ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Flavia Costantini
Sommario: 1.Premessa: ordinanza del 19 settembre 2023 della Corte d’Assise di Busto Arsizio – 2. L’attuabilità del programma sulla base della nuova disciplina sulla giustizia riparativa – 3. Le valutazioni del giudice ai sensi dell’art. 129 bis c.p.p. – 4. La vittima diretta e la vittima cd. aspecifica o surrogata nella nuova disciplina della giustizia riparativa– 5. Gli effetti dello svolgimento del programma nel processo penale – 6. Conclusioni.
1. Premessa: ordinanza del 19 settembre 2023 della Corte d’Assise di Busto Arsizio
In data 12 giugno 2023, la Corte d’Assise di Busto Arsizio ha condannato Davide Fontana alla pena di anni trenta di reclusione: 1) per il reato di omicidio di cui all’art. 575 c.p., per aver cagionato la morte di Carol Maltesi, colpendole la testa con un martello e tagliandole la gola con un coltello, commettendo il fatto nei confronti di persona con la quale aveva intrattenuto una relazione affettiva (circostanza aggravante di cui all’art. 577, c. 2, c.p.) e ponendo la stessa in condizione di non potersi difendere, avendola previamente legata e imbavagliata (circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p.); 2) per il reato di soppressione del cadavere (art. 411 c.p.), in quanto utilizzando un’ascia e un seghetto, la depezzava e la eviscerava, dopo di ché cercava di darle fuoco e le asportava porzioni di pelle in corrispondenza di alcuni tatuaggi, nonché del viso per impedirne il riconoscimento; 3) per il reato di occultamento di cadavere (art. 412 c.p.), avendolo suddiviso in quattro sacchi di plastica, che venivano gettati in un dirupo.
La stessa Corte, con ordinanza del 19 settembre 2023, su richiesta dell’imputato, sentiti il Pubblico Ministero e le parti civili, che chiedevano il rigetto dell’istanza, ha disposto, ai sensi degli artt. 129 bis c.p.p. e 42 e segg. D.Lvo 150/22, l’invio del caso al Centro per la Giustizia Riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano per verificare «la fattibilità di un programma di giustizia riparativa, mandando agli operatori del centro la valutazione della fattibilità in concreto di un programma anche con la vittima cd. aspecifica, segnalando che si procede per reati non procedibili a querela».
Nell’ordinanza si dà atto che l’imputato aveva manifestato, fin dalla fase delle indagini preliminari, «la volontà di riparare alla conseguenze del proprio gesto», sostenendo di avere «un grande bisogno di farlo» e chiedendo alla Corte «di permettermi di fare qualsiasi cosa, percorsi, di seguire programmi, qualsiasi cosa sia possibile fare verso i parenti di Carol e anche verso altre associazioni»; il Pubblico Ministero aveva rilevato che, invece, lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa non potesse essere ritenuto utile alla risoluzione delle questione derivanti dal fatto, tenuto conto della fase processuale, essendo stata emessa la sentenza di primo grado ed essendo in pendenza di appello; tutte le persone offese (in giudizio erano costituite parti civili: i genitori di Carol e l’ex compagno e padre del figlio minore, in proprio e in rappresentanza del figlio) avevano comunicato di non essere disponibili ad avere rapporti di qualunque tipo con Davide Fontana.
La Corte ha motivato la sua decisione di accoglimento della richiesta dell’imputato, considerando la seria, spontanea ed effettiva volontà del Fontana di riparare alle conseguenze del reato, del non necessario consenso per lo svolgimento del programma di tutte le parti interessate e della possibilità di svolgerlo anche con vittima cd. aspecifica, nonché dell’utilità dello svolgimento dello stesso per la risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per il quale si stava procedendo, tenuto conto che «la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra l’autore e la vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica e ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr. relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, pag. 297), sicchè la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso di detto strumento, come chiaramente emerge dall’art. 43, comma 4, d.lgs. 150/2022, secondo cui l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito». La Corte ha, altresì, escluso la sussistenza sia di un pericolo concreto per l’accertamento dei fatti, stante l’avvenuto accertamento degli stessi in primo grado, sia di un pericolo concreto per gli interessati, tenuto anche conto del minore di sette anni, considerato l’art. 46 del decreto in questione, che indica la necessità di tutelare la personalità dei minori e i loro interessi, nonché considerata la circostanza che, nel caso di specie, comunque le persone offese avevano comunicato che non intendevano consentire a qualsivoglia genere di incontro con l’imputato e che dunque il programma si sarebbe svolto verosimilmente con vittima cd. aspecifica.
La Corte d’Assise di Busto Arsizio ha, dunque, inteso applicare, con riferimento al caso di specie, la nuova disciplina organica della giustizia riparativa di cui agli artt. 42 – 67 del Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (di seguito decreto), le cui norme processuali sono entrate in vigore il 1° luglio 2023.
2. L’attuabilità del programma sulla base della nuova disciplina sulla giustizia riparativa
Innanzitutto, si deve chiarire che, sulla base della nuova norma di cui all’art. 129 bis c.p.p. introdotta nel codice di procedura penale dal decreto, il giudice può disporre l’invio dell’imputato e della vittima al “Centro di giustizia riparativa di riferimento” e detto Centro, sulla base di quanto previsto dall’art. 42, c. 1, lett. g) del decreto, è la struttura pubblica di cui al capo V, sezione II; la definizione contenuta nella norma è, infatti, la seguente: «struttura pubblica di cui al capo V, sezione II, cui competono le attività necessarie all’organizzazione, gestione, erogazione e svolgimento dei programmi di giustizia riparativa».
In particolare, la Sezione II, del Capo V, dedicata ai “Centri di Giustizia Riparativa” prevede all’articolo 63 la procedura per l’individuazione degli enti locali presso cui istituire i Centri di giustizia riparativa. Stante l’estrema varietà delle esperienze esistenti in materia, ora in capo ai comuni, ora in capo a province, ora promosse mediante leggi regionali, la scelta del legislatore è stata quella di evitare di individuare direttamente, tramite il decreto legislativo, gli enti locali preposti alla istituzione dei centri. In base ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza si è invece scelto di affidare ad un organo ad hoc, appunto la Conferenza locale per la giustizia riparativa, il compito di provvedere in tal senso, previa ricognizione delle esperienze di giustizia riparativa in atto. Lo strumento della Conferenza locale è funzionale a individuare, di volta in volta, la migliore soluzione, evitando le rigidità di un modello unico di organizzazione dei servizi che, al contrario, non soddisferebbe l’esigenza di rispettare le peculiarità territoriali [1].
La stessa norma prevede, quindi, l’istituzione di una Conferenza locale per ciascun distretto di corte d’appello con la funzione di individuare, all’interno del distretto, gli enti locali cui è affidato il compito di istituire i Centri per la giustizia riparativa e organizzare i relativi servizi. Alla conferenza partecipano un rappresentante del Ministero della giustizia, un rappresentante delle regioni o province autonome e un rappresentante delle province o città metropolitane sul territorio delle quali si estende il distretto della corte d’appello, un rappresentante per ogni comune ricompreso nel distretto che sia sede di uffici giudiziari o presso il quale siano in atto esperienze di giustizia riparativa.
L’art. 64 prevede che i Centri possano avvalersi di mediatori esperti dell’ente locale di riferimento, mediante la stipula di contratti di appalto o mediante una convenzione stipulata ai sensi dell’art. 56 dello stesso decreto. In ogni caso, il personale che svolge i programmi di giustizia riparativa deve possedere la qualifica di mediatore esperto ed essere inserito nell’elenco di cui all’art. 60, comma 2.
È prevista una disposizione specifica in ordine al trattamento dei dati personali e l’articolo 66, nel disciplinare il potere di vigilanza del Ministero della giustizia sull’intero sistema della giustizia riparativa, prevede, innanzitutto, un onere informativo, gravante sulla Conferenza locale, nei confronti del Ministero stesso, da adempiersi con cadenza periodica (annuale). L’articolo 67 disciplina poi il finanziamento dei Centri per la giustizia riparativa [2]. Detto finanziamento permette dunque di garantire la gratuità del programma di giustizia riparativa, che costituisce un principio cardine del nuovo sistema introdotto dal decreto (art. 43, c. 3).
Gli articoli 59 e 60 del decreto sono dedicati, il primo, alla sola formazione dei mediatori esperti e, il secondo, sia ai requisiti e criteri per l'esercizio dell’attività professionale che alle modalità di accreditamento dei mediatori presso il Ministero della giustizia.
La delicatezza del ruolo svolto dal mediatore esperto nell’ambito dei programmi di giustizia riparativa ha spinto il legislatore a disegnare, nella prima norma (articolo 59), una figura professionale che abbia competenze multidisciplinari e trasversali, idonee a garantire l’ascolto dei percorsi emotivi dei partecipanti e la rielaborazione di eventi traumatici, oltre che di comportamenti che, integrando il disvalore sociale tipico del reato, potrebbero essere, sono o sono stati oggetto di accertamento giurisdizionale [3].
La norma transitoria di cui all’art. 92 del decreto (modificato con il Decreto Legge 31 ottobre 2022 n. 162, convertito con modificazioni nella legge 30 dicembre 2022, n. 199 – GU 31.12.2022, n. 304) prevede, ai commi 1 e 2, che la Conferenza locale per la giustizia riparativa, nel termine di sei mesi dall’entrata in vigore del decreto, effettuati la ricognizione dei soggetti che già erogano servizi di giustizia riparativa (anche mediante protocolli d’intesa con gli uffici giudiziari) e rediga un elenco dal quale gli enti locali attingono per la prima apertura dei centri di cui all’art. 63; sempre sulla base della normativa transitoria (art. 92, comma 2 bis, introdotto con la legge di conversione al DL 162/22), le disposizioni in materia di giustizia riparativa, richiamate puntualmente nello stesso articolo (tra le quali, dunque, anche gli artt. 129 bis e 464 bis, comma 4, lett. c), c.p.p., nonché tutte le norme sugli avvisi e le norme di diritto sostanziale), si applicano nei procedimenti penali decorsi sei mesi dall’entrata in vigore del decreto.
I decreti ministeriali del 9 giugno 2023 di cui agli artt. 59, 60 e 93 (disposizione transitoria, riguardante l’inserimento nell’elenco dei mediatori) del decreto sono stati pubblicati nella GU n. 155 del 5 luglio 2023.
Con il Decreto ministeriale del 27 luglio 2023 sono stati nominati i sei esperti della Conferenza nazionale per la giustizia riparativa, con funzioni di consulenza tecnico – scientifica, di cui all’art. 61, comma 2, del decreto.
La Conferenza nazionale per la giustizia riparativa risulta essere stata convocata (per la prima volta) il 25 ottobre 2023, ai sensi dell’art. 61, comma 3, del decreto.
Questo lo stato dell’arte sulla normativa in tema di giustizia riparativa introdotta con decreto.
In sostanza, attualmente detta normativa è in vigore, ma di fatto non attuabile stante la mancata istituzione dei Centri di giustizia riparativa, ovvero dei Centri di riferimento cui il Giudice può inviare il caso, ai sensi dell’art. 129 bis c.p.p., e che sono solo quelli di cui all’art. 42 del decreto, non ancora istituiti, sulla base delle previsioni di cui agli artt. 63 – 67 del decreto (sopra illustrati proprio al fine di meglio comprendere il complesso sistema creato, dall’applicazione del quale non si può prescindere).
I Protocolli attualmente stipulati da taluni Tribunali, tra i quali il Tribunale di Milano, che prevedono la possibilità di inviare i casi a Centri di giustizia riparativa già esistenti, da una parte, oltre a non essere vincolanti, non sono conformi al dettato normativo, e, dall’altro, non permettono comunque l’applicazione completa ed esaustiva dell’intera disciplina introdotta con il decreto. In tal modo, infatti, i casi saranno trattati da centri [4] che non rispettano comunque e necessariamente il sistema introdotto dalla nuova normativa; inoltre, i mediatori che vi operano non sono sicuramente i mediatori esperti di cui al decreto, ovvero mediatori formati sulla base delle disposizioni normative e iscritti all’elenco. C’è poi da chiedersi cosa accadrà quando i Centri (verosimilmente a breve) saranno istituiti e ci saranno programmi in corso di svolgimento presso altri centri “non legittimati”.
Si tratterebbe dunque di un’applicazione ibrida della normativa, non conforme e non funzionale al sistema costruito in tal modo con le disposizioni del decreto proprio in quanto, rispetto al sistema precedente, si è creata un’intersezione tra il processo penale e la giustizia riparativa, permettendo, da una parte, la facoltà di accesso ai programmi «senza preclusioni in tema di fattispecie di reato e alla sua gravità» (art. 44 del decreto), anche in fase procedimentale, e anche su iniziativa dell’autorità giudiziaria (art. 129 bis c.p.p.), dall’altra, l’ingresso dello stesso programma e del suo esito nel processo penale, per essere sottoposto alla valutazione del giudice ed avere, conseguentemente, effetti nello stesso processo (art. 58 del d.lgs. n. 150/2022).
3. Le valutazioni del giudice ai sensi dell’art. 129 bis c.p.p.
Sulla base della disciplina in esame, i punti di innesto della giustizia riparativa nel processo penale si possono individuare: il primo, nel momento nel quale il magistrato, in seguito alla richiesta dell’imputato o della vittima o anche d’ufficio, valuta l’invio del caso al Centro, e, il secondo, al termine dello svolgimento del programma, in seguito all’invio della relazione da parte del mediatore esperto al magistrato (art. 57), per valutare l’esito del programma ed, eventualmente, applicare gli istituti di diritto sostanziale che possono influire sul processo, sia in termini di valutazione della pena (art. 62, c. 1, n. 6, c.p.), sia in termini di estinzione del reato (art. 152 c.p.) sia in termini di concessione dei benefici (art. 163 c.p.).
Quanto alla prima valutazione del Giudice, l’articolo 129 bis c.p. p. prevede che questi possa, su richiesta o anche d’ufficio, disporre l’invio dell’imputato e della vittima al Centro di Giustizia Riparativa di riferimento (art. 42 del decreto), con ordinanza, sentite le parti (compresa dunque la parte civile costituita), i difensori nominati e, se lo ritiene necessario, la vittima del reato (ciò avverrà nel caso in cui la vittima non si sia costituita parte civile e il Giudice ritenga necessario convocarla per sentirla).
Ciò che il Giudice è chiamato a valutare è, in tal caso, che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto, sia per gli interessati, che per l’accertamento dei fatti.
Le tre condizioni per l’invio (una positiva e due negative) sono espresse dalla norma in modo appositamente generico, permettendo al Giudice un’ampia valutazione discrezionale proprio per poter tenere specificatamente conto del caso concreto sottoposto al suo vaglio, lasciando così l’individuazione di criteri più specifici all’elaborazione giurisprudenziale che sicuramente si formerà sulla base dei diversi e variegati casi che si porranno all’attenzione del Giudice e dei mediatori esperti.
Nel valutare la condizione positiva, ovvero l’utilità del programma, il Giudice, partendo proprio dal fatto in sé così come verificatosi, dovrà considerare gli effetti che lo stesso ha prodotto anche nei confronti di tutte le persone coinvolte e della stessa società, tenendo presente quelli che sono gli obiettivi propri della Giustizia Riparativa di cui all’art. 43, comma 2, relativi al riconoscimento della vittima del reato, alla responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e alla ricostruzione dei legami con la comunità. A tal fine, senza dubbio, importante è la valutazione della condotta processuale dell’imputato (considerata anche sulla base della sua presenza alle udienze e delle dichiarazione rese nel corso dell’interrogatorio o dell’esame o spontaneamente) e il parere della persona offesa, che sia costituita o no parte civile, nonché la considerazione del tempo trascorso dal fatto, in rapporto al reato e alle parti.
Nel caso in esame, quanto all’utilità del programma, la Corte, valorizzando, in particolare, anche la natura pubblicistica dell’istituto, ha ritenuto che non fosse possibile «escludere l’utilità dell’accesso al programma anche nella presente fase processuale», tenuto conto della possibilità di svolgere il programma con vittima cd. aspecifica [5]. Viene, in tal caso, utilizzato il parametro valutativo “in negativo” [6], che deve essere comunque letto unitamente alle considerazioni svolte nella parte precedente dell’ordinanza e valutato con le stesse complessivamente.
Nella specie, per la risoluzione delle questioni derivanti dal fatto, si deve dunque partire proprio dal fatto in sé che è quello descritto nel paragrafo 1, dalla lettura del quale emerge subito e con evidenza la particolare violenza utilizzata nella commissione dell’omicidio e l’accanimento poi riversato sul corpo della donna dall’aggressore; così come si dovrà verificare cosa questo fatto ha lasciato e provocato nelle persone più e meno vicine alla vittima e, in particolare, nel figlio di sette anni, nonché nell’intera comunità.
È, infatti, con questo fatto e con tutto quanto ne è derivato che Davide Fontana dovrà fare i conti nel corso del programma di giustizia riparativa, se fosse eventualmente ritenuto fattibile, confrontandosi con le persone offese, tra le quali un minore di sette anni, qualora le stesse dovessero manifestare il loro consenso davanti al mediatore esperto, altrimenti sarà lo stesso mediatore a valutare la fattibilità del programma con la vittima cd. aspecifica.
Per il minore sarà sentito, sulla base del disposto di cui all’art. 48, comma 2, l’esercente la potestà genitoriale e, nel caso in cui acconsentisse, si terrà conto, come disposto dall’art. 46, del superiore interesse dello stesso e lo svolgimento del programma dovrebbe essere assegnato ad un mediatore esperto dotato di specifiche attitudini (sul punto, si deve sempre considerare che il caso in esame è stato assegnato ad un Centro che non è quello di cui al decreto).
La seconda e la terza condizione, entrambe negative, relative alla valutazione del pericolo concreto sia per gli interessati, la prima, che per l’accertamento dei fatti, la seconda, risponde alla necessità di salvaguardare, per un verso, le parti rispetto a pericoli derivanti dalla partecipazione al programma, e, per l’altro, la stessa funzione cognitiva del procedimento penale [7].
Il problema della salvaguardia degli interessati si pone con particolare attenzione sia in questo tipo di reati, che lasciano nelle vittime ferite difficilmente rimarginabili (rendendo le stesse vittime particolarmente fragili) e destabilizzano l’intera comunità, creandovi insicurezza, sia con riferimento ai reati di violenza di genere o domestica, campo nel quale esiste, in particolare, uno squilibrio di potere sotto il profilo psicologico tra i soggetti, trattandosi di forme di violenza particolarmente intrusive e di difficile emersione a causa del carattere relazionale dell’offesa; queste presentano il rischio che il soggetto debole, per paura di subire nuove violenze, nella difficoltà di avere un confronto verbale con l’aggressore adatti i propri bisogni a quelli dell’autore del reato, con conseguente nuova mortificazione dei suoi anche sotto l’aspetto riparativo [8].
Ciò che sia il Giudice, nella valutazione del pericolo concreto (effettuata sulla base di quanto emerge dal procedimento) che il mediatore, nella valutazione della fattibilità del programma (effettuata nel corso degli incontri che ha con le parti nella fase preliminare) dovrebbero assolutamente evitare è il rischio di vittimizzazione secondaria delle persone offese.
Non esiste un definizione nel nostro ordinamento di vittimizzazione secondaria, si può tener presente che nel considerando 17 della direttiva 2012/29/UE (cd. Direttiva vittime) è definita la violenza di genere precisando che «le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di un’assistenza e di protezione speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni connesse a tale violenza». Secondo la stessa direttiva esistono due tipi di vittimizzazione secondaria, quella processuale e quella sostanziale: la prima si configura allorquando la vittima patisca conseguenze dannose proprio a causa del procedimento penale avviato a seguito della denuncia; la seconda invece si configura quando, dopo la denuncia, vi sia il rischio per la persona offesa di essere sottoposta alle medesime condotte violente ed abusanti subite in precedenza.
Nell’ordinanza in esame, come già precisato nel paragrafo 1, si esclude il pericolo concreto per l’accertamento dei fatti, in quanto già giudicati in primo grado, e si esclude altresì un pericolo concreto per gli interessati, pur tenuto conto della presenza del minore di anni sette e considerato che il programma di giustizia riparativa sarà verosimilmente svolto con vittima cd. aspecifica.
Quanto all’accertamento dei fatti, essendo ormai esaurito il processo di primo grado, il pericolo in concreto, relativo all’accertamento dei stessi, non potrebbe verificarsi.
Quest’ultima condizione si pone, infatti, all’attenzione del Giudice, soprattutto nella fase delle indagini o nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
Il ruolo del Giudice è, pertanto, in questo momento dell’invio molto delicato; è importante che l’ordinanza sia ben motivata e sarebbe, quanto meno opportuno, per una migliore valutazione, mettere in condizione i magistrati, anche mediante corsi periodici di formazione, di approfondire meglio la materia della giustizia riparativa; non addentrandoci qui nella stessa, basti tenere a mente che si tratta di un forma di giustizia che esiste in realtà anche in Italia da molto tempo, utilizzata soprattutto in campo minorile, e alla quale in Europa, soprattutto nei Paesi scandinavi, si fa ampio ricorso con successo.
Ruolo diverso da quello del Giudice lo ha il mediatore esperto, di fronte al quale le parti saranno chiamate ad esprimere il consenso (artt. 48 e 54) e che valuterà la fattibilità o meno del programma (art. 54, comma 1) sceglierà la tipologia (art. 53), tenendo conto, al termine della fase preliminare, dei soggetti coinvolti e delle loro caratteristiche, della relazione tra gli stessi, della vicenda che li ha visti protagonisti.
Sarà il mediatore esperto, come già precisato, che valuterà la fattibilità del programma anche con vittima cd. aspecifica o surrogata [9] (in ordine alla quale si dirà meglio nel paragrafo successivo) e anche cercando di evitare il rischio di vittimizzazione secondaria come sopra precisato.
4. La vittima diretta e la vittima cd. aspecifica o surrogata nella nuova disciplina della giustizia riparativa
Dunque, «La nuova normativa accoglie l’idea di una giustizia riparativa senza preclusioni ex ante relative alla tipologia di reato commesso, alla fase processuale di riferimento, alle persone coinvolte» [10]. L’accesso può, infatti, avvenire in ogni stato e grado del procedimento (art. 44, c. 2) e si fonda sul consenso libero, consapevole e informato ed espresso in forma scritta sia della persona indicata come autore dell’offesa che della vittima (artt. 43, c. 1, lett. d) e 48, c. 1). Nel corso dello svolgimento degli incontri, i mediatori esperti assicurano “il trattamento rispettoso, non discriminatorio ed equiprossimo” [11] (art. 55, c. 2); l’interesse della vittima e quello della persona indicata come autore dell’offesa sono presi in equa considerazione (art. 43, c. 1, lett. b)).
Dunque, la nuova disciplina pone, per la prima volta, al centro l’interesse di entrambe le parti, «ponendo la giustizia riparativa al di fuori di una visione solo reo – centrica, orientata a risolvere questioni legate alla punibilità del colpevole e/o alla sua rieducazione.
In altre parole, le vittime vengono coinvolte nei programmi di giustizia riparativa non “per fare qualcosa per l’autore del reato” e nemmeno perché “servono alla sua rieducazione” ma per “fare qualcosa per sé stesse. Lo stesso esito riparativo, che nasce dallo scambio dialogico fra le parti, implica necessariamente di andare oltre il desiderio o la sola prospettiva del responsabile e di coinvolgere, in modo attivo la vittima (con una visione ampia capace di includere anche la comunità lesa dal reato) che può “scegliere” di essere riparata. Specularmente la normativa introduce un bilanciamento di interessi anche rispetto a una visione solo vittimo – centrica della giustizia riparativa (quale desumibile dalla lettura della Direttiva UE 29/12 contenente norme minime a protezione e tutela delle vittime), superando l’idea che i programmi di giustizia ripartiva debbano essere intesi nell’esclusivo interesse della vittima» [12].
Della vittima viene data una definizione ben precisa nell’art. 42, comma 1, lett. b) del decreto, nella quale la stessa viene indicata nella: «la persona fisica che ha subìto direttamente dal reato qualunque danno, patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona».
Tale definizione riproduce l’articolo 1, comma 1, lett. a), alinea i) e ii) della Direttiva 2012/29/UE, che fa riferimento a “qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale” subito direttamente dal reato, allo scopo di ricomprendere ogni possibile effetto dannoso del reato stesso (tra cui, a titolo esemplificativo, il danno economico, fisico, mentale ed emotivo), in linea con l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità attualmente in corso, che va perfezionando e affinando le diverse tipologie di danno, rimanendo tuttavia sempre nell'ambito di tale tradizionale bipartizione. La definizione di vittima non coincide esattamente con le figure note all’ordinamento nazionale, quali la persona offesa, il danneggiato dal reato, la parte civile; pertanto, la nuova disciplina organica è stata coordinata con il resto dell’ordinamento vigente, in base ad esigenze di tassatività e precisione, poste di volta in volta, con il richiamo alla figura autonoma della “vittima del reato” oppure alla “persona offesa” in senso stretto, apportando, di conseguenza, modifiche al codice di procedura penale in tema di avvisi e informazioni [13].
Ai programmi di giustizia riparativa può chiedere di partecipare o essere invitata anche la persona offesa di un reato diverso da quello per cui si procede o per cui si avvia il programma (art. 53), ovvero la cd. vittima surrogata o aspecifica. Come è stato precisato nella Relazione illustrativa al decreto «la vittima di un reato differente non è sostituto della vittima diretta e non meno vittima di quest’ultima. Anche la vittima aspecifica, infatti, è vittima, ancorché vittima di un reato e non del reato» [14]. La possibilità di offrire la partecipazione a programmi di giustizia riparativa, sussistendone l’interesse, la volontà ed il consenso libero e informato, anche alla vittima di un reato diverso, magari della stessa specie di quello per cui in ipotesi si procede, è uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto alla giustizia penale ‘convenzionale’. L’Handbook delle Nazioni Unite colloca la mediazione con vittima aspecifica (o surrogata) tra i quasi-restorative programmes proprio per il fatto che non si indirizza alla vittima del reato per cui si procede [15].
In pratica, si ricorre alla vittima surrogato o aspecifica quando i programmi di giustizia riparativa affrontano i cd. reati senza vittime o reati che non comportano alcun danno o perdita diretta per un individuo (ad es. detenzione o cessione di sostanze stupefacenti), oppure quando le vittime non sanno di essere state vittime, sono assenti o non rintracciabili o sono state vittime in un altro paese; ci sono anche situazioni in cui la vittima non è un individuo, ma un'entità aziendale. I programmi di giustizia riparativa hanno così trovato modi diversi per "rendere operativo" il concetto di vittima per i propri scopi, ad esempio, utilizzando vittime surrogate, attori retribuiti, rappresentanti ufficiali di aziende o istituzioni pubbliche [16]. Anche quando le vittime, per vari motivi, non desiderano o non possono partecipare direttamente a un processo di riparazione, un programma può essere progettato per consentire a una vittima surrogata di partecipare al processo per conto delle vittime. Questo programma «…consente all’autore di reato di avviare comunque un percorso di mediazione e non di rado porta benefici per entrambe le parti» [17].
Si tratta di un programma che non sostituisce tout court la mediazione diretta e specifica, a esclusivo arbitrio dei mediatori (che, a loro discrezione, priverebbero i partecipanti dal diritto di accedere a una mediazione vis à vis), né si pone come un programma nell’esclusivo interesse dell’imputato (nella prospettiva che occorre che faccia comunque qualcosa in favore di qualcuno) [18].
Dunque, nel caso di specie, come già chiarito, ove le persone offese non prestino il consenso, il mediatore esperto dovrà valutare la fattibilità del programma anche con riguardo alla possibilità che si possa svolgere con vittima surrogata.
Altra valutazione del mediatore esperto, in termini di fattibilità del programma e di successiva scelta dello stesso, da punto di vista della tipologia, è che partecipanti al programma di giustizia riparativa possono essere anche «altri soggetti appartenenti alla comunità, quali i familiari della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa, persone di supporto segnalate dalla vittima del reato e dalla persona indicata come autore dell’offesa, enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegato di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi pubblici” e “chiunque vi abbia interesse» (art. 45, comma 1, lett. c) e d)).
Non può infatti non considerarsi l’aspetto pubblicistico dell’istituto, evidenziato dalla stessa Corte di Busto Arsizio, considerato che il reato commesso crea una frattura, una lacerazione, non solo con la vittima ma con l’intera comunità, creando all’interno della stessa insicurezza. «La giustizia riparativa produce effetti positivi, sia rispetto alla considerazione che si ha di sé sia in termini di relazione con l'altro e con la giustizia, nella vittima, in chi viola la legge, nelle famiglie coinvolte e nella comunità»[19].
5. Gli effetti dello svolgimento del programma nel processo penale
All’esito del programma, l’autorità giudiziaria acquisisce la relazione redatta dal mediatore esperto, contenente «la dettagliata attività svolta e l’esito riparativo raggiunto», di cui dovrà tener conto in ambito processuale, nei limiti di utilizzabilità stabiliti nella disciplina organica (art. 57).
È molto importante, anche in questo momento, il ruolo del Giudice, in quanto è lui a qualificare l’esito del programma e a stabilire dunque se favorevole o meno. Il mediatore esperto non scrive in calce alla relazione del programma svolto (come era in precedenza) se positivo o meno; è il Giudice a valutare lo svolgimento del programma e l’eventuale esito riparativo.
Ciò che può incidere, ai fini dell’applicazione, nell’ambito del procedimento penale, di determinati istituti, nei confronti e a favore dell’imputato, è soltanto l’esito riparativo come definito dall’articolo 42, comma 1, lett. e), del decreto e come disciplinato dall’articolo 56. L’interruzione del programma o il mancato raggiungimento di un accordo non possono dal giudice essere valutati a sfavore dell’imputato.
Le conseguenze che derivano nel processo penale sono il possibile riconoscimento dell’attenuante comune di cui all’art. 62, n. 6, c.p., la possibile remissione tacita di querela, ai sensi dell’art. 152 c.p., nonché la possibile sospensione condizionale della pena, ai sensi 163 c.p.. Sulla base poi di quanto disposto dall’art. 58 del decreto, il giudice valuta lo svolgimento del programma anche ai fini dell’art. 133 c.p. (norma non modificata dal decreto), quindi, nella determinazione della pena.
In base esecutiva, lo svolgimento del programma viene valutato ai fini dell’assegnazione al lavoro esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, previste nel capo VI della L. 354/1975, nonché della liberazione condizionale (art. 15 bis L. 354/1975, disposizione introdotta dal decreto).
Nel caso di specie, ragionando in astratto, pertanto, tenuto conto che trattasi di reati procedibili d’ufficio, per i quali è stata inflitta una pena di anni trenta, ciò che ne potrebbe derivare nel processo, nel caso di svolgimento di un programma di giustizia riparativa con esito favorevole e nel caso in cui la sentenza venisse appellata (e confermata quanto alla condanna), sarà eventualmente l’applicazione della nuova circostanza attenuante comune di cui all’art. 62, n. 6, c.p. (dovendo, invero, valutare i Giudici l’applicabilità di detta circostanza, qualora il programma sarà con vittima surrogata, considerato che nella norma si legge “l’aver svolto un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato” e la definizione di vittima del reato è quella di cui all’art. 42, c. 1, lett. b) del decreto) e la valutazione della pena tenendo conto del disposto di cui all’art. 58 del decreto.
Ove la sentenza di condanna passasse in giudicato, in fase esecutiva, potrà, eventualmente, essere valutato il programma svolto ai fini della concessione dei benefici, come sopra precisato.
6. Conclusioni
In conclusione, la nuova disciplina della giustizia riparativa è stata così introdotta nel nostro sistema, in quanto, come chiarito dalla stessa Ministra (all’epoca della redazione del testo) Marta Cartabia «Non posso non osservare che il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale che stanno mostrando esiti fecondi per la capacità di farsi carico delle conseguenze negative prodotte dal fatto di reato, nell’intento di promuovere la rigenerazione dei legami a partire dalle lacerazioni sociali e relazionali che l’illecito ha originato. Le più autorevoli fonti europee e internazionali ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale.
Non mancano nel nostro ordinamento ampie, benché non sistematiche, forme di sperimentazione di successo e non mancano neppure proposte di testi normativi che si fanno carico di delineare il corretto rapporto di complementarità fra giustizia penale tradizionale e giustizia riparativa. In considerazione dell’importanza delle esperienze già maturate nel nostro ordinamento, occorrere intraprendere una attività di riforma volta a rendere i programmi di giustizia riparativa accessibili in ogni stato e grado del procedimento penale, sin dalla fase di cognizione» [20].
Pertanto, la nuova disciplina, nell’attuazione dell’art. 1, comma 18, lett. c) della legge delega [21] e nel creare dunque il momento di sinergia tra il processo penale e la giustizia riparativa, ha cercato di trovare il giusto equilibrio tra l’evitare l’uso strumentale dello svolgimento del programma da parte dell’imputato [22], il non ostacolare la necessità di speditezza del processo penale, principio ispiratore dell’intera riforma, e non tralasciare mai il rispetto per la vittima, cercando di evitare la vittimizzazione secondaria.
Per mantenere tale equilibrio è necessario che l’intero sistema venga attuato così come delineato nella normativa: l’invio dei casi nel corso nel procedimento ai Centri, su iniziativa delle parti o d’ufficio, non determina la sospensione del processo, se non per i reati procedibili a querela, con riferimento ai quali l’esito favorevole del programma potrebbe comportare l’estinzione del reato (art. 152 c.p.); la valutazione dell’Autorità giudiziaria è molto importante sia, inizialmente, al momento dell’invio, sia al termine dello svolgimento del programma, dovendo detta Autorità qualificare se l’esito raggiunto sia favorevole o meno e quindi se applicare o meno gli istituti sostanziali con effetti nel processo; lo svolgimento del programma di giustizia riparativa è basato sul consenso delle parti e il programma potrà essere svolto anche se la vittima non presti il suo (procedendo in tal caso allo svolgimento del programma con la vittima surrogata, se ritenuto fattibile dal mediatore esperto nella sua attenta valutazione sul punto); nell’ipotesi in cui si tratti di reati procedibili d’ufficio, in ordine ai quali il procedimento non si sospende, qualora il processo venga definito prima della conclusione dello svolgimento del programma (come verosimilmente accadrebbe sempre nel caso di definizione del giudizio con rito abbreviato), l’imputato non potrà beneficiare della nuova circostanza attenuante introdotta; lo svolgimento del programma di giustizia riparativa deve essere effettuato da Centri e dai mediatori esperti di cui al decreto, con tutte le garanzie che ciò comporta, con ciò auspicando una quanto più rapida possibile istituzione degli stessi Centri [23].
[1] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, in Supplemento straordinario n.5 Gazzetta Ufficiale 19.10.22, pag. 563 e segg.
[2] La giustizia riparativa, così come la riforma del processo penale di cui al decreto rientra tra gli obiettivi di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
[3] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, in Supplemento straordinario n.5 Gazzetta Ufficiale 19.10.22, pag. 556, ove si legge anche che «La nozione di “mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa” è riferita alla figura professionale di nuovo conio, unica deputata allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa in materia penale».
[4] I servizi di giustizia riparativa erogati dai centri che operano in virtù di protocolli d’intesa con Uffici Giudiziari potrebbero essere oggetto di ricognizione da parte della Conferenza locale, in virtù dell’art. 92, comma 1 del decreto, ma allo stato non sono ancora stati sottoposti a ricognizione.
[5] L’istanza di accedere a programmi di giustizia riparativa, anche con vittima aspecifica, risulta invece esclusa dal Tribunale di Trento in altra e non dissimile vicenda di omicidio, quella di Benno Neumair; per la vicenda giornalistica si veda C. Currò Dossi, Benno Neumair chiede la giustizia riparativa. La sorella Madè e la zia “Non così, non si è mai pentito", in Corriere della sera, 16 settembre 2023.
[6] «Ciò lascia senz’altro maggiori possibilità di giustificare l’utilità di un percorso riparativo, anche nelle forme di riparazione con vittima aspecifica, rispetto a quanto avverrebbe qualora si ritenesse invece di dover motivare “in positivo” l’utilità. In questa seconda ipotesi, infatti, andrebbero più specificatamente chiarite le ragioni che nel caso concreto consentono l’invio. Se dovesse consolidarsi il criterio dell’”utilità “in negativo”, anche attraverso l’enfatizzazione dei fini pubblicistici della giustizia riparativa, finirebbe verosimilmente per affermarsi un’utilità in re ipsa, aprendo canali pressoché incondizionati all’invio. E’ in realtà auspicabile addivenire a modalità ragionevolmente condivise di interpretazione”. Paola Maggio e Francesco Parisi, Invio giudiziale a percorsi di giustizia riparativa con vittima “aspecifica”, contro la volontà dei familiari della vittima diretta, in un fattispecie di omicidio aggravato: il caso Maltesi – Fontana continua a far discutere, in Foronline, 29 settembre 2023 e in Sistema penale, 19 ottobre 2023.
[7] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, in Supplemento straordinario n.5 Gazzetta Ufficiale 19.10.22, pag. 582.
[8] Francesco Parisi, La Restorative Justice alla ricerca di identità e legittimazione, pagg. 25 e segg., Diritto Penale Contemporaneo, 24 dicembre 2014.
[9] Sussistono per es. reati nei quali non ci sono vittime in senso stretto o le vittime sono del tutto interscambiabili, come nei fatti di terrorismo o nei crimini d’odio. Marco Boucherd e Fabio Fiorentin, Sulla giustizia riparativa, in Questione giustizia on line, 23 novembre 2021.
[10] Federica Brunelli, Programmi di giustizia riparativa, pag. 757, in La Riforma Cartabia, a cura di Giorgio Spangher.
[11] «Il concetto di “equiprossimità … può essere definito come “la capacità di avvicinarsi all’esperienza dell’uno e dell’altro”, attraverso un ascolto non giudicante che facilita il dialogo, senza che il mediatore possa o debba prendere in carico i confliggenti (bensì solo il loro conflitto) né esprimere valutazioni sulle persone o assumere decisioni per loro (neppure rispetto ai contenuti dell’accordo riparativo», Federica Brunelli, Programmi di giustizia riparativa, pag. 766, sopra cit.
[12] Federica Brunelli, Programmi di giustizia riparativa, pag. 758 e 759, sopra cit.
[13] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, in Supplemento straordinario n.5 Gazzetta Ufficiale 19.10.22 pagg. 364 e 365.
[14] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, in Supplemento straordinario n.5 Gazzetta Ufficiale 19.10.22 pag. 532.
[15] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, in Supplemento straordinario n.5 Gazzetta Ufficiale 19.10.22 pag. 532.
[16] V. Handbook on Restorative Justice Programmes delle Nazioni Unite (2020).
[17] G. Mannozzi e G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, op. cit., p. 142.
[18] M. Bouchard, Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150 sulla disciplina organica della giustizia riparativa, in Quest. Giust. 7 febbraio 2023, pag. 17.
[19] Carla Galatti, Autorità Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, Convegno del 12 ottobre 2023, Giustizia riparativa in ambito penale minorile.
[20] M. Cartabia, Linee programmatiche sulla giustizia, 18 marzo 2021, p. 15, https://i2.res.24o.it/pdf2010/....
[21] Art. 1, comma 18, lett. c) della legge delega: «prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena, su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, sulla base del consenso libero e informato della vittima del reato e dell’autore del reato e della positiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria dell’utilità del programma in relazione ai criteri di accesso definiti ai sensi della lettera a)».
[22] «… l’esperienza ha dimostrato che una quota di strumentalità (ravvisabile anche in assenza di automatismi premiali) possa essere accolta all’inizio di un programma di giustizia riparativa e trasformarsi positivamente nel corso dello stesso, lasciando sempre ai mediatori di valutare l’opportunità o meno di un incontro con la vittima», Federica Brunelli, Programmi di giustizia riparativa, pag. 770 sopra cit.. La scelta opportunistica iniziale dell’imputato potrebbe infatti costituire un’occasione per lui di svolgere il programma che altrimenti non avrebbe intrapreso, con effetti positivi anche per la vittima e per la Comunità.
[23] I programmi di giustizia riparativa al di fuori del processo e della disciplina del decreto possono sempre e comunque svolgersi con i Centri attualmente esistenti.
(Immagine: E.Munch, The sick child, olio su tela, 1907 https://www.tate.org.uk/art/ar...)
Sommario: 1. L’irragionevole durata dei processi in Italia - 2. Iscrizione della notizia di reato - 3. Giustizia riparativa - 4. Messa alla prova dell’imputato - 5. Le pene sostitutive - 6. Richiesta di archiviazione e sentenza di non luogo a procedere - 7. Obbligatorietà dell’azione penale - 8. Conclusioni.
1. L’irragionevole durata dei processi in Italia.
L’irragionevole durata dei processi, secondo il lessico descrittivo introdotto con la riforma dell’art.111 della Costituzione [1] costituisce una criticità strutturale grave della giustizia nel nostro paese, come d’altro canto, sistematicamente stigmatizzato nei rapporti annuali dalla Cepej [2] e per la quale l’Italia ha l’imbarazzante posizione di Paese tra quelli con il più elevato numero di violazioni. Dal 1959, anno della sua istituzione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato 1.202 violazioni del diritto al giusto processo ex art. 6 della carta dei diritti dell’uomo, in termini di durata del processo [3].
Il processo non è giusto se la risposta di giustizia arriva troppo tardi. Le indagini seguite da un processo esageratamente lungo costituiscono, per chi le subisce, una sanzione senza sentenza di condanna.
Non a caso il PNRR, quanto alla giustizia, è incentrato sul tema della durata dei processi. I target negoziati con la Commissione europea sono come è noto – la riduzione del disposition time complessivo, dato dalla somma del disposition time nei tre gradi di giudizio, del 40% nel settore civile e del 25% nel settore penale entro giugno 2026 - la riduzione dell’arretrato civile del 65% in Tribunale e del 55% in Corte di Appello entro fine 2024; del 90% in Tribunale e in Corte di Appello entro giugno 2026. I consolidati annuali rassegnano un mite trend positivo.
Il raggiungimento dell’obiettivo del PNRR e della riforma Cartabia della riduzione della durata del processo è inevitabilmente destinato a scontrarsi con la mancanza di risorse umane – e non solo di magistrati - negli uffici di procura manca il personale così come manca negli uffici dei giudici per le indagini preliminari, uffici nevralgici quanto ai flussi in entrata dei carichi penali. Il personale dell’ufficio del processo offre il suo contributo ma si tratta di contributo – nonostante l’elevata qualità dei funzionari del processo -non comparabile rispetto a quello nel complesso richiesto.
In questo contesto è essenziale cambiare passo, nella consapevolezza che il raggiungimento dell’obiettivo dipenderà in massima parte - quanto ai flussi in entrata-, dall’approccio che i pubblici ministeri adotteranno rispetto alla notitia criminis, al ruolo di “giudice” della prevedibilità della condanna che sapranno assumere e, quanto ai giudici per le indagini preliminari, dalla capacità di farsi carico del decidere, senza dibattimento, in ordine al più probabile esito dello stesso, della responsabilità di farsi carico della prognosi (v. Ragionevole previsione di condanna e giustizia predittiva: una modesta proposta per la riforma dell’art.425 c.p.p. di Cataldo Intrieri e Luigi Viola).
Quanto agli avvocati il raggiungimento dell’obiettivo dipenderà dalla capacità di ritagliarsi un ruolo difensivo attivo nella fase delle indagini e di svolgere efficacie ruolo informativo in favore dei loro assistiti quanto alla possibilità di accedere ai nuovi istituti.
Occorre essere consapevoli che l’obiettivo della riduzione dei tempi del processo si raggiunge con la partecipazione al comune obiettivo.
Significativo il richiamo del Presidente della Repubblica, alla magistratura e all’avvocatura perché si impegnino affinché il processo, sia civile che penale, divenga uno strumento più agile e moderno per perseguire adeguatamente gli obiettivi per il quale è predisposto [4].
Ecco qui la speranza riposta nella modernità, in questa fase, affidata ancora, e potrebbe essere l’ultima, alle scelte degli uomini prima, e non ancora, che alle soluzioni dell’intelligenza artificiale.
Per gli avvocati, i pubblici ministeri e i giudici, la sfida è quella di sapersi rimodellare per avviare, in concreto, la semplificazione del processo senza arretramenti rispetto alla sacralità e alle garanzie del rito, con impegno convinto a sollecitare, quando ne ricorrano i presupposti, soluzioni semplificate e percorsi alternativi al processo, attraverso i quali, senz’altro, si può ben riaffermare il diritto violato e soddisfare le pretese riparative e rieducative generate dal delitto.
Per i pubblici ministeri, in ragione delle riforme introdotte, la sfida è quella di riuscire realizzare un ridimensionamento, non arbitrario ma fondato su criteri oggettivi, dell’esercizio dell’azione penale.
D’altro canto l’obbligatorietà dell’azione penale è espressione del principio di uguaglianza che si declina nel processo nel principio di parità di trattamento davanti alla legge, principio espressione dell’articolo 3 della nostra Costituzione, incrinato dall’impossibilità oggettiva dell’esercizio esaustivo e paritario dell’azione penale per l’atavica mancanza di risorse materiali.
L’effetto ultimo della mancanza di risorse è che, senza criteri oggettivi di selezione, paradossalmente, l’obbligatorietà dell’azione si riverbera in disparità e ingiustizia. Nella ricostruzione di nuovi modelli i capi degli uffici di Procura dovrebbero dunque per primi farsi carico dei rischi derivanti da un esercizio arbitrario dell’azione penale.
Se l’obbiettivo della riforma è quello di ridisegnare un processo giusto in termini di ragionevole durata allora l’interpretazione delle norme dovrà necessariamente essere orientata nel senso della realizzazione dell’efficienza e del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.
2. Iscrizione della notizia di reato
Già in fase di iscrizione cambia l’approccio del pubblico ministero verso la notizia di reato con l’introduzione della previsione della descrizione del fatto che costituisce il fondamentale inizio della trama di quella che sarà la vicenda processuale che, eventualmente, si snoderà nei successivi gradi del giudizio di merito e poi nel giudizio di legittimità [5].
Significative, con riferimento all’obiettivo della ragionevole durata delle indagini preliminari, le modifiche dell’art. 335 nonché le previsioni introdotte con gli artt. 335 bis, 335 ter 335 quater, c.p.p. Secondo le previsioni introdotte con la riforma l’iscrizione deve contenere la “rappresentazione del fatto, determinato e non inverosimile riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice” (comma n.1 dell’ art. 335).
Viene così anticipata, al momento dell’iscrizione della notitia criminis, la fase descrittiva della vicenda che migliora l’intellegibilità della contestazione da parte dell’indagato. L’operazione di inserimento della rappresentazione del fatto necessariamente implica e presuppone un’opera di analisi di quanto riportato nella denuncia, nel rapporto o nell’informativa che impone uno studio immediato dell’atto di impulso del procedimento penale.
La previsione che la rappresentazione del fatto non sia inverosimile implica il riconoscimento in capo al pubblico ministero - e questo è l’altro lato della medaglia - del potere di procedere all’immediata archiviazione della denuncia implausibile.
L’iscrizione deve essere disposta non appena viene individuato il nome dell’autore del reato. È riconosciuta al pubblico ministero la possibilità di indicare una data anteriore. La previsione della retrodatazione conferma l’importanza del dies dell’iscrizione quale termine iniziale di tutte le successive fasi.
È importante anche in questo caso il ruolo rimesso al pubblico ministero quale giudice del suo operato. Si va dunque verso un modello di pubblico ministero che è terzo in relazione ai suoi stessi atti perché messo in grado di correggerli. Peraltro il potere di retrodatazione gli evita di incorrere in illecito disciplinare, il ritardo nell’iscrizione può infatti integrare ipotesi di illecito disciplinare del pubblico ministero. Il potere di retrodatazione di riflesso onera il pubblico ministero di un dovere di lealtà nei confronti dell’indagato.
Ulteriore elemento di novità con riguardo alla scansione dei termini è segnato dall’attribuzione al giudice per le indagini preliminari del potere di corretta individuazione del momento in cui l’iscrizione si sarebbe dovuta effettuare in caso di divergenza tra il momento dell'individuazione dell’autore e quello dell’iscrizione ( v. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità di Roberta Aprati)
3. Giustizia riparativa
Con riferimento al nuovo istituto della giustizia riparativa è fondamentale la sollecitazione che avvocati, pubblici ministeri e giudici sapranno articolare verso l’accesso ai programmi di giustizia riparativa ai sensi dell’art. 129 bis [6].
L’accesso è di base rimesso alle parti e qui ampio spazio è rimesso agli avvocati, sia quello dell’imputato che quello della persona offesa.
I giudici e, nella fase delle indagini, i pubblici ministeri possono disporre l’invio dell’imputato e della vittima al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l'avvio di un programma di giustizia riparativa.
La mediazione penale per i reati procedibili a querela può sostituirsi al processo non ha per il resto effetti deflattivi. Trattasi di istituto che, sotto il profilo della giustizia sostanziale, presenta il maggior carico di novità quale strumento di risoluzione sociale del conflitto originato dal reato.
L’introduzione dell’istituto della giustizia riparativa richiama a un nuovo modello di giudice e di pubblico ministero avuto riguardo ai doveri informativi, l’art. 47 prevede infatti che l’autorità giudiziaria, in ogni stato e grado del procedimento nonché nella fase esecutiva della pena detentiva o della misura di sicurezza, informi la vittima e l’autore del reato in merito alla facoltà di accedere ai servizi di giustizia riparativa e ai servizi disponibili. È prescritto che l’informazione sia effettiva, completa e obiettiva.
Già in fase di informazione di garanzia ai sensi dell’art. 369 ter è rimesso al pubblico ministero il compito di avvisare la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa circa facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa (v. L'omicidio di Carol Maltesi e l'attuale disciplina della giustizia riparativa di Flavia Costantini).
4. Messa alla prova dell’imputato
Un nuovo modello di operatori della giustizia va necessariamente ridisegnato in ragione dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova.
È attribuito al PM il potere di iniziativa, ex art. 168 bis, in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.
L’ultima parte del primo comma di detto articolo prevede che nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale, l'imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.
La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
Ai sensi dell’art. 464 bis la richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo oppure, nel procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla conclusione dell'udienza predibattimentale prevista dall'articolo 554-bis. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall'articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l'atto di opposizione.
5. Le pene sostitutive
Un nuovo modello di avvocato è senz’altro auspicabile con riguardo alla riforma in tema di pene sostitutive.
Il successo della riforma in tema di pene sostitutive dipenderà dalla capacità con la quale gli avvocati sapranno accompagnare i loro assistiti nel percorso verso le pene sostitutive che necessariamente presuppone un’adeguata informazione tecnica affinché la scelta avvenga nella piena consapevolezza dell’imputato. Solo la scelta responsabile evita infatti il rischio di adesioni non consapevoli.
Sarà compito degli avvocati aiutare i loro assistiti a rappresentare tutto ciò che è utile che gli organi competenti conoscano ai fini della predisposizione di una “pena-programma” che sia la più adatta possibile alle esigenze di vita e familiari dell’imputato e a così a rendere effettiva la clausola del “minor sacrificio della libertà personale” di cui all’art. 58, 2° comma l.n. 689/1981. Il ricorso all’istituto della pena sostitutiva costituisce, è bene non dimenticarlo, un efficace applicazione, in concreto, del principio rieducativo della pena.
Il ricorso alle pene sostitutive è in grado di risolvere lo iato temporale, che a volte dura lunghi anni, tra il momento del processo ed il momento dell’esecuzione. Iato temporale che lede il canone della proporzionalità, ciò a causa dei mutamenti che medio tempore intervengono nella persona del condannato.
Comminare all’imputato, giudicato colpevole, la pena a lui adatta, quella “che gli serve”, ritagliata su di lui, e farlo nel momento in cui occorre che essa sia espiata, rappresenta la sfida cui oggi è chiamato ogni giudice penale che desideri proiettarsi nel futuro.
6. Richiesta di archiviazione e sentenza di non luogo a procedere
A parte il controllo del giudice per le indagini preliminari in merito all’iscrizione della notizia di reato e al controllo in ordine a eventuali fasi di stallo, con riferimento alla fase delle indagini preliminari la previsione di maggior rilievo è quella che modifica il presupposto della richiesta di archiviazione.
Secondo il nuovo art. 408, primo comma, non è più l’“infondatezza della notizia di reato” che deve determinare il PM alla richiesta di archiviazione bensì detta richiesta deve essere avanzata “Quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca».
Il riferimento alla condanna sposta la barra della richiesta di archiviazione dall’infondatezza della notizia alla ricognizione degli elementi raccolti - pro e contro ai sensi dell’art. 353 - completate le indagini.
Se gli elementi sono insufficienti o contraddittori il PM, all’esito di giudizio cognitorio che ha a oggetto i risultati investigativi raggiunti, deve assumersi la responsabilità di chiedere l’archiviazione.
Trattasi di un giudizio molto simile a quello effettuato dal giudice per le indagini preliminari all’esito dell’udienza preliminare ai sensi del vecchio art. 425 terzo comma che prevedeva che “il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa”.
Il terzo comma dell’art. 425 è stato modificato nel senso che il “giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quanto gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna” in questo caso è rimesso al giudice per le indagini preliminari importante potere deflattivo.
Se il pubblico ministero saprà svolgere l’azione di filtro si raggiungerà l’obiettivo della drastica riduzione dei flussi in entrata. Se il gip saprà svolgere l’attività di filtro il dibattimento sarà deflazionato.
Una grande responsabilità è dunque rimessa a PM e Gip.
Dalla previsione in esame ne esce ridimensionato il dibattimento, il processo accusatorio e il ruolo del PM come parte.
La previsione normativa si presta a spunti di riflessione che riguardano la materia ordinamentale.
Il riconoscimento in capo al PM di una funzione tipica dello di ius dicere stride con la paventata riforma sulla separazione delle carriere - in concreto attuata con l’art. 12 legge n. 71/2022 che restringere a uno solo i passaggi da una funzione all’altra–.
Il primo comma dell’art. 408 cod. proc. pen. rimette al pubblico ministero un giudizio prognostico più incisivo di quello che era richiesto al giudice per le indagini preliminari prima della riforma. Trattasi di disposizioni in linea con l’art. 358 cod. proc. pen. che rimette al pubblico ministero il compito di svolgere gli accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato.
Il modello di Pubblico ministero ridisegnato dalla riforma Cartabia conferma la bontà della definizione di pubblico ministero quale organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi”, questa la definizione offerta dalla Corte costituzionale in coerenza con l’etimologia del nome, dal latino minister, aiutante.
La formazione del pubblico ministero, eventualmente anche attraverso il previo esercizio delle funzioni giurisdizionali, meglio predispone all’applicazione dell’art. 358 cod. proc. pen. e all’applicazione della previsione di cui all’ art. 408 primo comma.
Un pubblico ministero, già giudice, meglio potrebbe contribuite al PNRR sotto il profilo dell’esercizio mirato dell’azione penale nell’obiettivo del contenimento delle risorse e della riduzione dei tempi della giustizia penale. Anche sotto tale profilo la previsione di cui all’art. 12 del legge n. 71/2022 appare incoerente con la situazione contingente e con gli obiettivi che la riforma della giustizia penale si prefigge.
Se dobbiamo pensare a un nuovo modello di PM ce lo immaginiamo più giudice che poliziotto.
Sotto il profilo delle risorse umane non si può omettere di considerare che quel giudizio prognostico richiede formazione preliminare di quei 1800 magistrati che svolgono le funzioni in primo grado con riguardo ai possibili risvolti processuali, tempo di studio degli elementi raccolti pro e contro l’imputato e di bilanciamento delle prove, tutte operazioni che richiederebbe un aumento degli organici delle Procure che invece si svuotano in ragione del rischio della paventata trasformazione della magistratura requirente in conseguenza della separazione.
7.Obbligatorietà dell’azione penale
L’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’art. 112, della quale deve farsi carico il pubblico ministero, altro non è che la manifestazione del principio di uguaglianza che, nel processo, si declina, nella parità di trattamento davanti alla legge.
Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge è la frase scritta nelle aule dei Tribunali, un monito che vale per tutta la magistratura in ragione dell’appartenenza a un unico ordine.
Con la riforma cambia il ruolo del pubblico ministero e cambia la nozione del principio dell’obbligatorietà, il pubblico ministero non è obbligato a esercitare l’azione quando giudica che non raggiungerà il risultato della condanna; il pubblico ministero non eserciterà l’azione con riferimento ai reati che non rientrano tra quelli da trattare in via prioritaria. L’art. 41 della legge 2022 ha introdotto modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, prevedendo l’inserimento dell’art. 3 bis, in tema di priorità nella trattazione delle notizie di reato e nell'esercizio dell'azione penale che stabilisce che il pubblico ministero è tenuto a conformarsi ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell'ufficio. L’art. 13 legge 17 giugno 2022 , n. 71 contenente modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero stabilisce che “il procuratore della Repubblica predispone, in conformità ai princìpi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il progetto organizzativo dell’ufficio, con il quale, tra l’altro, determina le misure organizzative finalizzate a garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto dei criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili. Il progetto è approvato dal Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario e valutate le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195”. Sul punto però la riforma è rimasta inattuata (La lenta erosione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Prime note ai “criteri di priorità” indicati dal Parlamento di Stefano Civardi, Chi sceglie quali indagini devono fare (e quali non fare) i pubblici ministeri? di Costantino De Robbio).
8. Conclusioni.
La riforma Cartabia è l’occasione per fare il punto sull'attività e sul ruolo, anche costituzionale del Pubblico ministero.
Ci sono funzioni del pubblico ministero poco conosciute delle quali è essenziale tener conto per comprendere appieno il ruolo che l’ordinamento repubblicano gli riconosce quale "organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi" nonché «organo di giustizia che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità».
Il punto è proprio questo: il filo rosso delle modifiche introdotte dalla riforma scommette su un pubblico ministero che sia capace di farsi giudice della sua stessa indagine.
La riduzione delle iscrizioni, la razionalizzazione delle scelte in ordine alle notizie da coltivare effettivamente, l’estensione dell’ambito di applicazione delle forme di definizione alternative (sia con procedimento per decreto, che con istituti di giustizia riparativa finalizzati alla remissione tacita di querela), la limitazione del numero di azioni penali (definizione di uno standard per l’esercizio dell’azione penale più elevato) richiede una sostanziale rimodulazione della funzione requirente.
Insomma, la scommessa è che, nel meccanismo, inceppato, della giustizia si faccia entrare un numero significativamente inferiore di regiudicande e questo è possibile sé il pubblico ministero assumerà le sue determinazioni con riferimento all’esercizio dell’azione penale da organo terzo, indipendente e parziale e non da semplice inquirente. Il pubblico ministero può adeguatamente operare con la funzione giurisdizionale che la riforma Cartabia gli riconosce e per l'attuazione del diritto a garanzia della legalità solo se gli saranno garantite, al pari del giudice, autonomia e indipendenza.
In tema di pubblico ministero su questa rivista: Brevi riflessioni sul ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale di Giuseppe Amara, Pubblica ministera a chi? di Sara Posa, Il ruolo del PM nei procedimenti di volontaria giurisdizione gestiti dal notaio di Caterina Romiti, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, Il ruolo del PM nel codice della crisi e dell’insolvenza. Cosa cambia? di Paola Filippi.
[1] Fenomeno che in ragione delle condanne all’Italia si tentò di arginare con la legge n. 89/2001 c.d. “legge Pinto” che paradossalmente produsse l’aumento del carico delle corti di appello, con procedimenti ex legge Pinto anche per l’irragionevole durata di detti procedimenti.
[2] Dal rapporto Cepej del 17 ottobre 2022 emerge che, nel 2020, le istituzioni italiane hanno investito nel sistema giustizia quasi 5 miliardi di euro, una somma corrispondente allo 0,30% dell’intero prodotto interno lordo, trattasi di percentuale in linea con quella degli altri Stati europei. Il denaro messo a disposizione per la giustizia è stato utilizzato principalmente per le esigenze dei tribunali (65%), in particolare per lo sviluppo dei sistemi informatici e della formazione, il 28% per le Procure della Repubblica e il 7% è destinato a garantire il servizio di patrocinio a spese dello Stato. Uno dei dati che maggiormente significativi messo in luce nel rapporto CEPEJ 2022 è il numero di avvocati nel nostro Paese, ben 236.000, pari a quasi un quinto del numero complessivo di professionisti legali presenti in tutta Europa. Viceversa, il numero di giudici professionali operanti in Italia è di soli 12 ogni 100.000 abitanti, un rapporto inferiore rispetto alla media europea ( detto dato non tiene conto degli oltre 3.500 giudici non professionali). Quanto alla lunghezza dei procedimenti il rapporto evidenzia che la durata media di un giudizio di primo grado è di circa due anni in ambito civile, un anno e mezzo nel penale e più di due anni nel settore amministrativo. Il secondo grado di giudizio dura tre anni, sia nel civile che nel penale. I tempi di definizione del giudizio davanti alla Corte di Cassazione nel settore civile, sfiorano i cinque anni, mentre sono inferiori ai dodici mesi nel settore penale. È di due anni, invece, la durata media del giudizio davanti al Consiglio di Stato nel settore amministrativo.
[3] L’Italia, quanto a condanne è al secondo posto, seguita a distanza dalla Turchia, con 608 violazioni. Quelle di Germania, Francia e Regno Unito sono rispettivamente, 284, 102 e 30.
[4] Dal discorso tenuto dal Presidente il 15 maggio 2023 a Napoli per l’inaugurazione della sede di della scuola di Castel Capuano.
[5] Prima della riforma il tema dell’iscrizione e dei termini di durata delle indagini preliminari nonchè delle conseguenze della loro inosservanza è stato oggetto di una fondamentale sentenza delle Sezioni unite che affermò il principio secondo il quale “il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al G.i.p. sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall'art. 407, comma 3, cod. proc. pen., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l'iscrizione (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244376 – 01). Con la medesima decisione la Corte ha affermato che il pubblico ministero, non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, è tenuto a provvedere alla iscrizione della "notitia criminis" senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo. Ugualmente, una volta riscontrati, contestualmente o successivamente, elementi obiettivi di identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il pubblico ministero è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi Rv. 244378- 01).
La giurisprudenza di legittimità, peraltro, ha precisato che, al fine della verifica della inutilizzabilità prevista dall’art. 407, comma 3, cod. proc. pen. per gli atti compiuti dopo la scadenza del termine di durata per le indagini preliminari, deve farsi riferimento alla data in cui i singoli atti di indagine sono compiuti e non a quella del deposito della informativa che li riassume (Sez. 6, n. 12104 del 05/03/2020, Sautto, Rv. 278726 – 01; Sez. 5, n. 19553 del 25/03/2014, Naso, Rv. 260403 – 01; Sez. 2, n. 40409 del 08/10/2008, Scatena, Rv. 241870 - 01).
[6] Nel nostro ordinamento, le prime applicazioni di GR si sono avute nel rito minorile a partire dalla metà degli anni Novanta, con esperimenti-pilota, soprattutto grazie alla particolare sensibilità culturale di una parte della magistratura e della dottrina penalistica4 . Pur in assenza di una norma ad hoc, piedistalli normativi instabili (in particolare gli artt. 9 e 28 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448) hanno consentito l’attivazione di procedure di mediazione penale (presso uffici istituiti prevalentemente attraverso l’opera del privato sociale) e la possibilità di attribuirvi valore in sede penale. Lente e frammentarie sono invece state le esperienze di GR nella “giustizia penale degli adulti” . GIUSTIZIA RIPARATIVA E SISTEMA PENALE NEL DECRETO LEGISLATIVO 10 OTTOBRE 2022, N. 150. PARTE I. «DISCIPLINA ORGANICA» E ASPETTI DI DIRITTO SOSTANZIALE 27.2.23 di Francesco Parisi.
di Federica Resta, dirigente del Garante per la protezione dei dati personali*
*Il presente contributo riflette opinioni personali dell’autrice, che non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza
Con le sentenze nn. 44155 e 44154 del 2023, la Sesta sezione della Corte di cassazione ha affermato alcuni principi rilevanti in tema di acquisizione, mediante ordine europeo di indagine, di messaggi su chat crittografate presso autorità giudiziaria straniera. Innovando rispetto ad altri precedenti, la Corte ha in particolare escluso l’applicabilità, in tali casi, dell’art. 234-bis c.p.p., in favore dell’art. 254-bis relativamente a comunicazioni in fase statica e, rispettivamente, della disciplina degli artt. 266 ss rispetto alle comunicazioni in fase “dinamica”.
Sommario: 1. Il contesto – 2. I principi affermati dalla Sesta Sezione – 3. I temi sottesi alle decisioni.
1. Il contesto
Con decisione n. 9 del 2023, la terza sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite l’esame di alcune questioni interpretative rilevanti rispetto all’acquisizione, con ordine europeo di indagine (di seguito: “o.e.i.”), di messaggistica criptata sulla piattaforma SKY-ECC[1]. La materia è stata recentemente oggetto di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla CGUE da parte del Tribunale del Land di Berlino (C 670/22), relativamente ad alcuni aspetti tra i quali la rilevanza dell’impossibilità di conoscere le modalità tecniche di acquisizione dei dati trasmessi sulla piattaforma Encrochat (analoga a SKY-ECC) e il relativo regime di utilizzabilità. Le particolari caratteristiche tecniche di questo sistema di messaggistica e dei dispositivi utilizzati (i “criptofonini”), volti a occultare le comunicazioni effettuate hanno, infatti, determinato il ricorso a modalità investigative del tutto peculiari. L’acquisizione e la successiva decrittazione delle chat parrebbero, infatti, avvenute dapprima a livello centrale, con l’inoculamento di un malware nel server anziché nei singoli dispositivi e, quindi, con alcune notifiche inviate a questi ultimi per ottenere la chiave di decrittazione delle conversazioni. Tuttavia, sul trojan utilizzato sarebbe stato apposto il segreto di Stato da parte della Francia, con conseguente compressione del contraddittorio sulle modalità di formazione della prova.
Il Conseil constitutionnel francese, con decisione n. 2022-987 QPC dell’8 aprile 2022, M. Saïd Z, aveva peraltro rigettato la questione di costituzionalità sollevata rispetto alla generale previsione dell’utilizzabilità di strumenti di captazione coperti dal segreto di Stato. Il tema della conoscibilità da parte della difesa delle modalità di formazione della prova era stato invece risolto nel nostro ordinamento, rispetto a questo sistema di messaggistica, nel senso della rilevanza della garanzia del contraddittorio sulle modalità di acquisizione del materiale probatorio (oltre che sugli esiti delle attività investigative), anche rispetto all’effettiva corrispondenza delle trascrizioni dei messaggi al tenore delle conversazioni intercettate, rilevante ai sensi dell’art. 191 c.p.p.[2].
La remissione alle Sezioni Unite concerne temi ulteriori e, in particolare:
a) la configurabilità dell’acquisizione mediante o.e.i. di messaggi su chat di gruppo presso A.G. straniera, che ne ha eseguito la decrittazione, in termini di acquisizione di “documenti e di dati informatici” ai sensi dell’art. 234-bis c.p.p.;
b) la necessità, ai fini dell’utilizzabilità dei dati in tal modo ottenuti, di preventiva o successiva verifica giurisdizionale della legittimità dell’acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria nazionale.
La decisione segue il deposito di due sentenze della Sesta sezione (nn. 44155 e 44154 del 2023) le quali, innovando rispetto all’indirizzo precedente hanno affermato, nella parte loro comune, che:
– l’oggetto dell’acquisizione all’estero della messaggistica criptata sulla piattaforma SKY-ECC non costituisce dato informatico utilizzabile ai sensi dell’art. 234-bis c.p.p., sicché, in tale ipotesi, l’attività acquisitiva, se riguardante comunicazioni avvenute nella fase “statica”, dev’essere inquadrata nelle disposizioni dettate in materia di perquisizione e sequestro e, in particolare, in quella prevista dall’art. 254-bis c.p.p. mentre se, avente ad oggetto comunicazioni avvenute nella fase “dinamica”, dev’essere inquadrata nella disciplina degli artt. 266 e ss. c.p.p., in materia di intercettazioni telematiche;
– la questione dell’illegittima emissione dell’ordine europeo di indagine da parte del pubblico ministero italiano non può essere dedotta dinanzi al giudice italiano, nel caso in cui tale ordine sia stato emesso per acquisire una prova già disponibile nello Stato di esecuzione e la stessa sia stata definitivamente trasmessa da tale Stato (in tal caso, la difesa può soltanto far valere la mancanza delle condizioni di ammissibilità della prova secondo l’ordinamento processuale italiano);
– l’utilizzabilità di prove acquisite all’estero a seguito della sua emissione è subordinata all’accertamento, da parte del giudice italiano, delle condizioni di ammissibilità dell’atto di indagine secondo le regole dell’ordinamento nazionale e del rispetto delle norme inderogabili e dei relativi principi fondamentali.
2. I principi affermati dalla Sesta Sezione
Riguardo al primo punto si registra un significativo revirement rispetto all’indirizzo (cfr., in particolare, Cass. pen. Sez. I, 1 luglio 2022, n. 34059; Sez. IV, n. 16347 del 2023) volto a ritenere la messaggistica conservata su server straniero dato informatico documentale conservato all’estero e non flusso comunicativo[3]. Di qui anche la ritenuta applicabilità, all'acquisizione della messaggistica crittografata end-to-end dal server straniero dove essa sia conservata, con il consenso del “legittimo titolare”, la disposizione di cui all'art. 234-bis cpp, escludendo la disciplina dell’art. 266-bis cpp, applicabile solo mentre l’attività di messaggistica, ancorché criptata, sia in corso.
Ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile rileverebbe infatti, secondo la Corte, la natura del documento, nella specie non cartacea o analogica, ma rappresentativa di comunicazione “incorporata in una base materiale con un metodo digitale”. Per consenso del "legittimo titolare" dei dati conservati all'estero dovrebbe, inoltre, intendersi l’assenso manifestato dalla persona giuridica che di quei documenti informatici può disporre, in assenza del quale dovrebbero attivarsi le procedure di cooperazione giudiziaria internazionale (cfr.. anche Cass. pen. Sez. VI, 28 maggio 2019, Pizzarotti, n. 28269; considera invece “legittimo titolare” il Tribunale di Parigi[4] che aveva proceduto al sequestro del server di proprietà della Sky Global).
A fronte di tale argomentazione le sentenze della Sesta sezione rilevano, invece, come la disciplina dell’art. 234-bis possa applicarsi solo limitatamente all’acquisizione di elementi informativi dematerializzati, preesistenti rispetto al momento di avvio dell’indagine francese o, comunque, formati al di fuori di essa e non ai risultati di un’attività acquisitiva concretizzatasi nell’apprensione occulta o nel sequestro del contenuto di un server.
In tali ultimi casi dovrà, invece, applicarsi la disciplina in tema di perquisizioni e sequestri (art. 254-bis c.p.p.), quella di cui all’art. 132 d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i. per l’acquisizione dei soli dati “esterni” e, invece, quella di cui agli artt. 266 ss.c.p.p. per la captazione, in fase “dinamica”, di conversazioni telefoniche o ambientali o di flussi telematici.
E proprio il riferimento alla disciplina dell’acquisizione dei dati di traffico (art. 132 d.lgs. 196 del 2003) consente alla Corte di affermare che “l’acquisizione all’estero di documenti e dati informatici inerenti a corrispondenza o ad altre forme di comunicazione debba essere sempre autorizzata da un giudice”. La sentenza richiama, infatti, la progressiva giurisdizionalizzazione che ha caratterizzato la procedura di acquisizione dei tabulati, sulla scorta di alcune sentenze della CGUE (in particolare, quella del 2.3.21, C 746-18[5]) che hanno poi indotto il legislatore interno, con il d.l. 132 del 2021, a subordinarla al decreto motivato del giudice, oltre che alla sussistenza di un quadro indiziario connotato in termini di sufficienza rispetto a reati selezionati quoad poenam. Sarebbe dunque singolare – osserva la Corte – escludere, per il sequestro di dati informatici inerenti il contenuto di comunicazioni, quel vaglio autorizzativo del giudice richiesto, invece, per i meri dati esterni, che attingono a un livello di riservatezza certamente inferiore rispetto ai dati “comunicativi”.
In favore di questa conclusione, la Corte richiama anche la sentenza n. 170 del 2023 della Consulta che, pur pronunciata in sede di conflitto interorganico di attribuzioni (e dunque ai fini dell’applicazione delle autorizzazioni ad acta ex art. 68 Cost.), ha fornito indicazioni importanti sulla tipologia di comunicazioni protette dalle garanzie (riserva di giurisdizione, oltre che di legge) di cui all’art. 15 Cost. Esse si applicano, infatti, prescindendo dalle “caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato”, estendendosi a ogni “strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici” e, in particolare, alla corrispondenza “ivi compresa quella elettronica, anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza”. Analoga lettura evolutiva dell’art. 15 Cost. è stata offerta dalla Consulta, anche a proposito del visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti (sent. 20 del 2017) e, più recentemente, della misura amministrativa inibitoria del possesso e dell’utilizzo di apparecchi di comunicazione (sent. 2 del 2023).
La Corte demanda qui, alla fase rescissoria, la verifica della riconducibilità dell’operazione svolta dagli inquirenti francesi alla categoria del sequestro probatorio o dell’intercettazione, in ragione delle concrete modalità di apprensione dei messaggi, se in fase appunto statica o dinamica. Il punto fermo (e condivisibile) è l’esclusione dell’applicazione dello schema dell’acquisizione documentale a fattispecie come queste, nelle quali il contenuto acquisito non preesiste alle indagini ma ne costituisce, in vario modo, il risultato.
La Corte analizza, inoltre, il tema della competenza all’emissione dell’o.e.i., che per la fase delle indagini preliminari è attribuita, dalla legislazione interna, al pubblico ministero, previa autorizzazione del giudice nel caso di intercettazioni (artt. 27 e 43 d.lgs. 108 del 2017). In assenza di previsioni espresse sull’emissione dell’o.e.i. per l’acquisizione di prove già disponibili, anche tale ipotesi deve ritenersi – rileva la Corte – riconducibile alla competenza del pubblico ministero, appunto generale per fase, eventualmente preceduto - ove previsto dal diritto interno per la tipologia di atti da acquisire- da provvedimento autorizzatorio del giudice. La Corte precisa che, in questo caso, l’eventuale illegittimità dell’emissione dell’o.e.i. per assenza di provvedimento autorizzatorio del giudice va eccepita presso lo Stato di esecuzione, risultando altrimenti preclusa dalla definitiva trasmissione della prova allo Stato di emissione.
Tuttavia, precisano le due sentenze, anche tale preclusione non priva la difesa della possibilità di verificare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità della prova trasmessa secondo le regole proprie dell’ordinamento interno, anche in sede di riesame laddove, appunto, non sia stata svolta nel procedimento a quo, prima dell’emissione dell’o.e.i.. Tale verifica, pur successiva, di ammissibilità tempera l’applicazione del principio del male captum, bene retentum, recuperando sia pur in seconda istanza la funzione del vaglio giudiziale.
Nella direttiva, del resto, la questione dell’utilizzabilità della prova acquisita con o.e.i. è rimessa all’autonomia procedurale degli Stati, fermi restando i diritti della difesa e le garanzie di un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’o.e.i.. Per questo, la disciplina interna da considerare, rileva la Corte, non può limitarsi all’art. 270 c.p.p., cui è estraneo il profilo di ammissibilità dell’intercettazione e, quindi, di legalità del procedimento di formazione della prova[6]. Ai fini dell’acquisizione, con o.e.i., di intercettazioni svolte all’estero non è, dunque, sufficiente l’autorizzazione di un giudice di uno Stato membro secondo quanto previsto da quell’ordinamento, ma si rende necessario il controllo, da parte del giudice dello Stato di emissione, sull’ammissibilità e utilizzabilità della prova secondo il diritto interno.
Anche sotto questo profilo, si registra un parziale revirement rispetto all’indirizzo precedente, teso a escludere in casi analoghi l’ulteriore vaglio giurisdizionale interno, vigendo la presunzione di legittimità dell’attività svolta all’estero e spettando al giudice straniero l’accertamento della correttezza della procedura seguita e l’eventuale risoluzione di ogni eccezione rispetto alle irregolarità lamentate nella fase delle indagini (Cass., sez. I, n. 6363 del 2022 [7]).
Sul punto, le conclusioni dell’AG depositate il 26 ottobre, nell’ambito del rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale di Berlino (causa C 670/22), valorizzando parimenti il principio di reciprocità, affermano che lo Stato di emissione dovrebbe attribuire alla fase autorizzatoria giurisdizionale realizzata nello Stato di esecuzione lo stesso valore che avrebbe a livello interno. In particolare, l’AG esclude che, rispetto a un o.e.i. diretto al trasferimento di prove esistenti, l’autorità di emissione possa “valutare la legittimità della raccolta, nello Stato di esecuzione, delle prove delle quali richieda il trasferimento”.
La disciplina delle conseguenze di una genesi patologica della prova ottenuta mediante o.e.i. è, invece, secondo l’AG rimessa all’autonomia procedurale degli Stati, pur nel rispetto dei diritti della difesa sanciti dagli artt. 47 e 48 CDFUE. La sentenza 44154 ha interpretato questo margine nazionale di apprezzamento argomentando dal bilanciamento tra i principi del mutuo riconoscimento (centrale nella direttiva o.e.i.) e di legalità della prova (che è non solo espressione di un diritto del singolo ma forma dell’agire procedimentale secondo le garanzie del corretto processo). Il punto di sintesi è individuato - in linea con la giurisprudenza sulle rogatorie attive e nel solco dell’art. 191 c.p.p. - nei principi fondamentali dell’ordinamento tra i quali, in primo luogo, il diritto di difesa e il contraddittorio per la prova, costituenti limite inderogabile anche rispetto al principio di equivalenza. Rispetto a prove, quali quelle in esame, acquisite all’estero con il ricorso (parrebbe) a metodi (algoritmici) di decrittazione in parte coperti da segreto di Stato, la sent. 44154 rileva, quindi, come vada riconosciuto, alla difesa, il diritto di ottenere la versione originale dei messaggi e i dati necessari alla loro decrittazione.
3. I temi sottesi alle decisioni
I principi affermati dalla Sesta sezione colgono aspetti importanti del rapporto tra diritto ed innovazione tecnologica, dimostrando l’esigenza di un aggiornamento costante delle categorie dogmatiche e degli istituti processuali, perché le garanzie che vi sono sottese non siano eluse dalle nuove forme impresse, dalla tecnica, ad attività già normate con riferimento a realtà diverse.
Spetterà alle Sezioni Unite la decisione sulla conferma della linea proposta dalle sentenze più recenti, ma ciò che più rileva sono le riflessioni, di ordine generale, da esse indotte.
Così, in particolare, l’esclusione dell’applicabilità dello schema dell’acquisizione documentale ad attività limitative della riservatezza quali quelle oggetto dell’o.e.i. sembra cogliere quell’invito, nelle conclusioni dell’AG (punto 86) a considerare l’impatto, su tale diritto, degli strumenti investigativi, nell’ambito del complessivo giudizio di ammissibilità interno delle prove.
Del resto il richiamo, centrale nelle sentenze della Sesta sezione, alla necessità di un vaglio giurisdizionale per l’acquisizione del contenuto di comunicazioni – pur ferma la distinzione tra “fase”, statica o dinamica, della comunicazione – sembra suggerire l’opportunità di alcune modifiche legislative[8] .
Esse dovrebbero, in particolare, armonizzare (pur graduandola per grado di lesività) la disciplina delle varie forme di apprensione di contenuti riconducibili all’art. 15 Cost. prescindendo dalle modalità di realizzazione della comunicazione, purché assistita da un’esigenza di riservatezza e di esclusione dei terzi[9]. Tale disciplina dovrebbe, anche, valorizzare anche quelle esigenze di proporzionalità e non eccedenza della raccolta probatoria sottolineate dalla CGUE a proposito dei tabulati[10] e ribadite dalle conclusioni dell’AG (punto 101), alla luce della ritenuta applicabilità della direttiva 2016/680 a mezzi di ricerca della prova quali le intercettazioni.
Particolarmente rilevante è anche il principio affermato, segnatamente dalla sentenza 44154, in ordine al diritto di accesso della difesa alla versione originale dei messaggi oggetto di decrittazione. Esso, infatti, si conforma non soltanto a un’interpretazione forte del principio di legalità della prova ma, pure, alle particolari garanzie riconosciute, anche in ambito processuale, dall’art. 8 del d.lgs. 51 del 2018 (di recepimento della direttiva 2016/680) rispetto ai processi decisionali algoritmici (qual è quello sotteso alla decrittazione, appunto algoritmica, dei messaggi).
La posizione della Sesta sezione è tanto più rilevante in quanto riferita a un caso di possibile apposizione (e conseguente opposizione) del segreto, nello Stato di esecuzione, sull’algoritmo utilizzato dagli inquirenti per l’acquisizione e la decrittazione dei messaggi in questione[11]. Rideclinando, evidentemente, il bilanciamento affermato dal Conseil constitutionnel, la Sesta sezione conferma l’esigenza di assicurare un contraddittorio pieno sulla (e per la) prova, anche laddove la tecnica rischi di eluderne le garanzie.
[2] Cass., sent. n. 32915 del 7.9.2022; per l’esclusione della violazione del diritto di difesa a fronte dell’impossibilità di verificare la corrispondenza tra il dato originale e quello trasmesso, dovendosi presumere quella dell’algoritmo una riproduzione fedele salva l’allegazione di elementi di segno contrario, cfr. Cass., I, sent.n. 16347 del 6.4.2023
[3] In quella sede, la Corte aveva anche chiarito che la valorizzazione, a fini dimostrativi, del contenuto della chat crittografata presuppone la disponibilità, da parte del Pubblico Ministero, dell'algoritmo di decrittazione o la sua messa a disposizione da parte della società che ne è proprietaria.
[4] Che, invece, le ordinanze della Sesta sezione considerano mero detentore qualificato dei dati, a fini di giustizia
[5] Su cui v. G. Spangher, Data retention: le questioni aperte, su questa Rivista e, volendo, F. Resta, Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna.
[6] La conclusione non è tuttavia estesa a ipotesi acquisite diverse quali, ad esempio, quelle di cui all’art. 238 c.p.p.
[7] Cfr.anche le dichiarazioni di Mario Palazzi rese al Dubbio (V. Stella, Così il caso Open riapre la battaglia sulle intercettazioni, 9.11.23) e, in senso analogo, Cass., IV, sent. N. 23999 del 2023, secondo cui: “Gli atti compiuti dallo Stato estero nel rispetto delle proprie leggi non appaiono in contrasto con i principi fondamentali e inderogabili dell’ordinamento giuridico italiano. Ne consegue la piena utilizzabilità del materiale trasmesso in esecuzione degli O.I.E. che non può ritenersi ottenuto in violazione di divieti stabiliti dalla legge dello Stato richiesto nè in violazione di principi inderogabili dell’ordinamento giuridico italiano: infatti, l’ordine Europeo di indagine c.d. attivo deve avere ad oggetto una prova acquisibile nello Stato di emissione, mentre è rimessa allo Stato di esecuzione la concreta acquisizione della prova medesima, con le modalità e le garanzie previste in quell’ordinamento, potendosi presumere il rispetto da parte dell’Autorità delegata, nel sistema unionale, della relativa disciplina e dei diritti fondamentali stabiliti dalla CDFUE, nonchè del principio di proporzione, salvo concreta verifica di elementi di segno contrario.”.
[8] Quali, ad esempio, quelle di cui all’AS 690, che subordina l’ammissibilità del sequestro di strumenti elettronici a uno specifico quadro indiziario, all’autorizzazione del giudice, prevedendo garanzie di selezione del materiale probatorio e di conformità della copia forense; cfr. anche AS 809, che valorizza le esigenze di proporzionalità e non eccedenza nell’acquisizione, sottolineate dalla giurisprudenza CGUE e CEDU
[9] Sul punto cfr. anche A. BARBIERI, I limiti di utilizzabilità dei messaggi crittografati scambiati da un server estero ed acquisiti mediante ordine europeo di indagine, in Giurisprudenzapenale.it
[10] Per richiami giurisprudenziali si rinvia a F. Resta, Dalla conservazione generalizzata a quella mirata e rapida: la Corte di giustizia ridelinea i contorni della data retention, su questa Rivista
[11] La verifica in concreto dell’effettiva possibilità per la difesa di accesso all’algoritmo è, tuttavia, rimessa alla fase rescissoria del giudizio, anche in ragione della evidente complessità della vicenda su cui, ad esempio, Mario Palazzi, nell’articolo citato, osserva come invece il segreto sia stato apposto su profili irrilevanti per la difesa.
La Corte di cassazione ammette il cumulo delle domande di separazione e di divorzio anche nel procedimento su domanda congiunta (art. 473 bis. 51 c.p.c.).
Un nuovo colpo alla sopravvivenza della separazione giudiziale ed un’illuminata apertura ai patti della crisi coniugale.
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1.La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio in un unico procedimento inficia la funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi - 2. Separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito un rimedio alternativo alla crisi coniugale - 3. Necessità di abrogare la separazione giudiziale e di mantenere la separazione consensuale, quale rimedio alternativo al divorzio - 4. Il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio consente la conclusione di un accordo complessivo della crisi coniugale, intesa quale fenomeno unitario - 5. Il problema del cumulo delle domande di separazione e di divorzio nel procedimento di negoziazione assistita.
1. La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio in un unico procedimento inficia la funzione dell’istituto della separazione personale dei coniugi
La riforma del processo in materia di famiglia, tra le tante novità, ha introdotto una norma, l’art. 473 bis.49 c.p.c., che consente il cumulo delle domande di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Negli atti introduttivi del procedimento per separazione personale (il ricorso o la comparsa di risposta) le parti (il ricorrente o il resistente) possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. La norma specifica tuttavia che «le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale». La Corte di Cassazione, nell’illuminata pronuncia che si annota, sciogliendo la questione di diritto di cui è stata investita ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., ha chiarito che il cumulo delle domande di separazione e di divorzio può operare anche nell’ambito del procedimento su domanda congiunta di cui all’art. 473 bis.51 c.p.c.[1]
Si tratta dell’ennesimo intervento del legislatore volto ad accelerare la conversione della separazione in divorzio, nella consapevolezza che, secondo il costume sociale, con la separazione cessa definitivamente il rapporto coniugale e deve essere facilitato il recupero del libero stato. Siffatto intervento, tuttavia, è più pervasivo dei precedenti andando ad intaccare la stessa funzione della separazione personale dei coniugi.
Questa è la prima questione che la riforma del 2022 pone all’interprete, amplificata dalla sentenza che si annota. Se il passaggio dalla separazione al divorzio costituisce un automatismo,[2] sfuma totalmente il senso, già effimero, dell’istituto della separazione dei coniugi nel nostro ordinamento, intesa quale momento di riflessione funzionale ad un’ipotetica riconciliazione, ed appare quanto mai ragionevole ed attuale la proposta della dottrina di abrogare la separazione giudiziale.[3]
2. Separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito un rimedio alternativo alla crisi coniugale
In effetti, separazione e divorzio, storicamente, hanno costituito risposte alternative ad un medesimo problema, ossia quello di fornire una risposta alla crisi coniugale, e la loro contestuale presenza nell’ordinamento è motivo di rilevante criticità. Se viene meno il principio d’indissolubilità del matrimonio ed è introdotto il divorzio, quale rimedio alla crisi coniugale, a meno di vistose forzature logico-giuridiche, la separazione, che a presidio di quel principio è stata concepita e configurata,[4] ragionevolmente deve essere abrogata.
Notoriamente, questo peculiare istituto che, in definitiva, consente la sopravvivenza di un matrimonio svuotato della sua essenza (la convivenza tra i coniugi), origina dalle nozze cristiane, caratterizzate dalla loro natura sacramentale che ne implica l’indissolubilità: «Quod Deus coniunxit, homo non separet».[5] Non potendosi più ammettere il divorzio, essendosi trasformato il matrimonio in un sacramento indissolubile, i Padri della Chiesa e la Scolastica teorizzarono la separazione dei coniugi quale nuovo rimedio alla crisi coniugale, che consente, appunto, di interrompere la convivenza nel rispetto dell’indissolubile vincolo sacramentale. I decretisti e i decretalisti, nei secoli successivi, diedero veste giuridica all’istituto.
Con la separazione, in ossequio ad un dogma religioso (l’indissolubilità delle nozze sacramentali), si pretende dunque la sopravvivenza di un matrimonio ridotto a mera «forma giuridica».[6]
Soltanto il superamento di questa peculiare visione delle nozze, fondata su elementi teologici e, dunque, metagiuridici, consentirà nei secoli successivi la ricomparsa del divorzio e la contestuale abrogazione della separazione. Il divorzio è riscoperto nei Paesi protestanti, quale unico rimedio alla crisi coniugale, contestualmente all’affacciarsi di una nuova concezione del matrimonio, di cui Martin Lutero aveva negato la natura sacramentale, e ritornerà più tardi nella Francia rivoluzionaria e anticlericale della fine del Settecento, che nel matrimonio vedeva soltanto uno dei tanti contratti, nella disponibilità dei privati.
L’alternatività tra gli istituti della separazione e del divorzio, strumenti diversi per risolvere il problema della crisi coniugale, è stata lucidamente colta da Napoleone Bonaparte. Nel Code civil, per le medesime cause tipizzate dal legislatore, il cittadino cattolico poteva separarsi e quello laico poteva ottenere lo scioglimento del matrimonio (art. 306 c.c.). Si trattava di due vie parallele che, in definitiva, perseguivano una medesima finalità: «Le divorce rompt le lien conjugal, la séparation laisse encore subsister ce lien; à cela près, les effets de l’un et de l’autre sont peu différents: cette union des personnes, cette communauté de la vie, qui forment si essentiellement le mariage, n’existent plus».[7]
La fisiologica alternatività tra i due istituti è rimasta anche quando, nell’Ottocento, il principio di indissolubilità del matrimonio, alla base della scelta della separazione, ha trovato un fondamento laico nella c.d. concezione pubblicistica del diritto di famiglia, radicata nel pensiero di Hegel e veicolata attraverso lo Storicismo tedesco, che, ravvisando nella famiglia la cellula primaria ed essenziale dello Stato, funzionalizzata al perseguimento dell’interesse collettivo, ne predicava la necessaria unità. Concezione pubblicistica che ha impregnato il nostro Codice civile del 1865 ed, ancor più, quello del 1942, che infatti si limitavano ad «ammettere» la separazione, concependola, oltretutto, come un rimedio eccezionale, accordato soltanto al coniuge incolpevole, nelle ipotesi tassativamente predeterminate dalla legge, per sanzionare macroscopiche violazioni dei doveri matrimoniali imputabili all’altro coniuge. Il disfavore verso l’istituto derivava dal fatto che esso comunque incrinava l’unità della famiglia.
Pur costituendo l’alternatività tra i due istituti caratteristica comune degli ordinamenti di civil law europei, quando, nel 1970, il legislatore italiano introduce il divorzio, la separazione rimane. La paura dei divorzi facili spinse a mantenere in vita il vecchio istituto, riconoscendogli, con non celata ipocrisia, l’incerta funzione di anticamera del divorzio, ossia di pausa di riflessione in attesa di quello che fu definito il «felice evento» della futura riconciliazione,[8] destinato, peraltro, nella pratica, a non verificarsi mai. La soluzione adottata, per cui la separazione legale costituisce un passaggio necessario lungo la strada che conduce al divorzio, «si segnala alla stregua di una eccezione rispetto ai principi affermatisi in ambito continentale»[9] e ha connotato l’istituto di «una carica di ambiguità».[10]
Indipendentemente da ciò, la permanenza di entrambi gli istituti, regolati da leggi diverse (il Codice civile e la l. n. 898/1970), ha dato vita al c.d. doppio binario della crisi familiare, altamente contraddittorio e problematico, traducendosi in quella che è stata efficacemente definita una via Crucis, alla quale i coniugi devono sottoporsi per potere recuperare il libero stato: ipoteticamente, tre gradi di giudizio di separazione e tre gradi di giudizio di divorzio, in cui si discute, essenzialmente, delle medesime questioni, giacché il problema è lo stesso, ossia l’individuazione di un regolamento della crisi familiare, che è unitaria (determinazione di un assegno per il coniuge debole, affidamento dei figli minori e loro mantenimento, assegnazione della casa familiare). Nei casi più conflittuali, questo interminabile percorso condiziona la sana ed equilibrata crescita dei figli, strumentalizzati nel processo, e – a dispetto del dichiarato intento di tutelare la famiglia fondata sul matrimonio, cui questo contorto meccanismo dovrebbe presiedere, scongiurando divorzi poco meditati – proliferano nuove unioni di fatto, spesso non volute ma coatte, giustificandosi esclusivamente per il fatto che uno o entrambi i conviventi non hanno ancora potuto recuperare il libero stato.
Consapevole di tutto ciò la giurisprudenza, attraverso la sua attività ermeneutica, si è spinta ad anticipare già al momento della separazione, in cui il matrimonio è ridotto ad «una forma giuridica», gli effetti che dovrebbero invece prodursi con lo scioglimento del matrimonio, muovendo dall’esatto presupposto che i doveri matrimoniali, per effetto della separazione, non esistono più.[11] Conseguenziale, peraltro, a tale scelta, l’appiattimento della separazione sul divorzio.
Dal suo canto, il legislatore ha reagito accelerando la conversione della separazione in divorzio, rispondendo in tal modo anche al mutato costume sociale, nel tempo sempre più incline ad agevolare il recupero del libero stato, e dando attuazione al principio del favor libertatis, consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità.[12] La novella della legge sul divorzio del 1987 ha ridotto da cinque a tre anni il periodo minimo di separazione propedeutico alla presentazione della domanda di scioglimento del matrimonio e ha consentito la sentenza parziale sul divorzio, prevedendo che la stessa sia suscettibile soltanto di appello immediato (art. 4, comma XII l. div.), con il chiaro intento di accelerare il recupero del libero stato. Con la medesima finalità, l’art. 709 bis cod. proc. civ., introdotto nel 2005, ha riconosciuto la possibilità di pronunciare sentenza parziale sulla separazione, ammettendo avverso di essa solo l’appello immediato da decidersi in camera di consiglio. In seguito, il termine di durata della separazione, necessario per la proposizione della domanda di scioglimento del matrimonio, è stato ulteriormente ridotto ad un anno dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale, in caso di separazione giudiziale, e a sei mesi in caso di separazione consensuale (l. 6 maggio 2015, n. 55, sul c.d. «divorzio breve»).
Soprattutto è stata riconosciuta la possibilità di una separazione e di un divorzio senza processo, rimettendo all’autonomia privata la cessazione dello status coniugale. La l. 10 novembre 2014 n. 162 ha introdotto due nuovi modelli di separazione e di divorzio, mediante negoziazione assistita e direttamente avanti al Sindaco (artt. 6 e 12). In tal modo «la separazione è stata sottratta al principio (che sino a quel momento rappresentava nell’ordinamento un dogma assoluto e irrefutabile) della tutela giurisdizionale costitutiva necessaria in materia di status, principio che rendeva imprescindibile nelle controversie in materia di famiglia l’intervento dell’autorità giudiziaria».[13]
La c.d. legge “Cirinnà” (n. 76/2016), infine, ha previsto che l’unione civile si sciolga senza passare attraverso la separazione, con una sentenza di divorzio immediato (ed, addirittura, per recesso unilaterale degli uniti civilmente: artt. 1, commi 23 e 24, l. 20 maggio 2016 n. 76), con ciò anticipandosi per l’unione civile, indipendentemente dalle ragioni della scelta legislativa, un’evoluzione auspicabile anche per il matrimonio.
3. Necessità di abrogare la separazione giudiziale e di mantenere la separazione consensuale, quale rimedio alternativo al divorzio.
Già la legge sul c.d. divorzio breve aveva chiaramente manifestato i limiti della “convivenza” dei due istituti all’interno del medesimo ordinamento,[14] aggiungendo ulteriori problemi a quelli già segnalati, in virtù della contemporanea pendenza dei giudizi di separazione e di divorzio, in dipendenza della riduzione del periodo di separazione propedeutico al divorzio, e, dunque, della sovrapposizione dei processi.
Autorevole dottrina aveva denunciato il «progressivo svuotamento del giudizio di separazione»,[15] ancor più marcato ove si consideri la possibilità della riunione dei due giudizi, contemporaneamente pendenti innanzi allo stesso giudice, oggi ammessa dalla riforma del processo di famiglia (art. 473 bis.49, comma 3, c.p.c.). Dal momento del deposito del ricorso di divorzio (o quanto meno dall’adozione dei provvedimenti presidenziali), il giudice della separazione non può più pronunciarsi sulle questioni concernenti i figli (loro affidamento, mantenimento e assegnazione della casa familiare), avendo esclusiva potestas decidendi il giudice del divorzio. Lo stesso è a dirsi con riguardo agli effetti economici tra i coniugi. È, inoltre, controverso se sia giuridicamente possibile, dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale sul divorzio, continuare a discutere dell’addebito della separazione.[16]
La riforma Cartabia del processo civile, tuttavia, compromette la stessa residua funzione della separazione. La possibilità del cumulo delle domande di separazione e di divorzio e, dunque, l’automatismo della conversione della separazione in divorzio rende la separazione giudiziale priva di senso, mostrandola per quello che oggi è: un relitto storico. L’improbabile lieto evento della riconciliazione dei coniugi, in funzione del quale è loro imposta una pausa di riflessione, è negato dallo stesso legislatore.
La crisi coniugale costituisce un evento unitario e il rimedio, caduto il principio di indissolubilità, è il divorzio. Tra le righe lo dice anche la sentenza che si annota, laddove, allo scopo di ammettere il cumulo, discostandosi da una giurisprudenza tetragona,[17] afferma che le domande di separazione e di divorzio hanno la medesima causa petendi, «in quanto tese a regolare, in successione, la crisi matrimoniale che i coniugi avvertono come irreversibile».[18]
La domanda di separazione, nel difficile coordinamento con la domanda di divorzio, auspicato dalla riforma del 2022, costituisce soltanto un intralcio processuale al recupero del libero stato, cui le parti effettivamente aspirano.
Si impone, dunque, a nostro avviso, mai come oggi l’abrogazione della separazione giudiziale, consentendo ai coniugi il divorzio immediato. Come abbiamo già avuto modo di rilevare,[19] l’eliminazione dell’addebito, da tempo auspicata da parte della dottrina, non impedirebbe di attribuire rilevanza alle cause della crisi. Le gravi violazioni dei doveri matrimoniali, indipendentemente dal rimedio generale della responsabilità civile, possono, infatti, rilevare anche al momento del divorzio, rientrando tra i criteri determinativi dell’assegno divorzile, espressi dall’art. 5 l. div., anche quello risarcitorio (le c.d. “ragioni della decisione”).[20]
Deve invece essere consentita ai coniugi, nel rispetto della loro comune volontà e libertà di coscienza, la possibilità di richiedere la separazione consensuale che, una volta ammesso il divorzio diretto, si presenta, coerentemente, come un rimedio alternativo allo scioglimento del matrimonio.
4. Il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio consente la conclusione di un accordo complessivo della crisi coniugale, intesa quale fenomeno unitario.
La sentenza che si annota, animata da encomiabile concretezza, ha anche il merito di avere sdoganato i patti della crisi familiare.
Con l’introduzione della negoziazione assistita in ambito familiare e la legge sul c.d. divorzio breve, che ha accelerato al massimo la conversione della separazione in divorzio, si è fatta tangibile la frustrazione del ceto forense, impossibilitato a definire la crisi coniugale mediante un accordo globale, nonostante l’accessibilità dello strumento negoziale. La possibilità di rivedere tutto al momento del divorzio era d’ostacolo al raggiungimento di un accordo onnicomprensivo e finale, da stipularsi necessariamente al momento della separazione. Vi ostava l’affermazione giurisprudenziale della nullità, per illiceità della causa, degli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all'art. 160 c.c. Principio, questo, tetragono presso il giudice di legittimità, benché la dottrina da tempo abbia proceduto a dimostrarne l’evanescenza.
In effetti, il richiamo all’art. 160 c.c. non appare pertinente, trattandosi di norma dettata nel vigore del principio di indissolubilità delle nozze e presupponendo, per la sua applicazione, l’effettività del matrimonio,[21] mentre la separazione – come abbiamo visto - sospende (rectius: estingue) i doveri matrimoniali. Se le parti possono richiedere il divorzio, a maggior ragione devono poter regolamentare il regime patrimoniale in vista del recupero libero stato.[22] L’accordo, del resto, non concerne lo status, che effettivamente è indisponibile, ma i rapporti patrimoniali riguardanti quello status. E se pacificamente si ritengono lecite le attribuzioni effettuate nell’ambito della separazione e del divorzio su domanda congiunta, non essendovi in tal caso commercio di status, appare logico ritenere lecite anche le pattuizioni patrimoniali effettuate in funzione del futuro divorzio, con il limite, ovviamente, del rispetto dei diritti indisponibili dei figli minori, rispetto ai quali la riforma Cartabia ha mantenuto il più ampio spettro delle tutele:[23] il giudice, nel procedimento innanzi al tribunale, e gli avvocati e il procuratore della Repubblica, in quello di negoziazione assistita, devono verificare che l’accordo non sia lesivo dell’interesse della prole.
A ben vedere, la giurisprudenza che reputa nulli gli accordi in vista del divorzio opera «un’indebita commistione tra la regolamentazione dell’assetto economico concordato tra i coniugi in vista del futuro status e la volontà di determinare lo status»,[24] mentre le due questioni devono rimanere del tutto separate.
Alla luce di siffatti rilievi perde di consistenza la critica alla possibilità del cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio incentrata sulla natura indisponibile dei diritti in gioco e sull’invalidità degli accordi in vista del divorzio, cui il cumulo delle domande congiunte sarebbe riconducibile.
La sentenza annotata muove dalla obiettiva considerazione che il ruolo dell’autonomia privata nella definizione delle conseguenze economiche della crisi coniugale si è notevolmente incrementato a seguito degli interventi legislativi in materia di negoziazione assistita, di divorzio breve e di riforma del processo di famiglia, andando ad incidere sul dogma della disponibilità degli status. Con ammirabile concretezza, ravvisa proprio nella possibilità di concludere un accordo definitivo sugli aspetti economici e personali della crisi matrimoniale una delle ragioni giustificanti il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio: «trovare per le parti, a fronte della irreversibilità della crisi matrimoniale, in un’unica sede, un accordo complessivo sia sulle condizioni di separazione che sulle condizioni di divorzio, concentrando in un unico ricorso l’esito della negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi, disciplinando una volta per tutte i rapporti economici e patrimoniali tra loro e i rapporti tra ciascuno di essi e i figli minorenni o maggiorenni non ancora autosufficienti, realizza indubbiamente un “risparmio di energie processuali” che può indurre le stesse a far ricorso al predetto cumulo di domande congiunte».[25] In effetti, la crisi coniugale impone, anche sul piano solidaristico, la più rapida soluzione delle questioni economiche che rischiano di alimentarla.
E il cumulo – precisa la sentenza «non incide sul c.d. carattere indisponibile dei patti futuri, trattandosi di un accordo, unitario, dei coniugi sull’intero assetto delle condizioni, che regolamenteranno oltre alla crisi la loro vita futura, pur sempre sottoposto al complessivo vaglio del Tribunale». In effetti, il carattere unitario della crisi coniugale – confermato, nel procedimento su domanda congiunta e in caso di cumulo, da una separazione di brevissima durata (sei mesi) destinata a convertirsi automaticamente in divorzio – garantisce l’attualità dei diritti patrimoniali di cui i coniugi dispongono e, dunque, la loro negoziabilità, nel rispetto del superiore interesse della prole.
In conclusione, secondo la Corte di cassazione, «sia nei procedimenti contenziosi, di separazione e divorzio, che in quelli congiunti le parti propongono le proprie domande all’organo giudiziario e formulano le relative conclusioni e quindi non dispongono anticipatamente degli status». Il tribunale può intervenire sui sottostanti accordi nel caso in cui essi risultino contrari all’interesse dei figli e a norme inderogabili.[26]
Un’ulteriore critica mossa alla possibilità del cumulo delle domande di separazione e divorzio nel procedimento su domanda congiunta era rappresentata dall’assenza di una disposizione destinata a gestire le “sopravvenienze” di fatto, in grado di incidere sulla regolamentazione del divorzio, analoga all’art. 473 bis.19, comma 2, c.p.c. È stato poi osservato che il cumulo impedirebbe la revoca unilaterale del consenso al divorzio.
La sentenza annotata, peraltro, ha facile gioco nel confutare siffatti argomenti, sia richiamando principi giurisprudenziali consolidati (la giurisprudenza di legittimità reputa inefficace la revoca unilaterale del consenso alla domanda di divorzio[27] ed attribuisce natura negoziale all’accordo ad essa sotteso, concernente la prole e i rapporti economici, ritenendolo intangibile se non per violazione di norme inderogabili e dell’interesse della prole[28]), sia disposizioni normative specifiche introdotte dalla riforma Cartabia, quali l’art. 473 bis.51 c.p.c, che consente il rigetto «allo stato» della domanda congiunta «se gli accordi sono in contrasto con gli interessi dei figli», e l’art. 473 bis.19 c.p.c., che, per il procedimento contenzioso, condiziona l’ammissibilità della modifica delle domande, nel corso del procedimento avviato, a «mutamenti nelle circostanze».
In definitiva, secondo la sentenza che si annota, attraverso il cumulo delle domande congiunte di separazione e di divorzio è possibile concludere un valido accordo complessivo regolante gli effetti economici e personali della crisi familiare, in grado di estendersi anche al periodo successivo allo scioglimento del matrimonio, purché nel rispetto delle norme inderogabili e del superiore interesse della prole. L’accordo è dotato di una certa stabilità, non essendo unilateralmente revocabile il consenso prestato al divorzio. Tuttavia il mutamento delle circostanze fattuali, intervenuto nelle more della pronuncia del divorzio, può incidere sulla valutazione da parte del giudice della rispondenza dell’accordo stesso all’interesse della prole.
5. Il problema del cumulo delle domande di separazione e di divorzio nel procedimento di negoziazione assistita
Vi è da chiedersi, infine, se il cumulo delle domande di separazione e di divorzio congiunte possa essere proposto anche in sede di negoziazione assistita.
In via generale, la riforma Cartabia ha ampliato l’operatività della negoziazione assistita in ambito familiare nell’ottica di favore e di impulso allo sviluppo dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. È, peraltro, vero che non tutto si può fare in sede di negoziazione assistita. Ad esempio, i trasferimenti immobiliari con efficacia reale possono operarsi in sede di separazione o divorzio su domanda congiunta[29] ma non all’interno di una procedura di negoziazione assistita, dove è ammessa soltanto la stipulazione di patti di trasferimento immobiliare con effetti obbligatori (art. 6 l n. 162/2014 novellato).
Qui, peraltro, manca una norma che detti una differente disciplina tra le due procedure, quella giudiziale e quella stragiudiziale.
A noi sembra che il cumulo debba ammettersi nell’ambito della negoziazione assistita, che costituisce la sede più consona in cui le parti, supportate dai legali, possono concludere un accordo con cui venga definitivamente regolamentata la loro crisi coniugale, caratterizzata da un’unitarietà correttamente colta dalla sentenza che si annota. Decorsi sei mesi dal nullaosta o dall’autorizzazione del procuratore della Repubblica, le parti ricompariranno innanzi ai legali per confermare di non volersi riconciliare e le condizioni già formulate con riferimento allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, implicitamente dando atto della mancanza di sopravvenienze rilevanti. Inevitabile un secondo passaggio innanzi al procuratore della Repubblica.
[1] Cass., 16 ottobre 2023, n. 28727.
[2] I coniugi, nel ricorso, possono anche dichiarare di non volersi riconciliare, rinunciando all’udienza di comparizione delle parti in cui il giudice tentava la conciliazione: art. 423 bis. 51, comma 2, c.p.c.).
[3] Cfr. il nostro La crisi coniugale tra separazione e divorzio, Milano, 2001, passim.
[4] A. MORACE PINELLI, L’irragionevole compresenza nell’ordinamento della separazione giudiziale e del divorzio, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, a cura di V. CUFFARO, Milano, 2021, 519 e ss.
[5] Matteo, 19, 6.
[6] S. SATTA, Commentario al Codice di procedura civile, Libro Quarto, Procedimenti speciali, I, Vallardi, 1968, 304.
[7] Così Trehilard (Esposizione dei motivi, Sessione 21 marzo 1803, in J.G. LOCRÈ, Legislazione civile commerciale e criminale, ossia commentario e compimento dei codici francesi, trad. da G. CIOFFI, II, Napoli, 1840, 760).
[8] C. GRASSETTI, La separazione personale dei coniugi. Problemi di diritto sostanziale e processuale. Diritto civile, in Giust. civ., 1964, IV, 4.
[9] E. AL MUREDEN, La separazione personale dei coniugi, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2015, 17.
[10] M. FORTINO, La separazione personale tra coniugi, nel Trattato dir. fam., diretto da P. ZATTI, I, 2, cit., 1266; E. QUADRI, Crisi della coppia: a cinquant’anni dalla legge sul divorzio, in Foro it., 2020, V, 175, secondo il quale la separazione è divenuta un istituto «nel semisecolare rapporto con quello del divorzio, a dir poco di perplessa definizione funzionale e di incerta collocazione sistematica».
[11] Cfr. Cass., 19 settembre 1997, n. 9317, in Fam. e dir., 1998, 14; Cass., 7 dicembre 1994, n. 10512, in Foro it., 1995, I, 1202. Secondo Cass., 20 agosto 2014, n. 18078, in Foro it., 2014, I, 3481, «la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riprendere la vita di coppia, e nemmeno solo l'anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della "sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale"».
[12] Cass., ord., 22 giugno 2012, n. 10484; Cass., 8 aprile 2011, n. 8050; Cass., 29 settembre 1999, n. 13312, in Foro it., 2000, I, 445.
In dottrina, cfr. F. DANOVI, I rapporti tra il processo di separazione e il processo di divorzio alla luce della l. n. 55/2015, in Fam. e dir., 2016, 1093 e ss.
[13] DANOVI, I presupposti della separazione, ovvero quando il diritto “cede il passo” alla libertà del singolo (e per il divorzio?), in Fam. e dir., 2019, 73 e ss.
[14] Noi avevamo ribadito la necessità di abrogare la separazione giudiziale. Cfr. il nostro I provvedimenti concernenti i figli in caso di crisi del matrimonio o dell’unione civile, in La riforma della filiazione, a cura di C.M. BIANCA, Padova, 2015, 682 e ss.
[15] Così F. DANOVI, I rapporti, cit., 1093 e ss.
[16] Contra F. CIPRIANI, Sulle domande di separazione, di addebito e di divorzio, in Foro it., 2002, I, 385.
[17] Cfr., ad esempio, Cass. S.U., 20 luglio 2001, n. 9884. La giurisprudenza ha sempre affermato l’autonomia dei giudizi di separazione e di divorzio, rivendicando il potere del giudice del divorzio di decidere in assoluta autonomia rispetto a quanto stabilito in sede di separazione. Cfr., Cass., 9 aprile 1983, n. 2514; Cass., 2 giugno 1981, n. 3549, in Giur. it., 1982, I, 1, 43.
[18] § 7 della sentenza.
[19] A. MORACE PINELLI, L’irragionevole compresenza nell’ordinamento, cit., 534 e ss.
[20] Cfr. Cass., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287, in Foro it., 2018, I, 2671 e 3615, con nota di A. MORACE PINELLI, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle Sezioni Unite.
[21] Sul punto cfr. il nostro Interesse della famiglia e tutela dei creditori, Milano, 2003, 180 e ss.
[22] G. DORIA, Autonomia privata e causa familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, 184 e ss.
[23] L’art. 473 bis. 19 c.p.c. consente alle parti di introdurre sempre nuove domande e nuovi mezzi di prova relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli minori. Inoltre l’art. 473 bis. 51 c.p.c. consente il rigetto della domanda congiunta di separazione e divorzio soltanto nel caso in cui gli accordi siano in contrasto con l’interesse dei figli. Rientrano, invece, nell’alveo dei diritti disponibili le domande relative al mantenimento del coniuge (M.A. LUPOI, Commento all’art. 473 bis.19 c.p.c., in La riforma Cartabia del processo civile, a cura di R. TISCINI, 2023, Pacini Editore, 811). Del resto, come abbiamo appena rilevato, soltanto la violazione del superiore interesse della prole consente il rigetto della domanda congiunta di separazione o di divorzio. È dunque a nostro avviso irrilevante, ai fini dell’ammissione degli accordi sulla crisi coniugale, la questione circa la natura dell’assegno divorzile. Cfr. invece C. RIMINI, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir. 2018, 1041, secondo il quale l’ammissibilità dei patti in vista del divorzio dipenderebbe dall’asserita funzione compensativa dell’assegno divorzile. Sulla natura dell’assegno divorzile, cfr. C.M. BIANCA, Le sezioni unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955 e ss., il quale ribadisce la natura esclusivamente assistenziale di siffatto emolumento anche dopo Cass. S.U. n. 18287/2018; A. MORACE PINELLI, Diritto all’assegno divorzile e convivenza more uxorio, in Nuova giu. civ. comm., 2021, 1158 e ss.
[24] M. COMPORTI, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, V, 113.
[25] § 5 della sentenza.
[26] § 8 della sentenza.
[27] Secondo Cass., ord., 7 luglio 2021, n. 19348; Cass., 24 luglio 2018, n. 19540; Cass., 2 maggio 2018, n 10463.
[28] Cass., S.U., 29 luglio 2021, n. 21761, in Giur. it., 2022, 873.
[29] Cfr. Cass., S.U. 29 luglio 2021, n. 21761, cit.
(Immagine: fotogramma del film Divorzio all'italiana di Pietro Germi, 1961)
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. L’ordinanza del Tribunale di Verona: dubbi di legittimità costituzionale dell’art.171 bis c.p.c. per eccesso di delega e violazione del principio del contraddittorio. 2. Programma della presente nota. 3. La ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale. 4. Gli eccessi di delega che potrebbero riscontrarsi nell’ultima riforma del processo civile. L’insussistenza di essi per rispetto della ratio della legge delega da parte del decreto legislativo. 5. Segue: l’insussistenza altresì dell’incostituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. 6. Osservazioni di sintesi.
1. L’ordinanza del Tribunale di Verona; dubbi di legittimità costituzionale dell’art.171 bis c.p.c. per eccesso di delega e violazione del principio del contraddittorio
Il Tribunale di Verona, con ordinanza del 22 settembre 2023 (R.G. 4138/2023) ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 171 bis del codice di procedura civile per contrasto con gli articoli 76, 77, 3, e 24 Cost.”.
Il Tribunale ha sostenuto che tale nuova disposizione processuale, inserita nel codice di rito a seguito della riforma c.d. Cartabia di cui al d. lgs. 10 ottobre 2023 n. 149, presenta due possibili difetti di costituzionalità, uno riguardante eccesso di delega, in relazione agli artt. 76 e 77 Cost., e l’altro riguardante il diritto al contraddittorio e al trattamento di parità delle parti nel processo in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
In particolare il Tribunale di Verona ha rilevato:
a) quanto al primo aspetto che: “la legge delega (l. 26 novembre 2021, n.206), pur contenendo, all’art. 1, comma 5, lett. i), alcuni principi molto dettagliati relativi alla fase di trattazione, non prevede però un intervento anticipato del giudice prima dell'udienza di comparizione delle parti.
Al contempo, i principi di cui all'articolo 1, comma 5, lett. da c) a g), che disciplinano il contenuto degli atti di parte e i termini del loro deposito, non indicano tra le memorie delle parti, successive agli atti introduttivi, anche la trattazione delle questioni rilevate d'ufficio dal giudice.
Nella legge 206/2021 i due regimi (quello della fase di trattazione e quello delle attività delle parti) risultano quindi tra loro coerenti tanto più che l’art. 1, comma 5, lett. i), stabilisce che le disposizioni sulla trattazione devono essere adeguate proprio alle condizioni di cui alle lettera f) e g).
Sulla scorta di tali dati normativi, invero inequivoci, può affermarsi che la legge delega non aveva contemplato minimamente una fase, antecedente all’udienza di prima comparizione delle parti, deputata alle verifiche preliminari, alla quale invece il d. lgs. attribuisce il rilievo di cui si è detto, dedicandovi una disciplina alquanto articolata e differenziata”.
Da ciò, dunque, per il Tribunale di Verona, l’eccesso di delega e la violazione degli artt. 76 e 77 Cost.
b) Quanto ai profili di incostituzionalità relativi agli artt. 3 e 24 Cost., il Tribunale di Verona ha ancora osservato che l’art. 171 bis c.p.c. pone oggi una discriminazione, poiché prevede: “la decisione del giudice, inaudita altera parte, per solo alcune questioni rilevabili d’ufficio, quelle che condizionano la stessa nascita del processo o la sua estensione soggettiva (così il difetto di legittimazione, di capacità di essere parte, o di interesse ad agire), mentre per tutte le altre, non espressamente menzionate, differisce la decisione alla udienza di prima comparizione con una scelta che risulta in contrasto con l’art.3 Cost.”.
Peraltro, tale scelta discriminatoria, per il Tribunale di Verona, non viola solo l’art. 3 Cost., ma non rispetta nemmeno l’art. 24 Cost., in quanto: “nel regime ante riforma, la verifica in esame avveniva per la prima volta all’udienza di prima comparizione”, e quindi nel contraddittorio con le parti e i loro difensori, mentre oggi l’art. 171 bis c.p.c. dispone che le questioni indicate nel suo primo comma siano decise dal giudice senza udire sul punto le parti, e quindi la nuova norma: “lede il principio del contraddittorio, sancito ora in termini generali dall’art. 101, comma 2, secondo periodo, come integrato dal d. lgs. 149/2022”.
2. Programma della presente nota
Che dire?
Sinceramente, non so quante possibilità di successo possa avere questa ordinanza.
E poiché mi è stato insegnato di non esprimere giudizi in materie ancora sub iudice, in questa nota non elaborerò aspetti tecnici posati e ponderati, ma solo, scherzosamente, alcune osservazioni più generali tanto in punto di eccesso di delega quanto in riferimento al diritto alla difesa e al contraddittorio.
Se si vuole, ciò che segue è solo una caricatura delle ragioni in base alle quali, forse, chissà, perché no?, le questioni verranno dichiarate infondate.
3. La ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale
Iniziando dagli artt. 76 e 77 Cost., credo sia utile ricordare preliminarmente la ratio per la quale l’eccesso di delega è incostituzionale.
E la ratio è semplicissima: poiché la funzione legislativa spetta al Parlamento, e il Governo non ha funzione legislativa se non nei limiti dati dal Parlamento, se il Governo non rispetta detti limiti ed emana un decreto legislativo che esorbita dalle direttive ricevute, esso si appropria di una funzione che non le spetta, ovvero di quella legislativa, e da ciò ne segue l’incostituzionalità.
3.1. Orbene, il problema, però, si potrebbe osservare, è che porre simili questioni in una realtà nella quale, ormai da anni, la contrapposizione tra funzione legislativa ed esecutiva si è persa, e il Governo si è sostanzialmente appropriato anche della funzione legislativa svuotando le funzioni del Parlamento, può suscitare ilarità, poiché delle due l’una: o abbiamo la forza di opporsi a questa nuova realtà costituzionale, oppure ritenere incostituzionale che il Governo, nell’emanazione di un decreto legislativo, non rispetti la legge delega che egli stesso si è dato, è qualcosa che non può non far sorridere.
E se questo ragionamento vale in generale, ancor più vale nel caso della riforma del processo civile di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149.
Conviene al riguardo non dimenticare le modalità con le quali la riforma si è perfezionata.
3.2. Il Governo nomina una commissione affinché rediga un progetto.
La commissione redige il progetto, ma il Governo lo condivide solo in parte.
Il progetto è reso pubblico ed riceve critiche piuttosto numerose dagli addetti ai lavori.
Il Governo, tuttavia, non si preoccupa di queste critiche, e presenta in modo sostanzialmente invariato il suo progetto al Senato.
Il Senato è tenuto ad approvare il progetto senza discussione parlamentare, in quanto su esso viene messo dal Governo la fiducia.
E, proprio al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega viene riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662.
Il nuovo unico articolo presentato al Senato sarà infatti lungo ben 39 pagine.
In questo modo, e in queste condizioni, il Senato, approva il disegno di legge delega di riforma del processo civile in data 21 settembre 2021 (poi l. 26 novembre 2021 n. 206).
3.3. È naturale osservare che il paradosso di un Governo che si fa legislatore è ancora più forte nelle leggi delega.
In quei casi, infatti, si realizza la grottesca situazione nella quale il Governo, imponendo la legge al Parlamento, di fatto delega sé stesso a fare quella cosa che egli stesso ha determinato.
In meccanismi di questo genere, davvero abbiamo ancora la voglia di discutere di eccesso di delega?
Io, accanto all’istituto dell’eccesso di delega, proporrei quello del ripensamento: una cosa è dunque l’eccesso di delega, come tale incostituzionale; altra cosa il ripensamento, irrilevante invece ai fini della legittimità costituzionale.
Il Governo, quando ha scritto la legge delega, pensava di poter fare una cosa, poi ne ha fatta un’altra; evidentemente ha cambiato idea, che male c’è?
A tutti deve essere riconosciuto il diritto che i romani etichettavano con l’espressione re melius perpensa.
4. Gli eccessi di delega che potrebbero riscontrarsi nell’ultima riforma del processo civile. L’insussistenza di essi per rispetto della ratio della legge delega da parte del decreto legislativo.
Comunque, anche a voler convenire che l’art. 171 bis c.p.c. contenga un eccesso di delega così come rilevato dal Tribunale di Verona, questo non potrebbe egualmente comportare l’incostituzionalità della norma, poiché il d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 è pieno di eccessi di delega, e certo non è possibile dichiarare l’incostituzionalità dell’intera legge per queste ragioni.
4.1. Fra il serio e faceto mi sia così consentito ricordare almeno quattro tra questi eccessi di delega, aventi ad oggetto momenti centrali del nuovo processo civile: faccio riferimento alla disciplina della sinteticità e chiarezza degli atti processuali, oggi regolati dal decreto ministeriale 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione dell’art. 46 delle disp. att. c.p.c., alla disciplina delle udienze cartolari e a distanza, oggi regolate dagli artt. 127 bis e ter c.p.c., alla disciplina della nuova procedura in appello di cui agli artt. 348 bis, 349 bis, 350, 3° comma, 350 bis c.p.c., e infine alla disciplina del procedimento in cassazione ex nuovo art. 380 bis c.p.c.
4.2. Quanto alla sinteticità e chiarezza degli atti processuali si osserva che:
a) la legge delega (art. 1, comma 17, lettera d) ribadiva il principio della libertà delle forme nella redazione degli atti processuali, stabilendo che questi possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, mentre il decreto legislativo ha abbandonato il criterio della libertà delle forme degli atti ed ha espressamente previsto che un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti, disponendo altresì che l’atto processuale debba avere in ogni caso un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso.
b) La legge delega, poi, semplicemente prevedeva che gli atti processuali dovessero essere redatti in modo da assicurare la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, mentre il decreto legislativo ha disposto, oltre ciò, che con decreto del Ministro della Giustizia sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell'intestazione e delle altre indicazioni formali dell'atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale.
c) La legge delega, infine, giustificava l’inquadramento e la regolamentazione degli atti processuali semplicemente sulla esigenza della raccolta dati nel processo telematico, ovvero strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo; il decreto legislativo ha superato al contrario questa ratio e ha previsto una regolamentazione ministeriale di tipo generale (……rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione……), in grado così di investire gli atti processuali in ogni momento, e non solo in quello della raccolta telematica dei dati.
4.3. Qualcosa di simile è avvenuto con riferimento alle udienze a distanza e cartolari.
La disciplina delle udienze a distanza e cartolari, disposte per la prima volta nella legislazione di emergenza da COVID 19 con l’art. 221 della l. n. 77 del 2020, venivano riportate anche nella legge delega 26 novembre 2021 n. 206, e ciò esattamente nell’art. 1, comma 17, lettere l) e m).
Lì si prevedeva che il giudice: ”fatta salva la possibilità per le parti costituite di opporsi, può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice, si svolgano con collegamenti audiovisivi a distanza…oppure (alle medesime condizioni)…disporre che le udienze civili siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni”.
Orbene, non v’è bisogno di particolare acume giuridico per accorgersi che i nuovi artt. 127 bis e 127 ter c.p.c. sono andati oltre un limite affatto secondario della legge delega, e che era quello che le parti potessero opporsi alla scelta del giudice di disporre udienze cartolari e/o a distanza.
Infatti, l’opposizione delle parti prevista dalla legge delega è stata di fatto soppressa dalle nuove norme del decreto legislativo, che hanno sì previsto che queste possano chiedere l’udienza in presenza, ma hanno parimenti disposto che spetta in ogni caso al giudice assumere ogni decisione finale con “decreto non impugnabile”.
Ora, come è noto, in base all’art. 135, 3° comma c.p.c. i decreti sono privi di motivazione se la motivazione non è espressamente prescritta dalla legge, e gli artt. 127 bis e ter c.p.c. non prevedono che i decreti in questione debbono essere motivati, e quindi i decreti che dispongono le udienze a distanza o cartolari non sono motivati; inoltre essi sono espressamente definiti dalla legge “non impugnabili”.
Ne segue, così, che mentre la legge delega prevedeva che gli avvocati potessero opporsi allo svolgimento delle udienze non in presenza (“salva la possibilità per le parti costituite di opporsi”), e non semplicemente potessero presentare una richiesta in tal senso, i nuovi articoli scaturiti dal decreto legislativo hanno trasferito ogni potere al giudice, il quale lo esercita addirittura con un provvedimento che ha la forma del decreto (una eccezione, poiché sulle istanze delle parti il giudice deve provvedere di regola con ordinanza e non con decreto), e il decreto non è ne’ motivato ne’ impugnabile (quindi il potere del giudice di disporre udienze non in presenza è pieno, e le parti non hanno strumenti per opporsi a ciò).
4.4. In tema di appello, l’idea della legge delega era quella di rivedere la disciplina degli artt. 348 bis e ter c.p.c. introdotti nel 2012, che avevano creato non pochi problemi alla Corte di Cassazione prevedendo che le impugnazioni senza ragionevole possibilità di accoglimento dovessero essere decise con ordinanza.
La legge delega, all’art. 1, comma 8, lettera e), disponeva conseguentemente che la definizione di quegli appelli dovesse essere data con sentenza e non più con ordinanza, e così statuiva che: “la decisione di manifesta infondatezza sia assunta a seguito di trattazione orale con sentenza succintamente motivata anche mediante rinvio a precedenti conformi”; e sulla base di ciò andavano modificati “conseguentemente gli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.”
Il decreto legislativo, al contrario, è andato ben oltre: a) ha provveduto all’abrogazione dell’art. 348 ter c.p.c.; b) poi alla riscrittura degli artt. 348 bis e 350 c.p.c.; c) e infine ad inserire nuovi artt. 349 bis e 350 bis del codice di procedura civile.
Da segnalare, che mentre per la legge delega, in conformità con la disciplina già fatta propria dall’art. 348 bis c.p.c. nel suo testo originario, la possibilità della definizione dell’appello in via breve era riservata ai soli casi di manifesta infondatezza ovvero alle ipotesi nelle quali l’impugnazione non avesse alcuna ragionevole possibilità di essere accolta, il nuovo art. 348 bis c.p.c. ha aggiunto anche i casi di manifesta fondatezza, di nuovo non previsti dalla legge delega, e soprattutto l’art. 350, 3° comma c.p.c. ha ricompreso in tal alveo anche altre ipotesi del tutto libere, che si hanno quando il giudice discrezionalmente “lo ritenga opportuno in ragione della ridotta complessità o dell’urgenza della causa”, e ciò anche in contrasto con la lettera l) della medesima disposizione di legge delega, che individuava i poteri del giudice istruttore senza ricomprenderne questo.
Inoltre, l’art. 349 bis c.p.c. ha previsto per la prima volta la contrapposizione in appello tra un giudice “istruttore” e un giudice “relatore”, e ha rimesso al Presidente, in limine litis, e in un momento che appare addirittura anteriore alla costituzione dell’appellato, la scelta discrezionale di optare per la definizione dell’impugnazione in un modo o nell’altro.
Ed ancora, il nuovo art. 350, bis, 3° comma c.p.c. prevede che la sentenza sia “motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”, e ciò tanto per i casi di decisione immediata con la nomina del “relatore”, quanto con riferimento ai casi ordinari a seguito di trattazione con “l’istruttore”, visto che l’art. 350 bis c.p.c., fa riferimento sia al primo caso nel 1° comma, sia al secondo caso nel 2° comma.
La legge delega, invece, e per la verità, prevedeva che la sentenza in forma semplificata si potesse pronunciare solo per le ipotesi di impugnazione manifestamente infondata; al contrario con il decreto legislativo, e secondo meccanismi non conosciuti dalla legge delega ne’ nella lettera e) ne’ nella successiva lettera n), l’attuale art. 350 bis c.p.c. consente invece che tutte le sentenze in appello possano essere definite con sentenza in forma semplificata, in quanto lo stesso art. 352 c.p.c. consente all’istruttore di scegliere tra la modalità di definizione ordinaria e la modalità di definizione prevista dall’art. 350 bis c.p.c. anche fuori dai casi di cui agli artt. 348 bis e 350, 3° comma c.p.c.
4.5. Discorso analogo può essere sviluppato con riguardo al giudizio di cassazione.
L’art. 1, comma 9 lettera e) della legge delega prevedeva l’introduzione di un procedimento accelerato rispetto alla camera di consiglio per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati.
Questo procedimento accelerato si doveva realizzare attraverso: “una proposta di definizione del ricorso”, da comunicare “agli avvocati delle parti”, e “se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intende rinunciato e il giudice pronuncia decreto di estinzione, liquidando le spese”.
Orbene, anche in questo caso non è difficile rilevare come il nuovo art. 380 bis c.p.c. sia andato oltre i limiti della legge delega.
A parte la circostanza che il termine per richiedere la camera di consiglio è stato portato da venti a quaranta giorni, soprattutto l’art. 380 bis c.p.c. inserisce due nuovi elementi che condizionano fortemente la natura e la struttura dell’istituto: a) si è previsto infatti che la richiesta della camera di consiglio debba esser “sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale”; b) e si è previsto altresì che, nelle ipotesi nelle quali la definizione con ordinanza collegiale sia richiesta, se la Corte di cassazione “definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96”.
Non v’è bisogno di spendere troppe parole per rilevare quanto queste due novità, non contenute nella legge delega, disciplinino in modo del tutto diverso il diritto alla difesa e il trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, poiché par evidente che solo le parti benestanti potranno affrontare le eventuali ulteriori spese di cui all’art. 96 c.p.c., mentre le classi meno abbienti avranno senz’altro più difficoltà ad accettare simili rischi per esercitare il diritto all’azione.
Ed inoltre, ad abundantiam, mentre la legge delega prevedeva che la proposta dovesse contenere “la sintetica indicazione delle ragioni di inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata”, l’art. 380 bis c.p.c. si limita a disporre che il consigliere deve dare una “sintetica proposta”, senza altro aggiungere.
In questo modo, non solo è venuto meno il riferimento alle ragioni di inammissibilità o manifesta infondatezza che il parere del consigliere doveva contenere, ma anche l’aggettivo sintetico è stato spostato dalla motivazione alla proposta stessa: è la proposta oggi che deve essere sintetica, non più la motivazione o le ragioni di manifesta infondatezza della proposta; queste ultime infatti potranno anche non esserci in base al tenore del nuovo testo.
4.6. Che fare dunque? Possiamo dichiarare incostituzionale tutta la riforma Cartabia?
Evidentemente no, e allora si tratta di ridurre, forse anche di azzerare, il problema dell’eccesso di delega.
La questione, se si vuole, è trattata dallo stesso Tribunale di Verona, laddove ricorda che la Corte costituzionale, con più di una pronuncia, ha già statuito che non può darsi eccesso di delega se il decreto legislativo non ha comunque violato la ratio della legge delega (così il Tribunale di Verona: “Occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente, ex plurimis: sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007, e, più recentemente, sentenza 24 ottobre 6 dicembre 2012, n. 272”).
La soluzione è perfetta: in questo modo la risoluzione della questione non dipende più da una sola valutazione tecnica scaturente dall’esegesi dei testi, bensì sostanzialmente da una valutazione discrezionale, rimessa al contenuto di una espressione elastica ed imprecisa quale quella della ratio, che può contenere tutto e il contrario di tutto.
La filosofia del linguaggio ci insegna che per collegare una qualunque cosa con una qualunque altra è sufficiente aumentare il livello di astrazione delle parole, e la parola ratio è ideale per ciò.
Si può, così, sempre ritenere che il decreto legislativo non abbia violato la ratio della legge delega, e il problema si dissolve.
5. Segue: l’insussistenza altresì dell’incostituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
E passiamo all’altra parte dell’ordinanza, ovvero a quella che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost.
Sostanzialmente, il problema, per il Tribunale di Verona, è questo: l’art. 171 bis c.p.c. si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., poiché tale norma divide le questioni processuali tra quelle che si decidono prima dell’udienza, e quindi senza contraddittorio (ad esempio le questioni di cui agli artt. 102, 107, 164), e quelle che si mantengono invece quali questioni che si decidono in udienza, e quindi nel contraddittorio tra le parti e i loro difensori (scrive il Tribunale di Verona: mentre per tutte le altre, non espressamente menzionate, differisce la decisione alla udienza di prima comparizione).
Si tratterebbe di una disparità di trattamento non giustificata.
Soprattutto, il Tribunale di Verona rileva che le questioni indicate nel 1° comma dell’art. 171 bis c.p.c. prima stavano nel vecchio art. 183 c.p.c.: nel vecchio sistema, quindi, tale verifiche si realizzavano nel rispetto del contraddittorio con le parti e i loro difensori, perché appunto avvenivano in udienza, mentre oggi, essendo state dalla riforma anticipate in un momento anteriore, esse sono rese nella completa solitudine del giudice, che provvede senza sentire nessuno.
E qui, veramente, siamo alla parte romantica dell’ordinanza, quasi commovente per un avvocato, poiché si scopre, così, che esistono ancora giudici che ritengono costituzionalmente necessaria l’attività difensiva.
A pensarci, però, il dubbio di costituzionalità della norma per ragioni di questo genere non può che risultare alla fine infondato, e ciò non solo perché i provvedimenti resi dal giudice senza contraddittorio ai sensi dell’art. 171 bis, 1° comma c.p.c. potranno sempre essere rivisti e modificati a seguito del successivo contraddittorio nel successivo svolgimento del processo, e ciò non solo perché l’ordinanza prende a parametro del ragionamento una norma abrogata quale il vecchio resto dell’art. 183 c.p.c. e questo potrebbe addirittura condurre all’inammissibilità della questione, ma soprattutto perché è totalmente contrario allo spirito della riforma quello di immaginare una qualche rilevanza costituzionale della presenza degli avvocati nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Tutta la riforma, infatti, risponde alla logica contraria, e per la quale meno attività si fanno svolgere agli avvocati, meglio si realizza quella leale collaborazione necessaria alla realizzazione del principio di ragionevole durata dei processi e del PNRR.
Credo che nessuno possa mettere in dubbio che lo spirito della riforma sia questo: gli avvocati devono infatti scrivere gli atti in modo chiaro e sintetico e nel rispetto dei criteri e dei limiti dimensionali previsti dall’art. 46 disp. att. c.p.c.; gli avvocati non hanno diritto di interloquire personalmente con il giudice, in quanto gli artt. 127 bis e 127 ter c.p.c. hanno sostanzialmente annullato la loro possibilità di opporsi alla fissazione di udienze a distanza e/o cartolari; la decisione giurisdizionale può essere chiesta solo se le parti hanno anteriormente provato a conciliare la lite, e lo stesso giudice, tanto in primo grado (artt. 183 e 185 c.p.c.) quanto in appello (art. 350, 4° comma c.p.c.), può e deve oggi formulare “la proposta transattiva o conciliativa….fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione” (art. 185 bis c.p.c.); tutti i termini per il deposito delle memorie sono stati ridotti (artt. 171 ter e 189 c.p.c.), e la funzione delle comparse conclusionali è stata gravemente ridimensionata, e ciò perché la definizione dei giudizi deve darsi sempre più in forma breve, tanto in primo grado (art. 281 sexies c.p.c.) quanto in appello (art. 350 bis c.p.c.), con procedure che escludono le difese scritte nella fase conclusiva del giudizio; è stato reintrodotto l’obbligo della presenza personale delle parti in prima udienza (art. 183 c.p.c.); si è previsto che il giudice, anche a fronte di una causa introdotta nelle forme ordinarie dalla parte attrice, possa sempre trasformare quel rito in sommario (art. 183 bis c.p.c.), e quindi poi decidere in via breve ex art. 281 sexies c.p.c., e sempre con facoltà di ridurre gli atti conclusionali scritti ex nuovo art. 275 bis c.p.c.; si è altresì previsto che l’avvocato che intenda chiedere in cassazione la definizione del giudizio con ordinanza collegiale debba munirsi di nuova procura speciale da parte del cliente (art. 380 bis c.p.c.); nel processo di famiglia sono aumentati i poteri d’ufficio del giudice (art. 473 bis 2 c.p.c.) e imposti alle parti nelle allegazioni doveri di verità (art. 473 bis 18 c.p.c.).e di completezza (art. 473 bis 48 c.p.c.); soprattutto ogni comportamento difensivo da considerare scorretto può costituire presupposto di sanzione a favore della controparte (art. 96, 3° comma c.p.c.) o dello Stato (art. 96, 4° comma c.p.c.), e si è arrivati perfino a sanzionare la mancata partecipazione al primo incontro di mediazione (art. 12 bis, 2° e 3° comma d. lgs. 28/2010).
In breve, la questione sollevata dal Tribunale di Verona è facilmente superabile: la svalutazione della funzione difensiva è parte integrante della riforma, e pertanto non si comprende perché l’art. 171 bis c.p.c., dovrebbe considerarsi in contrasto con l’art. 24 Cost. nella parte in cui prevede che i provvedimenti ivi indicati siano presi senza contraddittorio e/o l’ausilio dei difensori.
6. Osservazioni di sintesi.
In estrema sintesi, dunque, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Verona appaiono infondate: nel nostro nuovo sistema nessuna rilevanza costituzionale può avere l’eccesso di delega, e nessuna rilevanza costituzionale ha l’esercizio della difesa; l’art. 171 bis c.p.c. è quindi rispettoso dei dettati della nostra costituzione.
E poi, non dimentichiamo, detta norma si inserisce nel contesto di una riforma finalizzata all’attuazione del PNRR e porta il nome di un ex Presidente della Corte costituzionale.
Cosa vogliamo fare? Pretendiamo che la Corte dichiari l’incostituzionalità di sé stessa?
Suvvia, vedrete, andrà tutto bene.
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