegato e provato – un piano di ammortamento con frequenza delle rate infrannuale è determinato applicando a ciascun capitale residuo, precedente la rata di riferimento, un tasso di interesse nominale periodale; quest’ultimo, poi, potrà essere applicato in regime di capitalizzazione semplice[40] o – per lo meno astrattamente – in regime di capitalizzazione composta, ancorché quest’ultima sembri, poi, di fatto essere la forma largamente in uso nella prassi bancaria[41].
Ed allora, nell’ottica della trasparenza della pattuizione, dunque, effettivamente i dubbi sollevati dal Tribunale di Salerno potrebbero essere, entro certi limiti, condivisibili.
Vediamo, allora, in che senso il dubbio può essere condiviso.
A scanso di equivoci: deve ribadirsi, anche in questa sede, che il piano di ammortamento alla francese, nel suo fisiologico svolgimento, non corrisponde alla pratica dell’anatocismo vietato di cui all’art. 1283 c.c.
Caratteristica di questa tipologia di ammortamento è, come detto, che la quota interessi componente ciascuna rata di rimborso è calcolata unicamente sul debito in linea capitale residuo, e non anche su eventuali interessi maturati in un periodo precedente in quanto essi vengono periodicamente pagati alla scadenza di ogni singola rata, di talché l’obbligazione assunta con la sottoscrizione di un mutuo regolato nelle forme del piano di ammortamento alla francese nulla ha a che vedere con il divieto di anatocismo né appare sanzionabile con un negativo giudizio di meritevolezza o per il tramite dell’applicazione della previsione di cui all’art. 1344 c.c., potendosi escludere una intrinseca contrarietà all’ordinamento del piano di ammortamento alla francese.
La maggiore onerosità, messa in risalto come fattore problematico anche dall’ordinanza in commento, effettivamente sussiste e la stessa è derivante dal fatto che, partendo dalla costruzione della rata come costante, ma con una diversa composizione nel tempo della componente interessi e della componente capitale, viene maggiormente diluito nel tempo il godimento del secondo in conseguenza di una inizialmente maggiore restituzione dei primi.
In tal senso, va da sé che se l’ammortamento alla francese, oltre a non ricorrere all’uso della capitalizzazione composta, è costruito secondo il solo ed unico sviluppo possibile, l’intera questione posta dal Tribunale di Salerno, verrebbe immediatamente a cadere nella sua interezza.
Di contro, se è concepibile il concreto sviluppo del piano di ammortamento secondo la formula dell’interesse composto, può risultare in effetti corretto ritenere che il regime finanziario adottato (e la conseguente modalità di costruzione di una rata), laddove si dimostri che lo stesso si è tradotto in un maggior onere per il mutuatario, individui una di quelle “altre condizioni” che, a mente del quarto comma dell’art. 117, D. lgs. 1 settembre 1993, n. 385, devono essere indicate nel contratto, la cui inosservanza può dar luogo, se del caso, alle conseguenze di cui ai successivi sesto e settimo comma della medesima disposizione.
Ciò, invero, non già perché si ritenga che su tale modalità di calcolo della rata si debba raccogliere l’assenso del cliente[42], non potendosi negare la libertà degli operatori di fissare il prezzo dei propri prodotti, e non potendosi imporre un prodotto costruito secondo un determinato ammortamento o, ancora, la rappresentazione di un regime finanziario non oggetto di proposta né di trattativa, o avviare su di esso un confronto[43].
Le indicazioni sulla modalità di costruzione della rata possono, però, legarsi alla necessità che il cliente sia messo in grado di sapere quanto ed in che termini quella data condizione incide sul contratto che si andrà a stipulare.
È in questo senso, e in questo soltanto, dunque, che l’ammortamento alla francese, più che presentare problematiche connesse alla legittimità del criterio di calcolo, può destare preoccupazioni, con riferimento al rischio, cioè, che esso possa risultare non intellegibile per il cliente in relazione al prodotto che sta per sottoscrivere.
In tale direzione, del resto, la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato, di recente, che al fine di rispettare l’obbligo di trasparenza di una clausola contrattuale che fissa un tasso d’interesse nell’ambito di un contratto di mutuo ipotecario (nella fattispecie considerata, variabile), tale clausola deve non solo essere intelligibile sul piano formale e grammaticale, ma consentire altresì che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, sia posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie[44].
Le perplessità, allora, sembrano doversi rivolgere, più che altro, alla modalità di formazione della rata (recte: alla mancata indicazione delle modalità di formazione della rata), nella misura in cui la struttura dell’ammortamento incide concretamente su “prezzo” e “condizioni” praticati, esponendo il prenditore alla restituzione di una quota di interessi maggiore.
Detto altrimenti, la questione diviene, allora, non già se il tasso di interesse sia determinato, ma, da un lato, se le condizioni del contratto siano state, o meno, rappresentate correttamente nella, differente, prospettiva delle norme in tema di trasparenza bancaria (oltre che, a questo punto, nella prospettiva del rispetto dell’onere di forma scritta) nonché, dall’altro, quali siano le modalità di assolvimento di tale onere.
8. segue: Ammortamento alla francese: …una questione di trasparenza. La rilevanza del piano di ammortamento.
Ed allora, se di trasparenza si discorre, anzitutto, par lecito ritenere, con riferimento al primo dei profili indicati dal Tribunale di Salerno, che lo stesso non possa certo esaurirsi né essere risolto con la presenza dell’espressione “alla francese” o con la semplice affermazione per cui il piano è costruito con una data modalità di capitalizzazione: non pare, detto altrimenti, che sia l’indicazione della “nomenclatura” dell’ammortamento o della capitalizzazione concretamente utilizzati, laddove la stessa si esaurisca in un mero dato letterale (“alla francese” ovvero capitalizzazione “composta”) privo di altre informazioni, che possa spostare gli equilibri della valutazione di legittimità o meno del piano di ammortamento né sul piano della trasparenza ma nemmeno sul quello della determinatezza del regolamento contrattuale[45].
Laddove, invece, il contratto descriva l’obbligazione degli interessi, il costo complessivo del credito, rechi l’indicazione del TAN e del TAE – quest’ultimo, in verità facoltativo[46], il cui valore però, è, come detto, in grado di esprimere la maggiore onerosità del finanziamento in ragione del meccanismo di pagamento infrannuale degli interessi – nonché, soprattutto, il piano di ammortamento allegato con indicazione delle rate (magari non solo nel loro ammontare ma anche nella relativa composizione circa la quota per capitale e per interessi), non sembra potersi dubitare della corretta e trasparente pattuizione delle condizioni contrattuali.
Sicché, contrariamente a quanto pare “suggerire” alla S.C. il Tribunale remittente, espressi nel regolamento contrattuale i tassi di interesse e le condizioni nei termini appena indicati, sintetizzati nel piano di ammortamento, nell’invarianza della rata (che costituisce in un certo senso l’elemento caratteristico del piano di ammortamento), non sembra esservi spazio per alcun profilo di indeterminatezza o di carente trasparenza, anche con riferimento al regime finanziario adottato[47].
Soccorre, allora, nuovamente la pronuncia, già sopra richiamata, secondo cui mediante il rinvio al piano di ammortamento, le parti disciplinano la modalità di rientro dell’erogato “con coeva determinazione dell’entità dei frutti percentualizzati per ogni singola scansione del pagamento”.
Del resto, in materia di leasing, la Corte di Cassazione[48] ha ricordato che è soddisfatto il requisito di determinabilità del tasso di interesse anche laddove sia necessario fare ricorso a calcoli di tipo matematico, a prescindere dalla difficoltà.
Si è ricordato, infatti, che in tema di contratto di mutuo, affinché una clausola di determinazione degli interessi corrispettivi sulle rate di ammortamento scadute sia validamente stipulata, ai sensi dell’art. 1346 c.c., è sufficiente che la stessa - nel regime anteriore all’entrata in vigore della L. 17 febbraio 1992, n. 154 - contenga un richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse. A tal fine occorre che quest’ultimo sia desumibile dal contratto con l’ordinaria diligenza, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all’istituto mutuante, non rilevando la difficoltà del calcolo necessario per pervenire al risultato finale, né la perizia richiesta per la sua esecuzione, ammettendosi, in definitiva, una sorta di rinvio per relationem anche laddove lo stesso avvenga alle altre condizioni del contratto.
Ed infatti, se la trasparenza ha (anche) la finalità di consentire al cliente di comprendere il peso economico di una determinata operazione, un contratto che descriva il costo totale del credito, l’importo complessivo degli interessi, l’ammontare della rata e la sua durata nel tempo sembra potersi ritenere idoneo soddisfare il contenuto imposto dall’art. 117 TUB, quarto comma, e contenere tutti gli elementi che consentono al cliente di comprendere le condizioni di quel contratto e non di un altro, perché, a quel punto, contrapporre a quel contratto un altro il cui ammortamento è costruito nelle forme dell’ammortamento, ad esempio, all’italiana o secondo il regime di capitalizzazione semplice, significa confrontare, in realtà, prodotti diversi da quelli correttamente convenuto e, dunque, parlare di un altro contratto.
Come si accennava, nell’ambito delle opzioni ricostruttive fatte proprie dal Tribunale remittente, la possibilità di desumere il regime finanziario applicato dalle condizioni convenute non pare essere ritenuta sufficiente.
Tuttavia, seguendo fino in fondo il ragionamento del Tribunale di Salerno, secondo cui “il cliente è normalmente privo del necessario bagaglio di conoscenze tecniche indispensabili per comprendere la reale portata economica delle singole clausole…” ed è “…di norma dotato di competenze tecniche in materia di matematica finanziaria elementari, se non inesistenti”, appare ancor più improbabile che il medesimo cliente, soprattutto se non professionale – ma probabilmente poco muterebbe quand’anche avesse tale qualifica – sia in possesso di quel bagaglio di conoscenze ulteriori per comprendere le regole e le formule della matematica finanziaria che dovrebbero presiedere alla formulazione della rata ed all’esplicitazione dell’interesse composto.
Ed anzi, se, ad esempio, il contratto di mutuo, piuttosto che contenere il piano di ammortamento con indicazione del TAE, contenesse l’indicazione sul metodo di matematica finanziaria utilizzato per la predisposizione del piano ovvero ne riportasse la formula, ci si dovrebbe seriamente interrogare su quanto sia effettivamente esauriente ed esaustiva tale informazione sul reale importo delle rate da pagare e sull’ammontare complessivo della somma da restituire, rispetto alla allegazione del piano di ammortamento che consente concretamente di avere piena contezza delle condizioni e del loro sviluppo nella futura esecuzione del contratto sottoscritto per come rappresentate nella tabella di ammortamento.
A diverse conclusioni, per contro, potrebbe doversi giungere tutte le volte in cui tali elementi in realtà non siano adeguatamente espressi.
Così, ad esempio, è il caso in cui il contratto, pur esprimendo il costo complessivo della rata (costante) che il prenditore andrà a pagare, il numero delle rate (quando), quantificando magari l’entità complessiva degli interessi (quantum), non espliciti in alcun modo la modalità di costruzione (quomodo) di tali importi o il tasso effettivo, così incidendo sulla formazione di una volontà consapevole quanto alle condizioni con cui troveranno applicazione i parametri individuati nel contratto sottoscritto e come questo avrà, dunque, concreta esecuzione.
Ciò in quanto, a meno di non voler ritenere ricompreso all’interno del TEG[49] quel maggior onere a titolo di interessi riconducibile per l’appunto al piano di ammortamento adottato, risulta inespresso – né è diversamente ricavabile – quell’elemento che esprime le modalità matematiche e finanziarie di costruzione della rata e, prima ancora, e l’applicazione dei parametri che conducono a quel determinato risultato, secondo quanto disposto l’art. 6 della delibera C.I.C.R. del 9 febbraio del 2000.
Sicché, se può ritenersi che permanga, tuttora, valida l’affermazione della giurisprudenza, per cui la produzione del piano di ammortamento non costituisce elemento indefettibile della prova del residuo credito da mutuo, specie ove i requisiti costitutivi delle reciproche obbligazioni, e in particolare quella restitutoria, risultino dalla chiara previsione contrattuale, dalla natura delle rate e dalla prevedibilità del loro importo per quota di interessi separata rispetto al capitale, tale assunto merita forse una riconsiderazione in relazione al differente tema della chiara e trasparente la modalità di formazione delle rate e di determinazione degli importi dovuti a titolo di interessi.
9. Ammortamento alla francese: rimedi esperibili per una questione di trasparenza.
Ove allegata e provata la costruzione del piano di ammortamento nelle forme dell’interesse composto, una siffatta carenza delle condizioni contrattuali, più che rendere indeterminato l’oggetto contrattuale e, per certi versi, prima ancora di porre un problema di trasparenza, potrebbe far ritenere non soddisfatto, in radice, il requisito della forma scritta imposto dal quarto comma dell’art. 117 TUB.[50]
In sostanza, in tali casi, non sembra porsi semplicemente un problema di determinatezza dell’interesse pattuito, perché lo stesso è indicato e perché, anche nella metrica dell’interesse composto è quel tasso ad essere utilizzato; ciò che però può ritenersi non correttamente indicata in relazione alla quota di interessi dovuta, è la modalità di determinazione di ciascuna rata in relazione al regime di capitalizzazione utilizzato, precludendo al mutuatario di conoscere il meccanismo applicativo degli interessi.
Quanto sopra è tanto più evidente se effettivamente si assume che il piano di ammortamento alla francese può ammettere[51], per lo meno astrattamente, una costruzione anche nelle forme dell’interesse semplice oltre che dell’interesse composto[52], con una differenza di costo che ridonda a carico del mutuatario.
Sarebbe difficile negare, in tale prospettiva, che l’operatività di un regime finanziario idoneo a comportare un innalzamento del montante degli interessi costituisca un “prezzo” o una “condizione”, la cui mancata indicazione può assumere rilievo ai fini dell’art. 117 TUB.
Anche in questo caso, vediamo in che termini.
In primo luogo, poco percorribile parre la soluzione, talvolta pure invocata, della sostituzione dell’ammortamento alla francese con l’ammortamento cd. all’italiana.
È, invero, assolutamente diffusa l’affermazione che l’ammortamento alla francese, ove raffrontato con il piano di ammortamento all’italiana (restituzione mediante rimborso graduale secondo importi di capitale costante), determini un maggior onere per il mutuatario in termini di interessi, sicché l’eventuale ricostruzione dell’ammortamento “viziato” dovrebbe avvenire con l’uso di tale diverso ammortamento.
Tuttavia, trattasi di soluzione non condivisibile perché non condivisibili ne sono i presupposti.
Appare, anzitutto, corretta la precisazione di chi nota[53] che tale maggiore onerosità non debba essere affermata confrontando l’ammortamento alla francese e l’ammortamento all’italiana atteso che “…a parità di condizioni, tutti i prestiti standard presentano lo stesso TAE: e dunque sono ugualmente onerosità per il finanziato, ugualmente profittevoli per il finanziatore”.
Va da sé che, laddove non vi sia parità di condizioni, la comparazione tra i due ammortamenti espressa in termini maggiore o minore onerosità mette a confronto, molto semplicemente, grandezze differenti e tra loro non omogenee in quanto fra ammortamento all’italiana e ammortamento alla francese difetta, per l’appunto, il presupposto della parità delle condizioni: il minor onere dell’ammortamento all’italiana discende dalla costruzione del rimborso che quote costanti di capitale di talché alla maggiore restituzione del capitale non può che conseguire un minor importo di interessi.
Ne consegue che, posto che tale raffronto attiene a contratti costruiti con ammortamenti diversi e, dunque, a contratti diversi, è del tutto evidente che risulti illogica la “riscrittura” dell’ammortamento nelle forme del cd. ammortamento all’italiana.
Ciò posto, la soluzione che suggerisce il Tribunale di Salerno è, in realtà, del tutto in linea con gli approdi della giurisprudenza di legittimità le cui affermazioni, ancorché rese in materia di leasing, risultano, però, applicabili anche a tale soluzione.
Per il vero, l’art. 117, co. 6, lett. b, prevede che in caso di inosservanza del comma 4 e nelle ipotesi di nullità indicate nel comma 6, si applicano gli altri prezzi e condizioni pubblicizzati per le corrispondenti categorie di operazioni e servizi al momento della conclusione del contratto o, se più favorevoli per il cliente, al momento in cui l’operazione è effettuata o il servizio viene reso mentre in mancanza di pubblicità nulla è dovuto.
Detto altrimenti, partendo dall’assunto che rileva per l’incidenza sui prezzi e le condizioni applicate, tale disposizione potrebbe suggerire che l’eterointegrazione del contratto non debba avvenire mediante la sostituzione dell’interesse regolarmente e legittimamente convenuto con quello sostitutivo.
Del resto, una l’applicazione dell’interesse sostitutivo in sé considerata appare, in realtà, soluzione eccentrica rispetto al problema in esame, da un lato, perché, come detto, anche con l’interesse composto, è l’interesse pattuito che trova applicazione; dall’altro lato, perché anche in ipotesi di sostituzione dell’interesse ultralegale convenuto con quello sostitutivo di cui all’art. 117 TUB, si porrebbe il problema della modalità con cui procedere alla costruzione dell’ammortamento che dovrebbe avvenire nelle forme dell’interesse semplice, salvo verificare quale sia la diversa condizione pubblicizzata
Laddove, cioè, risultasse che l’ammortamento sia stato costruito nelle forme dell’interesse composto, la nullità parziale potrebbe reagire alla mancata indicazione di una condizione dell’ammortamento dando corso all’inserimento della condizione pubblicizzata per la corrispondete categoria di operazione dunque, in ipotesi, anche la modalità di ammortamento alla francese se questa si rinvenisse pubblicizzata, mentre, in assenza di pubblicità, nulla risulterebbe dovuto, di talché si renderebbe necessario procedere alla costruzione della rata con l’interesse semplice.
Ad ogni buon conto, la Corte di Cassazione in tema di leasing ha precisato che la irrogazione della sanzione sostitutiva non è riservata alle ipotesi nelle quali nel contratto manchi la relativa pattuizione ma che alla stessa “…deve essere equiparata quella in cui il tasso sia indicato nel contratto, ma esso porti ad un ammontare del costo dell'operazione variabile in funzione dei patti che regolano le modalità di pagamento, sì da ritenere che il prezzo dell’operazione risulti sostanzialmente inespresso e indeterminato, oltre che non corrispondente a quello su cui si è formata la volontà dell'utilizzatore…”
Pur non versandosi in una “intrinseca” ipotesi di nullità del tasso o di mancata indicazione dello stesso, ad essere sanzionata è, dunque, l’opacità dell’operazione complessiva in cui la volontà del mutuatario si è formata su un tasso di interesse ma non sulle modalità in cui lo stesso sarebbe stato declinato e che hanno portato – ove si riscontri che così effettivamente è stato – ad un aumento del montante interessi da corrispondere in ragione delle modalità concretamente seguite nella costruzione della rata.
10. Conclusioni.
Come si è visto, le questioni oggetto del rinvio pregiudiziale sono, in realtà, molteplici e possono essere lette e declinate nelle più disparate prospettive, a cominciare da quale sia il rimedio concretamente percorribile.
Intanto, in attesa che della pronuncia delle sezioni unite della Corte, la questione della legittimità dell’ammortamento è stata già oggetto di una pronuncia della Cassazione, ancorché nello specifico settore tributario.
Si tratta di Cass. civ., sez. trib., 2 ottobre 2023, n. 27823, la quale ha escluso la fondatezza della censura in ordine al difetto di trasparenza delle condizioni di rateizzazione applicate e costruite nelle forme dell’ammortamento alla francese, rilevando che il metodo di ammortamento a rata fissa è predeterminato e manifestato attraverso un atto dell’Ente di portata generale, la Direttiva Nazionale di Equitalia DSR/NC/2008/012 del 27 marzo 2008, e trova un chiaro aggancio normativo nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 19 laddove, al comma 1-ter dispone che “il debitore può chiedere che il piano di rateazione di cui ai commi 1 e 1-bis preveda, in luogo di rate costanti, rate variabili di importo crescente per ciascun anno”, ritenendo tale disposizione estensibile, per identità di ratio, a tutte le forme di rateizzazione fiscale.
Non è dato sapere quanto tale pronuncia sarà indicativa degli approdi cui perverranno le sezioni unite sia per la specialità del settore cui si riferisce sia perché, a ben vedere, la pronuncia da ultimo citata non sembra neanche confrontarsi con la questione devoluta poco tempo prima.
Non ci resta che attendere, dunque, l’intervento della S.C. a sezioni unite, auspicando, dunque, che l’intervento della Suprema Corte diventi, nei limiti e nei confini tracciati dal rinvio pregiudiziale[54], l’occasione per fare un po' di chiarezza sulla legittimità del piano di ammortamento alla francese.
[1] Si veda ROPPO, Parte generale del contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici (con postilla sul «terzo contratto», Riv. Dir. Priv., 2007, p. 669; ancora MINERVINI, Il terzo contratto, Contr., 2009, pp. 493 e ss.; per una ricostruzione complessiva, E. CAPOBIANCO, Profili generali della contrattazione bancaria, in I contratti bancari, a cura di E. CAPOBIANCO, Utet, 2016, p. 42.
[2] Si tratta di Sez. U - , Sentenza n. 898 del 16/01/2018, Rv. 646965 - 01), Foro It., 2018, 4, p. 1289, con nota di G. LA ROCCA, “Interessi contrapposti” e “conseguenze opportunistiche” nella sentenza delle Sezioni unite sulla sottoscrizione del contratto; in Le Società, 2018, 4, p. 481, con nota di R. NATOLI, Una decisione non formalistica sulla forma: per le Sezioni Unite il contratto quadro scritto, ma non sottoscritto da entrambe le parti, è valido; in I contratti: rivista di dottrina e giurisprudenza, 2018, 2, 133, con nota di G. D’AMICO, S. PAGLIANTINI, R. AMAGLIANI, Le sezioni unite sul cd. contratto mono-firma.
[3] Sez. U - , Sentenza n. 28314 del 04/11/2019, Rv. 655800 – 01 in Resp. Civ. prev., 2020, 3, p- 835, con nota di F. GRECO, La nullità “selettiva” e un necessitato ripensamento del protezionismo consumeristico, in esito alla pronuncia delle Sezioni Unite, in I contratti: rivista di dottrina e Giurisprudenza, 2020, 1, p. 11, con nota di S. PAGLIANTINI, Le stagioni della nullità selettiva (e del “di protezione”), in Foro It., 2020, 3, p. 948, Id., La nullità selettiva quale epifania di una deroga all’integralità delle restituzioni: l’investitore è come il contraente incapace?
[4] Il pensiero è a Sez. U - , Sentenza n. 24675 del 19/10/2017, Rv. 645811 – 01, Foro it., 2017, 11, I, p. 3274 con nota di CARRIERO, Usura sopravvenuta. C'era una volta?, nonché con nota di LA ROCCA, Usura sopravvenuta e "sana e prudente gestione" della banca: le sezioni unite impongono di rimeditare la legge sull'usura a venti anni dall'entrata in vigore, la quale ha affermato che nei contratti di mutuo, ma con principio estensibile ai rapporti di conto corrente, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto. Si veda, però, Cass. civ. sez. III, 28 settembre 2023, n. 27545, Diritto e Giustizia, 2023, 29 con nota G. SATTA, ove si legge in motivazione che «Dando seguito al dictum delle Sezioni Unite, occorre qui affermare che: "i saggi di interesse usurari - che non siano stati pattuiti originariamente, ma siano sopraggiunti in corso di causa - costituiscono in ogni caso importi indebiti. Il creditore che voglia interessi divenuti nel corso del rapporto in misura ultra legale pretenderebbe per ciò stesso l'esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata: il suo comportamento sarebbe contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto».
[5] Si tratta di Sez. U - , Sentenza n. 16303 del 20/06/2018, Rv. 649294 – 02, con nota di M. TICOZZI, Autonomia contrattuale e interesse convenzionali dopo Cass., Sez. un., n. 16303/2018., Giur. It., 2018, 10, p. 2086; A. STILO, Il c.d. principio di simmetria oltre le Sezioni Unite: nuovi scenari interpretativi e possibili "effetti collaterali, I contratti: rivista di dottrina e giurisprudenza, 2018, 5, p. 521, la quale ha, per un verso, ritenuto che l’art. 2 bis del d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009, in forza del quale, a partire dal 1 gennaio 2010, la commissione di massimo scoperto entra nel calcolo del tasso effettivo globale medio (TEGM) rilevato dai decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 1996, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta, non è norma di interpretazione autentica dell’art. 644, comma 4, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell’ordinamento, intervenuta a modificare, dunque per il futuro, la complessa normativa, anche regolamentare, tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari; per l’altro, ha ritenuto che la verifica del rispetto delle disposizioni in tema di usura ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell’usura presunta, come determinato in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, va effettuata procedendo alla separata comparazione del tasso effettivo globale degli interessi praticati in concreto e della commissione di massimo scoperto eventualmente applicata, rispettivamente con il tasso soglia - ricavato dal tasso effettivo globale medio indicato nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2, comma 1, della predetta l. n. 108 del 1996 - e con la CMS soglia - calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media pure registrata nei ridetti decreti ministeriali -, compensandosi, poi, l’importo dell’eccedenza della CMS applicata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con l’eventuale margine residuo degli interessi, risultante dalla differenza tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati.
[6] Si tratta di Sez. U - , Sentenza n. 19597 del 18/09/2020, Rv. 658833 - 02), Foro It., 2021, 2, p. 581, con nota di A. Palmieri “Usura e interessi moratori: questo matrimonio s’ha da fare; in Jus civile, 2021, 6, p. 1805, con nota di P. MAZZAMUTO, L’usurarietà degli interessi moratori. Considerazioni critiche sulla sentenza delle Sezioni Unite 18 settembre 2020, n. 19597; in Giur. It., 2021, 6, p. 1395, con nota di B. PETRAZZINI, Interessi moratori e usura: l’intervento delle Sezioni unite; in Giur. It., 2021, 3, 564, con nota di A. BARENGHI, Mora usuraria e interessi corrispettivi: le Sezioni unite disinnescano il contenzioso, la quale, dopo aver precisato che l'interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto, e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati, salvo diversificarne il trattamento, giacché nel primo caso si deve avere riguardo al tasso-soglia applicabile al momento dell’accordo, nel secondo la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l'inadempimento, ha osservato che la disciplina antiusura, essendo volta a sanzionare la promessa di qualsivoglia somma usuraria dovuta in relazione al contratto, si applica anche agli interessi moratori, la cui mancata ricomprensione nell'ambito del Tasso effettivo globale medio (T.e.g.m.) non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali di cui all'art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 1996, ove questi contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali; ne consegue che, in quest’ultimo caso, il tasso-soglia sarà dato dal T.e.g.m., incrementato della maggiorazione media degli interessi moratori, moltiplicato per il coefficiente in aumento e con l'aggiunta dei punti percentuali previsti, quale ulteriore margine di tolleranza, dal quarto comma dell’art. 2 sopra citato, mentre invece, laddove i decreti ministeriali non rechino l’indicazione della suddetta maggiorazione media, la comparazione andrà effettuata tra il Tasso effettivo globale (T.e.g.) del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori, e il T.e.g.m. così come rilevato nei suddetti decreti. Dall’accertamento dell’usurarietà discende l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., di modo che gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c.; nei contratti conclusi con i consumatori è altresì applicabile la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del d.lgs. n. 206 del 2005, con decisione rimessa all'interessato di far valere l'uno o l'altro rimedio.
[7] Ed infatti, l’orientamento, maggiormente condivisibile e che da ultimo si è andato affermando è quello per cui, muovendo dall’onere probatorio gravante sul correntista che agisca in giudizio per la ripetizione di danaro, che afferma essere stato indebitamente corrisposto all'istituto di credito nel corso dell'intera durata del rapporto sul presupposto di dedotte nullità di clausole del contratto di conto corrente o per addebiti non previsti in contratto (Cass. 7 dicembre 2022, n. 35979; Cass. 28 novembre 2018, n. 30822; Cass. 23 ottobre 2017, n. 24948), il diritto del cliente di ottenere, ex art. 119, comma 4, t.u.b., la consegna di copia della documentazione relativa alle operazioni dell'ultimo decennio, può essere esercitato, nei confronti della banca inadempiente, attraverso un’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c., nel corso di un giudizio, a condizione che la documentazione invocata sia stata precedentemente fatta oggetto di richiesta, non necessariamente stragiudiziale, e siano decorsi novanta giorni senza che l'istituto di credito abbia proceduto alla relativa consegna (Cass. 1 agosto 2022, n. 23861; Cass. 13 settembre 2021, n. 24641). Siffatto orientamento, in tempi recenti, era però stato messo in discussione da altre pronunce ad avviso delle quali il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi dell’art. 119 del d.lgs. n. 385 del 1993, anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale, non ritenendo corretta una diversa soluzione sul fondamento del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., perché non può convertirsi un istituto di protezione del cliente in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante (così Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 3875 del 08/02/2019, Rv. 653135 - 01).
[8] Il riferimento è a Sez. U - , Sentenza n. 33719 del 16/11/2022, Rv. 666194 - 01), Giur. It., 2023, 3, 527, con nota di S. PAGLIANTINI, La validità secca del mutuo fondiario sovra finanziato: un the end (più) agro (che) dolce e con nota di A. PURPURA, La controversa validità del mutuo fondiario eccedente il limite di finanziabilità.
[9] Si segnala che la questione è stata rimessa da Cassazione civile sez. III, 27/07/2023, n. 22946), inedita, alla trattazione in pubblica udienza per la rilevanza della questione.
[10] Si tratta di Sez. U, Sentenza n. 41994 del 30/12/2021, Rv. 663507 - 01), con nota di S. PAGLIANTINI, Fideiussioni omnibus attuative di un’intesa anticoncorrenziale: le Sezioni Unite, la nullità parziale ed il “filo” di Musil, in Foro It., 2022, 2, p. 523, di G. D’AMICO, Modelli contrattuali dell’Abi e nullità dei contratti cd. a valle, in Foro It., 2022, 4, p. 1309, di A. MONTANARI, Nullità dei contratti attuativi dell’intesa illecita e “prova privilegiata”: qualche appunto alle Sezioni Unite n. 41994/21, in Foro It., 2022, 2, p. 528.
[11] Non è questa la sede per trattare diffusamente dei presupposti e delle condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale. Ai fini che ci occupano, sia consentito unicamente notare che l’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c. deve essere adottata “sentite le parti costituite”. La ratio di tale previsione è evidente: a fronte di uno strumento rimesso, essenzialmente, nelle mani del giudice circa le ragioni e l’opportunità del rinvio, le parti devono potersi, comunque, esprimere a riguardo onde poter contribuire, pur non potendosi opporre alla decisione di procedere al rinvio, come a quella di non farlo, alla individuazione del thema disputandum, stante l’efficacia vincolante nel giudizio a quo che il pronunciamento della S.C. andrà ad assumere. La disposizione, tuttavia, tace circa le sorti dell’ordinanza per l’ipotesi in cui il contraddittorio non venga provocato dal giudice remittente. Il dato testuale, in realtà, sembrerebbe escludere che l’attivazione del contraddittorio sia una condizione prevista a pena di inammissibilità del rinvio: in tal senso, infatti, il filtro di ammissibilità è funzionalmente connesso alla verifica della ricorrenza delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 363 bis c.p.c., le quali, a loro volta, sono testualmente individuate in quelle descritte ai punti 1, 2 e 3 della detta disposizione. In tale solco si colloca il provvedimento della Prima Presidente che, per un verso, osserva come il rispetto di tale requisito non rientra tra gli aspetti da rilevare già in sede di filtro di ammissibilità e, per l’altro verso, ipotizza come il contraddittorio omesso “a monte” (dal giudice del merito) possa poi essere recuperato “a valle” dinanzi al giudice di legittimità. Nondimeno, se il dato testuale dell’art. 363 bis c.p.c. consente effettivamente di escludere che la mancata attivazione del contraddittorio possa essere ravvisata già in sede di filtro preliminare, e salve ragioni di economia processuale, le ragioni di una nullità dell’ordinanza di rimessione per violazione del contraddittorio sembrano ravvisabili non tanto per avere il Giudice remittente analizzato, d’ufficio, una questione di puro diritto senza sottoporla alle parti, quanto, piuttosto, nell’avere frapposto un impedimento alla possibilità per i difensori delle parti di svolgere con pienezza le proprie difese in funzione della questione da sottoporre; in tal senso, tenuto conto degli effetti vincolanti attribuiti alla decisione della S.C., la violazione del contraddittorio appare costituire ex se un vulnus al principio del contraddittorio ed una violazione del diritto di difesa, senza necessità che siano precisati gli argomenti che sarebbero stati svolti, non consentendo alle parti, non già di “paralizzare” il rinvio, quanto di offrire ulteriori elementi di valutazione della fattispecie. Si veda, già richiamata in nota 13, Cass. Civ. 27 ottobre 2023, n. 29961, non massimata, segnatamente par. 9, pag. 23 e ss.
[12] Per la nullità dell’ordinanza pronuncia senza la preventiva instaurazione del contraddittorio R. TASCINI, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione dell’art. 363 -bis c.p.c. La disciplina. La Casistica, in Giust. Civ., 2023, 2, p. 343; nella stessa direzione G. TRISORIO LUIZZI, La riforma della giustizia civile: il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale, in Judicium.it.; nello stesso senso, pare andare E. D’ALESSANDRO, Il rinvio pregiudiziale in Cassazione, in Il Processo, 1, p. 51 e ss. Si veda ancora A. SCARPA, Il rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c.: una nuova «occasione di nomofilachia», in Questa rivista 3 marzo 2023, ad avviso del quale la nullità dell’ordinanza sarebbe rilevabile su iniziativa della parte interessata nella prima istanza o difesa successiva, a norma dell’art. 157, comma 2, c.p.c. e, dunque, tenuto conto dell’effetto sospensivo che consegue al deposito dell’ordinanza da parte del Giudice del merito, nel contraddittorio che sarà recuperato dinanzi la S.C. o, come avvenuto nel caso di specie, già con memoria depositata in occasione del filtro del Primo Presidente. Non risulta, per il vero, che la S.C. abbia ex professo affrontato la questione; nondimeno, in Cass. civ. sez. I, 16 ottobre 2023, n. 28727, non massimata, espressamente si legge che «è, altresì, necessario che la questione sia stata preventivamente sottoposta al contraddittorio delle parti».
[13] Si veda A.A. DOLMETTA, A margine dell’ammortamento «alla francese»: gravosità del meccanismo e sua difficile intelligenza, in Banca Borsa Titoli cred., 2022, 5, p. 641, ad avviso del quale, in realtà la rata costante non è un elemento identificativo di tale modalità di rimborso ma solo uno dei possibili profili che concretamente tale ammortamento può assumere.
[14] Così, testualmente, Trib. Alessandria, 10 maggio 2023, n. 405, inedita.
[15] Limitando ai contributi più recenti, si veda R. NATOLI, L’ammortamento alla francese: una questione di trasparenza, in Banca Borsa tit. cred., 2023, 2, pag. 201 e ss.; R. MARCELLI, L’anatocismo nei finanziamenti con ammortamento graduale. Matematica e diritto: due linguaggi che stentano ad incontrarsi, ibidem, 2021, 5, pag. 700 e ss.; G. B. BARILLA’, F. NARDINI, Legittimità dell’ammortamento alla francese e lo “spettro” dell’anatocismo. Un po' di chiarezza tra matematica e diritto, ibidem, 2021, 5, pag. 679, nonché A.A. DOLMETTA, op. ult. Cit.
[16] In questa direzione pare andare R. NATOLI, L’ammortamento “alla francese”: una questione di trasparenza, in Banca Borsa tit. cred., 2, 2023, pag. 201 e ss.; nella stessa direzione pare, in realtà, andare anche N. de LUCA, Mutuo alla francese: anatocismo, indeterminatezza od altro. Di sicuro, c’è qualcosa che non va, in Banca borsa tit. cred., 2, 2021, pag. 233 e ss. Si veda, però, anche A.A. DOLMETTA, A margine dell’ammortamento «alla francese», cit., il quale, pur reputando non del tutto convincente la tesi della violazione dell’art. 1283 c.c., suggerisce una più attenta valutazione del piano di ammortamento alla francese sul, per il vero differente, terreno del giudizio di meritevolezza e della causa in concreto che dovrebbero sorreggere detto meccanismo in termini di maggiore severità. Si veda ancora, R. MARCELLI, L’anatocismo nei finanziamenti con ammortamento graduale. Matematica e diritto: due linguaggi che stentano ad incontrarsi, il quale osserva come le pronunce che hanno negato la ricorrenza del fenomeno dell’anatocismo vietato nei piani di ammortamento alla francese non abbiano tenuto in debito conto le modalità di pattuizione della rata.
[17] Così testualmente, R. MARCELLI, L’anatocismo nei finanziamenti con ammortamento graduale. Matematica e diritto: due linguaggi che stentano ad incontrarsi, in Banca Borsa Tit. Cred., 5, 2021, pag. 700.
[18] Trattasi di orientamento che si trova affermato anche nella giurisprudenza di legittimità: si tratta di Cass. civ., sez. I, 19 maggio 2023, n. 13888, inedita.
[19] R. MARCELLI, op. ult. Cit., evidenzia come “il regime dell’interesse composto…non si pone in un rapporto di sinonimia con l’anatocismo, bensì è il genus nel cui ambito si colloca l’anatocismo come species”.
[20] Si tratta di Trib. Torino 31 maggio 2019, n. 2676, inedita. La pronuncia è, però, richiamata da N. de LUCA, Mutuo alla francese: anatocismo, indeterminatezza od altro, cit.La tesi è ripresa, ancora, in Trib. Torino, 22 settembre 2020, n. 3225.
[21] In tal senso, sempre limitando i richiami agli arresti più recenti della giurisprudenza, si vedano App. Torino, Sez. I, 14.5.2019, n. 807; App. Torino, Sez. I, 21.5.2020 n. 544; App. Torino, sez. I, 17/09/2020, n. 905; App. Torino, sez. I, 10/03/2022, n.287, App. Brescia, 9 febbraio 2023, n. 240; Trib. Sassari, 16 gennaio 2023, n. 47; Trib. Pisa, 10 gennaio 2023, n. 40; Trib. Napoli Nord, 11 ottobre 2022, n. 3549; App. Firenze, 29 agosto 2022, n. 1846; App. Roma, Sez. imprese, 5 luglio 2022, n. 4620; Trib. Torino, 22 febbraio 2022, n. 747; App. L’Aquila, 2 febbraio 2022, n. 175; App. Milano, 21 gennaio 2022, n. 204; nella giurisprudenza di legittimità, oltre quella richiamata in nota n. 19, Cass., 24 novembre 2022, n. 34677; Cass., 19 maggio 2022, n. 16221.
[22] La rispondenza o meno all’interesse del mutuatario è argomentazione che deve rimanere fuori dalla quaestio iuris rappresentata dalla legittimità o dalla chiarezza del piano di ammortamento alla francese alla stessa identica maniera di quanto deve ritenersi quanto alla valutazione della eventuale convenienza o appetibilità da parte degli istituti di credito del prodotto così costruito (in confronto, cioè, ad altre tipologie di prodotti che presentano meccanismi di restituzione graduale differente del capitale).
Ad ogni modo, condivisibili criticità circa la rispondenza di tale piano di ammortamento all’interesse del mutuatario vengono poste in risalto da G.B. BARILLA’, F. NARDINI, Legittimità dell’ammortamento alla francese e lo “spettro” dell’anatocismo. Un po' di chiarezza tra matematica e diritto, in Banca Borsa Tit. cred., 5, 2021, pag. 679 nonché R. NATOLI, L’ammortamento “alla francese”: una questione di trasparenza, in Banca Borsa tit. cred., 2, 2023, pag. 201 e ss. che, in maniera condivisibile, evidenzia come siffatta presunzione abbia “il sapore di una petizione di principio”.
[23] La posizione che si è percorsa, così la parte testualmente citata, è di A.A. DOLMETTA, A margine dell’ammortamento «alla francese», cit.
[24] In tal senso, N. de LUCA, Mutuo alla francese: anatocismo, indeterminatezza od altro, cit., il quale fa in proposito l’esempio della pattuizione di interessi di cd. preammortamento. Nel senso della possibilità di una divaricazione tra interessi maturati ed interessi esigibili anche G. B. BARILLA’, F. NARDINI, Legittimità dell’ammortamento alla francese, cit., laddove si ammette la possibilità dell’addebito di una quota di interessi anche superiore a quella corrispondente al capitale oggetto di rimborso purché non eccedente quelli complessivamente dovuti. In detta affermazione sembra cogliersi il concetto di equivalenza, proprio della tecnica matematica, su cui si veda F. CACCIAFESTA, Risposte al Prof. de Luca. Con una osservazione in tema di interessi anticipati, in Banca Borsa e tit. cred., 4, 2022, pag. 636.
[25] R. NATOLI, L’ammortamento “alla francese”: una questione di trasparenza, cit.
[26] Così, testualmente, F. CACCIAFESTA, op. ult. cit. A riguardo, mette conto evidenziare che il commento da ultimo citato si inserisce in un avvincente “botta e risposta” sulle pagine della Rivista tra il Prof. de Luca ed il Prof. Cacciafesta che risultato particolarmente stimolante nel far emergere la differente posizione del giurista rispetto a quelle del matematico. Si tratta in particolare di F. CACCIAFESTA, Osservazioni sull’articolo “Mutuo alla francese di N. de Luca”, in Banca borsa tit. cred., 4, 2022, pag. 627; N. DE LUCA, Ringraziamento e replica al prof. Cacciafesta, ibidem, 4, 2022, pag. 633 nonché, F. CACCIAFESTA, Risposte al Prof. de Luca. Con una osservazione in tema di interessi anticipati, ibidem, 4, 2022, pag. 636. Si veda, a riguardo, ancora, R. NATOLI, op. ult. cit. nonché G. MUCCIARONE, Ammortamento alla francese: meritevolezza e trasparenza, in Banca borsa e tit. cred., 4, 2023, pag. 599.
[27] Si veda ancora R. NATOLI, L’ammortamento “alla francese”: una questione di trasparenza, cit.; nella stessa direzione si veda altresì M. SEMERARO, Alle Sezioni Unite l’ammortamento alla francese: molti equivoci e un fondo di verità, in Riv. Dir. Banc., 10, 2023, la quale evidenzia come l’art. 821 c.c. ponga unicamente una regola di acquisto degli interessi, laddove la scadenza del credito di interesse sarebbe disciplinata in regime di anno ai sensi dell’art. 1284 c.c., di cui ricorda il carattere dispositivo della previsione e la sua derogabilità ad opera delle part. Si veda ancora G. MUCCIARONE, op. ult. cit., il quale evidenzia come il piano di ammortamento alla francese non contenga neanche un deroga alla disciplina dell’imputazione dei pagamenti, recando, piuttosto una disciplina delle scadenze.
[28] Si veda N. de LUCA e G. RIPA di MEANA, Mutuo alla francese: non è detto che gli interessi esigibili siano anche maturati, in Dirittobancario.it, 2021; A. DIDONE, Ammortamento alla francese e «anatocismo secondario», in Dirittobancario.it, 2021 nonché, ancora, R. MARCELLI, Ammissione al passivo fallimentare degli interessi relativi a mutuo con piano di ammortamento a rata costante (alla francese). L’art. 2855 c.c., in Ilcaso.it, 10 giugno 2021, il quale sottolinea, altresì, che, sempre in relazione alla possibile divaricazione fra esigibilità ed interessi, “…l’applicazione dell'art. 2855, 2 comma c.c. richiederebbe propedeuticamente la ricostruzione del piano nel rispetto degli artt. 1284 e 1194 c.c., per l'individuazione degli interessi maturati sino all'ultimo biennio, che non risultino già corrisposti anticipatamente negli anni precedenti…”.
[29] Così, F. CACCIAFESTA, Risposte al Prof. de Luca. Con una osservazione in tema di interessi anticipati, cit., ove si legge che “…il prezzo da pagare anticipatamente non può, per equità, coincidere con quello da corrispondere posticipatamente: le due somme non devono (“non possono”) essere uguali, ma devono essere “equivalenti”. “Equivalenti” nel senso, umile e convenzionale, ma rigoroso, della Matematica Finanziaria: quanto si paga, o pagherebbe, prima, deve essere il valor attuale di quanto si paga, o pagherebbe, dopo; tale valor attuale essendo calcolato in base ad un fattore di anticipazione (o “di sconto”) oggettivamente dettato dal contesto”.
[30] In realtà, come si dirà subito infra, l’asserita fisiologia della modalità di computo degli interessi è elemento tutt’altro che pacifico e scontato e divide giuristi e matematici. Si veda a riguardo, per uno spaccato di tali differenti ricostruzioni, F. CACCIAFESTA, L’ammortamento alla francese: leggende dure a morire, in Ilcaso.it, 10 marzo 2022 nonché R. MARCELLI, Finanziamento con ammortamento alla francese. La pattuizione dei rimborsi e gli interessi maturati, in www.altalex.com.
[31] La pronuncia è commentata da V. FARINA, Piano di ammortamento alla francese: liceità, meritevolezza e trasparenza della relativa clausola, in Riv. Dir. Banc., 2023, fasc. I, sez. II, pag. 131 e ss. nonché F. QUARTA, Trasparenza e determinatezza dell’oggetto nei contratti di finanziamento con «ammortamento alla francese». Commento a Collegio di Coordinamento ABF, 8 novembre 2022, n. 14376, ibidem, 2022, fasc. IV, sez. II, pag. 319 e ss.
Nella stessa direzione, Collegio di Tornio, n. 5149/2022 e Collegio di Milano n. n. 6906/2022, richiamate, in maniera critica, da A.A. DOLMETTA, A margine dell’ammortamento «alla francese»: gravosità del meccanismo, cit.
[32] Peraltro, sembra potersi ricavare dalla pronuncia dell’Arbitro, alla luce di un quadro fattuale ben diverso in quanto privo non solo della dicitura dell’ammortamento alla francese ma anche di una tabella di ammortamento di riferimento. In tale prospettiva appaiono cogliere nel segno le critiche di FARINA, Piano di ammortamento alla francese, cit. e F. QUARTA, Trasparenza e determinatezza, cit.
[33] Così, Cassazione civile sez. I, 22/05/2014, n.11400, in Dir. e Giust., 2014, 23 maggio 2014, con nota di G. TARANTINO, Rata non pagata: no agli interessi moratori sul credito scaduto per interessi corrispettivi.
[34] Si veda, App. Brescia, sez. I, 17 luglio 2023, n. 1190, inedita.
[35] In questo senso, M. SEMERARO, Alle Sezioni Unite l’ammortamento alla francese: molti equivoci e un fondo di verità, in Dir. Banc., 10, 2023.
[36] Si veda ancora, M. SEMERARO, op.ult. cit.
In tal senso, peraltro, sembra corretto richiamare Corte di Giustizia UE 9.11.2016, causa C-42/15, Home Credit Slovakia, secondo cui “l’art. 10, par. 2, lett. h) e i), Dir. 2008/48 dev’essere interpretato nel senso che il contratto di credito a tempo determinato, che prevede l’ammortamento del capitale mediante versamenti consecutivi di rate, non deve precisare, sotto forma di tabella di ammortamento, quale parte di ogni rata sarà destinata al rimborso di tale capitale. Siffatte disposizioni, in combinato disposto con l’art. 22, par. 1, della direttiva in parola, ostano a che uno Stato membro preveda un obbligo del genere nella sua normativa nazionale”.
[37] Solo per limitare le citazioni si veda App Torino, sez. I, 10 marzo 2022, n. 287 inedita.
[38] Su tutti, ancora, M. SEMERARO, Alle Sezioni Unite l’ammortamento alla francese: molti equivoci e un fondo di verità, cit; si veda ancora, diffusamente R. MARCELLI, Finanziamento con ammortamento alla francese. La pattuizione dei rimborsi e gli interessi maturati, in www.altalex.it.
[39] Si veda, in particolare, F. CACCIAFESTA, Un’ordinanza fondata su un equivoco (l’ammortamento alla francese secondo il Tribunale di Salerno), in ilcaso.it del 23 ottobre 2023; ID. L’ammortamento alla francese “in interesse composto”: un normale ammortamento progressivo, in Ilcaso.it 31 luglio 2021; ancora ID. Sulla presunta indeterminatezza di alcuni contratti di prestito (e altro: a proposito di una sentenza del Tribunale di Cremona), in Il caso.it, 6 luglio 2023; si veda ancora R. NATOLI, I mutui con ammortamento alla francese, aspettando le Sezioni unite, in Riv. Dir. Bancario, novembre 2023.
[40] Ad esempio, nel già citata pronuncia dell’ABF dell’8 Novembre 2022, si assume per l’appunto, che il piano di ammortamento era stato costruito con il regime finanziario dell’interesse semplice.
[41] Si veda, in proposito, F. CACCIAFESTA, L’ammortamento alla francese: leggende dure a morire, Cit., par. 6, il quale sembra postulare l’astratta configurabilità di tale modalità di ammortamento salvo rilevarne la sua concreta non percorribilità in quanto non idoneo a “stabilire…quando due somme di denaro disponibili in tempi diversi vadano considerate equivalenti…non consente di definire in modo univoco il tasso effettivo di un’operazione…che può ragionevolmente determinarsi solo se si impiega l’interesse composto”, sicché, prosegue l’A., “la sua applicabilità si ferma, in definitiva, alla gestione infraannuale di un conto corrente, e poco più”, giacché darebbe luogo ad “…un modello largamente irrealistico ed insoddisfacente per la maggior parte degli operatori”.
[42] Non è affetto detto, anzitutto, che il cliente, infatti, sia “indotto a ritenere il tasso convenzionale riportato in contratto calcolato sul in regime semplice, nell’ordinario rapporto proporzionale disposto dall’art. 1284 c.c., nell’equilibrio contrattuale riferito al corrispondente utilizzo medio periodale del capitale…”, così R. MARCELLI, Finanziamenti con ammortamento alla francese. Scienza e dottrina asservite al pensiero corrente, in Ilcaso.it, 27 gennaio 2023; anche a voler dare per vera tale supposizione ed ammettere che un cliente medio nutra effettivamente tale aspettativa, deve, al contempo, notarsi che non sembra potersi ritenere che l’operatore bancario sia obbligato a rappresentare che il mercato offra anche altri tipi di ammortamento o, ancora, che altri ammortamenti avrebbero un costo diverso e magari inferiore (in tal senso F. CACCIAFESTA, L’ammortamento alla francese: leggende dure a morire, cit.). Si veda ancora G. MUCCIARONE, Ammortamento alla francese: meritevolezza e trasparenza, in Banca borsa e tit. cred., secondo cui “…Pertanto, definiti nel contratto tasso, durata, ammortamento a rata costante, periodicità della rata, il cliente non deve poi capire come viene calcolata la rata, per fortuna o per grazia. Ma deve sapere, mi sembra, quanto deve pagare ad ogni scadenza e fino a quando, per vedere se riesce; e quanto paga d'interessi per vedere se gli conviene in rapporto ad altre offerte — a Dio piacendo, anche all'italiana o alla thailandese — e quanto paga tempo per tempo d'interessi per vedere se gli può convenire chiudere prima il finanziamento, se ha la facoltà di estinzione anticipata, e quanto dovrebbe pagare per capitale residuo e interessi maturati in caso di decadenza dal beneficio del termine. A ciò mi sembra sufficiente il piano di ammortamento che distingua, rata per rata, capitale e interessi. Se non avesse la facoltà di estinzione anticipata, forse, neppur sarebbe necessario al cliente conoscere l'esatta composizione di ciascuna rata”.
[43] In questo senso, salvo quanto si dirà in seguito circa il rilievo del piano di ammortamento, si veda l’obiezione di R. NATOLI, L’ammortamento alla francese: una questione di trasparenza, cit., secondo cui a venire in gioco sarebbe la trasparenza precontrattuale prevista dagli artt. 120 novies e 124 T.U.B. ed il principio in essi espresso per cui il finanziatore deve consentire al mutuatario di valutare le implicazioni del contratto di credito e di comprendere quale sia più adeguato alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria. Nondimeno, anche a voler dare per seguire tale impostazione, l’eventuale rimedio per la violazione di tale obbligo non dovrebbe essere quello previsto dall’art. 117 TUB ma, a tutto concedere, un rimedio risarcitorio.
[44] In tal senso Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 3 maro 2020, in Causa C125/18. Si è, in particolare, osservato che in tale prospettiva, costituiscono elementi particolarmente pertinenti ai fini della valutazione da effettuare al riguardo, da un lato, la circostanza che gli elementi principali relativi al calcolo di tale tasso siano facilmente accessibili a chiunque intenda stipulare un mutuo ipotecario, grazie alla pubblicazione del metodo di calcolo di detto tasso, nonché, dall’altro, la comunicazione di informazioni sull’andamento, nel passato, dell’indice sulla base del quale è calcolato questo stesso tasso.
[45] In tal senso, specie assumendo che l’ammortamento alla francese sia costruibile tanto con l’interesse semplice quanto con l’interesse composto, appare condivisibile l’affermazione di chi reputa che tale sola dicitura “si risolva in una formula ambigua”: così, F. QUARTA, Trasparenza e determinatezza, cit.
[46] Si veda l’art. 6 della delibera del C.I.C.R. del 9 febbraio 2000, rubricato “trasparenza contrattuale”, secondo cui “…I contratti relativi alle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito stipulati dopo l’entrata in vigore della presente delibera indicano la periodicità di capitalizzazione degli interessi e il tasso di interesse applicato. Nei casi in cui sia prevista una capitalizzazione infra-annuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione. Le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto”.
[47] Di contrario avviso F. QUARTA, Trasparenza e determinatezza, cit. il quale, in realtà, invita ad un riesame delle posizioni della giurisprudenza sul punto. Nondimeno, non appare condivisibile l’idea che il piano di ammortamento sarebbe vincolante solo laddove costituente “sviluppo univoco, su basi prettamente matematiche, delle fondamentali condizioni economiche già compiutamente indicate in contratto”. Anche ad ammettere che il piano di ammortamento, anche quello alla francese possa avere una pluralità di sviluppi, l’ammortamento indicato in contratto è certamente idoneo ad esprimere quale sia lo sviluppo del rimborso del prestito, non rinvenendosi nell’ordinamento alcun onere per gli intermediari di indicare formule differenti o, addirittura, di contrarre secondo tali formule.
[48] Si tratta di Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2021, n. 12889, in Guid. al dir., 2021, 26, su cui si tornerà nuovamente infra.
[49] Sulla necessaria indicazione del TAE M. SEMERARO, Alle Sezioni Unite l’ammortamento alla francese: molti equivoci e un fondo di verità, cit; nonché F. QUARTA, op. ult. Cit.
[50] In questo senso sembra andare M. SEMERARO, Alle Sezioni Unite l’ammortamento alla francese: molti equivoci e un fondo di verità, cit.
[51] Ma, come correttamente rileva, R. NATOLI, L’ammortamento alla francese: una questione di trasparenza, cit., gli usi non possono integrare la regolamentazione dei contratti bancari, posto quanto previsto dall’art. 117, co. 6, TUB, secondo cui “sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati nonché quelle che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati”.
[52] In realtà paiono escludere decisamente la circostanza, F. CACCIAFESTA, Un’ordinanza fondata su un equivoco (l’ammortamento alla francese secondo il Tribunale di Salerno), in ilcaso.it del 23 ottobre 2023 nonché R. NATOLI, I mutui con ammortamento alla francese, aspettando le Sezioni unite, in Riv. Dir. Bancario, novembre 2023.
[53] In tal senso F. CACCIAFESTA, L’ammortamento alla francese: leggende dure a morire, in Ilcaso.it, 10 marzo 2022
[54] Estremamente di recente, sui presupposti del rinvio pregiudiziale e sull’estensione del principio di diritto espresso Cass. Civ. 27 ottobre 2023, n. 29961, non massimata, segnatamente par. 9, pag. 23 e ss.
Antonio Albanese, pur essendo tutt’ora un attore dai formidabili tempi comici, ci ha abituato da tempo a film incentrati su tematiche sociali.
Negli ultimi anni molti dei suoi lavori, pur presentandosi in punta di piedi e senza sembrare militanti, sono ricchi di spunti “politici” e contengono riflessioni mai banali, soprattutto laddove il nostro abbini il ruolo di attore a quello di regista.
Se nelle commedie e negli sketches prevalgono il registro grottesco e l’uso del paradosso, quando è regista di se stesso Albanese predilige infatti interpretare personaggi ordinari e dai sentimenti puliti, uomini ingenui che fa muovere in un mondo popolato da tipi mediocri se non cattivi, proprio come molte delle sue maschere comiche.
Non sfugge allo schema il suo ultimo film in sala, "Cento domeniche”, in cui presta volto e movenze ad un operaio specializzato cui ha dato il suo nome (Antonio), appena mandato in prepensionamento in una fabbrica di un piccolo paese; un personaggio dalla vita normale, che gode di piccole gioie ed è esposto, come tutti, ai rovesci della vita.
Rovesci anch’essi piccoli, ben attutiti da un ambiente in cui è facile e naturale fidarsi degli altri perché ci si conosce tutti da sempre, al di là dei ruoli e dell’età, e si condividono spazi limitati ed accudenti come il bar o la piazza.
E Antonio si fida: del suo datore di lavoro, che lui considera quasi un parente e non un padrone (si danno del tu, sembrano in gran confidenza e l’imprenditore, che lui chiama confidenzialmente Carlo, lo invita persino a cena nella sua magione, in un angolo del giardino della quale consente che Antonio allevi delle galline), dei suoi colleghi, con cui divide le chiacchiere del dopolavoro e i tornei di bocce, della sua donna, che pur appartenendo ad un ambiente evidentemente più altolocato del suo lo ospita nella sua lussuosa villa e con cui divide momenti di tenero amore.
Qualcosa sembra non quadrare del tutto, ma all’inizio non ci si fa quasi caso, mentre assistiamo scena dopo scena allo sgretolamento di questo piccolo (e forse mal riposto) capitale di fiducia: il datore di lavoro lo licenzia da un giorno all’altro, pur consentendogli di continuare a recarsi in fabbrica per aiutare con la sua esperienza gli operai più giovani. E Antonio si fida e continua a lavorare, convinto di essere in un mondo dove una stretta di mano vale più di un contratto.
La donna con cui ha una relazione è sposata, ma anche questo sembra un particolare quasi senza importanza. E Antonio si fida e si lascia andare ai sentimenti e all’amore al punto da chiederle se è pronta a lasciare il marito per lui, salvo fingere di avere scherzato alla incredula e stizzita reazione di lei.
Più la storia va avanti e più sembra che tutto poggi su un pavimento di mera apparenza, destinato a sgretolarsi al primo scossone: una visita ispettiva in fabbrica porta alla immediata reazione del datore che ingiunge ad Antonio di non farsi vedere più, perché altrimenti la fabbrica rischierebbe sanzioni. E tanti saluti all’esperto tornitore e alla sua insostituibile esperienza.
Poco dopo Antonio rivela alla sua amante che la figlia si è accorta della loro relazione e che vorrebbe invitarla al matrimonio: la donna, rendendosi conto improvvisamente del rischio che si sappia di loro in paese lo caccia urlando dalla macchina e tronca da un minuto all’altro ogni rapporto.
Sono solo le prime avvisaglie della tempesta vera e propria, destinata a provocare il crollo dell’intero sistema affettivo del protagonista e che scaturisce da un evento che difficilmente viene spontaneo associare con i sentimenti: la crisi finanziaria dell’istituto di credito del suo paese.
Il fatto è che anche la banca è percepita da Antonio con le lenti comode e deformanti della fiducia: gli impiegati sono persone che ha conosciuto da bambine, ed è bella la sensazione che ogni volta che ha bisogno di recarvisi gli aprono una porta di servizio per non farlo passare dai tornelli, perché sanno che egli soffre di claustrofobia.
È insomma anche quello un ambiente fatto di relazioni consolidate ed informali, a cui affidare con un sorriso i risparmi di una vita, come del resto hanno fatto tutti nella sua piccola comunità (e come, a ben pensarci, tendiamo a fare tutti un po’ ovunque).
Ed è alla sua “amica” banca che Antonio si rivolge per chiedere i soldi per organizzare il matrimonio della figlia, suo momento di massimo orgoglio e piccolo riscatto sociale.
Il nostro tornitore è convinto di avere investito il suo denaro in modo sicuro e facilmente smobilizzabile e che quindi possa avere indietro quanto ritiene suo con un sorriso, magari con un piccolo aiuto tecnico del suo interlocutore per le eventuali quisquilie burocratiche: sarà destinato ad essere deluso ancora una volta.
Il direttore di banca, con la solita finta bonomia che Antonio ha già sperimentato in tutti gli altri suoi interlocutori, gli ricorda che tempo fa ha firmato una modifica del suo investimento, rendendolo da obbligazionario ad azionario (quindi, ad alto rischio); e che in questo momento è meglio non vendere le azioni perché sostanzialmente hanno visto pressoché azzerato il valore che avevano al momento dell’acquisto… di fatto, gli comunica che i suoi risparmi non esistono più.
La reazione del tornitore è quella di sempre: rifiuta di credere che il mondo non sia quello che si è sempre rappresentato, anche se uno degli impiegati lo segue fuori dalla banca per dirgli che la banca è sull'orlo del fallimento e gli consiglia di prelevare tutti i soldi e mettersi in salvo. Rifiuta di capire – e di reagire - anche quando lo stesso impiegato, poco dopo il colloquio, si suicida per la vergogna di avere contribuito a truffare la gente; ed anche quando il barista gli fa leggere i titoli dei giornali ove si parla di crack della banca e del suo prossimo, inevitabile fallimento.
Chiede consiglio al suo ex padrone, rifiutando di accettare come vera la notizia appresa che i ricchi del paese i soldi dalla banca li hanno già prelevati - contribuendo ad aggravare il dissesto - e continua come un sonnambulo a camminare in un mondo che non corrisponde alle sue percezioni.
In un crescendo di drammaticità, Antonio prende coscienza della realtà quando ascolta il racconto di un altro operaio ridotto come lui sul lastrico dal crollo dell’istituto di credito e torna in banca deciso finalmente a chiedere spiegazioni al direttore: ma il direttore è cambiato e il nuovo, inaspettatamente, lo tratta come se fosse lui ad essere in torto: è lui che ha firmato, è lui il responsabile della sua rovina.
Antonio reagisce esclamando (come forse faremmo tutti): “ma chi di noi legge quello che firma?”.
È qui che Albanese metaforicamente ci schiaffeggia, ricordandoci che non sta mettendo in scena una maschera grottesca o esagerata ma la semplice realtà, che anche noi come il protagonista della storia preferiamo fingere di non vedere…. perchè è troppo brutto dire a se stessi che la fiducia non esiste, che si è nudi di fronte alla cattiveria altrui; che sono finiti i tempi della solidarietà, dell’unione fa la forza, dei deboli che alzano la voce per reclamare i propri diritti; che oggi chi è debole può solo subire e semmai cercare di diventare più forte di qualcun altro, per arraffare un briciolo togliendolo a chi è più in basso nella catena alimentare.
In un ultimo sussulto di ricerca di solidarietà il nostro tornitore si reca alla riunione in piazza dei clienti dell’istituto di credito, dove assiste all’ennesima pantomima: quando vede che a prendere la parola non sono gli scontenti ma un avvocato sconosciuto a tutti e poi il sindaco del paese capisce finalmente che nessuno aiuta nessuno.
E va via, deciso all’epilogo individuale che non sveliamo per non "spoilerare".
La tematica del rapporto del singolo con le banche è una delle più attuali e sconvolgenti dei nostri tempi e tocca da vicino il lavoro dei magistrati sia civilisti che penalisti.
Sempre più spesso le disuguaglianze sociali e le istanze di tutela dei diritti individuali e fondamentali prendono le forme processuali della tutela del singolo dallo strapotere degli istituti di credito.
Ne sono prova la giurisprudenza (tremolante e altalenante) sull’usura bancaria in campo penale e le controversie civilistiche su interessi moratori, clausole abusive (“Ma chi di noi legge quello che firma?”), anatocismo, commissioni di massimo scoperto.
Emmanuel Carrère ne ha fatto materia per uno dei ritratti più riusciti della sua galleria di personaggi nel magnifico libro intitolato "Vite che non sono la mia": è la storia (vera) della passione civile della cognata, giudice di prima istanza che ha dedicato la vita a propugnare nelle sue sentenze i semi di un’interpretazione dei contratti bancari volta alla tutela sociale dei più deboli (i clienti).
Nel libro l’autore descrive la pluriennale lotta della magistrata con stuoli di avvocati blasonati e con la stessa giurisprudenza della cassazione francese, sempre pronta a chiudere gli spiragli di giustizia sociale che la protagonista ed un suo collega che fa udienza pochi metri più in là tentano ingegnosamente di aprire dal Tribunale di provincia in cui si trovano ad operare.
Una storia che parla di chi, da dietro le quinte e con le armi della tecnica giuridica e dell’ingegno, prova a ristabilire il filo interrotto della fiducia tra l’individuo e la società e che costituisce l’ideale pendant del film di Albanese.
Il filo della fiducia chiama in causa dunque, per vie sorprendenti, la giurisprudenza di merito nel suo compito insostituibile di tutela dei diritti fondamentali.
Tra le attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, quella di carattere consultivo in favore del legislatore non è tra le più studiate e, pur tuttavia, è tra le più controverse, per l’ambito, i modi, l’oggetto. A riportarla di attualità, pur in assenza di contrasti paragonabili a quelli del passato, sono alcune operazioni di revisione critica in ordine alle interferenze dell’attività giurisdizionale nella sfera di pertinenza di altri poteri dello Stato e al ruolo del governo autonomo dei magistrati. Le posizioni esistenti su questi temi influenzano le letture divergenti dell’art. 10, comma 2, della legge 195/1958. Per quanto questa vi si presti, nella sua concisione, esistono però una prassi consiliare, avalli istituzionali autorevoli e punti fermi dottrinali che non possono essere dimenticati.
Sommario: 1. Il dibattito consiliare. 2. Il dato normativo. 3. Leale collaborazione e buon andamento degli uffici giudiziari. 4. A chi si indirizzano i pareri. 5. L’oggetto. 6. Il parere sulla conformità a Costituzione. 7. Gli atti su cui il CSM esprime i pareri. 8. Il parere espresso d’iniziativa.
1. Il dibattito consiliare.
L’approvazione recente di un parere sullo schema di conversione di un decreto legge è stata l’occasione per dibattere in adunanza plenaria dei limiti riconosciuti al Consiglio Superiore della Magistratura nell’esercizio dell’attribuzione consultiva rispetto ai rapporti col legislatore [1]. Nella circostanza v’è stato chi ha mosso critiche alla delibera perché il parere che si proponeva di votare avrebbe esorbitato dal perimetro consentito; lo sconfinamento sarebbe sorto dal fatto che il parere non si limitava a trattare in modo neutro delle ricadute che la nuova disciplina avrebbe avuto sull’organizzazione degli uffici giudiziari, ma esprimeva pure valutazioni negative su singole disposizioni ritenute lacunose o asistematiche.
Nel caso specifico la delibera è stata poi approvata dal Plenum a larga maggioranza (tre astensioni).
Il dibattito ha messo in luce più che in altre recenti occasioni l’esistenza di posizioni molto difformi in seno al Consiglio Superiore. Si tratta di divergenze certamente favorite dall’esistenza di nodi storicamente irrisolti, nella dottrina, nella lettura del dato normativo che assegna al CSM questa attribuzione, ma vistosamente riconducibili a visioni diverse sul ruolo del Consiglio e dei suoi rapporti con il Ministro della giustizia. Non pare casuale che esse emergano nella fase storica in cui gli effetti stessi dell’esercizio dell’attività giudiziaria vengono (ri)messi in discussione con argomenti che investono l’orizzonte della separazione dei poteri.
Intervenendo il 30 novembre nel Plenum straordinario convocato per la sua visita, il Ministro della giustizia ha espresso la volontà di incrementare la richiesta al CSM di pareri su testi che siano non solo di legislazione primaria, ma anche regolamentari. È possibile che questa apertura a un fecondo dialogo giuridico tra Istituzioni stemperi le divergenze emerse settimane prima.
Tuttavia, esse vivono anche al di fuori del CSM, frutto e al contempo causa del tentativo di delimitare con la massima precisione possibile i ruoli degli organi protagonisti dello scenario istituzionale, col risultato inevitabile di valorizzarne alcuni a discapito di altri. Questa operazione, per certi versi comprensibile nel suo intento di prevenire occasioni di possibile frizione tra le istituzioni, rischia di travolgere alcuni paletti che parevano ormai solidamente sistemati; ogni delimitazione di confine, pur se mossa da commendevoli ragioni di certezza, può rivelarsi ancora più dannosa, se non sia basata su mappe e tracciati sicuri.
2. Il dato normativo.
Senza coltivare la pretesa di arrivare a risolvere gli aspetti più controvertibili, conviene dunque ricordare quei punti fermi, per evitare che anche le certezze ormai acquisite vengano travolte da uno spirito revisionista del tutto contingente e non sufficientemente meditato.
Come noto, l’art. 10 della legge n. 195/1958, dopo avere elencato le materie su cui al Consiglio spetta di deliberare, aggiunge, al secondo comma, che “può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”.
L’ultimo comma è norma di chiusura, giacché aggiunge che il CSM “delibera su ogni altra materia ad esso attribuita dalla legge”.
È venuta così a configurarsi una funzione propulsiva e consultiva, di carattere tecnico-giuridico, attraverso la quale il Consiglio instaura un dialogo con gli organi titolari dell’indirizzo politico e che si esprime attraverso tre tipologie di atto: proposte (art. 10, co. 2, prima parte); pareri (art. 10, co. 2, seconda parte); relazione sullo stato della giustizia (art. 43 del regolamento interno del CSM).
È bene precisare che quest’ultima, per quanto non prevista da norma primaria, trova fondamento in una pratica sorta negli anni sessanta del secolo scorso, prima ancora della sua codificazione nella regolamentazione dell’attività consiliare. Viene ricordato in proposito l’ordine del giorno approvato dal Senato della Repubblica il 29 gennaio 1969, in cui si valutava “sommamente opportuno” che il Ministro presentasse una relazione annuale sullo stato della giustizia accludendovi “analoga relazione del Consiglio superiore della magistratura” [2].
3. Leale collaborazione e buon andamento degli uffici giudiziari.
L’idea di un collegamento tra CSM e legislatore ha quindi una storia condivisa e radicata nel tempo. Già questo sola constatazione basterebbe a inficiare l’ipotesi di un’illegittimità dell’art. 10, secondo comma, della legge 195/1958, avanzata sulla base del fatto che l’espressione dei pareri non sia inclusa tra le potestà elencate espressamente dall’art. 105 della Costituzione [3].
Storicamente i contenuti della relazione tra CSM e Ministro della giustizia, in particolare, vengono maggiormente focalizzati con l’aumentare dell’attenzione verso l’attuazione delle disposizioni costituzionali (specialmente in materia di indipendenza e autonomia dei magistrati) e, in epoca più recente, per l’esigenza di perseguire il buon andamento dell’amministrazione della giustizia [4].
Per quanto concepito come organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati, il Consiglio esercita una funzione di amministrazione della giurisdizione [5] nel quadro costituzionale. Perciò le sue competenze in materia di assetto degli uffici giudiziari (si pensi alle delibere su tabelle e progetti organizzativi) o relative al percorso professionale dei magistrati non possono essere esercitate con riferimento al mero rispetto di regole formali, ma implicano anche valutazioni di adeguatezza delle attività e delle soluzioni, dovendo guardare all’efficienza dell’organizzazione.
Anche sull’estensione delle competenze in tema di organizzazione e funzionamento dei servizi attribuite al Ministro della giustizia (art. 110 Cost.) le opinioni dei costituzionalisti sono varie, non meno di quanto siano quelle relative alle funzioni affidate al CSM. Tutti concordano, però, sul fatto che entrambe queste istituzioni presiedano al sistema giudiziario nell’ambito di poteri che incidono a loro volta sull’amministrazione della giustizia. Da ciò deriva l’ineludibile necessità di una loro cooperazione diretta all’unico scopo, racchiusa nella locuzione “leale collaborazione”.
Questo concetto è stato approfondito dalla giurisprudenza costituzionale soprattutto in riferimento all’istituto del concerto, richiesto al Ministro sulla proposta di conferimento di funzione da parte del Consiglio (art. 11, co. 3, l. 195/58), e racchiude in sé le “regole di correttezza nei rapporti reciproci e di rispetto dell’altrui autonomia” [6], le quali impediscono a ciascuno dei due soggetti di “dare luogo ad atteggiamenti o comportamenti dilatori, pretestuosi, incongrui o contraddittori o insufficientemente motivati” [7].
Una volta che è stata costituzionalizzata la ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2), il principio del buon andamento è andato progressivamente a identificarsi, almeno nel dibattito pubblico, con quello di efficienza del servizio; questo passaggio ha reso ancora più evidente l’esigenza di una collaborazione tra i due vertici dell’organizzazione giudiziaria, poiché, se è vero che l’efficienza chiama in causa in prima battuta il Ministero, quale organo deputato a dotare la macchina giudiziaria dei mezzi necessari, nondimeno pressoché ogni iniziativa dell’Amministrazione diretta a innovarne i servizi impatta sull’esercizio della giurisdizione, sicché il Consiglio non può risultarvi estraneo.
L’espressione, da parte di quest’ultimo, dei pareri sugli interventi legislativi e delle proposte normative rientra pertanto in un tale assetto relazionale.
4. A chi si indirizzano i pareri.
L’interrogativo che si è posto in ordine alla destinazione di tale funzione riguarda la possibilità che il CSM indirizzi i pareri e le proposte, almeno in caso specifici, anche al Parlamento, oltre che al Ministro. La prassi non è in questo senso e, probabilmente, non a caso. I regolamenti delle due Camere, infatti, non menzionano il Consiglio come loro possibile interlocutore, diversamente da altri soggetti istituzionali. In difetto di ciò, è difficile ravvisare l’eventualità di una stabile procedura di collegamento tra le Camere e il Consiglio, trattandosi di materia che l’art. 64 Cost. riserva alla disciplina dei regolamenti medesimi [8].
Lo stesso ordine del giorno approvato dal Senato il 29.1.1969, come s’è detto, auspicava una relazione da parte del CSM come mero allegato di quella ministeriale. Anche il regolamento dell’attività consiliare, quando ancora prevedeva la redazione della propria relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia “in conformità” a quell’ordine del giorno, ne disponeva comunque la trasmissione al solo Ministro per la grazia e la giustizia [9]. Dal 2016 quel riferimento è scomparso dal regolamento interno. La relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia continua a essere distribuita, per la sua discussione in seduta plenaria, esclusivamente al Ministro oltre che ai componenti del Consiglio (art. 43, co. 2, reg. int.).
Per altro verso la stessa commissione Paladin giudicava insoddisfacente, rispetto allo scopo dell’atto, l’assenza di un meccanismo che vincoli il Ministro a trasmettere alle Camere la relazione consiliare sullo stato dell’amministrazione della giustizia. È segno, questo, della riconosciuta utilità, per l’istituzione parlamentare, di un apporto del C.S.M. nonché della necessità che la collaborazione tra questo e il Ministro della giustizia sia improntato a lealtà.
In coerenza con questa ricostruzione si ritiene dunque che la funzione consultiva del Consiglio non sia esercitabile nei confronti del Parlamento senza la mediazione ministeriale [10].
5. L’oggetto.
L’art. 10, secondo comma, della legge n. 195/1958 rende evidente che il Consiglio non può dirigere il proprio intervento verso ogni iniziativa normativa e che, anzi, gli è preclusa la possibilità di esprimersi su alcuni terreni che pure toccano l’attività giudiziaria.
L’attribuzione risulta invero limitata a due ambiti specificamente nominati: “ordinamento giudiziario” e “amministrazione della giustizia”.
L’ordinamento giudiziario designa quel settore dell’ordinamento giuridico statale che disciplina, sotto il profilo organizzativo, le attività dei giudici, dei pubblici ministeri e dei loro collaboratori [11]. Si può quindi concludere che la prima locuzione normativa è riferibile a un complesso di norme. Da ciò consegue che il C.S.M. è chiamato a esprimere pareri sulle attività di riforma che incidano sull’assetto e il funzionamento degli organi che esercitano la giurisdizione.
Meno immediata appare l’interpretazione della seconda locuzione. La “amministrazione della giustizia” è astrattamente riferibile, infatti, tanto a un nucleo di elementi materiali e funzionali, che costituiscono l’apparato amministrativo di settore, quanto a un’attività, rappresentata dall’esercizio della giurisdizione.
La prima opzione è contraddetta da due rilievi.
In primo luogo, ci troveremmo di fronte a un concetto sostanzialmente sovrapponibile a quello della prima locuzione normativa, poiché, pur nella sua superiore astrattezza, la complessiva disciplina coincidente con l’ordinamento giudiziario già riguarda l’organizzazione dell’attività giudiziaria, alla quale è dedicata la macchina amministrativa del Ministero della giustizia. Attribuendo quel significato alla seconda espressione si finirebbe dunque per depotenziare del tutto l’efficacia descrittiva del binomio normativo.
In secondo luogo, va considerato che la locuzione integrativa seguente (“.. e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”) chiarisce come i due concetti precedenti vadano a identificarsi con una materia. Ma l’amministrazione della giustizia, intesa nella sua dimensione statica, quale complesso di beni e servizi non è definibile come “una materia”. Lo è, viceversa, l’ordinamento giudiziario.
Molto più convincente, dunque, è la seconda opzione interpretativa, la quale porta a concludere che l’amministrazione della giustizia dell’art. 10, secondo comma, l. 195/1958 altro non è che la iurisdictio.
Una volta che sia stato così chiarito, il dato normativo porta ad affermare quindi che al Consiglio è affidata l’espressione di pareri sugli interventi legislativi che riguardano, da un lato, l’organizzazione e il funzionamento degli organi giudiziari e, dall’altro, l’esercizio concreto della giurisdizione. Da qui l’identificazione del loro possibile oggetto.
Cade dunque in errore chi – anche tra coloro che sono intervenuti nel dibattito plenario menzionato in premessa – ritenga l’attribuzione consultiva del CSM limitata ai pareri sulle sole norme incidenti l’organizzazione giudiziaria.
Vi rientrano, invece, le disposizioni che regolano il (o incidono sul) funzionamento degli organi giudiziari e quelli di natura processuale.
Vi rientrano altresì le norme di natura sostanziale che condizionino l’attività giurisdizionale, per le loro ricadute sul piano organizzativo, su quello processuale o, a maggiore ragione, su entrambi (si pensi all’introduzione di misure amministrative suscettibili d’influire sui flussi processuali).
Quanto al contenuto del rilievo che il CSM è chiamato a muovere, va considerato che l’interpretazione della legge è l’operazione più intimamente connessa alla giurisdizione, la prima, dunque, che, per la sua frequenza, influisce sull’andamento della giustizia e sulla ragionevole durata dei processi. Una norma oscura o aperta a più significati o distonica rispetto agli obiettivi enunciati dal legislatore si espone al rischio di decisioni tra loro contrastanti e dunque a un vulnus al valore della loro prevedibilità in funzione di uno stabile assetto dell’ordinamento giuridico sul quale i cittadini possano confidare [12].
È, pertanto, nella responsabilità del Consiglio superiore – esprimendo pareri improntati alla leale collaborazione che gli è richiesta – evidenziare al legislatore simili imperfezioni, nella misura in cui siano suscettibili di rendere imprevedibili, se non il quadro normativo [13], i risultati dell’attività giurisdizionale che lo interpreterà.
6. Il parere sulla conformità a Costituzione.
Di qui al rilievo di possibile costituzionalità del testo esaminato il passo è breve. Ma è un passo che entra nel territorio riservato alle attribuzioni del Presidente della Repubblica, in via preventiva, e della Consulta, in fase successiva.
La prassi ha conosciuto numerosi pareri in cui il Consiglio ha valutato la conformità a Costituzione di proposte normative. Vi è un drastica opinione contraria a tale facoltà, espressa dal Presidente Giorgio Napolitano: “non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al CSM non spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui, com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre istituzioni” [14]. Nel messaggio si coglie evidente la preoccupazione che una presa di posizione consiliare possa generare un conflitto istituzionale con gli organi ai quali quel controllo è stabilmente affidato.
Eppure anche gli autori meno propensi a una lettura estensiva della funzione consultiva del CSM ritengono dubbia una soluzione che gli neghi ogni valutazione di costituzionalità, soprattutto quando il parere venga espresso su richiesta del Ministro [15]. Altri, invece, non intravedono limiti in questa facoltà [16].
La questione è quindi delicata, poiché, se è difficile immaginare che il Consiglio debba astenersi da rilevare un vizio di legittimità, soprattutto se macroscopico, presente eventualmente in una norma, è altrettanto chiaro che un simile intervento può sconfinare nella sfera di attribuzioni non dell’organo cui il parere è rivolto, bensì di un’istituzione terza, titolare del controllo per Costituzione.
La soluzione potrebbe raggiungersi ricordando l’esigenza generale di salvaguardia della sistematicità e della stabilità dell’ordinamento giuridico. Il Consiglio potrebbe quindi riconoscersi investito del vaglio di costituzionalità di una disposizione, alla stregua della sua ragionevolezza, quando questa sia commisurata al più ampio quadro normativo, nel quale andrà a inserirsi, e al pericolo che l’interpretazione consequenziale possa minarne l’assetto.
Può cioè fondatamente sostenersi che il parere possa avanzare dubbi di compatibilità costituzionale (o di conformità all’ordinamenti euro-unitario) della disposizione in esame ogni volta in cui dal possibile contrasto con una norma sovraordinata possano derivare scelte ermeneutiche tra loro contraddittorie o confliggenti con l’obiettivo stesso enunciato dal legislatore: nel primo caso viene messa in discussione la stabilità del quadro normativo; nel secondo gli effetti delle decisioni giudiziali potrebbero rivelarsi asistematici. In entrambe le situazioni si avrebbe un risultato applicativo incerto che il Consiglio deve segnalare.
7. Gli atti su cui il CSM esprime i pareri.
L’art. 10, co. 2, menziona soltanto i “disegni di legge”, dunque gli atti di iniziativa governativa (art. 87, co. 4, Cost.); il che confermerebbe, tra l’altro, che il Consiglio Superiore dialoga col legislatore solo per il tramite del Ministro della giustizia.
Non sembra dubbio però il fatto che esso possa esprimersi anche sui regolamenti, nella forma dei decreti ministeriali, quando siano adottati in attuazione o siano comunque previsti dalla legge, se, ovviamente, abbiano per oggetto le materie di competenza. Sarebbe del tutto irragionevole, in effetti, che questa possibilità fosse preclusa al Consiglio (e che il Ministro non la attivasse, richiedendo lo specifico parere), dato che, come spesso accade, è il regolamento, più che la norma di legge generale, a impattare sull’organizzazione o sull’amministrazione della giustizia.
Si pone se mai una questione di effettività dell’attribuzione consiliare, quando il tempo a disposizione per fornire il parere sia in concreto inadeguato rispetto alla complessità delle questioni.
È in corso, per esempio, il dialogo istituzionale sull’attuazione delle infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni telefoniche. L’art. 2, co. 3, d.l. 105/2023 (conv. nella legge 137/2023), che le ha istituite, ne ha demandato la realizzazione al Ministro attraverso almeno tre decreti (commi 2, 3 e 5); su ciascuno il Consiglio deve essere sentito – al pari del Garante per la protezione dei dati personali e del Comitato interministeriale per la cybersicurezza – “entro venti giorni dalla richiesta, decorsi i quali il provvedimento può essere adottato” (art. 2, co. 9, d.l. 105/2023). In ordine ai primi due decreti i venti giorni sono resi di fatto perentori dalla circostanza che al Ministero stesso siano dati termini insuperabili entro cui provvedere (sessanta giorni nel secondo comma e novanta nel terzo).
A chi conosca le procedure di deliberazione consiliare risulta evidente che venti giorni per esprimere un parere su temi altamente specialistici e settoriali – quali i requisiti tecnici specifici per la gestione (accesso, conservazione, trasferimento) dei dati relativi ai flussi delle conversazioni intercettate e per le garanzie di sicurezza delle relative infrastrutture – rappresentano una scadenza ben difficilmente conciliabile con una valutazione ponderata e approfondita.
La rilevanza conferita a tale funzione è testimoniata del resto dall’iter dei pareri, sistematicamente preceduti da una proposta della sesta commissione e previa consultazione formale dell’ufficio studi e documentazioni, mai emessi, per converso, per deliberazione diretta del Plenum [17], sebbene il regolamento consiliare lo consenta in via d’urgenza.
Perciò, quando la ristrettezza dei termini è destinata a comprimere i tempi della deliberazione, deve soccorrere la leale collaborazione tra le istituzioni, fatta anche di interlocuzioni preliminari che pongano il Consiglio nella condizione di rendere la propria consultazione effettiva e non formale.
La clausola di chiusura dell’art. 10, co. 2, l. 195/58 (“e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”) consente infine di affermare che la funzione consultiva del CSM non è circoscritta ai soli disegni di legge e ai regolamenti che vi danno attuazione. L’oggetto è più ampio; il limite viene dalla materia, non dalla forma dell’atto.
Al Consiglio non è preclusa pertanto l’espressione di pareri sulle proposte di legge di origine parlamentare quando investano l’ordinamento giudiziario e l’esercizio della giurisdizione. Ciò vale, innanzi tutto, per gli atti di conversione dei decreti legge, stante l’impossibilità di un parere prima che il provvedimento d’urgenza sia adottato.
Ma ciò non può non estendersi anche al testo delle altre proposte legislative, una volta che questo si trovi formalmente depositato presso una delle Camere e l’iter di approvazione parlamentare sia stato avviato.
8. Il parere espresso d’iniziativa. La facoltà di esprimere pareri anche sulle proposte di legge di origine parlamentare si collega alla questione del possibile esercizio di questa attribuzione consultiva non su richiesta del Ministro, bensì per iniziativa del Consiglio.
V’è una prassi consolidata in tal senso, avallata autorevolmente anche da più di un Presidente della Repubblica [18], difesa espressamente da più di un vicepresidente del C.S.M. [19] e, pur tuttavia, non esente da critiche [20].
Va osservato, in primo luogo, che la legge non prevede alcuna richiesta.
A quello letterale si aggiungono peraltro altri argomenti a conforto della prassi consiliare, alcuni dei quali valgono a contrastare l’obiezione legata alla sua invadenza nella sfera legislativa: innanzi tutto il parere non è vincolante, sicché può fornire un contributo tecnico-giuridico, ma mai interferire con l’autonomia deliberativa del Parlamento, che lo può liberamente disattendere; secondariamente, la “collaborazione” istituzionale ha un contenuto ineludibile di doverosità, che richiede al Consiglio di fornire quel contributo ogni volta in cui ravvisi nell’attività legislativa in corso un intervento che interessi le materie affidate al suo governo. L’iniziativa del CSM pertanto, va letta non come intromissione, ma come ausilio nella ricerca della più efficace soluzione normativa sull’oggetto e rispetto alla linea di orientamento che il legislatore adotta nella più piena e incomprimibile autonomia politica.
D’altronde, se dovesse ritenersi che i pareri possano darsi solo a richiesta, si ammetterebbe la possibilità di una paralisi della funzione consultiva anche rispetto alle proposte di legge, poiché il Ministro stesso potrebbe omettere di richiederli. La storia, da questo punto di vista, insegna. Non convince al riguardo l’obiezione per cui il CSM. ha un’ampiezza di funzioni non azzerabili da un’ipotetica inerzia ministeriale: quella consultiva, infatti, è un’attribuzione specifica e singolare, dai contenuti e dagli effetti infungibili con quelli delle altre riconosciute al Consiglio; essa è l’unica idonea a favorire la formazione di leggi adeguate ai bisogni dell’ordinamento e della giurisdizione.
Collegata a questa considerazione è, infine, la questione dei contenuti dei pareri del CSM; periodicamente vengono commentate con avversione le espressioni di analisi critica che vi sono riportate, quasi che ogni manifestazione di dissenso determini di per sé un conflitto istituzionale.
È invero, invece, il contrario. La lealtà è propria di chi agisce con sincerità; e la sincerità giustifica la sottoposizione al pubblico dibattito e alla dialettica con le altre istituzioni delle problematiche che la legiferazione può comportare nella sfera della giurisdizione.
Altra cosa è il tono del dissenso e su questo non si può concordare con chi ha osservato che la nettezza di un’asserzione vada misurata non solo rispetto al ruolo dell’interlocutore, ma anche al livello del difetto che si intende censurare; perciò, ad esempio, se il C.S.M. intenda evidenziare un possibile profilo d’incostituzionalità, dovrà farlo avendo presente i possibili sconfinamenti della sua attribuzione rispetto al ruolo di altre cariche dello Stato. Ma questo è un problema di misura, non di limiti della funzione istituzionale.
[1] Il dibattito è avvenuto nel corso dell’adunanza plenaria del 25 ottobre 2023 e può essere riascoltato dal sito www.radioradicale.it/scheda/711669/consiglio-superiore-della-magistratura-plenum.
[2] Cfr. S. Gava, La crisi della giustizia. Discorso pronunciato al Senato nella seduta del 29 gennaio 1969 in risposta a varie mansioni, Tipografia delle Mantellate, 1969.
[3] Tesi “non peregrina”, secondo T. E. Frosini, I confini costituzionali del CSM e la riforma del sistema giustizia”, in www.federalismi.it 14, 2008, che richiama la ben più netta affermazione di E. Caianiello, in Istituzioni e liberalismo, Rubbettino, 2005, 56.
[4] Per giurisprudenza costituzionale consolidata, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile agli organi dell'amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, mentre è estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale (così, tra le altre, Corte cost. 174/2005, 272/2008, 66/2014, 44/2016, 91/2018 e 90/2019).
[5] L’espressione si deve ad A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, 1990, 95.
[6] Corte cost., 27 luglio 1992, n. 379. La sentenza viene commentata con riferimento ai rapporti più generali tra C.S.M. e Ministro della giustizia in N. Zanon e F. Biondi, Diritto costituzionale e dell’ordine giudiziario, Status e funzione dei magistrati alla luce deli principi e della giurisprudenza costituzionale, Giuffré, 2002, 15.
[7] Corte cost., 30 dicembre 2003, n. 380.
[8] In tal senso si esprime testualmente la commissione Paladin, istituita il 26 luglio 1990 dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga per rendere un parere sulla posizione istituzionale del Consiglio, reperibile in www.csm.it, pag. 159.
[9] Artt. 21, reg. int. approvato il 26 marzo 1976, e 28, reg. int. del 6 aprile 1988.
[10] N. Zanon, I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura tra leale collaborazione e divisione dei poteri, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 3; F. Biondi, Profili costituzionali e ordinamento giudiziario: il ruolo del Csm, in www.air.unimi.it, 2010, 6.
[11] Così F. Dal Canto, in Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, 2020, XV, secondo cui l’o.g. è altrimenti definibile come “quella parte del diritto pubblico che si occupa, da un punto di vista statico, dell’insieme di principi, regole ed istituti strumentali al funzionamento degli organi che esercitano l’attività giurisdizionale”.
[12] Sul “dovere costituzionale funzionale dei giudici di assicurare l’uniformità dell’interpretazione del diritto” cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, I, 1998, 88.
[13] Cfr. Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16, per cui l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica è “elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto”.
[14] Si tratta della lettera di G. Napolitano indirizzata l’1 luglio 2008 al vicepresidente N. Mancino, in www.archivio.quirinale.it/aspr/comunicati, e riferita al parere espresso dal C.S.M. sul c.d. “decreto sicurezza” (d.l. 23 maggio 2008, n. 92).
[15] Ci si riferisce a N. Zanon, I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura tra leale collaborazione e divisione dei poteri, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 13.
[16] Così C. Salazar, in Il Consiglio Superiore della Magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007, 13. Secondo E. Fortuna, I pareri del C.S.M. e i disegni di legge di sospetta incostituzionalità, in La magistratura, 2008, 241, “mai si sono posti dubbi sulla legittimità e opportunità di esprimersi anche sulla costituzionalità della norma, se ciò appariva necessario o utile al fine di stabilire fino a che punto fosse prevedibile una ricaduta positiva o negativa sull’organizzazione o sul funzionamento della macchina giudiziaria”.
[17] Ci si riferisce all’art. 23, co. 2, del vigente regolamento interno del CSM.
[18] Cfr. il discorso di C. A. Ciampi del 26 maggio 1999, in www.csm.it, e la lettera di G. Napolitano, già citata.
[19] Ci si riferisce agli interventi pubblici di N. Mancino, su La stampa dell’1 luglio 2008, Il Csm boccia la blocca processi. Napolitano, richiamo ai giudici, in www.lastampa.it/politica/2008, e di V. Rognoni, sul Corriere della sera del 7 luglio 2008, Perché i pareri del Csm sono legittimi, riportato in 19luglio1992.com/rassegna-stampa-7-luglio-2008.
[20] N. Zanon, I pareri, cit., 7 ss., il quale evoca per il Consiglio l’immagine della “terza Camera” che interviene, spesso con contenuti fortemente critici, magari dopo che una disegno di legge sia stato già approvato da un ramo del Parlamento, mettendo “in campo profili di rapporto tra poteri, che presentano una loro oggettiva «pesantezza»”.
[21] E. Paciotti, I tempi della giustizia, in I Quaderni di Astrid, Il Mulino, 2005, depreca proprio il fatto che “troppo spesso il Governo e lo stesso Parlamento hanno adottato innovazioni legislative in tema di ordinamento giudiziario e di giustizia senza che fosse richiesto in modo corretto ed effettivo il previsto parere del Consiglio superiore della magistratura. Il decreto sulla competitività, i decreti legge, e le relative leggi di conversione, in materia di proroga dei magistrati onorari, di proroga del procuratore nazionale antimafia, di trasferimento di competenze al giudice di pace, di prescrizione dei reati sono frutto di politiche di breve periodo e, spesso, addirittura emergenziali, che hanno finito per accrescere in via generale le difficoltà operative degli uffici giudiziari ed hanno ostacolato la programmazione dei lavori del Consiglio superiore della magistratura: l’intera politica sulla giustizia è stata sviluppata dal governo in modo profondamente autoreferenziale. Occorre, dunque, che su tutte le iniziative legislative che hanno ricadute in materia di ordinamento giudiziario, ivi comprese le disposizioni processuali di natura sistematica, il Ministro provveda a richiedere al Consiglio superiore un parere che, per le caratteristiche dell’organo da cui proviene, è in grado di fornire indicazioni e valutazioni potenzialmente di grande utilità”.
[22] Così ancora N. Zanon, I pareri, cit., 10.
[23] Così B. Giangiacomo, Le funzioni dei Consigli superiori della magistratura, in www.foroplus.it, 2011, 3.
[24] In tal modo può leggersi l’osservazione di N. Zanon, I pareri, cit., 14.
Tutti, anche i magistrati, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (in qualunque forma, anche non verbale). Ma l’esercizio di questa libertà porta con sé obblighi e responsabilità. Questo il quadro di principio come si ricava dalla integrazione dell’art. 21 della Costituzione con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
Il codice etico della magistratura richiede al magistrato di ispirarsi a “criteri di equilibrio, dignità e misura” in ogni forma di espressione pubblica e, in generale, di mantenere una immagine di imparzialità e di indipendenza.
Vi sono dunque degli obblighi che si traducono in limiti per il magistrato che si esprima pubblicamente fuori dell’esercizio delle sue funzioni. Limiti il cui superamento difficilmente dà luogo a qualche forma di illecito e che tuttavia definiscono la figura del magistrato nella società: essi richiedono sensibilità, prudenza, consapevolezza della speciale natura delle funzioni che sono proprie ed esclusive del magistrato ed anche delle attese sociali in ordine ad esse. Si tratta di un complesso di principi, esigenze e attese che hanno ampi margini di evanescenza. Quella stessa evanescenza che connota la nozione di “cultura della giurisdizione” cui spesso si richiama la magistratura associata e ha ricadute che distinguono il magistrato da ogni altro cittadino.
Da ciò - dev’esser chiaro - non si trae che “il giudice si esprime solo nelle sentenze”, secondo una pretesa di silenzio che non ha base alcuna e non risponde all’interesse pubblico in una società democratica. In questo senso è l’importante orientamento della Corte europea dei diritti umani, più volte investita di ricorsi promossi da magistrati (spesso esponenti di associazioni di magistrati) colpiti da sanzioni penali o disciplinari per le loro dichiarazioni pubbliche.
La Corte, con riferimento alla libertà di espressione, ha più volte indicato che in una società democratica le questioni relative alla separazione dei poteri e l’indipendenza della giustizia costituiscono soggetti importanti che richiedono un’ampia protezione. Da un lato la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva. Esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria. Si ha quindi ragione di aspettarsi che il magistrato si avvalga della libertà di espressione con discrezione e misura ogni volta che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario (la cui protezione è menzionata dallo stesso art. 10 Conv.) rischino di esser messe in discussione. D’altro lato, il fatto che un dibattito su tali temi abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito. E quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, come un dirigente di un’associazione di magistrati, egli ha il dovere e non solo il diritto di intervenire su questioni che riguardano il funzionamento della giustizia.
Come si vede, l’insieme di principi ed esigenze che entrano in campo trattandosi della libertà di espressione dei magistrati implicano sempre delicati bilanciamenti e contemperamenti: l’intervento del magistrato (e di un’associazione) può essere addirittura un dovere in una società democratica, ma non deve mettere in discussione la indipendenza ed imparzialità della giustizia, la sua immagine e la fiducia che deve poterne avere la società. Difficile esercizio, sempre legato alle forme del caso concreto, che richiede responsabilità da parte del magistrato e, per converso, pretende rispetto da parte di coloro cui le espressioni del magistrato sono rivolte.
Indipendenza e imparzialità sono doveri fondamentali riguardanti i singoli magistrati e la magistratura nel suo insieme. Vi è un nesso stretto tra ciò che riguarda il singolo magistrato che si esprime e le ricadute sulla magistratura tutta. Quando si dice – e si pretende che abbia portata generale – che la magistratura è “potere diffuso”, si deve poi considerare che il potere giudiziario tutto è coinvolto nel comportamento dei singoli magistrati. D’altra parte, le espressioni pubbliche di un magistrato sono accompagnate da particolare attenzione, proprio perché chi parla è magistrato. Ciò vuol dire che il magistrato spende la sua qualità e quindi, che lo voglia o no, coinvolge la magistratura. Ecco allora un aspetto della “responsabilità” menzionata dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
L’imparzialità è un aspetto particolarmente delicato ed importante che emerge quando vi sia polemica nei confronti del magistrato (il giudice in particolare) per sue espressioni, nel caso in cui successivamente, nell’esercizio delle sue funzioni, si pronunci su questioni toccate dalle sue precedenti prese di posizione. Si è detto e ridetto recentemente che l’imparzialità si traduce nell’obbligo di motivazione dei provvedimenti, la quale consente di valutarla, anche con le conseguenze possibili in sede di impugnazione. Ma non è così. L’imparzialità è esigenza autonoma ed è un carattere (e dovere) che precede la presa in carico di un affare da parte del giudice. Lo dimostra l’obbligo di astensione e la possibilità di ricusazione. La possibilità che la propria imparzialità sia messa in discussione nel processo impone al giudice una particolare prudenza prima del processo stesso. Il codice etico della magistratura richiede al giudice di valutare con particolare rigore l’esistenza di motivi di astensione per gravi motivi. E non è dubbio che vi sia un dovere del giudice di non mettersi in condizione di doversi astenere. L’imparzialità è qualcosa che riguarda l’idea che se ne fa lo stesso giudice – che si sente imparziale – , ma soprattutto l’idea – non pretestuosa – che se ne fanno le parti processuali, con le ricadute possibili sull’opinione pubblica e sulla fiducia generale nella amministrazione della giustizia. A proposito dell’opinione pubblica o di suoi settori, si può certo volta per volta ritenere ch’essa sbagli nel giudicare l’imparzialità del magistrato. Ma pur nella difficoltà della questione, non si può semplicemente ignorarla, poiché la fiducia nella magistratura è essenziale condizione in una società democratica.
Le prese di posizione pubblicamente espresse dai giudici danno luogo a problemi incidenti sulla loro imparzialità su due livelli: quello della generale fiducia sulla imparzialità della magistratura indipendentemente dall’incidenza su singoli provvedimenti e quello relativo alla partecipazione del giudice alla decisione di uno specifico caso. Con riferimento a questa seconda ipotesi e al tema della astensione rileva la sufficiente specificità del rapporto tra l’opinione espressa e l’oggetto della causa. Così, ad esempio, si ritiene che prese di posizione che esprimono un generale orientamento politico non implichino successivamente un dovere di astensione. Ma quando invece un nesso sufficientemente stretto esista viene in discorso quel che la Corte costituzionale, in tema di incompatibilità, ha chiamato “forza di prevenzione”: la difficoltà di cambiare idea e la naturale tendenza a mantenerla, tanto più quando quell’idea non sia rimasta nel foro interno, ma sia stata esplicitata.
Imparzialità vuol dire anche disponibilità a cambiare idea all’esito dell’ascolto delle ragioni delle parti nel processo. In proposito esiste un campo importante di manifestazioni del pensiero, che il magistrato esprime in campi spesso strettamente legati a ciò che professionalmente deve trattare. Vi è, da sempre, una massiccia e ricca partecipazione di magistrati al dibattito dottrinale, con note a sentenza, articoli, relazioni a convegni, monografie su questioni di diritto, che spesso ricadono nel campo della loro attività giudiziaria. Non risulta che questa tipologia di partecipazione dei magistrati al dibattito sia stata messa in questione sotto il profilo della loro successiva imparzialità (esistono casi di ricusazione?). Forse perché si tratta normalmente di dibattito tecnico-giuridico? O perché zittire i magistrati significherebbe una troppo grave perdita sul piano dello svolgersi della elaborazione del diritto? La “forza di prevenzione” in tali casi non opera? O si ha fiducia nella capacità dei magistrati di allontanarsi dalle posizioni in precedenza espresse e ricollocarsi nel ruolo giudiziario (con le deliberazioni collegiali, quando è il caso, il richiamo ai precedenti, la considerazione degli argomenti sviluppati dalle parti, ecc.)?
La questione però esiste e non è irrilevante nel dibattito generale sull’incidenza delle manifestazioni del pensiero dei magistrati sulla loro imparzialità: vuoi per una improbabile restrizione della partecipazione dei magistrati al dibattito dottrinale, vuoi per una meno schematica e polemica considerazione del tema generale.
(Immagine: Grandville, Descente Dans Les Ateliers De La Liberté De La Presse, Bibliothèque nationale de France, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b53006319v)
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