ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il fatto di reato e il contesto in cui è maturato. 2. Un paio di brevi (ma necessarie) considerazioni preliminari. 3. Le indagini compiute nell’immediatezza del fatto e l’apertura del procedimento penale. Il primo atto di depistaggio e la chiusura delle indagini. 4. La riapertura del procedimento e l’arresto di Volpi e Zaccagnini. L’indagine si arena fino all’amnistia. 5. Alcune brevi considerazioni a margine del procedimento del 1924-25. 6. Dopo la caduta del fascismo: la riapertura del fascicolo venti anni dopo. E la scoperta ex post di un altro depistaggio. 7. Conclusioni.
1. Il fatto di reato e il contesto in cui è maturato.
Grazie al rapporto di collaborazione di recente instaurato tra la nostra rivista e l’Archivio di Stato di Roma, ho avuto la possibilità di consultare il fascicolo dell’istruttoria aperta in seguito all’aggressione subìta da Giovanni Amendola nel dicembre del 1923 ad opera di un gruppo di squadristi.
Come noto, sin dall’inizio il fascismo si caratterizzò per l’uso sistematico della violenza nei confronti degli oppositori politici e di chiunque non aderisse al suo programma di distruzione della democrazia; nella fase successiva alla marcia su Roma dell’ottobre 1922 e all’assunzione da parte di Mussolini dell’incarico di Primo Ministro i suoi esponenti, lungi dall’assumere una posa più istituzionale e ripudiare la violenza, attraverso le milizie fasciste intensificarono gli attentati all’incolumità fisica di giornalisti, politici, sindacalisti per intimidire con brutali pestaggi o eliminare assassinandoli molti di coloro che si opponevano all’instaurazione del regime.
Giovanni Amendola, intellettuale, giornalista ed esponente politico di primo piano del morente agone parlamentare[1], era dunque tra i naturali bersagli delle spedizioni intimidatorie pianificate dagli alti ranghi del Fascio ed eseguite da militanti scelti tra quelli di indole particolarmente violenta e spesso pregiudicati per reati comuni.
In questo contesto si inserisce il fatto di reato da cui scaturisce la vicenda processuale in esame: la mattina del 26 dicembre del 1923, mentre camminava a piedi presso Porta Pinciana a Roma, il deputato fu avvicinato da un gruppo di uomini che, dopo averlo inseguito, lo raggiunsero alle spalle e lo percossero con bastoni, calci e pugni fino a provocargli lesioni in varie parti del corpo; uno di loro, postosi di fronte (e sarà dunque l’unico ad essere riconosciuto dalla vittima in Albino Volpi, che pochi mesi dopo infliggerà la coltellata al costato che ucciderà Giacomo Matteotti), lo colpì al volto e al capo con diverse bastonate anche mentre era a terra.
Infine, gli aggressori si allontanarono a bordo del taxi dal quale cui erano discesi per il pestaggio; l’autista li aveva infatti attesi sul ciglio della strada, a pochi metri dal luogo del fatto.
Ad aumentare la valenza intimidatoria del gesto, durante l’azione delittuosa uno dei partecipanti aveva esploso un colpo di pistola in aria.
Nonostante la violenza del fatto appena descritto, si tratta – da un punto di vista strettamente processuale – di un “reato minore”, oggi rubricabile come “lesioni personali lievi” quanto alle conseguenze sulla salute della persona offesa (25 giorni di prognosi), senza tenere conto ovviamente delle circostanze aggravanti ictu oculi evincibili (uso di armi ed oggetti atti ad offendere, più persone riunite, motivi abietti ed altre ancora).
Né il giudizio cambia se si adottano i parametri dell’epoca: anzi, come detto, pestaggi del genere erano all’epoca all’ordine del giorno, e non pochi esponenti dell’antifascismo hanno incontrato la morte per mano dei fascisti nei primi, cruciali, anni del Ventennio.
Lo stesso Amendola aveva subìto altre aggressioni prima di quella cui ci occupiamo, ed altre ne subirà (l’ultima delle quali, come si dirà in prosieguo, ne causerà indirettamente la morte nel 1926).
Tuttavia, il caso in esame ha una valenza simbolica fuori dal comune, sia per la caratura politica e intellettuale della vittima che per il peso politico del gesto rapportato al momento, tanto da avere rappresentato un vero e proprio “salto di qualità”, preludio alla fase più cruenta di instaurazione del regime che priverà l’Italia di libertà per più di venti anni.
In merito, basti riflettere sul fatto che il nascente regime dittatoriale, non ancora cristallizzato come fatto irreversibile nella coscienza collettiva, stava affrontando la pressione derivante dall’abbandono del Parlamento da parte delle forze politiche di ispirazione democratica, avvenuto per protesta contro la decisione del Re di affidare il Governo all’autore della Marcia su Roma.
L’iniziativa politica, nota come “secessione dell’Aventino”, avrebbe potuto indurre il Re a tornare sui suoi passi e revocare l’incarico di Primo Ministro al giovane Mussolini per ripristinare la legalità democratica. Giovanni Amendola era l’ispiratore e la figura più carismatica degli Aventiniani e quindi l’ostacolo più temibile, in quel momento, per la realizzazione del piano dittatoriale di Mussolini; in questo contesto va cercato il movente del delitto oggetto del presente articolo.
Va però rilevato che una ricostruzione in chiave storico-politica del delitto poco aggiungerebbe alle numerose già esistenti e sarebbe forse eccentrica rispetto al target e agli obiettivi di “Giustizia Insieme”.
Ho scelto dunque di consultare l’incartamento con lo sguardo tecnico del giudice penale, esaminando – con le lenti dell’attuale codice di rito – il procedimento aperto in conseguenza del reato per offrire una riflessione ancorata a dati strettamente giuridici e processuali.
Una sorta di cold case, la immaginaria riassegnazione del fascicolo ad un magistrato italiano cento anni dopo il fatto, per una valutazione il più possibile asettica del materiale probatorio raccolto e dei suoi esiti processuali, simile alla valutazione critica del giudice di appello sul fascicolo di primo grado.
2. Un paio di brevi (ma necessarie) considerazioni preliminari.
Prima di iniziare l’analisi del merito della vicenda, due considerazioni di carattere metodologico.
La prima è che l’esame del fascicolo si è dimostrato alquanto impervio a causa della vetustà dell’incartamento, non tanto per lo stato di conservazione – che, anzi, si presenta eccellente – ma per la circostanza che la quasi totalità delle centinaia di pagine che lo compongono è scritta a mano, con inchiostro in alcuni punti schiarito dal tempo e una calligrafia che, per quanto esteticamente pregevole, è quasi sempre di non agevole decrittazione, soprattutto agli occhi di chi ha passato quasi tutta la sua vita a leggere i rassicuranti e sempre identici caratteri Times New Roman 12 di uno schermo di computer.
Non può negarsi, per altro verso, che la suggestione del verbale manoscritto dell’ interrogatorio di Albino Volpi (come si è detto, assassino conclamato di Matteotti) o delle missive con cui lo stesso Giovanni Amendola sollecitava i magistrati dell’epoca ad uscire dalle secche in cui l’istruttoria periodicamente finiva è incomparabile e restituisce il privilegio di trovarsi a tu per tu con un passato che sembra vivissimo, tangibile com’è, in un certo modo anche fisicamente.
La seconda considerazione è di carattere più strettamente tecnico-processuale.
I fascicoli odierni sono caratterizzati dal naturale dipanarsi di una sorta di filo invisibile – ma ben riconoscibile agli occhi di un tecnico - che lega un atto all’altro: alla notizia di reato seguono le deleghe di indagini con cui il Pubblico Ministero dà contezza, nel conferire direttive alla Polizia Giudiziaria, degli atti da compiere e (spesso) del motivo per cui essi vanno compiuti, che trae origine a sua volta da un atto presente nel fascicolo (ad esempio: “con riferimento alla vostra informativa del 12 aprile 2023, da cui emerge la possibile presenza sul luogo del delitto di Tizio, si delega l’escussione del medesimo a sommarie informazioni affinché riferisca quanto a sua conoscenza”); le stesse informative di reato (ed i seguiti) danno conto della scaturigine degli atti compiuti (ad esempio: “in data odierna si presentava in caserma Caio il quale rendeva le seguenti spontanee dichiarazioni”).
In questo modo è possibile ricostruire, momento per momento, una sorta di filo che cuce insieme le indagini, e la riconoscibilità di questo ordito è garanzia del corretto svolgimento delle stesse.
Nel procedimento esaminato questo filo non è sempre agevolmente rinvenibile: si susseguono ad esempio verbali di ricognizione di persona senza che sia dato conoscere su che base siano stati scelti i soggetti da sottoporre all’atto; compaiono verbali di dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria di soggetti senza che sia esplicitato se si siano spontaneamente presentati o siano stati convocati (e per quale motivo).
Probabilmente ciò è dovuto alla differente ed ancora embrionale cultura della motivazione, quale necessità di ricostruzione del percorso logico-giuridico seguito dal magistrato (anche) inquirente, che si è affermata nel nostro ordinamento in tempi più recenti di quelli oggetto del nostro esame.
Queste caratteristiche, unite all’assenza di molte regole “moderne” di gestione del fascicolo (quale, a quanto si evince, l’obbligo di immediata iscrizione come indagati di tutti i soggetti raggiunti da elementi di colpevolezza) hanno reso il viaggio nell’incartamento a tratti accidentato.
3. Le indagini compiute nell’immediatezza del fatto e l’apertura del procedimento penale. Il primo atto di depistaggio e la chiusura delle indagini.
La dinamica del fatto di reato, come descritta nel paragrafo iniziale, non presenta - né ha presentato all’epoca - alcun problema di ricostruzione.
Alla deposizione della persona offesa fanno infatti da riscontro i testimoni oculari, numerosi dato che l’aggressione è avvenuta in pieno giorno un una strada centrale della capitale. Diversi di loro sono stati tempestivamente escussi, sicché non vi sono zone d’ombra su cosa sia accaduto quella mattina di un Santo Stefano di un secolo fa: un’aggressione compiuta con bastoni e una rivoltella da parte di almeno cinque persone, giunte a bordo di un taxi ed allontanatesi dopo l’azione con il medesimo mezzo, rimasto ad attenderli sul luogo del delitto.
Le indagini si sono dunque concentrate sin dalle prime fasi esclusivamente sull’individuazione degli autori, che avrebbe portato con sé inevitabilmente il disvelamento del movente (per quanto questo appariva facilmente intuibile, date le caratteristiche dell’azione, la personalità della vittima ed il contesto di cui si è detto nel primo paragrafo).
Anche da questo punto di vista, l’istruttoria sembrava partire con il piede giusto perché uno dei partecipanti all’azione era immediatamente individuato: un testimone forniva infatti la targa dell’autovettura utilizzata dagli autori delle lesioni (un taxi, come si è detto), da cui si risaliva all’autista, lo chaffeur Fausto Zaccagnini.
Neanche il tempo di registrare questo primo elemento come punto di partenza dell’indagine (con la logica iscrizione del soggetto individuato come indiziato di reato) che la sua valenza veniva però neutralizzata dall’intervento di un fattore esterno: nelle ore successive all’aggressione la polizia acquisiva le dichiarazioni di Mario Candelori, Comandante della 112 Milizia.
Questi riferiva che Zaccagnini, appena dopo il fatto, si era recato nella sede della Milizia per parlare con lui e gli aveva raccontato di essere stato avvicinato da alcuni uomini sconosciuti che lo avevano costretto ad accompagnarli in un luogo e ad attenderli; che aveva assistito all’aggressione di Amendola dopo che gli occupanti erano scesi (tutti tranne uno, rimasto a bordo ad assicurarsi che non si allontanasse); che gli aggressori erano risaliti in macchina e uno di loro, impugnando una rivoltella, gli aveva ingiunto di allontanarsi velocemente dal posto e darsi alla fuga.
Lo stesso Zaccagnini, escusso direttamente subito dopo Candelori, riferiva dichiarazioni di analogo tenore.
Sulla scorta di queste dichiarazioni, di “provvidenziale” tempestività, Zaccagnini venne ritenuto strumento incolpevole dell’azione delittuosa e non correo della stessa.
Il fascicolo fu dunque iscritto direttamente contro ignoti per avere aggredito l’onorevole Giovanni Amendola provocandogli lesioni e per avere costretto Fausto Zaccagnini ad accompagnare gli autori del primo reato.
Il provvedimento si presenta apparentemente incensurabile, alla luce delle acquisizioni fino a quel momento raccolte, visto che non c’erano elementi per dubitare della veridicità delle dichiarazioni del Candelori.
A ben vedere, però, non può non osservarsi che la dichiarazione dell’autista di non avere visto in volto (perché troppo spaventato) nessuno dei soggetti con cui aveva condiviso un lungo periodo a stretto contatto nell’autovettura e di cui aveva assistito interamente al pestaggio, seduto comodamente al suo posto di guida e in condizioni ottimali di visibilità, avrebbe forse meritato un approfondimento investigativo maggiore.
Sul giudizio di attendibilità di quello che avrebbe potuto essere considerato un sospetto di correità ha pesato indubbiamente il “peso politico” del Candelori, che si è presentato a fare da fideiussore dell’autista, facendo valere tutto il carisma della carica rivestita di Comandante della Milizia.
Agli occhi di un magistrato attuale non può peraltro sfuggire che un alto esponente del fascismo sembra la figura meno opportuna per agevolare la serena ed imparziale valutazione di un fatto di reato che già all’epoca non poteva non apparire di matrice fascista.
Di fatto, questo primo atto – precedente addirittura, come si è detto, la trasmissione della notizia di reato alla Procura - porrà una pesante ipoteca sulla possibilità di giungere ad un esito positivo delle indagini, privandole di un importante e robusto elemento indiziario che col senno di poi avrebbe potuto essere decisivo.
La certezza che l’indagine sia stata, nei suoi primi vagiti, indirizzata verso una lenta ed inevitabile morte trae ulteriore vigore dalla circostanza, che emerge in tutta evidenza dall’esame delle carte processuali, che il Candelori è il mandante e l’organizzatore della spedizione punitiva in danno dell’onorevole Amendola.
Come meglio si dirà di qui a breve, da plurime e convergenti fonti emerge infatti la prova che è stato proprio lui ad avere convinto Zaccagnini a prender parte all’azione delittuosa, assicurandogli espressamente che in caso di problemi con le forze dell’ordine sarebbe intervenuto a coprirlo, promessa effettivamente mantenuta proprio con la falsa deposizione sopra descritta: in altri termini, l’indagine nasce viziata da un consapevole depistaggio.
Non sorprende dunque che, poco dopo la sua apertura, il procedimento penale si sia chiuso con un provvedimento di non doversi procedere per “essere rimasti ignoti gli autori del fatto”.
4. La riapertura del procedimento e l’arresto di Volpi e Zaccagnini. L’indagine si arena fino all’amnistia.
Poche settimane dopo, il 27 giugno del 1924, il procedimento viene riaperto.
L’atto di impulso che provoca la riapertura delle indagini è uno scritto anonimo, in cui si indicano i responsabili dell’aggressione Misuri, dell’aggressione Amendola e di un non meglio precisato omicidio di Tivoli.
L’anonimo viene unito al procedimento che riprende vita, dotato di nuova copertina che recita “nuove indagini relative all’aggressione in danno di Amendola”.
Allo sguardo di un giurista moderno tale circostanza appare singolare: l’articolo 240 del codice di procedura penale attuale, come noto, prescrive il divieto di acquisizione e la radicale inutilizzabilità di questo tipo di scritti nel nostro processo.
Tuttavia, vale la pena di ricordare che la regola è una conquista piuttosto recente nel nostro ordinamento[2] e nessuna preclusione in tale senso esisteva all’epoca dei fatti.
Lo scritto, peraltro, è ricco di dettagli interessanti, poiché indica chiaramente mandante ed esecutori: “l’ordine fu impartito da De Bono. In esecuzione fu organizzato dal console Mario Candelori (che però non vi prese parte personalmente) della caserma Magnana Poli e compiuto da elementi della 112 Legione. Consta allo scrivente che vi presero parte tra gli altri le seguenti persone: Bernacchia, milite della 112 legione, Falcinelli. Sarà facilissimo constatare la loro partecipazione: basterà metterli a confronto con le persone che assistettero al fatto”.
L’autore mostra di conoscere bene la catena di comando che ha ideato il reato, poichè indica con chiarezza il suo vertice nel Generale Emilio De Bono, uno degli uomini più in vista del ventennio, quadrumviro della marcia su Roma, al momento del fatto Capo della Polizia e della Milizia Fascista e Senatore del Regno.
In pratica, si attribuisce l’ideazione dell’aggressione in danno di uno degli esponenti politici più importanti dell’antifascismo al braccio destro di Benito Mussolini e suo plenipotenziario per le questioni di “ordine pubblico”.
Come organizzatore della fase esecutiva compare il nome di Mario Candelori, del cui ruolo di depistaggio si è detto.
Meno precisa l’indicazione degli esecutori: ne vengono indicati solo due, Bernacchia e Falcinelli, con l’importante precisazione che si tratta di appartenenti alla Milizia, capitanata dallo stesso Candelori.
La decisione di Zaccagnini di recarsi, immediatamente dopo il fatto, direttamente nella sede della predetta milizia a conferire con Candelori (circostanza pacificamente ammessa dai due) assume dunque un preciso significato: l’auto con gli aggressori è andata a fare rapporto immediato sull’accaduto all’organizzatore del piano delittuoso, che ha avuto modo di pianificare la reazione all’eventualità (altamente probabile) che qualcuno avesse preso la targa del mezzo (come effettivamente avvenuto).
Dall’anonimo scaturiva un atto di delega per riferire notizie su tre dei quattro soggetti menzionati (Candelori, Bernacchia e Falcinelli: De Bono viene semplicemente ignorato).
La Polizia rispondeva con una stringata informativa il 9 luglio, contenenti brevi – ed inutili - indicazioni biografiche dei soggetti, cui seguiva il successivo 12 luglio diversa informativa della Questura con cui si comunicava laconicamente che “questo Ufficio non ha elementi per ritenere che l’aggressione all’On Amendola sia stata organizzata da Candelori e compiuta da elementi della 112 Legione”.
In pratica, un invito al Pubblico Ministero a non indagare oltre.
La forza propulsiva dell’anonimo si esauriva dunque in un nulla di fatto.
Più difficile è stato ignorare un ulteriore atto di impulso che compare nel fascicolo, perché trattasi di una denuncia-querela formalmente presentata dall’onorevole Amendola il 31 luglio del 1924.
Nel corso della stessa la persona offesa, oltre a confermare le dichiarazioni rese nell’immediatezza dei fatti, esprimeva la sua convinzione che Zaccagnini fosse pienamente coinvolto nel delitto e non strumento inconsapevole.
In particolare, riferiva di avere saputo da fonte non specificata che Zaccagnini si sarebbe vantato con un suo collega di avere partecipato all’aggressione in suo danno. Inoltre, coraggiosamente, sottolineava e faceva mettere a verbale che trovava significativo che l’autista Zaccagnini fosse andato a costituirsi in una caserma della milizia fascista dopo un’aggressione fascista.
Infine, aggiungeva di avere riconosciuto l’aggressore che gli si era parato di fronte in un paio di effigi fotografiche comparse sul giornale di Albino Volpi, nel frattempo arrestato per l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Si tratta di elementi impossibili da ignorare e che provocavano la riapertura dell’istruttoria, con l’iscrizione del procedimento a carico di Volpi e Zaccagnini in concorso con ignoti.
Il 7 agosto Amendola veniva chiamato ad effettuare una ricognizione di persona, nel corso della quale riconosceva con certezza Albino Volpi come l’uomo che gli si era parato davanti e lo aveva colpito al volto e al corpo.
Il 3 settembre Volpi, già detenuto per altra causa (il già menzionato omicidio Matteotti) venne arrestato anche per il pestaggio in danno di Amendola.
Le indagini proseguirono con l’escussione, avvenuta il 24 agosto, del Cavalier Pennetta, funzionario di polizia titolare delle indagini, da cui si apprendeva che l’auto con a bordo gli aggressori era stata vista correre a velocità sostenuta – subito dopo l’aggressione - da due vigili che, insospettitisi, le avevano intimato l’alt senza ottenere risposta.
È evidente che tale comportamento mal si concilia con il racconto di Zaccagnini di essere stato costretto ad allontanarsi dal luogo del delitto sotto minaccia, perché se così fosse stato la vista di due pubblici ufficiali avrebbe dovuto essere considerata come salvezza ai suoi occhi e non come un pericolo da fuggire.
Emerge poi che un certo Zara era stato aggredito da Zaccagnini, poche settimane prima del fatto in esame, nel corso di una spedizione punitiva di carattere fascista: l’autista appariva sempre meno credibile nel ruolo di vittima attribuitogli dal Candelori (sul quale peraltro si continuava a non muovere carta, nonostante le plurime evidenze).
Sulla scorta di questi elementi, cui si aggiungeva un verbale di sopralluogo ed una planimetria dei fatti che evidentemente dimostravano ancora di più l’inverosimiglianza della ricostruzione difensiva di Zaccagnini, anche quest’ultimo veniva tratto in arresto il 9 settembre del 1924.
Nel mandato di cattura, dal contenuto stringatissimo e pressocché privo di motivazione come all’epoca usava, si faceva riferimento alle “gravissime responsabilità emerse nel sopralluogo di ieri”.
Quanto agli altri aggressori, ogni ulteriore atto acquisito era destinato a non sortire alcun effetto.
In particolare, il 28 agosto si presentava spontaneamente Luigi Amendola, lontano parente della vittima, per riferire di avere appreso che gli aggressori dell’onorevole suo congiunto erano Bernacchia e Onorari.
Pur essendo il Bernacchia tra i soggetti già indicati dall’anonimo menzionati in principio di questo paragrafo, tale ulteriore elemento a suo carico venne semplicemente ignorato, così come un successivo anonimo del 10 settembre che indicava tra gli aggressori tale Falcinelli.
Null’altro si registra nelle carte processuali, l’indagine sembra fermarsi del tutto, tanto che il 18 dicembre Zaccagnini viene scarcerato per decorrenza dei termini.
Un nuovo tentativo di contrastare l’entropia da cui sembra affetto il fascicolo fino allo stato di immobilità delle indagini arrivava ancora una volta da Giovanni Amendola, che il 25 maggio del 1925 inviava in Procura una missiva nella quale riferiva di avere appreso che del gruppo degli aggressori faceva parte un nuovo soggetto, Vico Perrone, che avrebbe confidato a un giornalista, oltre al suo ruolo di esecutore insieme a tali Falchetti e Mercuri, che i mandanti erano Candelori e De Bono.
Ma anche questa nuova sollecitazione – che come si vedrà sarebbe stata di fondamentale importanza, anche se lo stesso Amendola non era in grado di apprezzarne appieno le potenzialità - era ignorata dal magistrato inquirente e l’inchiesta non registrava altre attività.
Nel frattempo provvedeva il Governo fascista ad emanare un’amnistia che cancellava con un tratto di penna tutti i reati “compiuti per motivi politici”, ivi compresi ovviamente i pestaggi e le aggressioni agli antifascisti.
Il 5 agosto del 1925 il Pubblico Ministero chiedeva conseguentemente non doversi procedere nei confronti di Volpi e Zaccagnini “poiché il reato è stato evidentemente determinato da movente politico” e quindi estinto per amnistia.
Pochi giorni prima, il 25 luglio, Giovanni Amendola era stato oggetto di una nuova, violentissima aggressione a Montecatini nel corso della quale riporterà ferite e lesioni che sono ritenute causa diretta del suo decesso, avvenuto alcuni mesi dopo in Francia, dove si era rifugiato dopo aver constatato l’impossibilità di continuare la propria attività politica e giornalistica nonché, si immagina, di avere giustizia per i plurimi atti di violenza subìti.
Tra le cause del trasferimento in Francia va annoverata altresì l’esigenza di curarsi, visto che in Italia gli sarebbe di fatto stato impossibile; nonostante le cure, Amendola morirà in Francia nel 1926 tra atroci sofferenze, a soli 42 anni.
5. Alcune brevi considerazioni a margine del procedimento del 1924-25.
Come si è visto, l’indagine è stata pesantemente condizionata da un evidente depistaggio prima ancora che la notizia di reato potesse giungere sulla scrivania del magistrato inquirente, ad opera di quel Candelori che - per come emerge dai successivi sviluppi dell’inchiesta – deve ritenersi l’organizzatore dell’azione delittuosa.
In poco tempo, il fascicolo è stato dunque inviato in archivio, esito che non stupisce dati i tempi e il contesto in cui il reato è maturato.
Assai meno scontato è invece il successivo percorso del procedimento, che ha ripreso linfa vitale non tanto in conseguenza dell’acquisizione di un anonimo che – come si è potuto constatare dalla lettura delle carte – era destinato ad essere facilmente neutralizzato con una delega solo formale (acquisite le informazioni nei confronti dei due presunti esecutori ed appurato che trattasi di soggetti di pessima condotta, il pubblico ministero si acquieta), quanto per l’iniziativa dello stesso Amendola, dato che – anche visto a distanza di un secolo – sembra aver sparigliato le carte.
Se la spedizione punitiva nei confronti dell’autorevole esponente dell’antifascismo aveva avuto lo scopo di intimidirlo e fiaccarne lo spirito, può dirsi che sia stata un totale insuccesso, perché nei mesi successivi il deputato moltiplicherà gli sforzi per arrivare alla verità processuale su quanto accaduto e non cesserà di domandare giustizia e di credere in un esito positivo del procedimento che lo riguardava.
L’omicidio brutale di Giacomo Matteotti, nel giugno del 1924, rese evidente il salto di qualità della violenza fascista contro gli oppositori del regime: non si rischiava più l’umiliazione o la bastonatura ma la stessa vita.
Tale consapevolezza, lungi dal fiaccarne coraggio e spirito di iniziativa, suscitava tuttavia in lui una reazione di maggiore attivismo e l’arresto dei responsabili dell’assassinio del politico socialista gli dava l’occasione per cercare le connessioni con quanto accaduto a lui poche settimane prima: era chiara sin dal primo momento la matrice comune ai due delitti e assai plausibile dunque che gli esecutori potessero coincidere in tutto o in parte.
Tra le foto degli arrestati mostrati sui giornali l’Amendola riconosceva l’unico aggressore che aveva avuto modo di vedere e si recava immediatamente a presentare denuncia querela per rappresentare il fatto, in uno con le considerazioni raccolte sul coinvolgimento dell’autista Zaccagnini.
La sua iniziativa sortiva l’effetto di neutralizzare depistaggi e tentativi di far morire l’indagine, e in breve si arrivava non solo alla riapertura del procedimento ma all’arresto di Volpi e Zaccagnini.
Ma era solo un fuoco di paglia: l’indagine non progrediva di un metro oltre il contributo offerto coraggiosamente dalla persona offesa; tutti gli spunti investigativi raccolti su ideatori e mandanti venivano ignorati e nessuno sforzo compiuto per ricostruire il movente del delitto.
Dall’ottica di un magistrato moderno, è particolarmente significativa la mancata iscrizione come indagato di Candelori, pur indicato da più parti come organizzatore del delitto e di cui era emersa a quel punto la palese opera di favoreggiamento di Zaccagnini, ormai ritenuto pienamente coinvolto nel reato tanto da essere destinatario di un mandato di cattura.
Ciò nonostante, come si è detto, l’indagine arrivava presto ad una stasi fino all’intervento, ab externo, del Governo fascista, che con provvedimento del 31 luglio 1925 concedeva amnistia “per i reati determinati da movente politico o che abbiano comunque connessione con fini politici”: depenalizzati – e dunque approvati ex post con provvedimento governativo- i pestaggi, le spedizioni punitive e le bastonature con cui il fascismo aveva imposto la fine della democrazia nel Paese.
L’inchiesta giungeva così, in data 11 agosto 1925, alla seconda declaratoria di non doversi procedere, e sulla vicenda calava il sipario per i successivi venti anni.
6. Dopo la caduta del fascismo: la riapertura del fascicolo venti anni dopo. E la scoperta ex post di un altro depistaggio.
L’ultima parte della vicenda processuale in esame comincia il 19 febbraio del 1945: il fascismo è caduto e tra i primi atti simbolici del ripristino della democrazia, si procede alla revoca dell’amnistia per i “delitti di matrice fascista puniti con pena superiore a tre anni”.
Conseguentemente, si riaprono i procedimenti penali per molti dei reati e degli atti violenti del Ventennio precedentemente definiti per l’amnistia del 1925; tra questi, l’aggressione a Giovanni Amendola di quell’ormai lontano 26 dicembre di 22 anni prima.
Il procedimento penale viveva la sua terza stagione e - libero finalmente da condizionamenti e censure - veniva iscritto a carico di tutti i soggetti fino a quel momento raggiunti da indizi di reità: Benito Mussolini, ispiratore e mandante, il Capo della Polizia Emilio De Bono e il Comandante della 112 Milizia Mario Candelori come organizzatori, nonché di Albino Volpi, Fausto Zaccagnini ed altri cinque esecutori.
La squadra al completo era improvvisamente riconoscibile agli occhi degli inquirenti e indicata nella copertina del fascicolo con nomi e cognomi e a ciascuno dei suoi componenti attribuito il ruolo formale di indagato del delitto in esame.
Si tratta però, per alcuni, di iscrizione solo formale: Emilio De Bono era stato fucilato qualche mese prima, Albino Volpi era morto nel 1939; lo stesso Benito Mussolini sarà ucciso poche settimane dopo l’iscrizione nel registro degli indagati.
Anche Giovanni Amendola, come si è detto, era deceduto già dal 1926, esule in Francia, e non avrà la soddisfazione di vedere non solo che i suoi coraggiosi sforzi per ottenere giustizia avevano avuto un – seppur tardivo – riscontro, ma soprattutto che le sue sollecitazioni investigative offerte alle istituzioni erano tutte corrette.
In proposito, occorre fare un salto indietro ad una delle circostanze emerse nel 1925.
Come si è visto, nell’ultima denuncia querela l’onorevole Amendola aveva tra gli altri fatto il nome di Vico Perronecome soggetto che si era autoaccusato del reato parlando con un giornalista francese.
Ebbene, nel procedimento riaperto “compare” a pagina 15[3] un documento scritto dal Perrone di suo pugno, che ha valore di vera e propria confessione.
Si tratta di un “memoriale” redatto il 29 giugno 1924 e indirizzato al Capo Manipolo della milizia volontaria della sicurezza nazionale Maggiore Vagliasindi, a cui il Perrone affida la confessione della sua partecipazione all’aggressione a Giovanni Amendola con l’intento esplicito di ottenere dall’influente suo superiore protezione in caso di problemi giudiziari: “eccomi ora a quella che potrebbe essere la mia confessione se per la bontà che ella mi ha sempre mostrato non intendessi renderle del fatto una deposizione, certo che ella sorgerà in mia difesa il giorno in cui la mia libertà e la mia vita stessa fosse nel caso compromessa da interessi che, cessando di essere nazionali, fossero esponenti di calcolo personalistico.
Le rimetto dunque la mia deposizione perché Ella convinto di un mio inutile sacrificio voglia assumere le mie difese qualora il sacrificio, qualunque fatica, non risultasse beneficio all’interesse del paese”.
È proprio il movente del documento a renderne massima l’attendibilità, perché il Perrone compromette innanzitutto se stesso, quando dalle indagini il suo nome non era mai emerso.
È assolutamente inverosimile che taluno si attribuisca la commissione di un grave reato, lasciandone per di più traccia scritta, al solo scopo di chiedere ad un superiore protezione per l’ipotesi in cui dovesse un giorno essere accusato del reato medesimo; l’unica spiegazione per un comportamento siffatto è che quanto confessato corrisponda a verità.
Ulteriore elemento che ne comprova l’assoluta affidabilità è la ricostruzione del delitto nei minimi particolari, alcuni dei quali coincidenti con le risultanze delle (poche) indagini compiute e che difficilmente avrebbero potuto essere note all’esterno del circuito giudiziario.
Nel suo manoscritto il Perrone riferisce di essere stato capomanipolo della 112 Milizia e che il Comandante di questa, Mario Candelori, gli aveva chiesto se si sentisse di “compiere una spedizione punitiva verso un tale, che, con la sua opera, si opponeva ed ostacolava l’opera del Governo Nazionale intralciandone il benefico svolgimento. Alla mia risposta affermativa ed impegnativa seppi che la persona in questione era l’Onorevole Amendola al quale bisognava dare una bastonatura. Dato il nome dell’On. Amendola la cosa mi impressionò; ma di persona potei accertarmi che pure Sua Eccellenza Mussolini voleva che cosi si facesse. Seguirono dei colloqui con SE il Generale De Bono il quale dispose che l’On.le Amendola fosse soltanto bastonato e che se pure si fosse difeso ed avesse reagito contro di noi con le armi, non avremmo dovuto in nessun caso adoperarne contro di lui disponendoci anche ad essere uccisi”
Si ha dunque, dalla testimonianza diretta di uno dei partecipanti, la vivida descrizione dell’ideazione e progettazione del reato, con il coinvolgimento chiaro di Mussolini, De Bono e Candelori come mandanti.
Chiara- semmai ce ne fosse stato bisogno – la spiegazione del delitto: Giovanni Amendola, con la sua opera di parlamentare, giornalista e intellettuale non allineato alla nascente dittatura, dava fastidio agli interessi di Mussolini e del fascismo e pertanto doveva essere colpito da un atto di intimidazione perché cessasse di essere, con la sua attività, di ostacolo ai piani dittatoriali in corso.
Il Perrone descriveva poi la fase esecutiva, con alcuni primi appostamenti infruttuosi seguiti da un rapporto a De Bono in cui la squadra deputata al pestaggio riferiva che non era possibile agire se non in pieno giorno e con la certezza di essere individuati; seguiva la descrizione della reazione di De Bono che “la cosa andava fatta comunque” e la decisione – che trova così quella spiegazione plausibile che finora mancava - di agire in pieno giorno anche a costo di essere individuati da qualche passante.
L’aggressione era descritta nei minimi particolari, anche con colloqui con il portiere dello stabile e con precisa individuazione dei presenti – indicati tra gli altri in Bernacchia Cincinnato, Diana caposquadra della Milizia, Mercuri e Falchetti, sicché non è dubitabile leggendo il manoscritto che sia una scena vissuta in prima persona.
Non mancava un cenno al ruolo di Zaccagnini, che secondo il Perrone fu reso edotto del motivo della spedizione e “si prestò dietro rassicurazione che il generale De Bono avrebbe assicurato l’impunità della cosa”.
Il Perrone riferiva ancora che due giorni prima del reato, il 24 dicembre, avevano provato ad aggredirlo ma avevano desistito dopo aver affiancato l’AMENDOLA, che in quell’occasione li aveva visti e avrebbe potuto confermare (giova ricordare incidentalmente che quando è stato vergato il memoriale la vittima era ancora viva, sicché il PERRONE stava effettivamente offrendo un possibile riscontro alla sua descrizione, narrando circostanze del tutto ignote a chiunque altri se non ai partecipanti all’agguato e alla parte offesa del delitto).
Ad ulteriore conferma dell’attendibilità del documento, nel 1945 è stato escusso il VAGLIASINDI, che ha confermato l’autenticità dello stesso, ricordando che la lettera gli era stata sequestrata nel 1925 in occasione di una perquisizione che aveva subìto per possesso illegale di arma.
Questo particolare apre l’ultimo, inquietante squarcio del nostro viaggio in questo fascicolo: se già dal 1925 la lettera di Perrone era nelle mani degli organi di polizia, come mai non è transitata nelle carte del processo?
La notorietà del fatto era tale che non può essere ipotizzato che l’importanza di un documento confessorio di tale portata sia sfuggita agli organi investigativi, sicché non rimane che concludere che essa sia stata dolosamente tenuta lontana dal fascicolo in cui avrebbe dovuto essere immediatamente depositata, come tutti gli elementi che avrebbero potuto portare ad un esito positivo dell’indagine in corso.
Alzando solo per un momento lo sguardo dalle carte processuali per una veloce consultazione su Internet, tale conclusione diviene triste certezza.
Emerge infatti che contemporaneamente all’inchiesta penale era stata aperta sull’aggressione in danno di Amendola una commissione di inchiesta parlamentare del Senato del Regno, estrinsecatasi nell’assunzione di informazioni e documentazione.
Tale duplicazione di sforzi, purtroppo, non sembra aver prodotto alcun frutto (e la cosa non sorprende) visto l’insuccesso anche di questa inchiesta extra-processuale.
Ma l’aspetto più difficilmente accettabile della vicenda è che agli atti della commissione la lettera di Perrone risulta essere stata acquisita, discussa…. e poi ignorata come tutti gli altri elementi che avrebbero potuto consentire di arrivare ad una verità che a questo punto possiamo dire amaramente che era davanti agli occhi di tutti quelli che avrebbero dovuto, per dovere istituzionale, accertarla e punire i responsabili del fatto.
Compulsando l’interessante volume di Gaetano Salvemini “Scritti sul fascismo” si legge infatti del tentativo di dimostrare l’esistenza di un’unica regia dietro le spedizioni punitive ai politici dell’epoca, diretta da De Bono e capitanata dal famigerato Arrigo Dumini (la nota “CEKA”) e che in questo ambito era stata vagliata la lettera del Perrone ed escusso il Vagliasindi che già all’epoca ne aveva attestato l’autenticità.
L’esito degli accertamenti è trattato dal Salvemini in un paragrafo intitolato significativamente “Una farsa legale”[4] e che si apre così: “Per il procuratore generale Santoro e la Commissione senatoriale d’inchiesta tutte queste prove non contarono affatto. Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere”.
In sostanza, ricorda Salvemini, l’unico accertamento che la commissione ordinò a riscontro delle affermazioni di Perrone fu di chiedere informazioni sullo stesso; acquisite le quali, “prendendo coscienziosamente nota della risposta, lasciò cadere la cosa”.
Di tutto questo nelle carte processuali non vi è traccia.
Solo nel 1945 si acquisirà, come detto, la lettera del Perrone e saranno effettuati i primi, veri atti di indagine, tra i quali l’interrogatorio di Mercuri (che sostanzialmente confessò il fatto come descritto dal Perrone[5]) e dello stesso Zaccagnini, che pur continuando a professarsi innocente ammetteva di avere avuto dal Candelori promessa di impunità.
Poco dopo il fascicolo verrà riunito a quello aperto presso la Corte di Appello di Firenze in conseguenza della seconda e più grave aggressione ad Amendola di cui si è detto, avvenuta in territorio di Montecatini, sicché il nostro viaggio nel processo di tanto tempo fa – nell’impossibilità di compulsare le carte dell’Archivio di Stato toscano - termina qua.
7. Conclusioni.
Nata come tentativo di esaminare le carte di un procedimento penale risalente di cento anni con le lenti del giurista moderno, l’immersione nelle pieghe di questo reato ha portato alla scoperta dei mille rivoli in cui si perde il fiume delle indagini scomode in un regime autoritario e dell’importanza del controllo del potere giurisdizionale per il soffocamento di un ordinamento democratico.
Dal punto di vista tecnico, colpisce la scoperta in controluce – più che di quello che nelle carte processuali c’è – di quello che manca, degli atti di indagine omessi e degli elementi di prova occultati, delle tante strade investigative consapevolmente non percorse, dell’assoluta tetragonia degli inquirenti a non alzare lo sguardo dal livello più basso possibile e non avanzare un centimetro più dell’inevitabile.
Tentando di restituire alle carte lo sguardo asettico promesso in principio, non può non sottolinearsi che la mancata iscrizione di Zaccagnini come correo sembra precipitosa e superficiale e che – anche in presenza di una “autorevole” copertura quale quella offerta dal Candelori - nel racconto emergono ictu oculi discrasie e contraddizioni che avrebbero dovuto imporre un approfondimento che evidentemente non si è voluto fare.
Sarebbe stato necessario altresì verificare il motivo per cui l’autista, nel fuggire dal luogo del delitto di evidente impronta fascista, si rifugia nella caserma di una milizia fascista e il perché si sia dichiarato non in grado di riconoscere nessuno dei soggetti con cui aveva condiviso il tragitto.
Più in generale, sembra evidente che ogni spunto investigativo che ha riguardato ideatori e mandanti (da Candelori a De Bono) è stato completamente ignorato, mentre quelli dedicati agli esecutori neutralizzati con deleghe generiche per riferire notizie sulla loro condotta.
Deleghe totalmente inutili, tanto che anche quando le notizie erano allarmanti perché si attestava che i soggetti erano di pessima condotta o pregiudicati non si svolgeva alcun ulteriore atto di indagine.
Ancora, va notato che l’esistenza di una Commissione di inchiesta senatoriale – che lo scrivente ha scoperto quasi alla fine del suo viaggio nel tempo attraverso le carte – doveva essere ben nota agli inquirenti: come mai non è stato acquisito al fascicolo alcun atto di questa commissione né vi è stato alcuno scambio di informazioni tra i due organi? Come si è visto, un coordinamento avrebbe apportato al fascicolo di indagine elementi fondamentali.
Infine, desta inquietudine la mancanza agli atti dell’indagine del 1924 del memoriale di Perrone, evidentemente non trasmesso dagli organi di polizia che avevano proceduto alla perquisizione domiciliare a carico del Vagliasindi che aveva portato al sequestro del documento.
Più che uno sguardo da giudice di appello come promesso in principio verrebbero qui in soccorso molto più utilmente gli istituti delle indagini suggerite e dell’imputazione coatta (articoli 409, commi 4 e 5 del nostro codice di procedura penale), ovvero quegli strumenti con cui il G.I.P. moderno censura e corregge le omissioni nelle indagini del Pubblico Ministero….[6]
In realtà, la semplice acquisizione alle carte dell’inchiesta delle dichiarazioni di Perrone con i conseguenti atti compiuti venti anni dopo (interrogatorio di Mercuri e degli altri) sarebbe oggi sufficiente, senza nemmeno ulteriori atti di indagine, a pervenire agevolmente ad una sentenza di condanna nei confronti di De Bono, Candelori, Volpi, Perrone, Bernacchia, Mercuri, Zaccagnini e forse di qualcuno degli altri indicati come esecutori, nonché – quale mandante – dello stesso Mussolini, senza contare l’inevitabile acquisizione di ulteriori elementi di riscontro facilmente ottenibile a seguito del tempestivo arresto di tutti i soggetti predetti.
È evidente dunque che nelle carte processuali del 1924-25 non emerge una mera inerzia incolpevole nella conduzione delle indagini (ipotesi per la quale è oggi previsto il doppio rimedio dell’articolo 409 c.p.p. menzionato) ma una vera e propria sottomissione del potere giurisdizionale al Governo fascista che è da ritenersi correo del delitto.
Alcuni degli atti di sabotaggio dell’inchiesta sono stati attuati dalla polizia delegata allo svolgimento delle indagini ed altri addirittura dallo stesso Governo, sceso direttamente in campo con il provvedimento di amnistia; ma altri, e sono i più dolorosi da constatare per un esponente della magistratura di oggi, provengono dall’accettazione passiva da parte del Pubblico Ministero di veri e propri input a non indagare (come nel caso dell’invito a non approfondire la posizione di Candelori) o a spontanee autolimitazioni della magistratura inquirente, che ha così abdicato al proprio ruolo di custode della separazione dei poteri e guardiano dell’osservanza della legge chiunque sia il soggetto indagato.
Se ne trae l’amara conclusione che il processo penale è, ora come allora, un meccanismo delicato e facilmente corruttibile, e che occorre per il suo funzionamento che gli operatori dello stesso possano sentirsi – e volersi sentire – liberi da ogni tipo di condizionamento.
L’amore per la verità processuale è la bussola che guida – o dovrebbe guidare – ogni procedimento penale odierno e che manca totalmente tra le pagine di questa indagine di tanti anni fa.
[1] La statura di Amendola, peraltro presumibilmente conosciuta dai lettori di questa rivista, è davvero incomprimibile in una nota; a mero titolo esemplificativo e senza pretesa di esaustività, egli fu giornalista e fondatore de “Il Mondo”, che diverrà in poco tempo una delle più autorevoli testate giornalistiche di ispirazione democratica; deputato liberale e fondatore del Partito Democratico Italiano e dell’Unione Democratica Nazionale; ispiratore della “secessione dell’Aventino” che porterà le maggiori forze di opposizione al fascismo ad abbandonare il Parlamento in segno di protesta contro le torsioni antidemocratiche impresse da Mussolini; promotore insieme a Benedetto Croce del “manifesto degli intellettuali antifascisti”. Costretto dopo le numerose aggressioni ed intimidazioni a lasciare l’Italia, morirà in Francia nel 1926 per le conseguenze di un ultimo attentato subìto pochi mesi prima in una strada toscana, che stava percorrendo per allontanarsi dall’albergo di Montecatini dove si era recato per le cure termali, dopo che l’albergo era stato circondato dalle milizie fasciste giunte lì per linciarlo.
[2] In merito, in dottrina si parla esplicitamente in proposito di una vera e propria inversione di tendenza rispetto ad un passato “tutt’altro che remoto dove si riconosceva un particolare rilievo alle delazioni senza paternità che, anzi, venivano incoraggiate perché si riteneva potessero facilitare la scoperta dei reati”: così CANTONE, Denunce anonime e poteri investigativi del pubblico ministero, in Cass. Pen., 1996, 2983.
[3] Si è già detto in precedenza che il fascicolo è costellato di atti della cui provenienza non si dà conto, circostanza che risulta agli occhi di un tecnico del processo attuale piuttosto eccentrica.
[4] Op. cit. pag. 281.
[5] Nell’interrogatorio reso in data 29 gennaio 1946 Mercuri riferisce di essere stato chiamato da Bernacchia per fare una “operazione di polizia” a carico di un assistente edile; che era salito su un taxi dove c’erano altre persone che non conosceva; che era rimasto a bordo del taxi quando gli altri erano scesi e che aveva visto Bernacchia e gli altri venire a diverbio con uno che passava e picchiarlo, salvo apprendere dopo che si trattava dell’onorevole Giovanni Amendola ….
[6] Si tratta, sia detto incidentalmente, degli stessi istituti recentemente messi in discussione da molti esponenti dell’attuale Governo, che ne ha sostenuto l’inutilità; sia consentito un richiamo a quanto da me scritto, su questo tema, in “Imputazione coatta e sistema accusatorio”, Giustizia Insieme 13 luglio 2023.
La sanzione per l’inottemperanza all’ordine di demolizione (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 11 ottobre 2023, n. 16)
di Cristina Fragomeni
Sommario: 1. I fatti della controversia – 2. La nozione di sanzione. L’iter sanzionatorio di cui all’art. 31, d.P.R. n. 380/2001 – 3. Segue: la sanzione dell’acquisizione gratuita della res abusiva al patrimonio comunale – 4. Segue: la sanzione amministrativa pecuniaria – 5. Rilievi conclusivi.
1. I fatti della controversia.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pronuncia sulla natura e sulle conseguenze dell’illecito dovuto alla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
Nel caso in specie, l’appellante è nuda proprietaria di un fondo agricolo donato dal padre, il quale ha conservato sul medesimo il diritto di usufrutto. All’esito del sopralluogo effettuato dal personale dell’Amministrazione procedente, viene rilevata la presenza di opere risalenti ad un’epoca remota in relazione alle quali non si è riscontrata la sussistenza di titoli edilizi. Conseguentemente, l’Amministrazione comunale emette un’ordinanza di demolizione nei confronti della nuda proprietaria nonché dell’usufruttuario. La prima propone impugnazione avverso l’ingiunzione, rappresentando la propria estraneità agli abusi, che sarebbero stati perpetrati dal padre in epoca anteriore alla donazione. L’adito TAR per la Campania, con sentenza n. 3870/2017, respinge il ricorso.
Nelle more del giudizio di primo grado, il Comune, constatata l’inottemperanza all’ordinanza oggetto di impugnazione, dispone l’acquisizione dell’immobile al suo patrimonio indisponibile e irroga ai titolari dei diritti reali la sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per la realizzazione di opere edilizie sprovviste di titolo, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Per chiedere l’annullamento di detto provvedimento insorge l’usufruttuario innanzi al TAR per la Campania. Il gravame è respinto con sentenza n. 4032/2017, confermata dalla Settima Sezione del Consiglio di Stato (sentenza n. 10087/2022).
L’odierna appellante agisce per l’annullamento dello stesso verbale di accertamento dell’inottemperanza edilizia dinanzi al TAR per la Campania. Il mezzo di tutela è affidato alle seguenti censure: a) violazione del principio di irretroattività delle norme introduttive di misure sanzionatorie, in quanto l’ingiunzione edilizia sarebbe stata notificata ai titolari dei diritti reali anteriormente all’introduzione del comma 4 bisnel corpo dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001; b) violazione dell’art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380/2001, in quanto la ricorrente, rivestendo la qualità di nuda proprietaria, non avrebbe potuto ottemperare all’ordine di demolizione nonché in quanto la stessa, non essendo autrice degli abusi edilizi, non avrebbe dovuto essere sanzionata con la perdita della nuda proprietà; c) illegittimità derivata del provvedimento impugnato, emesso sulla scorta dell’ordinanza di demolizione, stante la pendenza di un giudizio di impugnazione avverso quest’ultima. Il ricorso è giudicato infondato e rigettato, con sentenza n. 4033/2017, in quanto: a) la violazione del predetto principio di irretroattività deve escludersi in ragione del carattere permanente dell’illecito integrato dall’inottemperanza all’ordinanza di demolizione: la ricorrente avrebbe potuto ottemperare anche una volta spirato il termine; la protrazione della sua inerzia ha legittimato l’Amministrazione all’irrogazione della sanzione pecuniaria; b) la sanzione demolitoria ha natura oggettiva e reale e colpisce, in quanto tale, l’attuale proprietario del bene, prescindendo dall’accertamento del dolo o della colpa in capo al soggetto a cui è imputata la trasgressione; c) in ragione della legittimità del provvedimento presupposto, è esclusa la caducazione, per l’asserita invalidità derivata, del provvedimento impugnato.
La pronuncia del TAR è appellata dinanzi al Consiglio di Stato. In tale sede, l’appellante contesta la qualificazione dell’inottemperanza all’ordine di demolizione come illecito permanente, sostenendo che, scaduto il termine di novanta giorni, l’ablazione della proprietà del bene precluderebbe l’imputabilità al privato dell’inottemperanza: a quel punto, sia la condotta sia l’illecito sarebbero consumati in via definitiva. Giungerebbe, pertanto, in considerazione non un illecito permanente, ma un illecito istantaneo, con annessa illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, la quale avrebbe inflitto la sanzione di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, a fronte di una condotta omissiva che si sarebbe esaurita prima dell’entrata in vigore della legge 11 novembre 2014, n. 164, in violazione dell’art. 25 della Costituzione, dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dell’art. 11 delle disp. prel. cod. civ. L’appellante, da ultimo, lamenta l’illegittimità dell’immissione dei manufatti abusivi nel patrimonio comunale e insiste per la declaratoria di illegittimità derivata del provvedimento impugnato.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, investita dell’impugnazione, con ordinanza n. 3974/2023, rimette all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., la risoluzione di quattro questioni: a) se l’inottemperanza all’ordine di demolizione comporti la produzione di effetti traslativi automatici alla scadenza del termine di novanta giorni, fissato ai fini della demolizione; b) se l’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, assoggetti a sanzione l’illecito integrato dall’abuso edilizio ovvero un illecito autonomo di natura omissiva consistente nella mancata ottemperanza all’ingiunzione di demolizione; c)se l’inottemperanza in questione configuri un illecito permanente ovvero istantaneo con eventuali effetti permanenti; d) se, infine, la sanzione prevista dal comma 4 bis dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, sia irrogabile ai soggetti destinatari della notifica di un’ordinanza di demolizione il cui termine per ottemperare risulti scaduto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 164/2014.
Il presente lavoro focalizza l’attenzione sulle prime due questioni, tra quelle elencate, sottoposte al vaglio della Plenaria.
2. La nozione di sanzione. L’iter sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Nella legislazione vigente, non ricorre alcuna definizione del concetto di sanzione, tantomeno di quello di sanzione amministrativa[1].
In senso generale, può definirsi «sanzione» la conseguenza sfavorevole riconnessa alla perpetrazione di un illecito, applicata coattivamente (dallo Stato ovvero da altro ente pubblico). La sanzione si sostanzia, secondo un’opinione, nella «misura retributiva» applicata al trasgressore, effetto, diretto e immediato, della condotta antigiuridica che costui ha tenuto[2]. Posto che la natura eminentemente afflittiva integra il connotato saliente della sanzione, ne deriva l’impossibilità di qualificare come sanzione il ripristino, in qualsiasi forma, dello status quo ante, all’esito della trasgressione (cosiddette sanzioni ripristinatorie)[3]: il termine «sanzione» sarebbe adoperato, in tali circostanze, tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, in maniera inappropriata. La sanzione amministrativa, in senso proprio, il cui tratto caratterizzante è costituito dall’ascriversi la relativa irrogazione nell’esercizio di una potestà amministrativa, è così identificata, in via residuale, nella misura afflittiva non integrante né una sanzione penale né una sanzione civile[4].
E’ bene precisare che l’obiettivo perseguito dalla pubblica amministrazione, in sede di applicazione di sanzioni amministrative è, in generale, non soltanto quello di punire, ma anche quello di tutelare un interesse pubblico specifico[5]. Del resto, com’è stato opportunamente rilevato, tra il punire e l’amministrare non si manifesta alcuna divergenza sul piano ontologico; tra la natura afflittiva della sanzione e la cura dell’interesse pubblico intercorre uno stretto legame[6], tale che gli stessi interessi tutelati dall’Amministrazione, “partecipando” all’esercizio della funzione sanzionatoria, influiscono sulla commisurazione della sanzione[7].
In dottrina, alle posizioni che individuano la finalità delle sanzioni amministrative nella tutela degli interessi pubblici devoluti all’Amministrazione[8], si affiancano quelle di quanti hanno intravisto un nesso con l’autotutela.
Nell’ambito della sua teoria della sanzione amministrativa, Feliciano Benvenuti ha concepito la sanzione come elemento costitutivo della norma, che riveste una posizione paritaria rispetto al precetto sul quale agisce, imponendo il rispetto della norma medesima ai soggetti dell’ordinamento. L’illustre Autore porta a compimento la prefata teoria collocando le sanzioni amministrative nel solco dell’autotutela decisoria: le sanzioni attuerebbero le finalità dell’autotutela mediatamente, comportando «speciali svantaggi» a carico dell’inadempiente, così indotto, nella prospettiva di questi ultimi, ad ottemperare agli obblighi di cui è destinatario[9]. Il risvolto finale della tesi del Benvenuti si sintetizza nella qualificazione della sanzione come mezzo dell’azione amministrativa, stante la relativa funzionalità alla realizzazione delle pretese della pubblica amministrazione[10].
In senso analogo, si è, pur successivamente, sostenuto che il conferimento alla pubblica amministrazione della capacità sanzionatoria completerebbe lo strumentario di cui essa è stata dotata al fine di realizzare la «propria azione specifica»[11].
Tracciata la distinzione tra «sanzione amministrativa di un illecito» e «misura ripristinatoria di una situazione (di fatto) abusiva»[12], si possono considerare le misure repressive disciplinate dal d.P.R. n. 380/2001.
Giova, innanzitutto, premettere che, nel linguaggio corrente, si impiega l’espressione «abuso edilizio» con riferimento all’illecito scaturente dalla violazione delle norme urbanistiche[13].
In dottrina è stato evidenziato il carattere polisemantico del termine «abusivismo», adoperabile al fine di indicare sia la condotta antigiuridica di chi costruisce contra legem sia anche il concreto risultato delle costruzioni abusive, che incidono sulla «realtà del territorio»[14].
Il sistema repressivo degli abusi edilizi e urbanistici rinviene organica sistemazione nel Titolo IV del Testo unico in materia edilizia. Tale sistema è innestato su quattro tipologie di sanzioni (penali, civili, amministrative, accessorie) nonché su un complesso di obblighi, facenti capo ad una pluralità di soggetti (ufficio tecnico erariale, segretari comunali, polizia giudiziaria, etc.), tesi ad incrementare l’efficacia del sistema medesimo[15]. Il regime sanzionatorio in argomento è delineato dal legislatore in modo apparentemente conforme ai criteri del livello di «gravità dell’infrazione formale perpetrata» e dell’«intensità del danno urbanistico sostanziale arrecato»[16]. L’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, ricalcando e attualizzando il contenuto dell’art. 7, L. 28 febbraio 1985, n. 47[17], regola la risposta dell’ordinamento alla fattispecie di abuso più grave: gli interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali. La disciplina richiamata definisce, al primo comma, il solo intervento totalmente difforme rispetto al permesso di costruire[18], mentre rimanda al successivo art. 32 ai fini della determinazione delle variazioni essenziali[19].
La vicenda in esame trae origine dall’omesso riscontro di titoli abilitativi in relazione ad opere oggetto di sopralluogo. Si è trattato, nello specifico, coerentemente con quanto constatato dal giudice di primo grado, di interventi di nuova costruzione, con realizzazione di nuove volumetrie che, incidendo sull’assetto edilizio esistente, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire; cosicché si è ritenuta configurata la fattispecie dell’espletamento dell’attività costruttiva in difetto del permesso di costruire.
L’illecito in discorso ricorre nelle ipotesi di mancata richiesta del provvedimento ovvero di domanda del permesso di costruire non ancora evasa; di avvio dei lavori in esito all’emanazione del permesso, ma prima del rilascio del provvedimento medesimo; di decadenza del permesso (per inutile decorso del termine di inizio dei lavori ovvero del termine di conclusione degli stessi); di annullamento del permesso[20].
Acclarata l’esecuzione di interventi abusivi, l’iter sanzionatorio, strutturato in modo bifasico, ha inizio con la notificazione al proprietario e al responsabile dell’abuso dell’ingiunzione di demolizione o di rimozione degli effetti dell’attività abusiva[21], conseguenza diretta dell’abuso edilizio.
L’ordine di demolizione del manufatto abusivo è una misura sanzionatoria preordinata alla restitutio in integrum dello stato dei luoghi (carattere ripristinatorio), tramite la previa rilevazione dell’inosservanza delle disposizioni urbanistiche. La fattispecie presupposto dell’ordine di ripristino muove, nel caso che si esamina, dalla situazione antigiuridica derivante dall’inosservanza delle disposizioni che condizionano la trasformazione della res al consenso dell’Amministrazione. L’ordine di ripristino ha, dunque, natura di atto di esercizio del potere di autotutela decisoria, volto all’eliminazione degli effetti dovuti all’attività di trasformazione illecita[22].
L’ingiunzione di demolizione, avendo ad oggetto l’opera abusiva, attiene anche a quelle accessorie e complementari ed alle aggiunte successive sulle quali si ripercuote l’illiceità dell’originaria edificazione[23].
Si deve rammentare che l’ordinanza di demolizione corrisponde ad un atto vincolato per il quale non è richiesta la previa comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, alla luce della preclusione all’Amministrazione di valutazioni di interesse pubblico concernenti il mantenimento del bene, poiché il bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello privato è già effettuato a monte dal legislatore[24]. Il presupposto di fatto, che si colloca alla radice dell’ordine demolitorio, è, pertanto, costituito dall’abuso del quale il destinatario si presume abbia contezza, in quanto compreso nella sua «sfera di controllo»[25]. Si pone come corollario della natura vincolata del provvedimento in argomento, la sufficienza, sotto il profilo motivazionale, dell’indicazione dei presupposti di fatto che ne hanno sorretto l’emissione nonché delle norme che si assumono violate; sicché l’ordinanza di demolizione non deve essere analiticamente motivata[26]. Il carattere doveroso degli atti volti al perseguimento dell’illecito conduce, altresì, ad escludere la necessità di un onere motivazionale aggiuntivo che supporti l’ingiunzione di demolizione emanata a notevole distanza temporale dalla realizzazione dell’abuso; in altri termini, l’ordine di demolizione non richiede una motivazione calibrata in relazione alla ricorrenza di un interesse pubblico attuale al ripristino della legalità violata. L’eventuale tardiva emanazione non risulta idonea a determinare il consolidamento di un affidamento legittimo in capo al proprietario dell’abuso, stante l’impossibilità, in casi siffatti, di delineare, di fatto, una sorta di «sanatoria extra ordinem» nonché di riconnettersi al quadro generale dell’autotutela[27].
Un minoritario orientamento giurisprudenziale assumeva, invece, che il considerevole lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il perdurare dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza generassero una posizione di affidamento idonea a fondare un onere di congrua motivazione che specificasse l’interesse pubblico, diverso da quello al ripristino della legalità violata, in vista della cui tutela era sacrificato l’interesse privato di segno opposto (tesi propugnata, in sede ricorsuale, dall’odierna appellante)[28].
Da ultimo, quanto al soggetto passivo dell’ordinanza di demolizione, costante giurisprudenza, in linea con il tenore letterale dell’art. 31 del Testo unico, conclude per la sua individuazione nel soggetto avente il potere di rimuovere concretamente l’opera abusiva, vale a dire, in virtù della titolarità del diritto dominicale, nel proprietario attuale, indipendentemente dalla sua coincidenza con il responsabile dell’abuso, attesi il carattere permanente dell’illecito, la natura reale del medesimo, il carattere ripristinatorio dell’ordinanza (che prescinde dall’accertamento del dolo ovvero della colpa in capo al soggetto a cui è imputata la trasgressione), la preminenza dell’interesse pubblico urbanistico[29]. Tant’è vero che si ricomprende nella nozione di «responsabile dell’abuso» non solo il soggetto che ha materialmente commesso la violazione contestata, ma anche colui il quale dispone dell’immobile, che, pertanto, nelle qualità di detentore e utilizzatore, ha il dovere di provvedere alla demolizione funzionale alla restaurazione dell’ordine violato[30].
Eventualmente, come chiarito da una giurisprudenza piuttosto compatta, il proprietario di un’opera abusiva realizzata da altri che intenda sottrarsi all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, della demolizione o dell’acquisizione, all’esito dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, «deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa», risultando, d’altro canto, del tutto insufficiente al medesimo fine la posizione di una condotta di pedissequa adesione alle iniziative comunali[31].
Nella vicenda che si esamina, la nuda proprietaria ha avuto modo di contestare l’ingiunzione di demolizione insistendo sulla propria estraneità agli abusi, verosimilmente riconducibili al padre, e, dunque, sull’asserita impossibilità di essere punita per un’attività che non ha posto in essere. Il motivo è destituito di fondamento per le considerazioni espresse. Coerentemente con una consolidata giurisprudenza, approfondisce l’Adunanza Plenaria nella pronuncia in commento, l’acquirente dell’opera abusiva o del sedime su cui la stessa è stata realizzata, subentra nella totalità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al proprietario precedente e afferenti al bene ceduto, inclusa l’abusiva trasformazione, soggiacendo agli effetti dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur risalendo il compimento dell’abuso ad un’epoca anteriore alla traslazione della proprietà.
3. Segue: la sanzione dell’acquisizione gratuita della res abusiva al patrimonio comunale.
Ai sensi del richiamato art. 31, comma 3, nell’ipotesi di accertata inerzia dei destinatari dell’ordine di reintegro dello stato dei luoghi abusivamente alterato, che si protragga per oltre novanta giorni decorrenti dalla notificazione, sia il bene che l’area di sedime nonché quella necessaria, ai sensi delle vigenti prescrizioni, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, subiscono l’immissione ex lege nel patrimonio comunale, con il limite del decuplo della superficie abusiva complessiva[32]. L’accertamento dell’inottemperanza attesta il trasferimento della proprietà del bene all’interno del patrimonio pubblico e costituisce il titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione gratuita nei registri immobiliari.
La sanzione in esame, comportando l’estinzione ex lege del diritto di proprietà, punisce la condotta di chi disattenda l’ordine di ripristino e funge da deterrente per quanti siano inclini alla commissione di un abuso[33].
A mente di un risalente orientamento della giurisprudenza costituzionale, l’acquisizione al patrimonio comunale della superficie su cui insiste la costruzione abusiva, così come la misura demolitoria che la precede, costituisce la reazione dell’ordinamento al duplice illecito perpetrato da chi, realizzata un’opera abusiva, non ottemperi all’obbligo di demolirla, conformemente al principio secondo cui «l’ordinamento reagisce, oltre che sulle cose costituenti il prodotto dell’illecito, anche su quelle strumentalmente utilizzate per commetterlo». La sanzione in commento, autonoma e conseguente all’inottemperanza all’ingiunzione, secondo tale orientamento, sarebbe volta a stimolare il responsabile dell’abuso all’esecuzione della demolizione nel termine fissato, contestualmente escludendo che essa possa colpire il proprietario estraneo all’abuso; diversamente, la sanzione risulterebbe inidonea all’espletamento della funzione di prevenzione speciale in vista della quale è irrogata[34].
Nel caso in esame, la Plenaria, non accogliendo la tesi dell’estraneità della nuda proprietaria all’abuso, ha reputato legittima l’emanazione nei suoi confronti dell’ordinanza di demolizione e dell’atto di acquisizione. Pur essendo l’abuso edilizio imputabile all’attuale usufruttuario, egli ha, successivamente, posto in essere un atto a titolo derivativo in favore della figlia, attuale nuda proprietaria del fondo, che, subentrando nella posizione giuridica del donatario, diviene destinataria dell’obbligo propter rem di effettuare la demolizione. Il Comune, in casi siffatti, afferma la Plenaria, ha il dovere di adottare gli atti di cui agli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001, così come li avrebbe emanati nei riguardi del dante causa. Se si fosse attivata ai fini del ripristino dell’ordine giuridico compromesso, la nuda proprietaria avrebbe preservato il diritto reale di cui era titolare, a fronte della condotta illecita del responsabile dell’abuso. Avendo poi la stessa ricevuto la notifica dell’ordinanza di demolizione, contenente la precisazione delle conseguenze riconnesse all’omessa ottemperanza, trova applicazione anche nei suoi confronti la regola dell’acquisizione di diritto, decorso il termine di novanta giorni.
La producibilità di effetti traslativi automatici in conseguenza dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, decorso il termine predetto, è oggetto di uno dei quesiti rimessi all’Adunanza Plenaria. Copiosa giurisprudenza ha avuto già modo di sottolineare l’automaticità dell’effetto traslativo della proprietà originato dall’inottemperanza; in termini più puntuali, il provvedimento di acquisizione costituirebbe l’effetto automatico innescato dall’inottemperanza ad un precedente ordine di ripristino. Sulla scorta di quando evidenziato, l’ordinanza di acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale costituirebbe un atto dovuto, privo di discrezionalità, per il quale non è richiesta alcuna specificazione dell’interesse pubblico sotteso all’acquisizione medesima[35].
Alla giurisprudenza favorevole alla qualificazione dell’acquisizione come effetto automatico dell’inottemperanza all’ordine di demolizione[36], si è opposto l’indirizzo, di segno diverso, a mente del quale, in ragione della sua indole afflittiva, la sanzione acquisitiva che si commenta può essere legittimamente irrogata in presenza di un’inottemperanza volontaria all’ingiunzione, protrattasi per oltre novanta giorni, senza che l’interessato abbia dedotto un valido impedimento di fatto ovvero di diritto alla tempestiva demolizione. Tale valutazione dell’elemento psicologico, asseritamente necessaria, precluderebbe la produzione di eventuali automatismi[37]. In senso conforme, parte della dottrina ha valorizzato la volontarietà dell’inottemperanza ai fini della valutazione in ordine alla legittimità del provvedimento di acquisizione[38]. Emblematica del cennato orientamento è la tesi secondo cui la previsione dell’acquisizione di diritto al patrimonio comunale dell’immobile abusivo deve essere interpretata alla luce dei principi generali in materia di adempimento, tenuto conto, segnatamente, del dettato dell’art. 1218, primo comma, Cod. civ., che obbliga il debitore inadempiente al risarcimento del danno, facendo salva la prova della riferibilità dell’inadempimento o del ritardo all’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile allo stesso debitore. Di conseguenza, sull’interessato graverebbe l’onere di denunciare tempestivamente all’Amministrazione l’eventuale causa dell’impossibilità nonché i fatti noti comprovanti la rilevanza del caso concreto[39].
La ricostruzione evocata è stata ripresa e avallata dalla giurisprudenza più recente, stando alla quale l’acquisizione della res abusiva è legittima nella misura in cui l’inottemperanza all’ordine di demolizione, che persista da oltre novanta giorni, sia volontaria o colpevole; ovvero l’inerzia dell’interessato sussista in difetto di validi impedimenti di diritto o di fatto alla demolizione. La produzione dell’effetto ablativo sarebbe, quindi, preclusa nelle ipotesi di inottemperanza non volontaria nonché di appartenenza dell’area a soggetto estraneo all’illecito edilizio, che non abbia ricevuto la notifica dell’ordine di demolizione[40]. In tal senso, il presupposto essenziale per l’applicazione della sanzione in argomento deve correttamente identificarsi non già nell’inottemperanza all’ordine di demolizione, bensì nella volontaria inottemperanza allo stesso, che perduri da oltre novanta giorni, a far data dalla comunicazione (condotta colpevolmente omissiva).
L’Adunanza Plenaria si approssima alle considerazioni innanzi esposte. Con la pronuncia che si annota, ribadita la natura afflittiva dell’acquisizione gratuita, si esclude la possibilità di adozione dell’atto di immissione delle opere abusive nel patrimonio comunale qualora l’inottemperanza non sia imputabile al destinatario dell’ordine di demolizione per «malattia completamente invalidante». L’onere di fornire la prova relativa incombe, conformemente al principio della vicinanza alla fonte della prova, sullo stesso destinatario dell’ordine di demolizione ovvero, eventualmente, sul suo rappresentante legale. Resta fermo per la Plenaria, in adesione alla tesi della natura dichiarativa dell’atto amministrativo di accertamento e in ossequio alle regole dell’obbligo propter rem, che l’acquisto del bene indicato nell’ordinanza di demolizione, allo spirare del termine di novanta giorni, si svolge ipso iure[41].
Alla luce della sentenza che si commenta, risulta, dunque, temperata l’inflessibilità dell’indirizzo giurisprudenziale superiormente riportato, sulla scorta del quale l’avocazione alla mano pubblica del manufatto abusivo sarebbe un effetto automatico dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione.
Infine, per quanto attiene alle sorti dell’obbligo di demolizione decorsi i novanta giorni fissati per l’adempimento, l’Adunanza Plenaria ne evidenzia la conversione ex lege in un obbligo diverso, cioè quello di rimborsare all’Amministrazione le spese sopportate per la demolizione ex officio della res abusiva (novazione oggettiva dell’obbligo ricadente propter rem sull’autore dell’abuso e sui suoi aventi causa). L’obbligo del responsabile, dunque, muta nel tempo. Decorso il termine di esecuzione spontanea dell’ordine demolitorio e immessa l’area interessata dall’abuso nel patrimonio comunale, risulterebbero irragionevole la permanenza dell’obbligo in capo al privato di demolire un bene ormai rientrante nella proprietà dell’Ente e irrilevante il relativo adempimento al fine dell’esclusione dell’illecito.
Si tratta delle medesime valutazioni effettuate dalla Sezione remittente, la quale ha osservato, ancora, che, decorso il termine di novanta giorni, l’interessato conserverebbe comunque l’obbligo di collaborare con l’Amministrazione, in quanto l’adempimento all’ordine di demolizione, ancorché tardivo, gli consentirebbe di arginare effetti più gravi, quali la privazione dell’area ulteriore rispetto a quella di sedime[42].
4. Segue: la sanzione amministrativa pecuniaria.
La sanzione amministrativa pecuniaria incarna l’archetipo delle sanzioni amministrative. Più precisamente, la sanzione amministrativa, intesa in senso stretto[43], è tendenzialmente assimilata alla sanzione pecuniaria, nella cui struttura si specchierebbe. La sanzione così intesa mira a punire il responsabile dell’illecito tramite l’irrogazione di una pena che, assumendo come riferimento non la condotta, ma il suo autore, punta «alla riprovazione giuridica dell’illecito stesso nonché alla dissuasione dalla reiterazione di comportamenti simili»[44].
Con la l. 11 novembre 2014, n. 164, di conversione del cosiddetto Decreto “Sblocca Italia” (D.L. 12 settembre 2014, n. 133)[45], il contenuto dell’art. 31 del Testo unico in materia edilizia è stato arricchito tramite l’introduzione dei commi 4 bis, 4 ter, 4 quater. Ai sensi del primo comma tra quelli menzionati, con l’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire ovvero con successivo atto integrativo autoritativo, l’autorità competente irroga, prontamente, una sanzione amministrativa pecuniaria di importo oscillante tra i 2000 e i 20000 euro. Tale sanzione di carattere personale si affianca a quella reale dell’acquisizione gratuita del manufatto abusivo al patrimonio dell’Ente (entrambe «sanzioni in senso stretto»[46], che muovono dal presupposto dell’accertamento dell’inottemperanza all’ordine demolitorio), spingendo, per tale via, i responsabili alla rimozione dell’abuso.
La sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, risponde all’esigenza di mantenere indenne l’Amministrazione comunale dalle spese di ripristino provenienti da ordinanze di demolizione disattese (in tal senso depone il vincolo di destinazione previsto al comma 4 ter del medesimo articolo). La ratio della riforma del 2014 deve, dunque, rintracciarsi nell’intento di sollevare l’Amministrazione dall’onere economico costituito dalla eliminazione delle opere abusive[47]. In aggiunta, si è osservato che la misura repressiva in argomento sarebbe stata introdotta all’interno del sistema sanzionatorio vigente al fine di indurre il trasgressore alla diretta esecuzione della demolizione, considerate le concrete difficoltà, riscontrate sul piano empirico, che questa implica, sia se svolta dal responsabile sia se svolta d’ufficio[48].
A rafforzare la tesi ora esposta, l’Adunanza Plenaria pone l’accento sulla necessità di potenziare la protezione dei valori tutelati ai sensi degli artt. 9, 41, 42 e 117, Cost., tenuto conto dell’alterazione della funzione sociale della proprietà cagionata dal responsabile dell’illecito.
Tra le questioni che la Sezione remittente sottopone all’Adunanza Plenaria, si inserisce quella afferente all’oggetto della sanzione pecuniaria in argomento: se esso consista nell’abuso edilizio ovvero nell’illecito integrato dall’inottemperanza all’ordine di demolizione. Sul punto, sedimentata giurisprudenza ha, in molteplici occasioni, chiarito che il comma in discorso sottopone a sanzione non la realizzazione dell’abuso edilizio, ma, esclusivamente, la mancata ottemperanza spontanea al provvedimento di demolizione emesso dalla pubblica amministrazione; in altri termini, il disvalore del comportamento punito è l’inottemperanza all’ordine di ripristino legittimamente impartito in reazione ad un accertato abuso edilizio[49].
L’interpretazione fornita dall’Adunanza Plenaria, secondo cui il principio dell’imputabilità dell’illecito omissivo sanziona l’inottemperanza, si pone in linea con la giurisprudenza richiamata. Del resto, depone nel medesimo senso lo stesso tenore letterale della norma esaminata («L’autorità competente, constatata l’inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria»), che istituisce una consequenzialità logica tra la constatazione (previa) della mancata ottemperanza e l’irrogazione (successiva) della sanzione pecuniaria da parte dell’autorità competente.
5. Rilievi conclusivi.
All’esito dell’indagine condotta con il presente lavoro, due risultano i punti fermi:
a) deve escludersi la possibilità di emissione dell’atto di acquisizione delle opere abusive al patrimonio comunale qualora l’inottemperanza non sia imputabile al destinatario dell’ordine di demolizione per «malattia completamente invalidante»;
b) tanto la sanzione pecuniaria introdotta con la riforma del 2014 quanto la sanzione dell’immissione del manufatto abusivo nel patrimonio comunale colpiscono un illecito amministrativo omissivo propter rem, distinto dal primo illecito consistente nella realizzazione dell’abuso, che spiega la sua rilevanza anche sul piano penale[50].
Quanto al primo punto, non possono trascurarsi, in conclusione, le perplessità che permangono a fronte di una sentenza dell’Adunanza Plenaria in cui, in punto di declinazione delle cause ostative all’adozione dell’atto di acquisizione al patrimonio dell’Ente locale delle costruzioni realizzate abusivamente, si riferisca esclusivamente alla sussistenza di una patologia invalidante.
In disparte l’osservazione che precede, a noi pare densa di significato la questione afferente alla natura afflittiva ovvero ripristinatoria delle sanzioni trattate, che si ripropone, in senso circolare, in fase di chiusura.
Le misure ripristinatore (sanzionatorie lato sensu), diversamente dalle sanzioni afflittive (ispirate ad una logica punitiva)[51], mirano a restaurare, come si è visto, un bene ovvero un interesse che ha subito lesione tramite un’attività di ripristino[52], che, nella materia affrontata, è di tipo materiale, in quanto eventualmente surrogabile da un intervento dell’Amministrazione[53]. Le misure ripristinatorie difettano, inoltre, di contenuto afflittivo, per cui non esigono l’integrazione dell’elemento soggettivo[54].
L’indole afflittiva della sanzione ha costituito l’argomento dirimente per concludere nel senso della rilevanza della volontarietà dell’inottemperanza all’ordine demolitorio al fine dell’applicazione della misura di cui all’art. 31, comma 3, e nel senso, ancora, dell’assoggettamento alla sanzione di cui al comma 4 bis del medesimo articolo dell’illecito integrato dalla stessa inottemperanza. Più puntualmente, ha ritenuto l’Adunanza Plenaria che, in considerazione della natura afflittiva dell’immissione gratuita e della sanzione pecuniaria ad essa correlata[55], trovi applicazione in materia «il principio per il quale deve esservi l’imputabilità dell’illecito omissivo della mancata ottemperanza».
La Plenaria, in tal modo, si discosta dall’orientamento giurisprudenziale precedente, a mente del quale la sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, presenterebbe natura ripristinatoria[56]. A cagion d’esempio, la sentenza in commento è successiva di qualche mese rispetto alla pronuncia n. 3670/2023, in cui la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha rimarcato il fine ripristinatorio e non afflittivo cui, in linea di principio, sarebbero ispirate le sanzioni edilizie, escludendo, lungo tale direzione, l’applicabilità alle medesime del divieto di retroattività[57].
Il riconoscimento alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, di una valenza afflittiva, operato dall’Adunanza Plenaria, ne determina una sostanziale assimilazione alle sanzioni penali. Il principale corollario delle riflessioni svolte è costituito dall’applicazione in materia, tra gli altri, del principio della irretroattività delle norme sanzionatorie sfavorevoli e retroattività delle norme sanzionatorie favorevoli. Come parimenti rilevato in dottrina, la sanzione pecuniaria condivide il suo carattere afflittivo con la sanzione penale, da cui, tuttavia, si discosta in ragione della fisiologica attinenza alla sfera dei rapporti tra Amministrazione e cittadino, là dove la sanzione penale pertiene a violazioni connotate da gravità maggiore, tali da coinvolgere interessi generali facenti capo alla società[58].
Conclusivamente, ferma restando la condivisibilità delle considerazioni effettuate dall’Adunanza Plenaria in merito al carattere afflittivo connaturato alle sanzioni analizzate, non può omettersi di richiamare, in questa sede, la rilevata evoluzione delle misure ripristinatorie, in materia urbanistico-edilizia (dall’art. 32, l. 17 agosto 1150, n. 1942 al sistema disciplinato dagli artt. 27-36, d.P.R. n. 380/2001), avvenuta all’insegna dell’inasprimento dei relativi procedimenti nonché della sovrapposizione culturale dei medesimi con il modello sanzionatorio[59]. Ciò ha sicuramente alimentato la riduzione delle distanze esistenti tra le categorie ora esaminate.
[1] In dottrina, le sanzioni amministrative sono state autorevolmente definite come «pene in senso tecnico», irrogabili dall’Amministrazione senza l’ingerenza del giudice. Sul punto si veda G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, Bocca, 1924, 38 ss. Tale paradigmatica monografia ha sancito, sul piano lessicale, un decrescente impiego del termine «contravvenzione», ai fini dell’indicazione dell’inosservanza della normativa amministrativa, cui ha fatto adeguato riscontro la predilezione accordata al diverso termine «sanzione». In tal senso, M. Lunardelli, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2021, 4, 185 – 186.
[2] In tal senso, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2020, 333.
[3] Con riferimento ai provvedimenti ripristinatori, si è posto in luce che i medesimi «rappresentano un episodio della dialettica fra autorità e libertà tipico del diritto amministrativo perché, senza il previo controllo di un giudice, essi incidono imperativamente sulla posizione giuridica della persona e sono eseguiti, ove la legge lo preveda, direttamente dalla pubblica amministrazione». In tal senso, C. Gabbani, La logica dei provvedimenti ripristinatori, in Il diritto dell’economia, 2018, 3, 911.
[4] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 334.
[5] La Corte costituzionale, a suo tempo, ha osservato che le sanzioni amministrative, a differenza di quelle penali, lungi dal costituire uno «strumento di difesa dei valori essenziali del sistema», si sostanziano in «un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’amministrazione». Cfr. Corte cost., 14 aprile 1988, n. 447.
[6] S. Cimini, Il potere sanzionatorio, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), La vigilanza e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative, Milano, Giuffrè, 2021, 460.
[7] M. T. P. Caputi Jambrenghi, Il principio di obbligatorietà, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia di edilizia, Torino, Giappichelli, 2014, 10.
[8] Confermerebbe tale visione il carattere apparentemente complementare delle sanzioni irrogabili dalle autorità indipendenti rispetto alle funzioni dalle medesime esercitate. A titolo esemplificativo, basti pensare all’ANAC, il cui potere sanzionatorio è connesso alla funzione di prevenire la corruzione; conseguentemente, l’Autorità, con l’irrogazione di sanzioni amministrative, protegge gli interessi pubblici rimessi alla sua cura dall’ordinamento. In tal senso, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 334; S. Cimini, Il potere sanzionatorio, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), La vigilanza e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative, cit., 462.
[9] In senso contrario si veda, a titolo esemplificativo, G. Coraggio, voce Autotutela, I) Diritto amministrativo, in Enc. Giur., IV, Roma, 1988, 2.
[10] Cfr. per i riferimenti sulla teoria esposta M. Lunardelli, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, cit., 187 ss.
[11] A. Travi, Sanzioni amministrative e pubblica Amministrazione, Padova, CEDAM, 1983, 240; S. Licciardello, Sulle sanzioni a tutela della concorrenza e del mercato. Italia e Francia a confronto, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993, 108.
[12] A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Diritto amministrativo, 2014, 4, 638 ss. Sostiene l’Autore che la confusione tra le due categorie sia in parte da imputarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, inidonea alla modifica dell’assetto delle sanzioni amministrative esistente all’interno dell’ordinamento nazionale. Sull’autonomia dell’illecito amministrativo rispetto all’orientamento della Corte di Strasburgo, si veda Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49.
[13] G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2019. L’attività edilizia persegue il fine precipuo di controllare la conformità urbanistica dei progetti di trasformazione preordinati alla realizzazione degli interventi edilizi; sicché tra edilizia e attività di controllo urbanistico intercorre un rapporto di identificazione. Si è rilevato che, all’esito delle riforme introdotte dal 2001, l’urbanistica costituisce esclusivamente una funzione e non più una materia, mentre l’edilizia si estrinseca in una funzione autonoma, ancorché connessa a quella urbanistica. In tal senso, A. Bartolini, voce Urbanistica, in Enciclopedia del diritto. I tematici, vol. III – Le funzioni amministrative, 2022, 1286.
[14] In tal senso, F. Saitta, Commento all’art. 36 d.P.R. 380/2001, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, Giuffrè, 2015, 863. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che ha tradizionalmente attanagliato il nostro territorio, è stato, nel tempo, contrastato attraverso il ricorso ai condoni (negli anni 1985, 1994, 2003) nonché al «teorico» aggravamento del trattamento sanzionatorio previsto per le violazioni più gravi (dal 1977). M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, vol. III – Le funzioni amministrative, 2022, 412. In senso critico rispetto al pregiudizio inferto dall’abusivismo al patrimonio culturale nazionale, si veda L. Casini, Abusi e condoni edilizi: dalla clandestinità al giusnaturalismo, in Giorn. dir. amm., 2019, 1.
[15] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, Milano, CEDAM, 2021, 265.
[16] In tal senso, F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 267. L’ultimo tra i criteri indicati sembra essere quello prevalente; per effetto dello stesso potrebbe, ad esempio, avvenire che l’intervento eseguito in difetto di permesso edilizio (fattispecie di abuso più grave) sia, in dati casi, sanato, nei limiti della conformità alla normativa sostanziale urbanistica di quanto abusivamente realizzato.
[17] L’art. 7, L. n. 47/1985, configura in via definitiva l’azione repressiva della pubblica amministrazione, la cui «natura obbligatoria e vincolata» riceve forma per effetto dell’art. 15, L. 28 gennaio 1977, n. 10. E. Bonelli, Effettività del sistema sanzionatorio edilizio e tutela dei diritti fondamentali protetti dalla Cedu, in www.federalismi.it, 2018, 24, 5.
[18] Trattasi di interventi che danno luogo ad un organismo edilizio completamente diverso da quello oggetto di permesso, per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione, ovvero alla realizzazione di volumi edilizi eccedenti i limiti definiti nel progetto e tali da costruire un organismo edilizio, o parte di esso, dotato di «specifica rilevanza» nonché «autonomamente utilizzabile». Sussiste, dunque, difformità totale nell’ipotesi di costruzione di aliud pro alio, vale a dire nell’ipotesi in cui i lavori svolti tendano alla realizzazione di opere non incluse tra quelle assentite, dotate di autonomia e novità sui piani costruttivo e della valutazione economico-sociale. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 17 febbraio 2010, n.16392. A mente di un più risalente orientamento giurisprudenziale, la difformità totale sussisterebbe allorché i lavori concernano un’opera differente «per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione» rispetto a quella oggetto dell’atto di concessione. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 1987.
[19] La definizione delle variazioni essenziali al progetto approvato è rimessa, ai sensi dell’art. 32, alla potestà regionale, entro i limiti definiti dall’art. 32 medesimo (ricorrenza delle condizioni previste dalle lettere a) – e) del comma 1). Complessivamente, trattasi di modifiche significative, idonee ad alterare il progetto dell’intervento edilizio originario nei suoi tratti caratterizzanti, configurando una categoria intermedia tra la difformità totale (limite superiore) e quella parziale (limite inferiore). In tal senso, F. Gaverini, Differenze e conseguenze nelle variazioni essenziali e non essenziali, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia di edilizia, cit., 231.
[20] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2015, 718. Quanto all’ipotesi di permesso emanato, ma non rilasciato, l’Autore ne ammette la rilevanza a condizione che si aderisca alla tesi che subordina la realizzazione del provvedimento al ritiro da parte del titolare del permesso. L’impostazione secondo cui il permesso di costruire acquisterebbe esistenza ed efficacia dal momento della relativa emanazione, ad avviso dello stesso Autore, desterebbe perplessità, a fronte della maggiore condivisibilità, sotto il profilo logico, della tesi che qualifica il pagamento del contributo di costruzione (in tutto o in parte) come condizione di efficacia del permesso stesso. Ciò posto, con stretto riferimento al dato testuale (la legge parla di «assenza»), non può prescindersi dal constatare che l’emanazione del permesso di costruire realizza la condizione richiesta dalla legge per l’esclusione del carattere abusivo dell’attività edilizia, indipendentemente dal ritiro del permesso.
[21] Considerato che il Testo Unico in materia edilizia, diversamente dalla precedente normativa, impiega non soltanto il termine «opere», ma anche il termine «interventi» (comprensivo delle «trasformazioni urbanistico-edilizie» che non si siano concretate nella realizzazione di opere), l’ordine impartito dall’Amministrazione non può circoscriversi alla sola demolizione, inidonea alla repressione delle fattispecie di abuso nel cui ambito non si siano registrate «trasformazioni fisiche», ma deve estendersi anche alla rimozione degli effetti dell’abuso. In tal senso, V. Mazzarelli, Diritto dell’edilizia, Torino, Giappichelli, 2004, 224. Nella medesima prospettiva, definisce la rimessione in pristino «la sanzione-base» che consente di ottenere la rimozione della totalità degli effetti dell’abuso F. Salvia, Il difficile cammino della legalità nel campo urbanistico (con particolare riferimento al profilo sanzionatorio), in Riv. giur. urb., 2010, 2, 345 ss.
[22] L’antigiuridicità, si è osservato, può ricadere non sulla condotta in sé, bensì sul risultato dell’attività di trasformazione della res, in ragione del conferimento alla stessa di caratteristiche non compatibili con quelle contemplate alla stregua della disciplina sostanziale; il che si registra nella fattispecie dell’intervento edilizio realizzato in difformità dal permesso di costruire. In tal senso, C. Gabbani, La logica dei provvedimenti ripristinatori, cit., 921 ss.
[23] D. Galasso, L’ordine di demolizione ha natura amministrativa non penale, in Diritto & Giustizia, 2022, 44, 7 ss.
[24] Sulla natura vincolata e obbligatoria del potere repressivo esercitato dall’Amministrazione in materia urbanistico-edilizia, si vedano A. Iannelli, Le violazioni edilizie amministrative, civili e penali, Milano, Giuffrè, 1981; R. Ursi, Commento ad art. 27 Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, in M. A. Sandulli (a cura di), Testo Unico dell’edilizia, cit., 671 ss.
[25] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 4 maggio 2023, n. 4537; Sez. VI, 7 novembre 2022, n. 9715; Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3208. Una diversa impostazione ritiene più conforme alla ratio della L. 7 agosto 1990, n. 241 la tesi della necessaria comunicazione di avvio del procedimento nella materia esaminata, in quanto l’accertamento del fatto e il suo corretto inquadramento giuridico integrerebbero momenti imprescindibili della valutazione amministrativa in ordine all’esistenza delle condizioni per l’emissione del provvedimento, sicché risulterebbero indiscutibili l’interesse del destinatario a presentare le proprie osservazioni e la relativa partecipazione. In tal senso, G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 745; quanto alla giurisprudenza, si vedano, invece, TAR, Abruzzo, Pescara, 11 marzo 2008, n. 157; Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2004, n. 296; TAR, Campania, Napoli, Sez. VIII, 28 dicembre 2007, n. 16550.
[26] Cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 5 maggio 2011, n. 2496; TAR Liguria, Genova, Sez. I, 4 agosto 2011, n. 1220.
[27] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 9. Sul punto si è fondatamente osservato che, avuto riguardo alle ipotesi di sussistenza dei presupposti per la sanatoria del permesso, appurata la doppia conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione sia al momento della presentazione dell’istanza ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380/2001, l’acquisizione della conformità non consente di evitare il ripristino: quest’ultimo, in casi siffatti, non può dunque definirsi come preordinato alla ricomposizione dell’interesse al corretto assetto urbanistico-edilizio, integrando, diversamente, una conseguenza dell’originaria carenza del titolo. Difettando l’esigenza di ricostituire «un assetto territoriale secundum legem», in presenza delle predette circostanze, «non sembra ragionevole né proporzionato prescindere totalmente da qualsiasi valutazione dell’elemento soggettivo e, più in particolare, dell’affidamento creato nel proprietario incolpevole da una protratta inerzia delle p.a. competenti a vigilare sull’attività edilizia». In tal senso, M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, cit., 432 – 433. In termini critici sempre rispetto al profilo della tutela del legittimo affidamento del privato, si vedano P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico-edilizia, in www.federalismi.it, 2018, 1; L. Droghini, G. Strazza, L’ordinanza di demolizione degli abusi edilizi tra tempo, legittimo affidamento e obbligo di motivazione, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2018, 113 ss; C. Contessa, Rassegna di giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2017, 2581 ss.
[28] Cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 10 giugno 2008, n. 646; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 4 dicembre 2007, n. 924; Cons. Stato, Sez. V, 29 maggio 2006, n. 3270; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 23 aprile 2001, n. 183.
[29] Cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 19 luglio 2022, n. 1963; Cons. Stato, Sez. II, 12 settembre 2019, n. 6147; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 13 agosto 2013, n. 1619.
[30] Cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 16 luglio 2020, n. 610; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10 agosto 2020, n. 1559; TAR. Toscana, Firenze, Sez. III, 16 marzo 2020, n. 333.
[31] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2211; Sez. VI, 30 marzo 2015, n. 1650; Sez. VI, 4 settembre 2015, n. 4125. Sulla figura così delineata del «proprietario incolpevole» si vedano D. Chinello, L’acquisizione gratuita di immobili abusivi e la figura del proprietario incolpevole, in Giur. it., 2015, 11, 2468 ss; A. Liguori, L’acquisizione al patrimonio comunale nei confronti degli eredi estranei all’abuso, in Nuove aut., 2017, 2, 375 ss.
[32] Acquisita la proprietà, con ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio comunale competente, si procede alla demolizione dell’opera abusiva nonché al ripristino dello stato dei luoghi, a spese dei responsabili dell’abuso, salva l’eccezione prevista al comma quinto del citato art. 31. Su tale ultimo punto, si veda F. Saitta, La “redenzione dalla colpa”. Ovvero della conservazione dell’immobile abusivo, tra giudice amministrativo e giudice penale, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2022, 4, 309 ss.
[33] Cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. III, 28 agosto 2017, n. 4146.
[34] Cfr. Corte cost., 15 luglio 1991, n. 345, sulla previsione, analoga rispetto a quella analizzata, di cui all’art. 7, L. n. 47/1985.
[35] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, 7 febbraio 2020, n. 996; Sez. V, 27 aprile 2012, n. 2450; Sez. V, 1° ottobre 2001, n. 5179.
[36] Cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 4 aprile 2011, n. 2930; Tar Toscana, Firenze, Sez. III, 20 gennaio 2009, n. 24.
[37] TAR Liguria, Genova, Sez. I, 21 novembre 2005, n. 1490.
[38] G. Margiotta, Differenze e conseguenze nella difformità totale e parziale, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia di edilizia, cit., 263.
[39] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 748. Precisa, inoltre, l’Autore che la causa di impossibilità sospenderebbe il termine di novanta giorni, mentre il suo venir meno determinerebbe l’obbligo dell’interessato di attivarsi, senza un previo atto dell’autorità. Ancora, quanto al profilo della tempestività, la denuncia effettuata a fronte dell’atto accertativo dell’inottemperanza sarebbe tardiva, salva la prova dell’impossibilità di comunicare l’impedimento.
[40] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 giugno 2020, n. 2813; Sez. VI, 29 marzo 2019, n. 2100; Sez. VI, 10 settembre 2018, n. 5308. In senso analogo depone anche un più risalante orientamento facente capo alla Corte di Cassazione, che subordina l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del Comune all’inottemperanza «ingiustificata» all’ordine di demolizione della costruzione abusiva, prescindendo dalla notifica all’interessato dell’accertamento formale della mancata ottemperanza. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2009, n. 2912; Sez. III, 8 ottobre 2009, n. 39075.
[41] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 18 maggio 2020, n. 3120; Sez. VI, 25 giugno 2019, n. 4336. Se l’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale identifica, per la prima volta, l’area acquisita ulteriormente al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva avuto riguardo solo a quest’ultima.
[42] Le medesime osservazioni sono effettuate dall’indirizzo giurisprudenziale minoritario che attribuisce natura istantanea all’illecito derivante dell’inottemperanza all’ordine demolitorio, il quale si consumerebbe una volta spirato il termine fissato ai fini della demolizione spontanea. Tale conclusione sarebbe sorretta dalla lettura sistematica della normativa recante la disciplina della materia de qua. Cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 22 gennaio 2020, n. 189; Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2018, n. 178. Negli stessi termini si è espressa l’Adunanza Plenaria nella sentenza in commento, rilevando la coincidenza tra il momento di consumazione dell’illecito e lo spirare del termine assegnato dall’autorità amministrativa con l’ingiunzione di demolizione. Considerata la persistenza della lesione di valori costituzionalmente presidiati, ai sensi degli artt. 9, 41, 42, 117, Cost. (sino a che non sia ripristinata la legalità violata, tramite il rilascio di un titolo abilitativo o la materiale demolizione delle opere), ritiene, ancora, la Plenaria che l’omessa ottemperanza all’ingiunzione rivesta la peculiare natura di illecito con effetti permanenti.
[43] La sanzione è intesa in senso stretto allorquando l’ordinamento, considerate le ricadute negative sull’ordine pubblico generale scaturenti dalla posizione di una condotta antigiuridica, reagisce attraverso la produzione di un danno al responsabile, prescindendo dall’effettiva ricomposizione dell’interesse che ha subito lesione. In tal senso, M. A. Sandulli, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione (Studi preliminari), Napoli, Jovene, 1981; Id., Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, Jovene, 1983; E. Rosini, Sanzioni amministrative, Milano, Giuffrè, 1991.
[44] A. Di Lascio, Sanzioni amministrative pecuniarie e reali, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), La vigilanza e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative, cit., 574.
[45] Tra gli obiettivi che la riforma del 2014 ha perseguito, per il tramite di una serie di modifiche apportate al d.P.R. n. 380/2001, si annoverano la semplificazione delle procedure edilizie, la riduzione degli oneri gravanti su cittadini e imprese, l’introduzione di nuovi mezzi di agevolazione dell’attività edilizia privata, l’incentivazione di processi di sviluppo sostenibile.
[46] M. A. Sandulli, Edilizia, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2022, 3, 215.
[47] Cfr. TAR Piemonte, Torino, Sez. II, 20 marzo 2018, n. 336.
[48] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 268.
[49] Cfr. TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 12 ottobre 2022, n. 768; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 9 dicembre 2020, n. 5940; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 12 luglio 2016, n. 1105. Nello stesso senso in dottrina, là dove si è affermato che l’abuso edilizio comporta, in qualità di «unica e diretta conseguenza», l’ordine di ripristino, sottratto all’applicazione dei principi e delle regole in materia di misure punitive; diversamente, l’acquisizione gratuita del bene e la sanzione pecuniaria costituiscono sanzioni in senso stretto derivanti dall’inottemperanza, «ciò che riduce a questa seconda fase l’ambito di operatività dei presupposti per l’applicazione delle pene». M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, cit., 432.
[50] Sul rapporto tra processo amministrativo e processo penale in materia, si veda F. Francario, Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2015, 4, 99 ss.
[51] Tale species è stata definita, in particolare, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che ha concorso alla delineazione di uno «statuto di regole fondato su garanzie convenzionali di natura sostanziale e processuale (artt. 6 e 7)». Precisamente, i criteri per l’identificazione della categoria di sanzioni in argomento sono costituti: «i) dalla qualificazione giuridica dell’illecito; ii) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione, di carattere generale, della norma che lo prevede (deve essere rivolto alla generalità dei consociati) e dallo scopo perseguito che deve essere non risarcitorio ma afflittivo; iii) dal grado di severità della sanzione, che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata». In tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 11 novembre 2019, n. 7699, con espresso riferimento a Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Bassi.
[52] M. A. Sandulli, voce Sanzione, IV) Sanzioni amministrative, in Enc. giur., vol. XXVIII, Roma, 1992, 2.
[53] C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, Giuffrè, 1988, 43. In altri termini, come efficacemente chiarito da granitica giurisprudenza, si tratta di misure preordinate «alla soddisfazione diretta dell’interesse pubblico specificamente pregiudicato dalla violazione». Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 2017, n. 3694; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 7 luglio 2023, n. 4099.
[54] M. Lunardelli, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, cit., 190.
[55] In dottrina, la natura afflittiva nonché tipicamente sanzionatoria delle misure menzionate è stata reputata innegabile; il carattere tipicamente sanzionatorio delle medesime risulterebbe dalla stessa applicazione dei cosiddetti «Engel criteria» (nota 52). M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, cit., 412.
[56] In tal senso, le già menzionate TAR Piemonte, Torino, Sez. II, 20 marzo 2018, n. 336; TAR, Campania, Napoli, Sez. III, 28 agosto 2017, n. 4146. In tali pronunce, il riconoscimento della natura ripristinatoria della sanzione di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, conduce ad escludere l’operabilità di una riduzione del relativo importo ai sensi dell’art. 16, L. n. 689/1981, che sarebbe stata ammessa nella differente ipotesi di adesione alla tesi della natura punitiva della sanzione medesima.
[57] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 12 aprile 2023, n. 3670.
[58] A. Di Lascio, Sanzioni amministrative pecuniarie e reali, cit., 575.
[59] C. Gabbani, La logica dei provvedimenti ripristinatori, cit., 951-952.
La corte di Cassazione fa proprio il Principio di effettività nell'individuazione del "place of safety" e ribadisce il divieto di respingimento collettivo in mare anche da parte di navi private.
sommario: 1. Il caso. – 2. L’obbligo di salvataggio in mare e le norme sovranazionali. – 3. L’individuazione del “Stato sicuro” secondo un criterio di effettività. – 4. La titolarità degli obblighi di individuazione del “place of safety” in capo al comandante. - 5. La consegna dei migranti alla motovedetta libica come respingimento collettivo vietato. – 6. La non configurabilità dell’ordine legittimo.
1. Il caso.
La Corte di Cassazione (Sez. V, sentenza n. 4557 del 2024) ha confermato la condanna del comandante della imbarcazione Asso28 che, impegnata in acque internazionali come "supply vessel", quale nave di appoggio e supporto alla piattaforma petrolifera Sabratha, di proprietà di una società partecipata da Eni Nord Africa e dalla libica NOC, dopo aver proceduto al salvataggio di n. 101 migranti - tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati - sbarcandoli da un gommone nella zona SAR Libica[1], aveva successivamente provveduto a consegnarli alle autorità locali facendoli trasbordare su una motovedetta libica davanti al porto di Tripoli “in un porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e attesa l'ineffettività del sistema di accoglienza libico e le condizioni inumane e degradanti presenti nei centri di detenzione per i migranti, trattandosi di luoghi ove non sono assicurati la protezione fisica e il rispetto dei diritti fondamentali, come sopra indicato.”
La sentenza è oggetto di forte attenzione da parte della stampa e della politica per aver ritenuto la Libia Paese “non sicuro”. I diversi accordi stipulati con tale Stato, definiti da molti quali accordi “fantasma”, volti alla stabilizzazione dei flussi migratori, quando non ad assecondare esigenze politiche interne di riduzione degli sbarchi, e la peculiare condizioni dello Stato libico, caratterizzato da regionalismi, localismi, tribalismi e di infiltrazioni jihadiste, non hanno contribuito a fare chiarezza sulle conseguenze materiali e giuridiche dei respingimenti dei migranti sulla rotta libica. ([2])
Attualmente, con decreto del 17 marzo 2023, attuativo dell’art. 2-bis del d.lgs. 28 gennaio 2018, n. 25, sono considerati dall’Italia Paesi di origine “sicuri”: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia. L’inserimento in tale lista, non esclude, tuttavia, la protezione internazionale del migrante. E’ principio acquisito, infatti, che “l'inserimento del paese di origine del richiedente nell'elenco dei "paesi sicuri" produce l'effetto di far gravare sul ricorrente l'onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro, soltanto per i ricorsi giurisdizionali presentati dopo l'entrata in vigore del d.m. 4 ottobre 2019, poiché i principi del giusto processo ostano al mutamento in corso di causa delle regole cui sono informati i detti oneri di allegazione, restando comunque intatto per il giudice, a fronte del corretto adempimento di siffatti oneri, il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale” (Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 25311 del 11/11/2020 (Rv. 659576 - 01). ([3]).
2. L’obbligo di salvataggio in mare e le norme sovranazionali.
L’obbligo di diritto internazionale generale di soccorrere e salvare vite umane in mare, derivante dal diritto consuetudinario, e previsto dalla Convenzione sul diritto del mare, dalla Convenzione per la salvaguardia della vita in mare (Convenzione SOLAS) e dalla Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare (Convenzione SAR), una volta che le persone interessate sono state soccorse e immediatamente assistite rispetto ai loro bisogni primari, si completa nel dovere di condurle nel «place of safety».
Il comandante della nave Asso28, che aveva consegnato i migranti salvati in mare alla Libia, in quanto inadempiente a tale ultimo obbligo, è stato ritenuto con sentenza doppia conforme responsabile dei delitti di abbandono in stato di pericolo di persone minori e incapaci, previsto dall'art. 591 cod. pen. e di sbarco e abbandono arbitrario di persone, previsto dall'art. 1155 del Regio Decreto del 30 marzo 1942, n. 327 - Codice della navigazione, aggravato dalla assenza dei mezzi di sussistenza dei passeggeri.
Non deve trascurarsi che il 21 febbraio 2018 veniva pubblicato il Rapporto delle Nazioni unite, documentante le gravi violazioni dei diritti umani subite in Libia dai migranti (sia nei centri “informali” gestiti direttamente dalle milizie sia nei centri governativi) e anche da alcune popolazioni libiche, oltre che gli insuccessi nella riunificazione del Paese e l’assenza di un controllo effettivo delle numerose milizie armate che si contendevano il controllo del territorio.
Accanto alla tematica dell’individuazione della Libia come “Paese non sicuro”, vi sono altri aspetti di interesse che riguardano, non solo il divieto di respingimento collettivo, ma anche specificamente il soccorso in mare, quali, ad esempio, le funzioni del comandante della nave che procede al salvataggio, le procedure attraverso le quali individuare il « place of safety» e l’esimente dell’ordine legittimo.
All’'imputato veniva contestato, infatti che, agendo in accordo con il personale della piattaforma, aveva consentito il trasbordo sulla nave battente bandiera italiana di un solo ipotetico "ufficiale di dogana libico", presente sulla menzionata piattaforma, senza procedere alla sua compiuta identificazione, in violazione del Regolamento Tecnico, International Ship and Port Security Code (ISPS Code), introdotto dal Cap. XI della c.d. Convenzione Solas, che prevede standard di sicurezza delle strutture portuali e delle navi, prescrivendo il controllo e l'identificazione di tutte le persone che accedono alla nave (art. 7 parte A e art. 8 e 9 parte B).
Il comandante, nel soccorrere i migranti, inoltre, ometteva di comunicare nella immediatezza, prima di iniziare le attività di soccorso, e dopo avere effettuato le stesse, ai centri di coordinamento e soccorso competenti, l'avvistamento e l'avvenuta presa in carico dei migranti, agendo in violazione delle procedure previste per le operazioni di soccorso, così come disciplinate dalla convenzione ed. Solas e dalle direttive dell'IMO (Organizzazione Marittima Internazionale); inoltre, ometteva di attivare il coordinamento delle autorità SAR competenti e di dare corso agli obblighi informativi di cui all'art. 5 della risoluzione MSC. 167/168 (inerenti la nave che presta il soccorso, i sopravvissuti, le azioni intraprese e da intraprendere e le determinazioni in ordine ai richiedenti asilo); ed ancora, ometteva di identificare i migranti, di assumere informazioni sulla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero soli o accompagnati, in violazione dei citati articoli del ISPS Code, in tema di sicurezza della navigazione.
3. L’individuazione del “Stato sicuro” secondo un criterio di effettività.
La Corte di Cassazione, con una sentenza particolarmente approfondita sia quanto alla fattispecie giudicata, sia quanto al rapporto tra le norme penali e le Convenzioni internazionali di riferimento, ha esaminato quello che deve essere considerato un vero e proprio caso limite di condotta illegale nell’ipotesi di soccorso in mare di migranti. La Corte di appello, infatti, aveva constatato come il comandante non avesse contattato il Centro di coordinamento libico, che avrebbe dovuto coordinare il salvataggio e accogliere i 101 migranti in un porto sicuro, solo perché a bordo era salito un presunto ufficiale libico, mai identificato, che era presente sulla piattaforma petrolifera assistita dalla imbarcazione Asso28: “Il Centro di coordinamento di Roma e l'ambasciata italiana a Tripoli vennero avvisate solo "a cose fatte", costituendo tale modalità di avviso a posteriori, rispetto all'avvenuto salvataggio e alla intrapresa direzione verso Tripoli, un caso unico nelle dinamiche dei salvataggi in mare da parte dei natanti battenti bandiera italiana in zona SAR libica.”
Le due sentenze di merito, analizzata la condotta dell’imputato, avevano richiamato compiutamente le fonti normative in base alle quali si desumeva l’illiceità della condotta del comandante: gli artt. 3 e 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, relativamente al divieto di respingimento degli stranieri verso Paesi in cui possano essere sottoposti a trattamento inumano o degradante o dove sia comunque impedito l'esercizio dei diritti fondamentali; l'art. 33 della Convenzione di Ginevra, che prevede il divieto di espellere o respingere, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche; l'art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, che sancisce il divieto dei respingimenti collettivi di cittadini stranieri; la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare; la Convenzione SOLAS, e la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (c.d. convenzione SAR) laddove, nella specificazione fornita dalle direttive dell'IMO (International Maritime Organization), impongono al comandante di una imbarcazione che soccorra dei naufraghi in mare di avvisare le autorità competenti per il coordinamento e soccorso nella zona SAR interessata e di attivare il predetto coordinamento; l'art. 19, commi 1, 1 -bis, 2 del D.lgs. n. 286/98 (Testo unico immigrazione), che vieta, in ogni caso, il respingimento e l'espulsione di minori degli anni diciotto e di donne in stato di gravidanza, nonché il respingimento di cittadini stranieri verso un Paese ove siano a rischio di subire torture o comunque trattamenti disumani e degradanti; la risoluzione del Comitato per la sicurezza marittima (articolazione dell'IMO) n. 167(78) del maggio 2004, Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare.
Sempre la sentenza di legittimità in questione si è soffermata su alcuni interventi operati dalle Corti sovranazionali che, seppure dettati con riguardo alle condotte degli Stati membri dell'Unione Europea o contraenti della Convenzione EDU, sono ritenuti dalla sentenza comunque indicatori rilevanti ai fini della nozione di pericolo relativamente ai reati contestati e, in particolare, quanto alla identificazione dello “Stato sicuro” che consente il respingimento. In particolare essa fa riferimento alla sentenza della Gran Camera della CGUE fin dal 2011, la quale – prendendo in considerazione anche i rapporti regolari e concordanti di organizzazioni non governative internazionali - aveva ritenuto che l'enorme afflusso di migranti in Grecia, pari al 90% di quelli facenti ingresso in UE, avesse determinato un sovraffollamento tale da non garantire quanto prescritto dalla normativa unionale e aveva sancito il principio per il quale gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo "Stato membro competente" “quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti” ai sensi di tale disposizione (Grande Sezione CGUE, 21 dicembre 2011, cause C 411/10 e C 493/10).
Il punto nodale della decisione della sentenza della CGUE, ripreso dalla Corte di Cassazione quanto alla definizione di "stato sicuro", è che sono da ritenersi non ammissibili presunzioni assolute di garanzia quanto ai diritti umani anche nell'ambito UE: "102. Al riguardo si deve rilevare che l'art. 36 della direttiva 2005/85, relativo al concetto di paese terzo europeo sicuro, dispone, al n. 2, lett. a) e c), che un paese terzo può essere considerato "paese terzo sicuro" solo se, oltre ad aver ratificato la Convenzione di Ginevra e la CEDU, ne rispetta le disposizioni. 103. Una tale formulazione indica che la mera ratifica delle convenzioni da parte di uno Stato non può comportare l'applicazione di una presunzione assoluta che esso rispetti tali convenzioni. Il medesimo principio è applicabile tanto agli Stati membri quanto agli Stati terzi. 104. Pertanto, la presunzione, di cui al punto 80 della presente sentenza, sottesa alla normativa in materia, che i richiedenti asilo saranno trattati in maniera conforme ai diritti dell'uomo deve essere considerata relativa". Del resto, L'Agenzia dell'Unione Europea per i diritti fondamentali ha affermato con decisione che, ai fini della designazione, « safety from persecution and other serious harm must exist not only in theory but also in practice » e che la valutazione di sicurezza « must be based on the human rights situation in the country of origin, as reflected in reliable, objective, impartial, precise and up-to-date information ».
In tale prospettiva si inseriscono le disposizioni, introdotte dall'art. 7-bis del c.d. « decreto sicurezza » (d.lgs. 28 gennaio 2018, n. 25), con le quali il legislatore italiano, emendando il c.d. « decreto procedure » ha esercitato la facoltà prevista dal diritto dell'Unione Europea di ricorrere al concetto di « Paese di origine sicuro » nell'esame delle domande di protezione internazionale.
Si è osservato che la designazione di uno “Stato come « sicuro » — nelle sue diverse declinazioni di Stato di origine, di primo asilo o di transito del richiedente protezione — è stata integrata nel sistema europeo comune di asilo allo scopo di deflazionare l’esame delle domande considerate ex ante strumentali al presso di ridurre le garanzie individuali. ([4]). Resta, tuttavia, l’aspetto decisivo per il quale, come osservato dalla giurisprudenza della Corte EDU, individuare da parte di uno Stato membro uno Stato come sicuro nella Lista « does not relieve the [...] State from conducting an individual risk assessment ».
La valutazione del rischio ai fini dell'inclusione nell'elenco deve fondarsi anche sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale delle notizie elaborate dalla c.d. « Unità COI Country of Origin Information », nonché di quelle fornite da fonti governative o intergovernative ([5]).
Nel caso Ilias e Ahmed c. Ungheria (sentenza Grande Camera del 21 novembre 2019), la violazione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie ungheresi era consistita nel fatto che, anziché procedere alla dovuta valutazione individuale, si è basata su <<un riferimento schematico all'elenco governativo dei paesi terzi sicuri (...), ha ignorato le relazioni relative ai Paesi e le altre prove presentate dai ricorrenti e ha imposto loro un onere della prova ingiusto ed eccessivo>>.
Del tutto condivisibile, pertanto, la sentenza della Corte di Cassazione nella parte in cui ricorda come la CGUE evidenzia come sia precondizione della "sicurezza" dello Stato, in relazione ai diritti della persona rifugiata, la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra e della Convenzione EDU, mentre la condizione di "sicurezza" è l'effettivo rispetto di tali normative, secondo divieto convenzionale di refoulement «practical and effective» stante la necessità che l’interpretazione del testo convenzionale guardi alle «present-day conditions», espressione sintetica dell’idea di interpretazione dinamica ed evolutiva della Convenzione ([6]).
Aggiuntivamente, richiamando la sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a., C-297/17, C-318/17, C-319/17 e C-438/17, EU:C:2019:219, punto 86 nonché giurisprudenza ivi citata) si è ricordato che non è possibile “ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione (v., in tal senso, sentenza del 19 marzo 2019, Jawo, C-163/17, EU:C:2019:218, punto 85 e giurisprudenza ivi citata)" (parr. 139-140). Ancora, la sentenza della Corte di Cassazione richiamava, quanto al caso della Libia la pronuncia della Corte Edu (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia - 23 febbraio 2012) che riguardava l'intercettazione in mare di oltre duecento naufraghi in acque non italiane, avvenuta nel 2009, da parte di natanti militari italiani che, dopo averli salvati portandoli a bordo, li avevano riportati a Tripoli. Quest’ultima sentenza affermava che i ricorrenti erano sottoposti alla giurisdizione dell'Italia ai sensi dell'art. 1 CEDU e dichiarava che vi era stata violazione dell'art. 3 CEDU in quanto i ricorrenti erano stati esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia, dell'art. 4 del Protocollo n. 4, dell'art. 13 combinato con l'art. 3 CEDU e con l'art. 4 del Protocollo n.4, evidenziando gli ampi riferimento della Corte di Strasburgo a plurime fonti informative ([7]).
In parole povere, la giurisprudenza sovranazionale a cui rimanda la Corte di Cassazione esclude che lo Stato membro abbia il monopolio della nozione di “Paese sicuro” e impone, invece, non solo all’autorità giurisdizionale, ma alle stesse autorità nazionali, di verificare che le condizioni effettive siano tali da garantire la sicurezza per i migranti di non subire trattamenti inumani o degradanti.
4. La titolarità degli obblighi di individuazione del “place of safety” in capo al comandante.
L’obbligo di verifica di tali condizioni, infatti, non grava solo sul giudice investito della domanda di protezione internazionale, ma su tutti gli agenti dello Stato membro “ operanti fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo, quindi giurisdizione” in quali sono tenuti,” a riconoscere a quell'individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione pertinenti al caso di quell'individuo. La sentenza della S.C. n. 4557/2024 evidenzia che “la Corte dei diritti (par. 75) come si verta in tema di casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti "azioni compiute all'estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l'esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (Bankovic, sopra citata, par. 73, e Medvedyev ed altri, sopra citata, par. 65)". Secondo il CPT “l'Italia era vincolata dal principio di non respingimento indipendentemente dal luogo di esercizio della sua giurisdizione, incluso l'esercizio della giurisdizione tramite il suo personale e le sue navi impegnati nella protezione delle frontiere o nel salvataggio in mare, persino in operazioni fuori del suo territorio ([8]).
In breve, tanto tali violazioni sono state ritenute commesse nel caso dell’Asso28 in quanto il comandante, anche di una nave privata, è stato ritenuto dalla Corte di legittimità, conformemente alla sua costante giurisprudenza, incaricato di pubblico servizio e, pertanto, titolare degli obblighi che ricadono sullo Stato.
5. La consegna alla motovedetta libica dei migranti come respingimento collettivo vietato.
Ulteriore aspetto cruciale – una volta individuata la giurisdizione extraterritoriale dello stato e la espulsione collettiva operata in tale quadro - è la qualificazione da parte della citata giurisprudenza CEDU della consegna alle autorità libiche dei migranti soccorsi in mare come respingimento collettivo: "177. La Corte ha già osservato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Commissione e della Corte, lo scopo dell'articolo 4 del Protocollo n. 4 è evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le loro argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall'autorità competente. Se dunque l'articolo 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione, sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in alto mare. L'articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli che sono partiti via terra. (Medvedyev (ed altri c. Francia ((GC), n. 3394/03, 29 marzo 2010) par. 81)».
Sul piano del diritto interno deve richiamarsi, come correttamente fatto nella sentenza in commento, anche la sentenza della Corte di Cassazione Sez. 6, n. 15869 del 16/12/2021, dep. 2022, Ib.Ti., Rv. 283189 - 01 la quale aveva ritenuto sussistente lo stato di necessità di alcuni naufraghi che 22 giorni prima dei fatti dell’Asso28, con violenza e minaccia, si erano opposti all'ufficiale della nave privata Vos Thalassa che li aveva salvati, per evitare il ritorno, disposto dai centri di coordinamento, in Libia. Tale sentenza afferma il principio che il diritto al non-respingimento ("non refoulement") in un "luogo non sicuro" - enunciato dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra - costituisce principio internazionale consuetudinario di carattere assoluto, cui deve riconoscersi valenza di "ius cogens" in quanto proiezione del divieto di tortura, e come tale invocabile - secondo l'interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo all'art. 3 della Convenzione EDU - non dai soli "rifugiati", ma da qualsiasi essere umano che possa essere respinto verso una nazione in cui sussista un ragionevole rischio di subire un pregiudizio alla propria vita, alla libertà, ovvero all'integrità psicofisica. La sentenza espressamente indicava che la Libia nel luglio del 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento, dunque, non poteva essere disposto ed eseguito. Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati - di fatto concreti".
Acclarato, pertanto, (a) che la Libia non poteva essere in alcun modo considerato uno Stato Sicuro e che, di conseguenza, i naufraghi non potevano essere riconsegnati alle autorità libiche, (b) che il comandante era tenuto agli obblighi gravanti sugli agenti degli stati membri in virtù anche della giurisdizione extraterritoriale, la sentenza si sofferma analiticamente sugli elementi probatori a sostegno del dolo del comandante dell’Asso28, quali, principalmente: l'essersi affidato il comandante alle indicazioni provenienti dalla piattaforma petrolifera e al coordinamento del "custom officer", con evidente violazione del procedimento da seguire, non essendo stati contattati i centri di coordinamento libico, competente, né quello italiano “di solito sempre contattato anche in caso di incompetenza per interventi in zona SAR libica”; “la significativa esperienza di navigazione con il ruolo di comandante, che risultava avere già operato altri soccorsi e, quindi, conosceva le modalità operative da seguire; la notorietà del caso Hirsi, che coinvolse il Governo Italiano con sentenza del 2012”; “la durata di più ore dall'avvistamento avrebbe consentito di contattare i centri di coordinamento non "a cose fatte"; il comportamento successivo al fatto “a tal riguardo le sentenze di merito evidenziano come il comandante, una volta avvenuto il trasbordo dei naufraghi dinanzi a Tripoli, non provvide a verificare ove gli stessi fossero stati condotti e a sincerarsi delle loro condizioni”.
6. La non configurabilità dell’ordine legittimo.
Infine, deve escludersi la scriminante dell’ ordine legittimo in quanto l'identità del presunto ufficiale libico rimase ignota a bordo del natante, il Centro di coordinamento libico, dopo ancora non era a conoscenza del salvataggio, del numero di migranti, della destinazione degli stessi, l’ordine tale poteva essere ritenuto “solo se proveniente da tale Centro di coordinamento, ovvero da quello di Roma in via sussidiaria, l'ordine poteva valutarsi legittimo e, quindi, con forza scriminante”.
In conclusione, la sentenza arricchisce il diritto vivente non tanto quanto alla concreta individuazione nel 2018 della Libia come Paese non sicuro, già oggetto di ricognizione anche da parte delle giurisdizioni sovranazionali, ma anche di alcuni aspetti delicati che riguardano il rapporto tra giurisdizione e discrezionalità politica, quali il carattere non vincolante della Lista dei Paesi sicuri, l’obbligo dello Stato e di tutti i suoi agenti – non solo i giudici - di verificare in concreto, sulla base di tutti i dati concretamente a disposizione, il rispetto effettivo dei diritti umani e l’assenza di condizioni di rischio dei migranti e di tutte le persone soccorse in mare, l’obbligo del rispetto delle procedure previste dalle Convenzioni internazionali per individuare il <<place of safety>>, senza alcuna scorciatoia o soluzione di comodo e, specificamente per il comandante di nave, indipendentemente da qualsiasi rapporto o indicazione dell’armatore, la necessità di verificare, ai fini dell’esclusione del dolo, non solo che vi sia un ordine dell’autorità, ma che si tratti anche di un ordine legittimo.
Proprio la plateale violazione commessa delle procedure relative alla consegna dei migranti e l’assenza di ordini di sbarco e consegna non ha dato occasione, invece, alla Corte di legittimità di apprezzare la sindacabilità dell’ordine illegittimo da parte delle autorità preposte alla consegna delle persone soccorse in mare ad uno Stato quando, secondo le concrete informazioni in possesso dell’agente, e quindi , secondo le «present-day conditions»,, esso è da considerarsi chiaramente come “non sicuro”.
[1] L’11 agosto 2017, le autorità libiche hanno dichiarato pubblicamente di aver comunicato all’Organizzazione marittima internazionale la volontà di istituire una zona di ricerca e soccorso (zona Sar) estesa a 70 miglia dalla costa, allo scopo di impedire l’accesso delle navi appartenenti a organizzazioni non governative nelle acque internazionali al largo delle proprie coste (F. Vassallo Paleologo, Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell’ordinamento interno, in www.questionegiustizia.it, 2018).
[2] F. Vassallo Paleologo, op. cit.. L’Autore indica che in quel periodo la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc), in coordinamento con il Ministero dell’interno, “aveva ordinato alle navi delle Ong, non appena completate le prime attività di soccorso, anche con un numero esiguo di naufraghi a bordo, di fare rotta verso un porto italiano, senza restare in zona per altri salvataggi, ottenendo così il risultato di lasciare campo libero alle motovedette partite dalle coste libiche.” La domenica 13 maggio 2018 oltre 260 migranti ripresi dalle motovedette libiche in acque internazionali, venivano sbarcati nei porti della Tripolitania ed internati nei centri di detenzione. A prescindere da condotte censurabili delle motovedette libiche in acque internazionali, “anche le autorità italiane hanno più volte imposto alle Ong di allontanarsi dai gommoni in difficoltà e di non tenersi “a vista” delle imbarcazioni da soccorrere nelle more dell’arrivo delle motovedette libiche.” Aggiunge che il 7 maggio 2018 “la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc) ha emesso un comunicato rivolto apparentemente soltanto alle Ong, avvertendole di tenersi ad almeno 8 miglia di distanza dall’evento Sar in caso di intervento dei libici”. Si ipotizza in relazione a tali modalità operative che “lo stretto coordinamento che emerge tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (Imrcc), la Marina militare con una nave presente nel porto di Tripoli, e la cd. Guardia costiera “libica” potrebbe quindi configurare un vero e proprio respingimento collettivo, attuato anche direttamente dall’Italia posto che le persone a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività Sar inizialmente coordinate da autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia che, pertanto “in questa qualità deve anche garantire un luogo di sbarco nel place of safety più vicino, e non nel porto più vicino. “
[3] Per ciò che concerne specificamente le operazioni di salvataggio in mare il d.l. n. 1/2023, conv. con mod. dalla L. 24 febbraio 2023, n. 15, in parziale continuità con il decreto n. 130/2020, prevede che il Governo possa «limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale» per motivi di ordine e sicurezza pubblica, facendo eccezione per «le operazioni di soccorso immediatamente comunicate al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo dello Stato nella cui area SAR di competenza ha avuto luogo l’evento e allo Stato di bandiera della nave, e qualora ricorrano congiuntamente determinate condizioni, quali: a) la nave che effettua sistematicamente attività di ricerca e soccorso abbia le autorizzazioni rilasciate dalle autorità dello Stato di bandiera e possegga i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione; b) siano avviate tempestivamente informative alle persone soccorse della possibilità di chiedere protezione internazionale; c) sia chiesta nell’immediatezza dell’evento l’assegnazione del porto di sbarco; d) il porto di sbarco sia raggiunto senza ritardo; e) siano fornite alle autorità marittime o di polizia le informazioni per ricostruire dettagliatamente l’operazione di soccorso; f) le modalità di ricerca e soccorso in mare non abbiano concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco».
Si sottolinea, tuttavia che una recente sentenza della Corte di giustizia (1 agosto 2022, cause riunite C-14/21 e C-15/21, proprio contro l’Italia) ha chiarito che lo Stato di approdo non può pretendere certificazioni diverse da quelle rilasciate dallo Stato di bandiera, né può esigere che le navi rispettino prescrizioni tecniche ulteriori e diverse da quelle previste dalle Convenzioni internazionali pertinenti. La decisione della Corte di giustizia esclude, quindi, la legittimità di un fermo amministrativo delle navi di soccorso per ritenuta violazione di detta condizione, come previsto dall’art. 2 quater e seguenti del decreto legge n. 130/2022, come modificato dal decreto n. 1/2023 (così ASGI, 5 gennaio 2023: https://www.asgi.it/primo-piano/contro-la-costituzione-le-ong-e-i-diritti-umani-linsostenibile-fragilita-del-decreto-legge-n-1-2023, riportata anche da G. Schiavone, Il decreto legge n. 1/2023: come ostacolare il soccorso in mare, Volerelaluna.it , 09-01-2023 ).
[4] C. Pitea, La nozione di « paese di origine sicuro » e il suo impatto sulle garanzie per i richiedenti protezione internazionale in italia, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc.3, 1° settembre 2019, pag. 627; v. anche C. Danisi, La nozione di « place of safety » e l'applicazione di garanzie procedurali a tutela dell'individuo soccorso in mare, Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 2, 1° giugno 2021, pag. 395
[5] C. PITEA, op. cit.
[6] C. PITEA, op. cit., v. anche S. Penasa, Le politiche migratorie “al confine”: la Corte EDU tra nozione di “paese terzo sicuro” e di restrizione della libertà delle persone richiedenti asilo. Il caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, in Forum Quaderni costituzionali – Rassegna, 2020.
[7] il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa — relativamente alla visita svolta in Italia dal 27 al 31 luglio 2009 — reso pubblico il 28 aprile 2010, che evidenziava come la politica "consistente nell'intercettare i migranti in mare e nel costringerli a ritornare in Libia o in altri paesi non europei costituiva una violazione del principio di non respingimento; il rapporto di Human Rights Watch, pubblicato il 21 settembre 2009, che lamentava la medesima violazione dei diritti umani, fondandosi sulla situazione in Libia; la visita di Amnesty International in Libia dal 15 al 23 maggio 2009; i numerosi "rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all'epoca dei fatti": Comitato dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007; Amnesty International, Libia -Rapporto 2008 di Amnesty International, 28 maggio 2008; Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008; Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell'uomo in Libia, 4 aprile 2010.
[8] Al riguardo, a dire del CPT, i sopravvissuti ad un viaggio in mare sono particolarmente vulnerabili e spesso in uno stato tale da impedire loro di poter esprimere immediatamente il desiderio di chiedere asilo. Stando al rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa del 28 aprile 2010, la Libia “non può essere considerata un paese sicuro in materia di diritti dell'uomo e di diritto dei rifugiati; la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti - che corrono anche il rischio di essere espulsi - starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia rischiavano di essere vittime di maltrattamenti".
Sommario: 1. Breve ricostruzione della vicenda contenziosa. - 2. Sull’efficacia temporale dell’ammissione al controllo giudiziario. - 3. Continuità del possesso dei requisiti tra interdittive antimafia e controllo giudiziario
1. Breve ricostruzione della vicenda contenziosa
Il rapporto tra antimafia e amministrazione si intensifica ed intreccia alla luce degli interventi normativi nonché dei contributi della giurisprudenza e della dottrina [1].
Le recenti riforme del sistema antimafia sono giustificate dalla volontà di contrastare il fenomeno criminale che mostra una sempre più sottile e abile vocazione imprenditoriale.
L’obiettivo delle nuove misure si distacca dalla tradizionale ratio sanzionatoria-ablatoria, riconducendosi alla bonifica delle economie che, seppur esposte a tentativi di infiltrazione mafiosa, dimostrano, comunque, autonomia gestionale [2].
Tale complesso apparato, oggi più di ieri, non si esaurisce in sé stesso ma è posto in stretta correlazione con le disposizioni del nuovo Codice dei Contratti pubblici [3].
In tale contesto, le questioni più problematiche risultano dalla valutazione e dalla portata degli effetti di ciascuna misura antimafia.
In tale contesto, si vuole segnalare la pronuncia di seguito annotata al fine di chiarire il rapporto che intercorre tra misura interdittiva antimafia e l’ammissione al controllo giudiziario.
Il Consiglio di Stato sez. V ha reso sentenza n. 8481 del 2023 sul ricorso in appello della Srl mandataria di costituendo Rti con altra s.r.l. contro il Comune di Roma per la riforma della sentenza semplificata resa dal TAR Lazio.
La ricorrente impugnava al TAR Lazio la determinazione dirigenziale di revoca di precedente aggiudicazione di procedura negoziata giusto art. 80, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016.
Invero a carico della società risultava l’iscrizione nel casellario informatico dell’ANAC conseguente all’annotazione a suo carico del provvedimento antimafia.
La società chiedeva l’annullamento del provvedimento di revoca invocando la sospensione temporanea degli effetti interdittivi della cancellazione dalla white list, in ragione della sua successiva ammissione alla misura del controllo giudiziario, sostenendo il venir meno, ai sensi del novellato comma 7 art. 34 bis Cod. Ant. (per come modificato dall’art. 47, comma 1, lett. c, del d.l. n. 152 del 2021, convertito con modificazioni dalla l. n. 233 del 2021) del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione sancito all’art. 94, comma primo, del d.lgs. n. 159 del 2011.
L’Amministrazione costituitasi precisava che il controllo giudiziario non poteva avere effetti retroattivi in sanatoria della precedente perdita dei requisiti di carattere generale poiché esso rileva soltanto per le gare indette successivamente all’ammissione alla misura di prevenzione.
Il TAR adito respingeva il ricorso, sul presupposto che “l’ammissione al controllo giudiziario di cui all’art. 34 bis del d.lgs. n. 159 del 2011 non ha conseguenze sui provvedimenti di esclusione e di revoca dell’aggiudicazione che siano stati adottati ai sensi dell’art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, i cui effetti contestualmente si producono e si esauriscono in maniera definitiva nell’ambito della procedura di gara, di modo che non v’è possibilità di un ritorno indietro per via della predetta ammissione”.
La Società, dunque, gravava tale pronuncia.
L’Amministrazione costituendosi concludeva per l’infondatezza dell’appello.
Il Consiglio di Stato respingeva il gravame per le ragioni che seguono.
2. Sull’efficacia temporale dell’ammissione al controllo giudiziario
L’evoluzione dell’ordinamento, che supera l’approccio punitivo e individua strumenti alternativi, impone una particolare attenzione per una sua corretta interpretazione ed applicazione [4].
Pertanto, è utile partire dalla posizione del Consiglio di Stato ove si evidenziava come il provvedimento di esclusione gravato veniva motivato col venir meno della continuità del possesso dei requisiti di partecipazione alla gara, di cui all’art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, dovendo gli stessi essere posseduti ininterrottamente in tutte le fasi sia della procedura di selezione che dell’esecuzione [5].
Ora, consolidata giurisprudenza ha ribadito il principio secondo cui il controllo giudiziario può solamente sospendere in modo temporaneo gli effetti della misura interdittiva, ma non già eliminare quelli medio tempore prodotti dall’interdittiva stessa nei rapporti in corso [6].
Anche il legislatore del Codice d.lgs n. 50/2016 non ha voluto attribuire efficacia retroattiva al provvedimento di ammissione al controllo giudiziario rispetto agli effetti dell’interdittiva.
Dunque, in ragione di ciò, gli operatori economici ammessi al controllo giudiziario possono partecipare alle gare pubbliche indette successivamente all’ammissione alla misura alternativa, proprio in ragione della sospensione temporanea degli effetti della stessa.
Una opposta interpretazione si porrebbe, secondo i Giudici di Palazzo Spada, in contrasto con la ratio della previsione delle cause di esclusione, atteso che gli effetti del tentativo di infiltrazione mafiosa non si esauriscono solo nella “preponderante” fase di gara, ma rilevano anche nella successiva fase di esecuzione del contratto.
Secondo tale argomentazione verrebbero meno, dunque, le finalità dell’interdittiva antimafia, ovvero la tutela del rapporto con l’amministrazione da eventuali contagi mafiosi che infettano l’economia sana, manipolano la concorrenza e minacciano l’ordine e la sicurezza pubblica.
Pertanto, in questa ottica, il controllo giudiziario ex art. 34-bis sospende gli effetti dell’interdittiva ma non elimina quelli già prodotti dall’interdittiva stessa.
A fortiori anche l’ANAC ha evidenziato che “in assenza di una disposizione che esplicitamente riconosca alla sospensione degli effetti interdittivi dell’antimafia conseguente all’ammissione al controllo giudiziario efficacia derogatoria nei confronti del principio di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione, la perdita in corso di gara del requisito dell’assenza di tentativi di infiltrazione mafiosa non può considerarsi sanata, ai fini della partecipazione, dall’ammissione alla misura di prevenzione di cui all’art. 34 bis del D.lgs. n. 159/2011” [7].
Nel medesimo solco la giurisprudenza, a più riprese, chiarisce che l’ammissione al controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis d.lgs. n. 159 del 2011, non ha rilevanza sui provvedimenti di esclusione, i cui effetti contestualmente si producono e si esauriscono in maniera definitiva nell’ambito della procedura di gara complessivamente considerata, al fine di evitare possibili regressioni in conseguenza all’ammissione stessa.
Anche nel caso in commento i Giudici segnalano il principio dell’efficacia solo per l’avvenire dell’ammissione al controllo giudiziario e, medio tempore, della possibilità di partecipare da ‘controllate’ ad altre procedure di gara [8].
3. Continuità del possesso dei requisiti tra interdittive antimafia e controllo giudiziario
Sulla base di studi già consolidati è possibile affermare la natura cautelare e di “frontiera avanzata” nell’ anticipazione della soglia di prevenzione dell’interdittiva antimafia [9]. Il provvedimento prefettizio, come noto, determina una particolare forma di incapacità giuridica e, dunque, l’insuscettività del soggetto destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive che determinino rapporti giuridici con la pubblica amministrazione [10].
Dunque, per effetto dell’interdittiva l’operatore economico è privato di ogni possibilità di essere titolare di rapporti con la PA.
È pur vero però che detta impossibilità risulta (talvolta) temporanea poiché può venire meno per il tramite di un successivo provvedimento liberatorio dell’autorità prefettizia.
Pertanto, al fine di cogliere l’effettività delle misure antimafia occorre analizzare lo stretto legame tra le stesse ed il Codice dei Contratti Pubblici (Dlgs 50/2016) applicato alla controversia in commento, il quale prevedeva che “Costituisce altresì motivo di esclusione la sussistenza, con riferimento ai soggetti indicati al comma 3, di cause di decadenza, di sospensione o di divieto previste dagli articoli 88, comma 4-bis, e 92, commi 2 e 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.Resta fermo, altresì, quanto previsto dall’articolo 34 –bis commi 6 e 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.
Ed inoltre che: “Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l’operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5”.
Ed ancora l’art. 34-bis d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 precisa che “Le imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell’articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l’impugnazione del relativo provvedimento del prefetto, possono richiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario di cui alla lett.b) del comma 2 del presente articolo”. Ed ancora, “il provvedimento che dispone (…) il controllo giudiziario ai sensi del presente articolo sospende il termine di cui all’art. 92, comma 2, nonché gli effetti di cui all’articolo 94. Lo stesso provvedimento è comunicato dalla cancelleria del tribunale al prefetto della provincia in cui ha sede legale l’impresa, ai fini dell’aggiornamento della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia di cui all’articolo 96, ed è valutato anche ai fini dell’applicazione delle misure di cui all’articolo 94- bis nei successivi cinque anni”.
Così, consolidata giurisprudenza ritiene che l’ammissione al controllo giudiziario non incida sulla sussistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa, atteso che “non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza” [11].
Invero, il controllo giudiziario interviene in contesti in cui l’interdittiva può rappresentare l’estrema ratio ritenendo che il contagio possa essere reciso attraverso strumenti meno invasivi e paralizzanti.
Pertanto, ove interviene il provvedimento interdittivo e successivamente l’operatore economico viene ammesso al controllo giudiziario non è possibile escludere a priori gli effetti del provvedimento interdittivo.
Così, per l’affidamento di appalti pubblici l’intervenire di un provvedimento interdittivo interrompe il possesso dei requisiti richiesti che devono sussistere in modo continuo non solo per tutta la durata della procedura di aggiudicazione ma anche per l’intera fase di esecuzione.
Va allora ribadito che i Giudici di Palazzo Spada cristallizzano il principio dell’efficacia solo per l’avvenire dell’ammissione al controllo giudiziario, con la conseguente possibilità di partecipazione in situazioni di controllo a procedure di gara successivamente indette [12]. Indagando i principi che reggono l’intero apparato, la giurisprudenza non ritiene condivisibile l’opportunità di essere reintegrato successivamente nella fase di esecuzione per effetto dell’ammissione al controllo giudiziario per l’operatore economico escluso da una procedura poiché attinto da informativa antimafia.
La questione pone non pochi spunti, (in parte superati) con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei Contratti Pubblici.
Occorre, dunque, come in ogni fase di transizione e di cambiamento interrogarsi su ciò che cambia, ciò che rimane uguale e ciò che rimane non detto.
Sembra opportuno segnalare l’essenziale modifica delle cause di esclusione oggi previste dall’art. 94 del nuovo Codice dei Contratti pubblici ed in particolare il comma 2 che prevede, come ulteriore ipotesi di esclusione, l’applicazione all’operatore economico delle misure interdittive previste all’interno del d.lgs. n. 159/2011 (Codice cd. antimafia), con l’eccezione dell’impresa che è stata ammessa al controllo giudiziario ai sensi dell’art. 34bis del medesimo decreto, prevedendo: La causa di esclusione di cui all’articolo 84, comma 4, del medesimo codice di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011 non opera se, entro la data dell’aggiudicazione, l’impresa sia stata ammessa al controllo giudiziario ai sensi dell’articolo 34-bis del medesimo codice. In nessun caso l’aggiudicazione può subire dilazioni in ragione della pendenza del procedimento suindicato.
Conclusivamente la novità rispetto al d.lgs. n. 50/2016 è da ravvisarsi per l’appunto nella irrilevanza della causa di esclusione discendente dall’emissione di una misura interdittiva antimafia, ove l’impresa sia stata ammessa al controllo giudiziario ex art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011 entro la data di aggiudicazione.
Il legislatore ha inteso ampliare la portata del controllo giudiziario come strumento di “bonifica”, riconoscendo così all’operatore economico più ampie possibilità di riconduzione ad economie sane.
La previsione del nuovo Codice rappresenta un tassello fondamentale nella prevenzione delle controversie relative allo stretto, e troppo spesso, controverso rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il 2 paragrafo al Prof. Renato Rolli i restanti alla dott.ssa Martina Maggiolini
[1] ex multis si consenta il rinvio a R.Rolli, L’informazione antimafia come “frontiera avanzata” (nota a sentenza Consiglio di Stato Sez. III n. 3641 dell’08.06.2020), Giustiziainsieme, 2020
[2] si veda M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, Giustiziainsieme, 2022
[3] si consenta anche il rinvio a R.Rolli, F. De Cicco, Mafia e contratti pubblici: ciò che cambia col nuovo codice, Ratio Iuris, 2023
[4] Per tutti G. Amarelli, “La Cassazione riduce i presupposti applicativi del controllo giudiziario volontario ed i poteri cognitivi del giudice ordinario”, sistemapenale, 2022.
[5] ex multis, Cons. Stato, III, 14 dicembre 2022, n. 10935; V, 6 ottobre 2022, n. 8558; Ad. plen. 20 luglio 2015, n. 8
[6] ex multis, Cons Stato, V, n. 8558 del 2022
[7] nel parere precontenzioso di cui alla delibera n. 29 del 26 gennaio 2022
[8] cfr. Cons. Stato, V, 14 aprile 2022, n. 2847
[9] si consenta il rinvio a R.Rolli, L’informazione antimafia come “frontiera avanzata” (nota a sentenza Consiglio di Stato Sez. III n. 3641 dell’08.06.2020), op cit.
[10] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016, n. 3247
[11] ex multis Cons. Stato n. 6377/2018; Cons. Stato 3268/2018
[12] cfr. Cons. Stato, V, 14 aprile 2022, n. 2847
“Mi rimetto alla clemenza dell’intelligenza artificiale”.
L’AI-jurisdicional process e il cyber-lawyer
di Luca Di Majo
Abstract (ITA): Tra le varie professionalità influenzate dalla diffusione delle nuove tecnologie, la professione legale rappresenta probabilmente quella più delicata per l’alta funzione assegnatale dalla Costituzione, ancorché indirettamente, per la tutela dei diritti fondamentali.
L’Intelligenza Artificiale, nel campo della giustizia e, in particolare, rispetto ai principi sanciti dal diritto di difesa (art. 24 Cost.) e dal giusto processo (art. 111 Cost.), comporta un cambiamento di paradigma della professione forense.
L’accesso alla giustizia, il contraddittorio, l’assunzione della prova, l’attività interpretativa del giudice, le garanzie delle parti nel processo sono solo alcuni temi che tengono insieme coloro che animano il processo, sui quali l’Avvocato non può trovarsi impreparato, accogliendo e governando le nuove sfide poste dalla tecnologia.
Abstract (ENG): Among the various professions affected by the spread of new technologies, the legal profession is probably the most delicate because the high function assigned to it by the Constitution, albeit indirectly, for the protection of fundamental rights.
Artificial Intelligence, in the field of justice and, in particular, with respect to the principles enshrined in the right of defence (art. 24 Cost.) and due process (art. 111 Cost.), entails a paradigm shift in the legal profession.
Access to justice, the adversarial process, the taking of evidence, the interpretive activity of the judge, the guarantees of the parties in the trial are just some of the issues that hold together those who animate the process, on which the lawyer cannot be unprepared, accepting and governing the new challenges posed by technology.
Parole chiave: Avvocato, Intelligenza Artificiale, Costituzione, Processi giurisdizionali, Diritto di difesa, Giusto Processo
Key Words: Lawyer, Artificial Intelligence, Constitution, Jurisdictional process, Right of defence, Due process of Law
Sommario: 1. Premessa 2. L’avvocato e i processi giurisdizionali ieri e oggi, tra tradizione, innovazione e intelligenza artificiale. 3. Gli articoli 24 e 111 della Costituzione nella morsa dell’intelligenza artificiale. 3.1. Fuga dal contraddittorio? 3.2. Assuefazione all’algoritmo? 3.3. Declino delle impugnazioni? 4. L’intelligenza artificiale e la deontologia forense:dovere di competenza tecnologica o avvocato specialista? 5. Il Cyber-lawyer in un prossimo (ma già attuale) AI-jurisdicional process, tra previsione e predizione.
1. Premessa.
Molteplici sono gli aspetti plasmati, a tratti “dominati”[1], dall’intelligenza artificiale[2] e, tra questi, figura la giustizia.
La riflessione sulla relazione tra processi giurisdizionali e tecnologia si sta tuttavia focalizzando su una precisa angolazione, e cioè sul ruolo del giudice nella dicotomia previsione/predizione[3] di processi[4] tendenzialmente automatizzati[5], tralasciando aspetti non secondari che incideranno sulla funzione di una figura alla quale non è stata riservata espressamente dignità costituzionale, ma che esercita, nel prisma del diritto di difesa (art. 24 Cost.)[6], un ruolo ancor più delicato in quanto volto alla garanzia dei diritti fondamentali delle persone, non limitata alla mera assistenza “fiduciaria”[7]: l’avvocato.
In una tale prospettiva tecnologica che, per certi versi, sarà in grado di segnare un “passaggio epocale”[8], la professione forense si colloca già oggi in una posizione ancor più cruciale, essendo “incalzata”[9] sotto una duplice dimensione.
In specie, a un punto di vista – probabilmente maggiormente suggestivo per un costituzionalista –sono implicati la garanzia del diritto di difesa e del giusto processo perché strettamente legati alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana (ma non solo)[10]; da un altro, è coinvolto il mercato dei servizi legali, con tutto ciò che attiene al rispetto delle regole di deontologia professionale, il cui anacronismo è da vagliare nel confronto con il codice di condotta di una figura importante del settore giustizia che trae esclusivamente dalla propria attività professionale i mezzi per condurre un’esistenza libera e dignitosa.
L’intelligenza artificiale si insinua nella professione forense come supporto, certo, ma anche come elemento costitutivo di un nuovo business in grado di offrire servizi seriali ad un costo probabilmente minore, ampliando l’offerta ad un’utenza sempre maggiore e calmierando una serie di costi che rappresentano, per molti, un limite all’accesso al diritto di difesa, nonostante lo Stato preveda (con limiti particolarmente stringenti) il patrocinio gratuito ai non abbienti (ma non ai poco abbienti)[11].
Non sono molti gli studi legali attualmente in corsa sui treni dell’intelligenza artificiale, in lenta crescita[12] e con un tasso inferiore rispetto a quello di altri studi professionali[13].
Ciononostante, sembrerebbe non apparire un’ipotesi del tutto remota una vera e propria rivoluzione in senso tecnologico della figura dell’avvocato, per certi aspetti surrogabile da modelli di technolaw[14] plasmati da disruptive legal technologies[15] “che stanno già mutando l’intero orizzonte del mercato legale e che impongono al professionista forense non solo di aggiornare il proprio lavoro, per migliorarlo, ma di reinventarlo quasi completamente”[16].
Tutto ciò, non senza profili di criticità[17], è già realtà negli Stati Uniti d’America, dove l’intelligenza artificiale ha segnato il passo di un diverso modo di intendere la difesa nei processi, vuoi per una maggiore apertura del Nuovo Mondo alle rivoluzioni digitali, vuoi per essere il sistema del common law più conferente rispetto alla predisposizione degli algoritmi a lavorare sul precedente per generare una risposta affidabile sull’esito di una controversia.
Assunto, questo, vero solo in parte, attesa l’assuefazione ad una cultura del precedente giurisprudenziale che ha permeato il modus operandi di giudici e avvocati appartenenti ai sistemi di civil law che appaiono sempre più slegati dal codice e meno impermeabili al diritto vivente delle Corti di legittimità e di merito[18], tanto che la distinzione, quantomeno sul piano concettuale, può porsi tra sistemi giuridici a vincolo forte o sistemi giuridici a vincolo debole nei confronti del precedente[19].
Così, non è inverosimile prevedere una diffusione di inusuali modelli difensivi fondati sulla rielaborazione di case law a partire da algoritmi che inducono il giurista ad interrogarsi sull’attualità degli schemi tradizionali del diritto di difesa volti a garantire comunque uno standard minimo dei diritti delle persone rispetto alle pretese del potere pubblico[20].
2. L’avvocato e i processi giurisdizionali ieri e oggi, tra tradizione, innovazione e intelligenza artificiale.
L’attività di assistenza legale è da sempre in continuo movimento.
Da un lato, la richiesta di servizi integrati ha progressivamente eroso la figura del singolo avvocato storico, volto noto nella città, e degli studi legali che si reggevano unicamente su una figura per lo più monocratica.
Le categorie difensive classiche (civile, penale, amministrativo) si sono disgregate innanzi ad una parcellizzazione delle competenze sempre più percepibile che pretende una riconsiderazione di un “alto”[21] magistero che si fonde con un corpo sociale articolato, ne riceve le istanze, ne cura gli interessi e, “assumendone il patrocinio, si fa portatore delle istanze davanti a chi, come il giudice [ma non solo, n.d.s.] è legittimato a stabilire se siano fondate o no”[22].
Da un’altra prospettiva, l’attività difensiva viene offerta in modalità associata, per certi aspetti “competitiva”[23], attraverso studi legali plurispecializzati[24] che operano one-to-many nelle più diverse branche del diritto civile, penale, del lavoro, tributario, sportivo, europeo, internazionale, nell’ambito delle quali trova spazio il Cyber-lawyer (se si può così definire), colui il quale maneggia, un po’ per scelta e un po’ perché obbligato, a partire dal d.l. n. 179/2012, gli strumenti che la tecnologia gli mette a disposizione, da ultimo l’intelligenza artificiale.
Eppure, fin dall’antichità il sistema giustizia, a dispetto delle varianti in cui ha potuto diversificarsi e dell’evoluzione dei modelli, ha conosciuto una costante comune: uomini che giudicano altri uomini e dibattono su questioni di uomini. Insomma, ha prevalso sempre una dimensione puramente umana.
L’assistenza legale è sempre stata impersonata da advocati (o tutores) e l’ars oratoria fondata su accurati schemi argomentativi e retorici[25], che dagli antichi romani[26] risalgono fino all’età contemporanea.
I sussidi, al più, sono stati i codici, strumenti a disposizione di giudici e avvocati che raccolgono norme interpretate e decisioni giurisdizionali frutto dell’intelletto umano, catalogate in prestigiose riviste divenute, con il corso del tempo, scrigni[27] dai quali attingere conoscenze per tenere fermo un precedente giurisprudenziale, per attualizzarne i contenuti o, se del caso, superarne l’impostazione dogmatica.
Ciò vale per avvocati e giudici, attori che contribuiscono a rendere sempre fluido quel diritto vivente che plasma i principi generali dell’ordinamento interno nel prisma delle tecniche interpretative.
La figura e il ruolo dell’avvocato (invero, anche del giudice) stanno mutando negli ultimi anni a causa della complessità sociale[28] e di una modalità innovativa di esercizio dell’attività professionale dovuta, in particolare, al progressivo avvicendarsi degli strumenti tecnologici a disposizione dei procuratori legali.
Eppure, l’avvocato viene immaginato da sempre collocato in uno studio, seduto dietro una scrivania, immerso tra carte, codici, atti, lettere, calamaio, macchina da scrivere (poi sostituiti da penne, PC e tablet), libri, insomma, tutto quanto appare strumentale all’esercizio della professione[29]. Uno spazio affollato, non c’è che da dire, in un immaginario collettivo che non trova più posto in una realtà caratterizzata da software on line e consolle in grado di fornire più efficacemente le risposte agli interrogativi posti tanto dal professionista quanto dal cliente.
Per il Cyber-lawyer, i primi segnali della rivoluzione digitale si sono palesati con il d.l. n. 179/2012: la posta elettronica certificata, la firma digitale, l’esclusivo deposito telematico degli atti processuali hanno progressivamente sancito l’obbligatorietà dell’utilizzo dello strumento informatico in quasi tutta l’attività del procuratore, tanto che il suo mancato utilizzo, ovvero l’utilizzo non conforme, rischia di essere fonte di responsabilità professionale (cfr., sul punto, infra, par. 4).
L’approdo verso forme di processo digitale, dovuto quasi esclusivamente all’incedere improvviso ed impetuoso della pandemia[30], ha poi contribuito inarrestabile alla diffusione di modalità di celebrazione di processi fino a poco tempo fa inusuali: dal semplice deposito telematico fino alle modalità di trattazione c.d. cartolare, oggi divenuta modalità ordinaria, ma già sperimentata nelle forme del processo pandemico con l’art. 16, d.l. n. 228/2021[31].
La rivoluzione digitale segna, dunque, un cambiamento di paradigma in ogni angolo del diritto[32]. La tecnologia influenza il processo in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue strutture, nei suoi contenuti.
È un ricordo lontano il trapasso dal telefax alla e-mail e, successivamente, alla posta elettronica certificata; appare oggi quasi irrilevante la novità dei Personal Computer che hanno consentito, con programmi sempre più evoluti e completi, di velocizzare la scrittura di atti giudiziari; è oramai pienamente operativo il processo telematico in tutte le varianti giurisdizionali[33]; è ammessa la mediazione obbligatoria ex d.lgs. n. 28/2012 anche su piattaforme virtuali, dove tentare di raggiungere l’adesione tra le parti «da remoto» (art. 22, comma 1, lett. c), d.m. n. 150/2023), benché la composizione stragiudiziale della controversa all’italiana rappresenti ancora oggi un tentativo mal riuscito di mutuare Online Dispute Resolution (ODR) attraverso modalità del tutto distanti dal modello europeo previsto dal regolamento UE n. 524/2013, in considerazione della percentuale sconfortante di accordi conclusi[34].
L’ultima frontiera della giustizia digitale è attualmente l’intelligenza artificiale[35], nonostante alcuni ordinamenti si collochino, già nel momento in cui scrive, in una dimensione ulteriore e immersiva, ammettendo la celebrazione di processi giurisdizionali nel metaverso[36].
Mentre con il metaverso si sta tentando, non senza difficoltà e non senza apprensioni per la tenuta dei diritti fondamentali[37], di creare un universo parallelo, proiettando la percezione umana e sensoriale al di là delle relazioni fisiche[38], l’intelligenza artificiale è, al contrario l’insieme di metodi scientifici e tecniche finalizzati a riprodurre, mediante le macchine, le capacità cognitive degli esseri umani.
È una nozione, questa, che trova originariamente la propria definizione in un atto di soft law, la Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi, adottata dalla CEPEJ nel corso della sua trentunesima riunione plenaria (Strasburgo, 3-4 dicembre 2018)[39], e che introduce un percorso che indurrà, nel prossimo futuro, a configurare un processo (ogni tipo di processo) molto più digitale di quanto oggi non lo sia e una professione forense molto più digitalizzata di quanto non lo si possa attualmente immaginare.
Il rischio di affidarsi all’intelligenza artificiale in campo giudiziario sembra acquisire progressivamente maggiore fondatezza tale da giustificare l’emendamento n. 71 alla versione originaria del considerando n. 40 dell’Artificial Intelligence ACT, approvato il 14 giungo 2023, laddove, a fronte della classificazione «ad alto rischio» degli algoritmi utilizzati nell’amministrazione della giustizia per l’«impatto potenzialmente significativo sulla democrazia, sullo Stato di diritto, sulle libertà individuali e sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale», è riservata ad essi, «nelle attività di ricerca e interpretazione dei fatti e del diritto e nell’applicazione della legge […] una funzione di «sostegno, [senza] sostituire il potere decisionale dei giudici o l’indipendenza del potere giudiziario, in quanto il processo decisionale finale deve rimanere un’attività e una decisione a guida umana»[40].
Non pare opportuno estendere tale classificazione ai sistemi di intelligenza artificiale destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull’effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi, quali l’anonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, la comunicazione tra il personale, i compiti amministrativi o l’assegnazione delle risorse. Si tratta, infatti, di attività ordinarie che non comportano problemi applicativi, anzi sono destinati ad efficientare la macchina della giustizia.
Tutt’altro, invece, si verifica nella dimensione strettamente processuale. La giustizia è, difatti, sempre più coinvolta nel processo di “compenetrazione tra gli spazi fisici e quelli digitali”[41], e le prospettive fin qui delineate hanno avuto un effetto dirompente sull’approccio interpretativo dei giudici, benché gli stessi siano ancora legati alla risoluzione di controversie tradizionali in un processo fondato su metodi tradizionali di lettura delle prove.
La riflessione in merito al grado di incidenza delle nuove tecnologie in ambito giudiziale appare per lo più sbilanciata sul grado di predittività della “massimizzazione induttiva di una certa quantità probabilistica”[42] e su un’esigenza (la cui ragionevolezza sarà tutta da dimostrare) di “velocizzare le attività ed evitare eventuali errori umani nell’esercizio della giurisdizione, con l’obiettivo di rafforzare la certezza dell’ordinamento giuridico attraverso il contenimento del soggettivismo giudiziario”[43], abbandonando, allo stesso tempo, “l’equilibrio, la saggezza, l’etica, la coscienza, la sensibilità, il coraggio e la valutazione della unicità e peculiarità del singolo caso da vagliare, requisiti basilari quando, con una sentenza, si interviene sulla libertà o sulla proprietà di un individuo”[44].
I timori e le perplessità emergenti invitano il giudice ad essere parco nell’utilizzo di algoritmi predittivi per il potenziale pregiudizio «a un ricorso giurisdizionale effettivo e a un giudice imparziale»[45].
Sono questioni particolarmente delicate, certamente, già in parte scrutinate, derivanti dalle prime applicazioni di intelligenza artificiale nel campo civile[46] e nel campo penale,[47] che hanno consentito di segnare alcuni limiti[48]all’“algocrazia”[49], come il principio di conoscibilità[50], il principio di non esclusività della decisione algoritmica[51], il principio di non discriminazione algoritmica[52].
Altri aspetti a rischio contenuto, al contrario, non sottovalutano i benefici (non pochi, invero) nella gestione dei processi e nella economicità dei processi stessi, come l’assegnazione delle cause attraverso l’indicazione di specifici parametri: il peso specifico delle controversie, la coerenza tra le conoscenze del giudice e l’oggetto del contendere, in esempio, consentono una più equa distribuzione tra i magistrati assegnati ad un determinato Tribunale[53], così da intercettare cause simili, organizzarle secondo una logica razionarle, attraverso la creazione di un meccanismo di assegnazione automatica che tiene conto delle analogie tra le varie controversie (più analitico rispetto al riparto di competenze tra le materie trattate dalle singole sezioni), senza affidarsi alla cecità di un mero numero di ruolo.
Il presupposto di partenza da cui muove chi si è occupato di questi temi resta però legato ad un ruolo soltanto parziale dell’intelligenza artificiale, fondato su soli schemi interpretativi e su decisioni di controversie tecnologicamente orientate, limitato ad un’analisi del ruolo del giudice e di quanto la giustizia possa (o debba) di essere predittiva.
Qui, al contrario, pur in una logica di approccio attinente ad una valutazione probabilistica dell’esito del giudizio[54], non prevale il tema riguardante l’applicazione della tecnologia alla sola modalità di celebrazione c.d. cartolare delle udienze, uno dei tanti profili ereditati dalla pandemia[55] (oggi stabilizzati come modalità ordinaria nel d.lgs. n. 149/2022 e nel d.lgs. n. 150/2022), quanto riflettere sul grado di incidenza degli algoritmi sulla redazione di atti difensivi e sulla selezione delle allegazioni probatorie che restano pur sempre alla base di una decisione meccanica benché non completamente automatizzata.
Immaginare, dunque, la risposta della libera professione alla domanda Avvocato, lei ce l’ha un’intelligenza artificiale[56]?
Non è un interrogativo banale. Esso integra, piuttosto, un quesito di fronte al quale il professionista assume un certo imbarazzo nel fornire una risposta (quasi come si ponesse in dubbio il suo percorso di affrancamento dal livello medio di conoscenze giuridiche downloaded dall’avvocato Google), paventando, per certi versi, una possibile fonte di violazione di precise regole deontologiche.
Difatti, il Cyber-lawyer non può ignorare l’esistenza e il funzionamento degli algoritmi se vuole rimanere dentro il circuito della giustizia (e dentro il mercato dei servizi legali), dove l’esercizio del diritto di difesa diventerà sempre più imprescindibile dall’utilizzo di algoritmi volti, da un lato, ad orientare, pur sempre «in condizioni di parità» (art. 111, comma 2, Cost.), il contraddittorio tra le parti (infra, par. 3.2.), dall’altro, a verificare se la sentenza fondata sull’algoritmo non possa essere sottoposta a gravame, perché la scelta di impugnare o meno una decisione giurisdizionale rischia di essere meno concreta di oggi (infra, par. 3.3.).
Il progresso tecnologico, oltre a sperimentare forme inedite di celebrazioni processuali, impone al Cyber-lawyer la conoscenza di nuovi strumenti di legal tech, già introdotti da forme primordiali di intelligenza artificiale: applicativi che consentono di digitalizzare, automatizzare, razionalizzare e semplificare l’attività, di processare una grandissima quantità di normativa, giurisprudenza, di esprimere in maniera più o meno sintetica il risultato a partire dall’impostazione del parametro di ricerca. Ciò che si desume non è tanto la ricchezza del contenuto, quanto piuttosto la selettività della ricerca e la capacità di selezionare, in una miriade di decisioni, quelle giuste.
In questo senso, l’evoluzione degli algoritmi agevola una navigazione più smart, anche consentendo di aggirare le insidie celate dietro l’abuso del processo per lo stop all’avvio di azioni giudiziarie palesemente infondate, volte esclusivamente a dilatare i tempi per la soddisfazione dei diritti e degli interessi delle controparti, ben sapendo già in principio dell’inutilità di un’azione giudiziaria che va soltanto ad ingolfare la macchina dei Tribunali, senza comportare alcun giovamento alla parte.
Sono modalità molto più efficaci rispetto alla complessa consultazione di banche dati giurisprudenziali, dove è l’avvocato, manualmente, ad intraprendere un faticoso lavoro di sintesi in cui, muovendo dall’indagine condotta su un determinato istituto oppure su una determinata fattispecie, garantisce, un domani come oggi, l’imprescindibile caratteristica di un “servizio legale [ricamato] su misura”[57] della controversia.
Non si tratta esclusivamente di applicazioni legate all’implementazione della tecnicalità del linguaggio giuridico (Lex Machina), della conoscenza dell’ordinamento normativo e della giurisprudenza (Casetext), o di aspetti riguardanti attrazione e fidelizzazione innovative della domanda; piuttosto si fa riferimento a Online Dispute Resolution[58] comeCybersettle[59], Money Claim già sperimentati con discreto successo altrove[60], in particolare da piattaforme private[61]o dalla giustizia pubblica[62], e a tecnologie volte al miglioramento della performance professionale attraverso la c.d. IA generativa, come piattaforme testuali (ChatGPT) o grafiche (DALL-E2), fondate su un approccio maggiormente induttivo che deduttivo (Luminance), nonché a modelli di intelligenza artificiale preposti alla redazione di contratti (Kyra System o Contract Express) e all’interpretazione delle clausole negoziali (ThoughtRiver o LawGeex).
Tra legal design[63] e modelli fondati su meccanismi di machine learning e deep learning[64], si tratterà di rimodulare l’attività professionale artificialmente intelligente attraverso cinque fasi: “in primo luogo, l’avvocato dovrà individuare e formulare il problema/quesito; successivamente, dovrà preparare i dati da inserire nel sistema [prescelto, n.d.s.] (assicurando che essi siano integri e corretti); dovrà poi elaborare i dati al fine di generare un risultato (output); dovrà revisionare il risultato ottenuto; dovrà soppesare e spiegare al cliente il significato del risultato ottenuto”[65], non limitandosi ad agire secondo automatismi come il Robot-Lawyer realizzato dalla start-up americana DoNotPay.
Profili, questi, che l’Avvocato del terzo millennio – dotato di conoscenze tecnologiche che segnano un cambio di passo dell’esercizio della professione – non può semplicemente osservare con disincanto, perché gli stessi comportano la rilettura di categoria classiche come il diritto di difesa, l’accesso alla giustizia (quanto conviene affrontare un processo che l’algoritmo ritiene perso in partenza?), la parità delle armi[66] (quanto costa affidarsi ad un sistema di intelligenza artificiale di ultima generazione per non soccombere nel processo?), il libero convincimento del giudice[67] e la propria autonomia (come può un giudice motivare il proprio dissenso da dati elaborati da algoritmi?), il tradizionale sistema delle impugnazioni[68] (qual è la reale possibilità di revisione di una decisione algoritmica?), il divieto di istituzione di giudici straordinari (l’intelligenza artificiale potrà assumere, in un futuro remoto, le funzioni di giudice straordinario?).
Non poco, se volgiamo lo sguardo ai principi costituzionali che regolano il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.)[69].
In questa nuova ed inedita prospettiva, la futura mutazione genetica dei processi trascina con sé inevitabilmente questioni che attengono al magistero del Cyber-lawyer, delineandone un ruolo, in prospettiva futura, probabilmente più esterno al processo ma non per questo meno responsabile nei confronti del cliente[70], nel rispetto delle regole deontologiche e, soprattutto, non subalterno alla clemenza o al severo giudizio dell’intelligenza artificiale.
Un tema attuale, allo stesso tempo futuribile, che impegnerà la professione forense calandola in una dimensione intertemporale, nella quale l’art. 24 Cost., il processo giusto (art. 111 Cost.) ed equo (art. 6 CEDU), che maggiormente interessano la figura dell’avvocato, andranno probabilmente riletti alla luce di procedimenti giurisdizionali molto più tecnologici di quanto lo si possa oggi immaginare[71].
3. Gli articoli 24 e 111 della Costituzione nella morsa dell’Intelligenza Artificiale.
Gli articoli 24 e 111 Cost. fissano inderogabilmente quelli che sono i principi non negoziabili dell’esercizio del diritto di difesa nel giusto processo[72].
La genesi di tali articoli, pur muovendo dall’intento comune di mantenere un livello di tutela alto dei diritti inviolabili dell’uomo, ha seguito traiettorie diverse, restando la prima disposizione immutata nel tempo, a fronte del «giusto processo» elevato – secondo alcuni solo formalmente[73] – a dignità costituzionale con la novella del 1999.
Si tratta in ogni caso di “sommi”[74] principi comuni a tutti i processi, tanto da “sottrarre al giudice ogni scelta discrezionale circa il ‘se’ e il ‘come’ del contraddittorio allorché in gioco vi sia la tutela dei diritti”[75].
I principi sanciti dai primi due commi dell’art. 111 Cost. si saldano con l’art. 24 Cost. rafforzando l’area di tutela dei diritti inviolabili quando vi si prospetta una violazione da parte del privato o dell’autorità pubblica.
Ciò che emerge è, dunque, la figura di un processo “giusto nella misura in cui aspiri e tenda a garantire non solo il rispetto formale delle procedure, ma anche l’accuratezza nell’accertamento dei fatti e nella soluzione della quaestio iuris, attraverso la comprensione (cum-prehendere) e l’intelligenza (intus-legere) della materia del contendere, da ricostruire con la maggior precisione possibile in esito alla dialettica processuale”[76].
Insomma, un processo non deve essere giusto perché giusta è la decisione, ma è considerato giusto per la predisposizione di garanzie riservate alle parti, per le quali è “strumento”[77] di concretizzazione dell’art. 24 Cost.
Difesa tecnica e giusto processo sono così strettamente legati: “la difesa c.d. tecnica consiste nell’attribuire alla parte il diritto di godere in giudizio dell’assistenza di un esercente la professione legale. Il diritto di far valere in giudizio le proprie ragioni sintetizza, invece, il principio del contraddittorio volto a garantire la partecipazione attiva delle parti al processo”[78].
Come si muovono gli algoritmi rispetto alle esigenze poste dall’art. 24 Cost. e dal nuovo art. 111 Cost., in particolare rispetto al contraddittorio, alla ragionevole durata e al ruolo del difensore? Quale significato possono avere questi principi richiamati, se ai processi giurisdizionali si vuole legare la forza di una élite tecnica, mollando gli ormeggi che li tengono uniti alla Costituzione? Dopotutto, non è pur vero che la tecnica rimanda a regole precise, matematiche, statistiche, automatiche, procedimentalizzate che sottraggono spazio alle voci dei magistrati, degli avvocati e delle parti?
Va detto, così per fugare ogni dubbio, che qui si rifugge da qualsiasi aspirazione meramente aziendalistica della giustizia rispetto al profilo della «ragionevole durata del processo», perché ciò altro non è che un’ansiogena aspirazione a comprimere temporalmente le controversie al di là di ogni profilo di ragionevolezza e vincolata alla sola volontà di rendere la giustizia stessa verosimilmente più performante.
Resta insito in questa riflessione l’aspetto legato al contraddittorio fondato sull’eguale accesso ai mezzi di ricerca della prova volti a fornire al giudice un quadro sinottico della controversia e metterlo nelle condizioni migliori per assumere la decisione più vicina alla verità processuale. In una tale dimensione, l’intelligenza artificiale, proprio per le caratteristiche sopra delineate, non può non aspirare a diventare il centro di acquisizione e di valutazione delle prove fino a fornire i parametri al giudice per la decisione finale.
Qui, però, l’intelligenza artificiale, pone alcune incognite.
In quale direzione si muovono il diritto di difesa e il giusto processo se, nelle fasi processuali più controverse (l’assunzione e la valutazione della prova, la discussione), interloquire in contraddittorio con l’altra parte e con il giudice rischia di rivelarsi privo di alcun senso innanzi alla pretesa infallibilità dell’algoritmo? In che modo l’avvocato sarà in grado di contro-valutare una prova proveniente fuori la sede costituzionalmente prevista (artt. 111, comma 2, Cost.), pur ammessa nei codici di rito, restando in ogni caso salvo il contraddittorio nel processo a seguito di acquisizione? Sarà ancora possibile considerare non anacronistico il ragionevole dubbio oltre il quale un imputato va condannato, oppure deve farsi strada un’idea assoluta di colpevolezza, peraltro anche inconciliabile con l’art. 27 Cost.? Non rischia di diventare inutile la revisione delle sentenze fondata sul modello tradizionale del judicial review? Come può, un giudice dell’appello riformare una sentenza che si basa su dati e statistiche anche apparentemente solide? E se tale prospettiva sarà smentita, quale natura assumerà il giudizio di appello? Resterà un giudizio sul fatto o muterà geneticamente in un giudizio sull’algoritmo[79]?
Sono interrogativi ai quali oggi non è possibile ancora fornire una risposta certa per il velo di ignoranza che ricopre le pieghe che assumerà un futuro AI-jurisdicional process; ciò non esclude, anzi rafforza l’auspicio che gli algoritmi restino dentro quei principi inviolabili della Costituzione, come tali immodificabili[80] e non negoziabili per il solo fatto che modelli di intelligenza artificiale pretendono di cambiare l’etica, l’epistemologia, la natura del giusto processo e della difesa tecnica, di cui l’avvocato deve restare il reale dominus, nonostante già oggi, come detto, inizi a fare i conti con un processo non più esclusivamente umano.
3.1. Fuga dal contraddittorio?
L’istruttoria è una fase cruciale dei processi, non c’è che dire, non raramente ad alta tensione tra le parti e volta a tentare un riequilibrio di quella disparità che si è sempre atteggiata come un aspetto fisiologico ed insuperabile.
Eppure, l’art. 111 Cost. lega insieme contraddittorio e parità delle armi come un’endiadi, uno accanto all’altra. Qualsiasi decisione del giudice deve fondarsi su prove valutate in contraddittorio e introdotte nei processi dalle parti, alle quali i codici di rito assegnano una molteplicità di mezzi di ricerca della prova che lasciano intendere una idea di parità da realizzare nella fase istruttoria e non tanto nell’ambito delle attività di indagine svolte dal Pubblico Ministero o nella selezione di ciò che l’attore o il ricorrente allegano agli atti introduttivi dei giudizi civili[81].
È stato infatti rilevato che la parità delle armi “non può distruggere la diversità di posizione iniziale, derivante dal fatto che la invocazione del giudice proviene non da tutt’e due le parti insieme, ma da una parte che colla proposizione della domanda prende volontariamente l’iniziativa del processo contro l’altra parte che senza sua volontà si trova coinvolta nel rapporto processuale ed è costretta a subirne gli effetti”[82]; tanto è vero che nel processo penale emerge con forza una “disparità vantaggiosa”[83] a favore del Pubblico Ministero che gode di una sostanziale segretezza nel corso delle indagini preliminari, ove il contraddittorio è pressoché inesistente, salvo quelle fasi in cui il disvelamento di un procedimento a carico dell’imputato è dovuto per l’esecuzione di atti garantiti o in caso di istanza per lo svolgimento dell’incidente probatorio.
Insomma, la parità delle armi è svincolata da qualsivoglia aspetto legato alla natura della prova. Piuttosto, ciò che la Costituzione pretende essere «pari» è la modalità di accertamento, in condizioni di eguaglianza[84], di quanto gli elementi probatori possano essere rilevanti per giungere a quel fine «primario [e] ineludibile»[85] che corrisponde alla verità processuale, alla «realizzazione della giustizia che […] fra l’altro vale ad assicurare l’esercizio di tutte le libertà»[86]. In una tale dimensione, «la potestà effettiva dell’assistenza tecnica e professionale nello svolgimento di qualsiasi processo, [assicura] il contraddittorio [affinché] venga meno ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti»[87]. Il patrocinio del difensore, in altre parole, è volto al temperamento e al riequilibrio delle situazioni di svantaggio nel processo, attraverso la “contrapposizione paritetica fra i soggetti in causa”[88].
Il contraddittorio è salvo nella misura in cui si svolge in condizioni di parità, il che significa che su un elemento probatorio si snoda “un’adeguata gamma di poteri paralleli, che mirano alla realizzazione piena del contraddittorio”[89], considerato come “quel gioco di interventi alternati o contestuali, quell’andirivieni di domande e di repliche, di asserzioni e negazioni che costellano l’iter del processo, guidandolo verso la fine”[90] che assicurano la «difesa in giudizio, cioè davanti ad un giudice, e con il debito procedimento legale»[91].
Insomma, il contraddittorio espresso dall’art. 111, comma 2 Cost., è fondato sul principio dell’audiatur et altera pars[92], salvo l’insieme dei procedimenti sommari che, tuttavia, godono di una efficacia limitata e non si sottraggono, nelle diverse forme e nei diversi riti, ad un approfondimento cognitivo più ampio e volto a verificare i presupposti che hanno indotto il giudice a pronunciarli, mantenendo così fermo il metodo di formazione dialettico della prova.
Il contraddittorio è garanzia della parità delle armi nei processi che, a prescindere da una qualificazione “forte o debole”[93], si manifesta nel prisma delle modalità con cui i codici di rito riservano al giudice, da un lato, i poteri ex officio o su istanza di parte per l’acquisizione delle prove, dall’altro, la piena discrezionalità sulla valutazione delle medesime, a condizione che il confronto tra par(t)i sia stato «pieno [ed] effettivo»[94], comunque non al di sotto di quella soglia di adeguatezza che la Corte EDU pretende in ossequio all’art. 6, par. 3, lett. d), CEDU[95].
Che la possibilità di svolgere il contraddittorio su una prova di natura algoritmica non sia negata dalla svolta artificiale dei processi non vale a considerarlo rispettoso nel nucleo essenziale così come le Alte Corti lo hanno da sempre definitivo. Quanto può essere forte il contraddittorio davanti al presunto dogma dell’infallibilità, invero, sarà tutto da verificare.
Quale sarà il destino di quel profilo anche simbolico[96] del processo “antico e tradizionale, con le sue ritualità (esperienza e i tempi del processo, la presenza nelle aule del Tribunale, le condizioni concrete che determinano una prova)[97], a fronte della “razionalità matematica”[98] e “freddezza”[99] dei numeri? Ciò che esprime il testimone in udienza, innanzi al giudice, non è equivalente ad una decontestualizzata dichiarazione scritta; ciò che emerge attraverso una continua, e a tratti anche conflittuale, interazione di domande e risposte, così come l’ordine con il quale vengono poste, può diventare decisivo ai fini della risoluzione del processo.
Anzitutto, nella dimensione inedita di un AI-jurisdicional process, appare davvero molto arduo interrogare l’algoritmo e ricevere risposte diverse da quelle fornite attraverso l’elaborazione degli input selezionati ed inseriti dalle parti nell’algoritmo medesimo, poi chiamato a fornire un output attraverso la combinazione di elementi, non certo a giustificare o a motivare l’espressione di ciò che può essere considerato alla stregua di un parere tecnico-scientifico. Tuttavia, se l’intelligenza artificiale alla quale si è affidata una parte è assimilabile a ciò che tradizionalmente è definita dal codice di rito consulenza di parte, essa assume una rilevanza ben più significativa, non riducendosi a «mera allegazionedifensiva, di carattere tecnico, priva di autonomo valore»[100] per essere in grado di schiacciare la difesa della controparte non artificialmente intelligente, ovvero a determinare l’esito della valutazione sulla colpevolezza dell’imputato.
La sorte del processo, dinanzi ad un contraddittorio privo di senso rispetto ad una verità assoluta espressa dall’algoritmo, sarebbe decisa a priori e in assenza di qualsivoglia forma dialettica.
Il contraddittorio resterebbe, dunque, stretto nella morsa di dati, né più e né meno di quanto avviene in tutti quei processi di accertamento negativo del credito, nei quali il giudice si limita a prendere atto dei risultati espressi da mere formule matematiche.
A seguito dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, lo spazio di manovra del giudice è ridotto, e la difesa delle parti surrogata dall’ipse dixit dell’algoritmo.
Quanto potrà incidere l’abilità oratoria di un avvocato nel contraddittorio, spesso decisiva nelle fasi finali dei processi, sulla posizione assunta dal giudice a seguito della lettura dei dati algoritmici? Quanto peserà la preparazione giuridica del patrocinatore legale se sarà obbligato a rimettersi a quanto espresso dall’algoritmo? Poco o nulla.
Il ruolo dell’avvocato nella lettura del processo sarà limitato alla sola fase di studio e introduttiva, nella quale la propria abilità verrà comunque mortificata da un’attività legata alla sola scelta di ciò che inserire o non inserire nella macchina, magari provando diverse combinazioni di input fino a quando l’algoritmo non partorirà la migliore delle strategie difensive poi ratificate in un atto di citazione, in un ricorso, in una querela, in un’arringa.
Dinanzi ad un processo ipotecato ab origine, quanta credibilità potrà assumere la difesa tecnica, che per sua natura ha la funzione di “predisporre il giudice”[101] all’ascolto, invece di apparire ridondante per l’univoca ricostruzione che offrirà l’intelligenza artificiale, sarà tutta da verificare sul campo, nonostante l’esperienza insegni che, in particolare per quanto concerne il processo penale, la prova “ha un suo insopprimibile margine di indeterminatezza”[102] in grado di stravolgere la convinzione del giudice sul ragionevole dubbio che può condurre, secondo un apprezzamento esclusivamente soggettivo, alla condanna ovvero all’assoluzione dell’imputato. E questo profilo non può essere relegato nel dimenticatoio per non versare lacrime su errori giudiziari che hanno distrutto la vita di condannati innocenti.
L’aspetto maggiormente preoccupante di un processo che si svolge attorno agli algoritmi è l’annullamento di qualsivoglia forma di contraddittorio[103] e di una decisione frutto di un automatismo successorio privo di “emozione decisionale”[104], anzi anche pericoloso per l’assedio alle garanzie tradizionali dei processi, laddove, in esempio, l’utilizzo di captatori mnemonici[105] annienta il diritto al silenzio dell’imputato e colloca le testimonianze rese in una dimensione di verità assoluta, di fatto impossibile da superare o smentire, nonostante gli attori dei processi siano pienamente consapevoli che quando occorre stabilire se un certo comportamento sia da ritenersi morale, giusto, equo, ragionevole, opportuno, onorevole, conforme ai principi di diritto – e cioè quando sono in gioco dei valori – non è mai facile formarsi convinzioni aprioristiche in valore assoluto, e la giustizia giusta resta il più delle volte un miraggio, se non una vera e propria utopia.
3.2. Assuefazione all’algoritmo?
Il rischio di assecondare parametri metagiuridici attratti nel processo attraverso l’utilizzo di modelli di intelligenza artificiale fa comprendere ancor di più quanto siano in grado di essere disruptive gli algoritmi nella dimensione della giustizia così come tradizionalmente intesa, e rispetto ai principi generali di un giusto processo “esigente”[106] rispetto a quei pilastri trasfusi nell’art. 111 Cost.
L’intelligenza artificiale “basata sulla calcolabilità tecnica e sul principio dell’applicazione automatica, dovrebbe garantire certezza scientifica e contrastare una eccessiva discrezionalità nelle decisioni [nonostante] il pericolo dell’arbitrarietà”[107], semmai possa essere considerato tale quell’aspetto creativo e, per certi aspetti patologico, del diritto vivente.
In Italia, i giudici hanno progressivamente affinato una sensibilità sempre più marcata rispetto a quegli elementi decisivi che consentono una risoluzione delle controversie molto più agevole, ogni volta che l’oggetto del contendere si uniforma, ad esempio, ad un precedente giudiziale, riconoscendone a tratti una inusuale vincolatività, derivante invero non solo dagli organi giurisdizionali, ma dall’ordinamento giuridico positivo stesso[108], pur essendo i sistemi di common e civillaw ontologicamente diversi, così come pure il valore del precedente giurisprudenziale[109] è diverso nei due contesti.
Ciò dimostra come il ruolo del giudice sia cambiato e come tale figura si allontani sempre più dagli schemi tradizionali che lo vedevano quale bouche de loi, per finire talvolta schiacciato dal peso dei precedenti autorevoli di altri giudici, non per forza soltanto di quelli inappellabili pronunciati dalla Corte di Cassazione.
Per quanto qui di interesse, tocca prendere atto dell’esistenza di una sensibilità dei giudici nei confronti di qualcosa che va cristallizzandosi nel tempo e dal quale fanno fatica a svincolarsi, cosa che secondo alcuni rappresenta ancora oggi una grave patologia dell’ordinamento italiano.
Se riconduciamo questa sensibilità dei giudici all’avvento dell’intelligenza artificiale, in assenza di limiti applicabili al governo delle stringhe, non possiamo non porci il problema di quale atteggiamento i giudici possano assumere a fronte del mutamento radicale delle caratteristiche dei processi giurisdizionali, non potendosi escludere il rischio di un’assuefazione alle evidenze algoritmiche.
Va detto che in un ordinamento fondato sul principio di legalità e sulla soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.) non si tratta di una soluzione appagante, anzi la stessa può essere considerata una grave patologia perché si affida al giudice un ruolo che non gli appartiene, reclamando sempre più una sorta di razionalizzazione della funzione difensiva e giudiziaria per la carica virulenta assunta dai precedenti, ieri, e dall’algoritmo, oggi.
In uno stagno dalle acque già così torbide, viene gettato il sasso (anzi, il macigno) dell’intelligenza artificiale che conduce a ripensare il sistema complessivo, nel quale l’avvocato è chiamato a prendere coscienza dell’importanza del dato algoritmico in un futuro probabilmente legato ad uno stare decisis che esce dalle mura dei Tribunali e bussa alle porte degli studi legali. Non si tratta di scenari che si arrestano alla tecnica decisoria, anzi giocano in anticipo, influenzando la strategia degli avvocati, legando la predizione alla decisione, configurando una precostituita certezza a fronte di soluzioni modulate sulla singola fattispecie e vagliate case by case[110].
Se questa sarà la prospettiva, certo da prendere con un discreto livello di beneficio del dubbio, v’è da chiedersi se l’intelligenza artificiale esprima una regola, cioè un contenuto normativo. E se esprime una regola, qual è il grado del vincolo posto al processo? Dov’è il fondamento normativo che impone al giudice di seguire l’algoritmo per motivare una decisione, anche interlocutoria?
In sintesi, la riflessione giuridica sul tema non può sottovalutare almeno tre aspetti: l’obbligatorietà e il vincolo dell’algoritmo; il problema del ragionamento giuridico; il problema della giustificazione della decisione giurisdizionale.
Un caso deciso dal giudice è una combinazione di un insieme di aspetti: esiste una situazione di fatto nella quale possiamo distinguere diversi fattori che favoriscono l’una o l’altra parte, e l’una o l’altra conclusione. Il giudice, nel decidere il caso in un certo modo, ha stabilito che certi fattori presenti nel caso – quelli che favoriscono la decisione – sono sufficienti per giungere a quella conclusione, e inoltre prevalgono sui fattori contrari. Cioè, se abbiamo alcuni fattori (F1) che favoriscono una certa conclusione (C1) e altri fattori (F2) contrari alla conclusione (C2), il giudice decide per la conclusione (C1).
I fattori sono gli input da inserire nell’algoritmo.
Anzi, qualche attento osservatore della giustizia predittiva non esclude l’applicazione di formule matematiche all’art. 12 delle Preleggi, del tipo “IP: (IL±ILn) o (IR±IRn) o [IL=0=>(AL±Aln)] o [AL~0=(AI±Ain)], laddove IP corrisponde all’interpretazione di una data disposizione di legge; IL corrisponde all’interpretazione letterale ex art. 12 Preleggi; IR corrisponde all’interpretazione per ratio o teleologica ex art. 12 Preleggi; AL corrisponde all’interpretazione per analogia legis ex art. 12 Preleggi; AI corrisponde all’interpretazione per analogia iuris (principi generali dell’ordinamento giuridico) ex art. 12 Preleggi; ± corrisponde a più (somma) oppure meno (sottrazione), in dipendenza dal modello di interpretazione se volta ad affermare (+) oppure a negare (-); o corrisponde alla composizione che in matematica vuol dire applicazione di una funzione al risultato di un’altra funzione, ovvero più semplicemente la composizione è una forma di miscelamento (non corrisponde alla somma aritmetica) tra più dati; => corrisponde al significato se … allora (IL=0=> vuol dire se IL è uguale a 0, allora…); ~ corrisponde al significato di circa; n è una variabile corrispondente al numero di possibili interpretazione del medesimo tipo”[111].
Ed allora, l’insegnamento che l’avvocato trae da un processo decisionale così inusuale è che, in assenza di fattori contrari, i fattori favorevoli sono sufficienti a determinare la conclusione C1, e se i fattori che hanno determinato la conclusione prevalgono sui fattori in contrasto, si ha quella conclusione C1 e non una diversa conclusione C2.
Insomma, la strada della strategia difensiva appare segnata ab origine perché con l’algoritmo si concretizza la pretesa di conoscere l’esito di un processo.
L’intelligenza artificiale appare agli occhi dei manovali del diritto come un Prometeo scatenato, un Titano a cui lo Stato tecnologico ha sciolto le catene di Efesto e ha iniettato – alla luce dell’esplosione di una magnificente “regola imperativa”[112] dettata dagli algoritmi – nuovo ius. Come Ulisse liberato, il giudice sarà attratto sempre più dalle fascinazioni suadenti dell’intelligenza artificiale in un futuribile AI-jurisdicional process, dove il suo ruolo rischia di atteggiarsi alla stregua di supplenza giudiziaria, invero antitetica al precetto della soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.), e difforme rispetto al sistema e al telaio costituzionale interno che si fonda anche sul principio di legalità.
L’insegnamento da trarre per quanto concerne un probabile atteggiarsi dell’intelligenza artificiale come precedente dogmatico, in prospettiva di una risoluzione piuttosto certa delle controversie, è che non può ammettersi una integrazione senza limiti tra la rielaborazione dell’algoritmo e la previsione degli scenari processuali futuri.
Spetterà certo al giudice il governo sapiente degli effetti indotti nei processi giurisdizionali, almeno sotto tale profilo, da parte dell’intelligenza artificiale, tenendo conto (e come non si poterebbe) dei cardini oltre i quali la funzione giudicante travalicherebbe il sistema imposto dalla Carta costituzionale e fondato sul rispetto del “nucleo irrinunciabile di ogni processo”[113] espresso dagli artt. 24, 25, 101 e 111 Cost.
L’avvocato, al pari del giudice, naviga in una lingua di mare tra due sponde strette: da un lato, deve cogliere la migliore strategia difensiva, dall’altro, duellare con il precedente algoritmico; e sono veramente stretti gli spazi difensivi del singolo avvocato, perché, in base ai futuri modelli processuali fondati sull’intelligenza artificiale, non sarà più la tecnica difensiva a confrontarsi con il testo della legge, alla ricerca di una norma reale. La tecnica difensiva, difatti, smarrirà la bussola dell’art. 12 delle Preleggi. Al suo posto, nuovi modelli di omologazione di attività difensiva e interpretazione avanzeranno unitamente ad un’idea di conformismo giudiziario orientato dall’intelligenza artificiale.
Quale sarà il destino della riserva di legge se agli algoritmi sarà assegnato il compito di determinare la rilevanza penale dei comportamenti? Quesito, questo, cruciale se si considera che la riserva di legge medesima e il principio di legalità restano imprescindibili presidi per “contenere la discrezionalità degli organi del potere giudiziario, in nome dell’eguaglianza di trattamento dei cittadini, vincolando i primi a convogliare l’accertamento sostanziale ad essi dedotto, ovvero il giudizio, entro una griglia democraticamente predeterminata (sia pure in modo non asfissiante) di forme, scansioni temporali, chance di ricerca di elementi di fatto, ecc., uniforme per tutti gli utenti, a prescindere dalle differenti qualità soggettive delle parti interessate e dai mutevoli termini oggettivi della controversia”[114]. Argini la cui tenuta, dunque, sarà tutta da verificare.
3.3. Declino delle impugnazioni?
La riflessione sulle possibili ricadute delle applicazioni algoritmiche nei processi, nell’esclusiva correlazione con la figura dell’Avvocato, non può che concludersi con le impugnazioni.
Se, come si è tentato di evidenziare, il dogma dell’algoritmo costringe il giudice a seguirne l’impostazione, così da far sembrare la sentenza figlia di un automatismo slegato da ogni incursione soggettiva nella motivazione, quale potrà essere il livello di aspettativa dell’accoglimento di un gravame?
Su questo terreno va necessariamente posta una distinzione tra il giudizio di appello e il ricorso per Cassazione, per la natura ontologicamente diversa dei due processi, da cui deriva che soltanto il primo può configurarsi quale vero e proprio judicial review, a differenza della cognizione innanzi alla Suprema Corte, la quale è legata ad una valutazione delle violazioni di legge anche nei casi in cui l’art. 384, comma 2, c.p.c. le riserva certamente la possibilità di entrare nel merito della questione, ma esclusivamente per motivi di diritto che non richiedano nuovi accertamenti di fatto[115], tanto di norme sostanziali quanto di norme processuali[116].
In questa sede e nel momento in cui scrive non sono ancora maturi i tempi per offrire, con un sufficiente grado di certezza, un ventaglio quantomeno esaustivo delle violazioni di legge commesse dal giudice e/o indotte dall’algoritmo, dovendosi verificare in futuro sul campo quali possano essere le questioni che la Corte di Cassazione riterrà di poter e dover affrontare senza chiudere la porta dell’ammissibilità.
Ciò che può rilevarsi, allo stato dell’arte e in prospettiva futura, è chi si tratterà di una pronuncia rivolta non alle risposte fornite dall’algoritmo, quanto piuttosto alle caratteristiche dell’algoritmo e alle modalità di acquisizione della prova.
Nel primo caso, non è remota l’ipotesi che la Cassazione possa considerare fuori dalle ordinarie (e legittime) modalità di acquisizione della prova, quegli elementi di natura algoritmica prodotti da modelli incoerenti con i principi espressi dal Consiglio di Stato con le sentenze nn. 8472, 8473, 8474 del 2019, oppure attraverso atti di ufficio o di parte che rendono la prova inutilizzabile per essere stata acquisita al di fuori della disciplina legale.
In questo caso, nulla vi è da aggiungere rispetto al tradizionale modello di giudizio fondato sui parametri ex artt. 115 e 116 c.p.c. e 191 c.p.p.
Da una prospettiva diversa, si tratterà di sanzionare una modalità di lettura della prova che non ha tenuto conto dei principi guida elaborati dalla giurisprudenza, in assenza dei quali l’algoritmo stride altresì con le regole del contraddittorio nella formazione della prova, considerato che l’assenza di trasparenza dei processi algoritmici obbliga i difensori a condurre un’istruttoria al buio, senza conoscere i fondamenti e le ragioni alla base del risultato espresso dall’algoritmo utilizzato.
Discorso a parte va riservato ai giudizi di secondo grado, nei quali l’avvocato è chiamato a gettare il cuore oltre l’ostacolo, non limitandosi ad offrire una prospettazione diversa da quella fornita dall’algoritmo utilizzato in primo grado, quanto piuttosto a leggere tra le righe degli input, comprendere il perché la rielaborazione delle stringhe di quel modello di intelligenza artificiale sia stata in grado di produrre un risultato sfavorevole alla parte rappresentata, spingendosi finanche a provare l’incoerenza tra l’algoritmo utilizzato e l’oggetto del processo.
Non è un compito semplice, pur essendo questi (al momento) gli unici viatici tramite cui il difensore può penetrare nelle pieghe dell’algoritmo ed esprimere una posizione fondata su una valutazione soggettiva circa le ragioni per le quali alcuni input sono stati estromessi e altri invece sono da ritenersi superflui, vagliando se quel modello di intelligenza artificiale era idoneo, o meno, ad esprimere una valutazione sull’oggetto del processo, volta a rimettere in discussione la decisione di primo grado.
Insomma, cambia radicalmente l’oggetto dell’appello perché l’attenzione si sposta sulla valutazione del grado di affidabilità e del corretto utilizzo da parte degli attori del processo[117] di tali strumenti, restando sullo sfondo le ragioni che hanno mosso il giudizio di primo grado e che in realtà sono quelle che pretendono giustizia in secondo grado.
Il giudizio di appello, non diversamente da quanto accade in primo grado, finirà per mutare geneticamente in giudizio sull’algoritmo.
Ora, se la questione prospettata dal difensore sarà fondata su motivi di appello legati al processo decisionale algoritmico, la Corte sarà chiamata ad offrire una propria posizione al pari di come avviene nel processo decisionale, utilizzando il medesimo algoritmo e sottoponendolo ad una sorta di stress-test, edulcorando o aggiungendo quegli elementi che l’appellante riterrà essere stati omessi o considerati rilevanti dal Giudice di prime cure quando, al contrario, gli stessi andavano a monte estromessi dalla funzione di input.
Diversi i casi della valutazione della coerenza dell’algoritmo con l’oggetto del contendere, ovvero se, attraverso l’appello e nelle more della pronuncia di primo grado e il giudizio di secondo grado, sopraggiungeranno aggiornamenti al softwaredell’algoritmo utilizzato, tali da smentire la posizione espressa in primo grado alla quale il giudice aveva intanto aderito
Entrambe le ipotesi richiedono, tuttavia, tanto un’approfondita conoscenza dei modelli di intelligenza artificiale da parte del Collegio, quanto un investimento economico non indifferente che si riverbererà anche sul bilancio dello Stato sul quale non potranno che gravare i costi di adeguamento della giustizia per collocarsi in una posizione almeno pari rispetto a quelle parti dotate di una potenza economica significativa tanto da potersi permettere l’intelligenza artificiale di ultima generazione, in ogni caso, va detto anche questo, non immune da errori[118].
Non è remoto, dunque, il rischio di un giudizio di appello appannaggio di quella parte economicamente dominante qualora lo Stato non sarà in grado di opporre, nel confronto tra algoritmi, modelli di intelligenza artificiale certificati che godranno di altissimo livello di credito tra la comunità scientifica di riferimento.
Ciò, tuttavia, comporterà ulteriori conseguenze inusuali per i processi: in primo luogo, la parte economicamente debole e non in grado di reperire sul mercato l’algoritmo di ultima generazione sarà destinata a soccombere anche in appello. In secondo luogo, dinanzi all’inerzia non volontaria della parte di rivolgersi all’intelligenza artificiale procurandosi un algoritmo, vi sarà da chiedersi si i giudici (e in particolare la Cassazione), manterranno fede a quell’orientamento che considera esplorativa quella consulenza tecnica d’ufficio non supportata da elementi tecnici idonei a indurre i giudici stessi ad ammetterla.
E, infine, dinanzi a tutte queste incognite che non sono solo attinenti ai giudizi di appello, potendosi manifestare anche all’origine di qualsivoglia contenzioso, quanta preparazione e coraggio avrà bisogno l’avvocato per intraprendere un percorso processuale dai confini nebulosi, dalle prospettive incerte e dai costi ingenti? Già la riforma Cartabia ha imposto una stretta significativa sul contenzioso, allargando il perimetro delle inammissibilità e rafforzando – in modalità alquanto discutibili – le Alternative Dispute Resolution. Dinanzi ad un ulteriore salto in avanti della natura dei processi, probabilmente, sarebbe il caso di non fidarsi troppo delle magnifiche sorti dell’intelligenza artificiale, continuando piuttosto a riporre fiducia nella qualità della difesa tecnica, pur riconoscendo che l’utilizzo degli algoritmi nei processi, per quanto possa auspicarsi il più ridotto possibile, sarà quanto prima una realtà dell’ordinamento giuridico interno.
Insomma, non è remoto il “rischio della standardizzazione decisoria: difatti, se si ritiene che una causa abbia un basso livello di successo perché contraria a molti precedenti, allora nessuno proporrà tale causa, con la conseguenza di frustrare la spinta naturalistica all’evoluzione del diritto”[119] ogni volta in cui la ragionevole previsione di soccombere porterà l’avvocato a fermarsi davanti a ciò che “non possunt commovere”[120].
4. L’intelligenza artificiale e la deontologia forense: dovere di competenza tecnologica o avvocato specialista?
Il diverso modello processuale fondato su schemi algoritmici sollecita un’ulteriore riflessione strettamente legata ai requisiti preliminari di competenza tecnica richiesti dalla legislazione vigente e dal codice deontologico (d’ora in avanti c.d.) per l’esercizio della professione forense.
L’obbligatoria iscrizione negli albi professionali (art. 5, c.d.) presuppone quella «specifica qualificazione professionale»[121] accertata mediante il rilascio dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, previo svolgimento del periodo di pratica (art. 43, legge n. 247/2012).
Assume rilevanza l’adeguata formazione professionale, uno dei cardini della Carta dei principi fondamentali dell’Avvocato Europeo[122] e della Nuova disciplina sull’ordinamento della professione forense (legge n. 247/2012) che dedica numerose disposizioni al percorso di aggiornamento dell’avvocato, affidando alla responsabilità personale «il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale» (art. 11, comma 1), e riservando ai Consigli distrettuali ampia autonomia organizzativa tanto sulle modalità di erogazione dei corsi (art. 11, comma 4, e art. 29, comma 1, lett. d)) – anche in convenzione con enti di ricerca e Università, altresì beneficiando di fondi assegnati dalla Regione (art. 11, comma 5) – quanto sulla verifica (art. 29, comma 1, lett. i)) del possesso dei requisiti.
Nulla di diverso da chi aveva già posto l’attenzione sull’importanza dei requisiti di qualificazione professionale, dell’apporto al processo fornito dalla sua “qualificata esperienza, in tutte le fasi processuali, in cui la piena e regolare instaurazione del contraddittorio sugli elementi di prova che concorrono a formare il convincimento del giudice sia cruciale per l’esito del giudizio”[123].
Nel prisma dei doveri di deontologia, una tale disciplina rappresenta, allo stesso tempo, presupposto della preparazione tecnico-scientifica e idoneità competenziale dell’avvocato, chiamato ad adoperare gli strumenti innovativi che la tecnologia gli offre, al pari di ogni altro “attore del processo”[124], sia per non soccombere innanzi al presunto dogma dell’infallibilità dell’algoritmo, sia per non andare incontro a violazioni concernenti la responsabilità professionale.
Ebbene, in assenza di una disciplina normativa esplicita, il ricorso a strumenti di intelligenza artificiale espone l’avvocato ad una responsabilità simile a quella prospettata nella misura in cui si avvale di collaboratori nell’ambito dell’attività professionale prestata in favore di un cliente? L’introduzione di strumenti di intelligenza artificiale aumenta il grado di diligenza professionale? Fino a che punto l’avvocato risponde al proprio cliente per un mancato utilizzo, un errato utilizzo, o un utilizzo inidoneo di algoritmi?
Benché all’avvocato non siano richieste competenze pari a quelle di un ingegnere informatico e non vi sia norma, allo stato attuale, che formi un cappio attorno all’attività forense, il patrocinatore non potrà prescindere dall’acquisizione di basi conoscitive moderate in ambito informatico: saper riconoscere il valore legale e la rilevanza giuridica di una sottoscrizione digitale, saper distinguere tra le diverse tipologie di documenti informatici, conoscere la modalità di elaborazione dei dati di un software che utilizza un sistema predittivo di intelligenza artificiale, essere in grado di inserire correttamente gli input che l’intelligenza artificiale è chiamata ad elaborare, sono competenze già in parte richieste per esercitare la professione forense e che, a maggior ragione, saranno imprescindibili un domani.
Il legame tra gli strumenti di legal tech e la responsabilità del Cyber-lawyer rileva rispetto agli obblighi del professionista nei confronti del proprio cliente, la violazione dei quali può essere fonte di responsabilità civile (art. 2229 ss. c.c.), ovvero disciplinare (artt. 4, 14, 15 e 27 c.d.).
Da un lato, la professione legale si caratterizza per l’autonomia e l’indipendenza dell’azione professionale e del giudizio intellettuale (art. 3, comma 1, legge n. 247/2012). Dall’altro, proprio da tale attività può derivare la responsabilità disciplinare per la mancata osservanza di quelli che sono i doveri e le regole di condotta stabiliti dal codice deontologico forense, dalla legge, dalla coscienza e dalla volontarietà delle azioni o delle omissioni (art. 4 c.d.).
Pertanto, qualsiasi tipo di atto che sia contrario ai doveri di condotta che gravano sugli avvocati è suscettibile di sanzione, benché il patrocinatore abbia per errore ritenuto che l’atto da lui compiuto non fosse professionalmente idoneo a violare anche una delle norme poste a tutela della parte assistita.
E così, la scelta di non usufruire degli strumenti di intelligenza artificiale, pur nella libera disponibilità del difensore, ovvero un utilizzo malaccorto degli algoritmi, quand’anche non configurasse responsabilità professionale, sarebbe già di per sé fonte di responsabilità disciplinare[125].
La conclusione di un contratto di prestazione d’opera intellettuale[126] comporta infatti l’esecuzione personale dell’obbligo assunto (art. 2232 c.c.), salvo avvalersi dell’ausilio e della collaborazione di altri soggetti. In questi, casi l’avvocato risponde rispetto all’attività da essi prestata (art. 7, c.d.), pur valutando la graduazione della diligenza (art. 2236 c.c.) che il codice pretende adeguata a quella che è la natura del magistero prestato.
Il grado minimo di colpa richiesto per il verificarsi della responsabilità, in generale e nella maggior parte dei casi, è quello della colpa lieve, salvo che non si abbia a che fare con delle questioni nelle quali emergono problemi tecnici di speciale complessità, nelle quali rileva, eccezionalmente, la colpa grave.
La valutazione della colpa è legata alla particolare difficoltà della prestazione, e cioè delle circostanze del caso concreto, sulla scorta dell’ampio criterio dettato dalla diligenza professionale ex art. 1176 c.c. che coniuga «due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiustificate rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista» (art. 917 Relazione al codice civile).
La fattispecie dedotta dall’art. 2236 c.c., che prevede una limitazione di responsabilità nei soli casi di dolo o colpa grave per il prestatore di opera professionale, non può trovare un’applicazione generalizzata per ogni attività svolta con l’ausilio dei dispositivi intelligenti, poiché presupposto indefettibile per l’applicazione concreta di detto precetto codicistico, come è noto, è che la prestazione richiesta al professionista implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà.
Così, se l’utilizzo di macchinari mossi da intelligenza artificiale non necessariamente implica la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità, rivolgendosi anzi alla risoluzione di mere questioni routinarie o ripetitive, a dispetto delle peculiarità di controversie distinte che pretendono una prestazione legale “su misura”[127], vi sarebbe in teoria poco spazio per l’elemento soggettivo della colpa grave, residuando semmai un margine per la colpa lieve[128].
Ciononostante, sotto un altro punto di vista, la legge forense e il codice deontologico potrebbero collocarsi in una direzione diversa.
L’art. 4 c.d. è volto a garantire la qualità della prestazione, unitamente al dovere di competenza (artt. 9, comma 1, e 14 c.d.) e di formazione continua (art. 15 c.d.). Le conoscenze giuridiche in una dimensione professionale prettamente telematica non sono più sufficienti da sole a consentire l’esercizio dell’attività forense. Le nozioni strettamente giuridiche devono coniugarsi alla conoscenza tecnologica: chi, oggi, non è in grado di compiere un deposito telematico o una notifica ai sensi dell’art. 3-bis, legge n. 53/1994, chi non conosce la differenza tra una copia informatica e un duplicato informatico, chi, un domani, non sarà nelle condizioni di governare gli strumenti messi a disposizione dall’intelligenza artificiale, difficilmente può sottrarsi a profili di responsabilità professionale (o anche civile, in caso di danni provocati) legati ad una dolosa o colposa indifferenza da parte dell’avvocato allo sviluppo tecnologico.
È questo il significato più profondo del dovere di aggiornamento professionale e di formazione continua (art. 15, c.d.) che impone all’avvocato di essere costantemente alla ricerca della perfezione, o comunque di assumere nuove competenze.
Insomma, un vero e proprio dovere di competenza tecnologica fondato sull’affidamento che il cittadino ripone in una figura prestata a garanzia dell’«effettività della tutela dei diritti» (art. 2, comma 1, legge n. 247/2012) che poggia su uno degli architravi della professione forense.
In mancanza di «competenza» (art. 3, comma 2, legge n. 247/2012), l’avvocato non può che astenersi dall’assumere la difesa tecnica, dal momento che “nemo potest de ea re, quam non novit, non turpissime dicere”[129], essendo obbligato ad assicurare «la qualità della prestazione professionale» (art. 12 c.d.) e a comunicare «l’esistenza di circostanze impeditive per la prestazione dell’attività richiesta» (art. 24, comma 4, c.d.) pure non strettamente legate a profili concernenti il solo conflitto di interessi, e connesse al grado di conoscenza dei modelli di intelligenza artificiale che possono rilevare in una particolare controversia o venire in rilievo nel corso dei processi.
Ipotizzare l’esclusione dal novero delle competenze di quelle relative alla tecnologia non è più sostenibile. Conoscere le modalità con cui la tecnologia si è attestata, i linguaggi algoritmici, i sistemi di traduzione, l’affidabilità dei software, diventerà il bagaglio minimo di conoscenze da integrare, certo da non sostituire, all’armamentario gnoseologico di un Cyber-lawyer che dallo stesso dovrà essere capace di carpirne i benefici e di aggirarne i rischi.
In questo contesto assume rilevanza il dovere di informazione (art. 27 c.d.) nella duplice funzione del diritto del cliente ad essere consapevolmente reso edotto delle potenzialità e dei rischi dell’intelligenza artificiale, ma anche della necessità di temperare una responsabilità del professionista che rischia di essere incontrollata e facilmente utilizzabile come grimaldello per ottenere il ristoro negato nel processo ordinario.
Tra l’altro, al momento del conferimento dell’incarico, sono posti dei doveri preliminari in capo all’avvocato tali da escludere la prospettazione di tesi difensive irragionevoli o palesemente infondate e volte ad evitare «azioni inutilmente gravose» (art. 23, comma 4, c.d.). «comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o fraudolenti» (art. 23, comma 6, c.d.).
Sono disposizioni legate da un nesso funzionale volto a salvaguardare il diritto del cliente di essere assistito da un professionista obbligato, da un lato, a mantenere l’alta qualità di servizi offerti, dall’altro, a non accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza.
Ora, quanto la competenza debba essere adeguata in relazione al livello di complessità degli algoritmi giudiziari è un’ulteriore questione controversa legata all’assenza di un obbligo di specializzazione, essendo il conseguimento del titolo di «specialista» (art. 9, legge n. 247/2012) lasciato alla piena discrezionalità del professionista, con l’unico limite nel massimo di due materie nella scelta.
Tra le materie oggetto di facoltà specializzanti ex art. 3, d.m. 12 agosto 2015, n. 144 (Regolamento recante disposizioni per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista, a norma dell'articolo 9 della legge 31 dicembre 2012, n. 247) ve ne sono due che riecheggiano competenze legate all’intelligenza artificiale e indicate rispettivamente all’art. 3, comma 3, lett. g) (diritto dell’innovazione tecnologica) e comma 4, lett. g) (diritto penale delle nuove tecnologie). Allo stesso tempo – e ciò rappresenta un elemento di debolezza del regolamento attuativo della legge forense – non vi è traccia di indirizzi caratterizzanti nell’ambito del diritto amministrativo, nonostante sia proprio la dimensione pubblica ad essere stata attratta originariamente dall’applicazione di algoritmi.
A fronte dell’omesso obbligo, a parere di chi scrive, la procedura di accertamento dei criteri minimi di competenza – al di sotto dei quali all’avvocato non è consentito fregiarsi di una specializzazione – appare informata a criteri valutativi ragionevoli sia nella scelta della commissione (art. 6, comma 4, d.m. n. 144/2015) che nella valutazione dei presupposti di idoneità (artt. 6. 7, 8, d.m. n. 144/2015), la cui sopravvenuta assenza comporta la revoca del titolo (art. 12 d.m. n. 144/2015).
Ora, posto che non può mettersi in dubbio un dovere di adeguata competenza dell’avvocato, ciò che manca in questa sorta di statuto sul dovere di competenza professionale è un vero e proprio obbligo di formazione specializzata in nuove tecnologie, laddove può prevedersi, con un sufficiente grado di certezza, che gli algoritmi incideranno significativamente in tutti gli aspetti della professione forense, nella cui dimensione, a tutela dell’affidamento di chi invoca il ristoro dei diritti fondamentali lesi o negati, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c), legge n. 247/2012, l’avvocato deve “portare qualche aiuto alla causa, ma se non è possibile, almeno non danneggiarla”[130].
Dopotutto, non v’è alcun dubbio che “se si vuole assicurare la parità delle armi tra accusa e difesa, il terreno su cui bisogna lavorare, ragionando degli avvocati, è anzitutto quello della qualità professionale che andrebbe elevata”[131] al massimo grado, perché delicata è la funzione sociale e giuridica che la Costituzione riserva ad essi, seppur indirettamente, attraverso l’art. 24 Cost.[132].
5. Il Cyber-lawyer in un prossimo (ma già attuale) AI-jurisdicional process, tra previsione e predizione.
È questo lo scenario, per qualcuno “irrealistico”[133], nel quale l’avvocato sarà chiamato a prestare il proprio magistero, inimmaginabile per molti a cagione del cambiamento radicale di paradigma rispetto a quando la norma da interpretare era legata ai segni dei tempi, non “contestata e sradicata”[134] da una riproduzione formale di dati che estromette, in gran parte, quella funzione interpretativa anche sotto forma di sollecitudine al mutamento giurisprudenziale volto ad adeguare la normativa ai tempi che cambiano[135].
Il ricco patrimonio delle antiche arti non sempre può apparire coerente con la futuribile concezione dei processi.
Al di là dei profili attinenti alla dimensione strettamente processuale, come l’atteggiamento del giudice nei confronti dei dati elaborati dagli algoritmi che penetrano nel giudizio, o le questioni di carattere per lo più organizzativo, lo scenario tratteggiato induce ad immaginare una professione forense meno libera, più meccanica e più complessa.
Diventerà meno libera per il vincolo al dato algoritmico che la strategia difensiva si trova a dover prendere in considerazione.
Diventerà più meccanica per il solo fatto che anche l’avvocato sarà obbligato a conoscere e utilizzare gli strumenti di intelligenza artificiale per efficientare la sua professione. E non soltanto dal punto di vista di mera ricerca e di studio, ma muovendo da una logica di risultato, con il rischio di una mutazione genetica dell’attività legale da obbligazione di mezzi a obbligazione di risultato per la “promessa di giustizia […] che dovrebbe fornire previsioni attendibili circa le future decisioni di giudici o l’attività coronata da successo di avvocati e studi legali”[136].
Diventerà più complessa per la difficoltà di smentire l’algoritmo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione.
Sono prospettive di cambiamento radicale del paradigma tradizionale dei processi giurisdizionali mascherate dietro la volontà di aziendalizzare[137] la giustizia rendendola più performante.
Purtuttavia, se l’obiettivo è quello di migliorare il sistema, non è consigliabile riservare gran parte dei processi decisionali alla tecnologia se non si vuole ridurre il diritto di difesa ad un “vano presidio formale che può ben poco nei confronti della controparte e dello stesso giudice”[138].
Quando l’interesse generale si manifesta con evidenza, ma il potere pubblico tende a prevaricare e a perdere quel profilo di giustizia, l’esigenza di salvaguardare i diritti delle persone e le garanzie costituzionali non arretrano, ma si rafforzano, per evitare che lo squilibrio tra posizione pubblica e posizione privata determini gravi ingiustizie a danno della seconda che si confronta con il potere punitivo pubblico anche (forse di più) se fondato sull’algoritmo.
Tra l’altro, diverse sono dunque le riserve mosse da scienziati, filosofi, sociologi, economisti, manager, giornalisti, sul rischio di fondo derivante dal delegare eccessivamente attività lavorative e cerebrali (essenza quest’ultima dell’essere uomo pensante) a macchine, così svilendo il ruolo dell’essere umano, del suo studio, delle sue capacità, del suo estro creativo, dei suoi talenti e, soprattutto, del suo buonsenso nel caso concreto, della sua etica, del suo libero arbitrio, della sua sensibilità e saggezza, del suo coraggio e, soprattutto, della sua coscienza, intesa quale regola comportamentale valorizzata in molti codici deontologici, e che consiste nella capacità di elaborare, con sensazioni interiori e non in modo neutro, le esperienze sensoriali, corporee, emotive e mentali che l’uomo esperisce, e di cui è priva l’intelligenza artificiale, che non può essere consapevole di nulla, né può ragionare coscientemente sulle sue esperienze[139].
Il processo non consiste sic et simpliciter nell’individuare la norma più tagliata al caso di specie, quanto in una combinazione tra più elementi, frutto di un processo interpretativo complesso di articoli, di contingenze storiche, di aspetti soggettivi, di gerarchia tra i precedenti. Si tratta di attività che rispondono a delle regole anche inconsapevolmente scelte per individuare la fattispecie astratta; valutazioni per lo più soggettive che diventa complesso assegnare alla macchina per una serie di elementi valutativi incoerenti con una valutazione predittiva oggettiva, come i rapporti tra i diversi precedenti, l’autorità che emette il provvedimento, la prossimità rispetto al caso deciso, il livello di analogia dei fatti concreti. Attività che mettono in tensione il dualismo tra la decisione della macchina e la decisione della persona. Ciò a maggior ragione in quei settori, come il diritto penale, dove la posizione fisico-soggettiva delle parti resta una fondamentale precognizione per la scelta della migliore strategia processuale. La fisiognomica, in un processo che vive continuamente di episodi, di colpi di scena, pretende la valutazione dell’esperienza umana dell’avvocato (ma anche del giudice), senza cedere alla tentazione di automatismi o di valutazioni meccaniche che si basano in gran parte sulla economia dell’esperienza.
L’intelligenza artificiale mette in discussione la dimensione simbolica, configurando il processo su una mera sommatoria di regole, e non sul contraddittorio tra parti, come invece espressamente richiede l’art. 111 Cost. Eppure, il processo, per esser giusto quando interviene sui diritti della persona non può non preservare la dimensione umana. Ed è questo un elemento che il legislatore deve tenere indenne nella futura regolazione di un processo artificialmente intelligente, anche per consentire all’avvocato di continuare ad essere protagonista e a non subire passivamente una decisione che non sarebbe in grado di contrastare nel primo grado, men che meno nei successivi.
Si tratta di questioni che ci pongono una serie di riflessioni più generali su come rendere questi sistemi di intelligenza artificiale compatibili con l’assetto costituzionale e con i principi costituzionali a cui l’ordinamento interno è legato, e che sono il cuore della difesa dei diritti dalla rilevanza normativa pregnante.
Nella prossima fase di reingegnerizzazione del processo, nel velo di ignoranza con cui ci si approccia a nuovi ed inusuali strumenti tecnologici, o l’avvocato resta protagonista in un contesto non privo di criticità[140], o sarà costretto a rimettersi alla clemenza dell’intelligenza artificiale, il che significherebbe abdicare quasi definitivamente alla funzione riconosciutagli dall’art. 24 Cost.
Che l’intelligenza artificiale possa migliorare l’uomo, non v’è dubbio, e tra l’altro ciò lo dimostrano le rivoluzioni tecnologiche che hanno consentito uno straordinario progresso[141]; di cui è possibile “rivelare”[142] potenzialità finanche nascoste.
Certamente, però, tali strumentazioni non possono sostituirlo.
Quantomeno un auspicio, allora: sia riservato al legislatore la piena signoria sulla scelta di quanta tecnologia deve essere iniettata nei processi, benché si lasci la persona umana nella piena capacità di governare l’intelligenza artificiale, allo stesso modo in cui l’uomo ha governato il cambiamento, cioè preservando l’umanità dei percorsi, “ispirandosi a quell’irrinunciabile umanesimo giuridico forense, che faccia del comune iter logico-procedurale compiuto da avvocati e giudice, nell’esercizio dei rispettivi ruoli istituzionali e quali che siano i mezzi espressivi (orali, scritti, telematici, o in corpore vili), il fulcro e il centro gravitazionale di quel tipico e dinamico actus trium personarum su cui il processo s’impernia, secondo metodologie di contrapposizione dialettica di tesi e antitesi sulla quaestio facti ben più e ben prima della quaestio iuris”[143].
[1] G. Zaccaria, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, Modena, Mucchi editore, 2013, p. 10.
[2] Per una rassegna, A. D’Aloia (a cura di), Intelligenza Artificiale e diritto: come regolare un mondo nuovo, Milano, Franco Angeli, 2020, A. Patroni Griffi (a cura di), Bioetica, diritti e Intelligenza Artificiale, Milano, Mimesis, 2023, L. Portinali, Intelligenza Artificiale: storia, progressi e sviluppi tra speranze e timori, in MediaLaws, n. 3/2021, p. 13 ss., U. Ruffolo (a cura di), Intelligenza Artificiale. Il diritto, i diritti, l’etica, Milano, Giuffrè, 2020.
[3] G. Ubertis, Intelligenza Artificiale e giustizia predittiva, in Sistema Penale, 16 ottobre 2023.
[4] F. Donati, Intelligenza Artificiale e giustizia, in Rivista AIC, n. 1/2020, spec. pp. 423-433.
[5] C. Napoli, Algoritmi, intelligenza artificiale e formazione della volontà pubblica: la decisione amministrativa e quella giudiziaria, in Osservatorio AIC, n. 3/2020, spec. pp. 343-352.
[6] Che, come riferisce F. Dal Canto, Articolo 24, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa e G.E. Vigevani, La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 166, è “necessario presupposto per la garanzia di tutti i diritti” per riconoscere ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio a difesa dei diritti fondamentali.
[7] Questa era la posizione assunta in Assemblea Costituente dall’On. Tupini.
[8] F. Pizzetti, Con AI verso la società digitale, in Federalismi.it, n. 23/2023, p. IV. In merito alla professione forense, parla di “cambiamento della visione conservatrice” R. Susskind, L’Avvocato di domani. Il futuro della professione legale tra rivoluzione tecnologica e intelligenza artificiale, trad. it. a cura di G. Bizzarri, Milano, 2019. Una “sfida” secondo A. Pajno, M. Bassini, G. De Gregorio, M. Macchia, F.P. Patti, O. Pollicino, S. Quattrocolo, D. Simeoli e P. Sirena, AI: profili giuridici. Intelligenza artificiale: criticità emergenti e sfide per il giurista, in BioLaw Journal – Giornale di BioDiritto, sezione on line first.
[9] G. Zaccaria, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, cit., p. 30.
[10] Si pensi, in esempio, alla funzione di difesa di diritti fondamentali frustrati nelle piattaforme digitali. Su tali aspetti, cfr. F. Paruzzo, I sovrani della rete. Piattaforme digitali e limiti costituzionali al potere privato, Napoli, ESI, 2022 e, in una prospettiva ancor più futuristica, se si viole, L. Di Majo, L’art. 2 della Costituzione e il “Metaverso”, in MediaLaws, n. 1/2023, pp. 35-65.
[11] Il patrocinio a spese dello Stato che, tuttavia, è limitato a fasce reddituali molto basse, 12.838,01 (aggiornato al decreto interdirigenziale del 10 marzo 2023 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 6 giugno 2023). La disciplina sulle spese di giustizia, nella quale è collocato anche l’accesso alla giustizia per i meno abbienti è il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nella parte in cui attua l’art. 24, comma 3, Cost.
[12] Dal 2020, l’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale del Politecnico di Milano ha stimato nel 2019 l’1% degli Avvocati che utilizzano sistemi di Intelligenza Artificiale, nel 2020 un surplus del 9% e nel 2021 e un + 2,9% nel 2022 (https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/osservatorio-professionisti-e-innovazione-digitale-polimi-176-mld-euro-spesa-digitale-38percento-AEPVbMkB).
[13] Sempre l’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale del Politecnico di Milano ha rilevato che “nelle spese in tecnologia il mondo degli studi professionali si presenta molto variegato. Le organizzazioni multidisciplinari continuano a investire mediamente più delle altre categorie, 25.060 euro, mentre la spesa digitale media dei consulenti del lavoro è pari a 11.950 euro, quella dei commercialisti 11.390 euro e quella degli avvocati 8.890 euro. Il 41% degli studi multidisciplinari investe più di 10.000 euro, contro il 34% dei consulenti del lavoro, il 23% dei commercialisti e solo l’11% degli avvocati. Quasi 7 studi legali su dieci investono massimo 3mila euro all’anno in tecnologie. La categoria legale è anche quella maggiormente in sofferenza per redditività, con solamente il 57% degli studi in positivo nel biennio 2021-2022, contro una media di oltre il 70% per le altre discipline” (https://www.osservatori.net/it/ricerche/comunicati-stampa/professionisti-innovazione-digitale-investimenti).
[14] P. Moro, L’Avvocato ibrido. Tecnodiritto e professione forense, in P. Moro e C. Sarra (a cura di), Tecnodiritto. Temi e problemi di informatica e robotica giuridica, Milano, Franco Angeli, 2017, p. 11.
[15] C.M. Christensen, M.E. Raynor e R. McDonald, What iS Disruptive Innovation?, in Harvard Business Review, n. 10/2015, pp. 46-53.
[16] R. Susskind, Tomorrow’s Lawyers? An Introduction To Your Future, Oxford, Oxford University Press, 2013.
[17] Cfr., sul punto, R. Trezza, La tutela della persona umana nell’era dell’intelligenza artificiale: rilievi critici, in Federalismi.it, n. 16/2023, pp. 277-305.
[18] G. Scarselli, La nostra giustizia, in marcia verso la common law, in Judicium, n. 8/2022.
[19] Per la distinzione tra modelli ordinamentali, cfr. A. Pizzorusso, (voce) Ordinamento giudiziario (dir. comp. e stran.), in Enc. Giur., Vol. XXI, Roma, 1990.
[20] Evidente in particolare nel processo penale, ove “la funzione del difensore deve essere non tanto quella di coadiuvare il giudice (né tantomeno il pubblico ministero) nella ricerca della verità, bensì essenzialmente quella di contrastare – nel rispetto delle regole processuali – la pretesa punitiva dello Stato, contribuendo così, seppure indirettamente, all’accertamento dei fatti ed a far sì che la sentenza risulti conforme a giustizia (A. Traversi, La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie, Milano, Giuffrè, 2014, p. 8). Su questi aspetti, cfr. altresì V. Vigoriti, Garanzie costituzionali del processo civile. Due process of la e art. 24 Cost., Milano, Giuffrè, 1970, spec. p. 25 ss. Ricorda P. Calamandrei, Processo e giustizia, in Rivista di diritto processuale, n. 1/1950, p. 150 che “il dialogo tra autorità e libertà passa anche attraverso le umili formule della procedura”. Ulteriormente, rileva L.P. Comoglio, Art. 24, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli, 1970, p. 51, “si volle, con il principio di inviolabilità di difesa, segnare una precisa direttiva al legislatore, garantendo, in termini lapidari e perentori, la presenza e l’esperimento attivo di tali istituto in qualsiasi stato e grado del giudizio e dinanzi a qualsiasi magistratura, nell’intento di cancellare gli abusi, le incertezze e le deficienze, che nel passato regime totalitario lo avevano vulnerato”.
[21] C. Punzi, Il “ministero” dell’Avvocato, in Rassegna Forense, n. 2/2009, p. 218.
[22] A. La Torre, L’Avvocatura, in Rassegna Forense, 2000, p. 37.
[23] Come rileva G. Alpa, L’avvocatura italiana al servizio dei cittadini, cit. Relazione di apertura al XXX Congresso Nazionale Forense. Genova, 25 novembre 2010, in Rassegna forense, n. 4/2010, p. 790.
[24] Si tratta di realtà solide nei Paesi anglosassoni, come fa notare R. Susskind, L’Avvocato di domani, cit., p. 13: “molti dei principali studi legali hanno creato dei centri di servizio low-cost ai quali affidare tutto il lavoro legale ripetitivo; i quattro principali studi di consulenza e revisione – i «Big 4» - hanno sviluppato enormemente le loro capacità legali globali; un’ondata di startup, ormai più di mille al mondo, ha travolto l’emisfero legale; l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale (IA) al mondo del diritto ha catturato l’immaginazione di innovatori in tutto il settore, dagli studi leader nel mercato a professori nelle scuole di diritto; in Inghilterra e Galles, entrambe parte del nostro sistema liberalizzato, sono state lanciate innumerevoli «strutture alternative di business» (Abs) che oggi sono più di cinquecento; organismi professionali, come il Canadian Bar Association, hanno pubblicato studi sul futuro dei servizi legali.
[25] G. Sposito, Dizionario di retorica: con elementi di linguistica, fonetica, stilistica e narratologia per l’oratore quotidiano Pesaro, Intra Edizioni, 2020 e A. Traversi, La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie, Milano, Giuffrè, 2014.
[26] G. Broggini, Cicerone avvocato, in AA.VV., Cicerone Oratore. Rendiconti del corso di aggiornamento per docenti di latino e greco del Canton Ticino, Lugano 22-23 settembre 1987, Lugano, Giampiero Casagrande editore/E.U.S.I., 1990, pp. 13-36 e A. Pierantoni, Gli Avvocati di Roma antica, Milano, Zanichelli, 1900.
[27] Una tale funzione è riconosciuta anche da C. Castelli e D. Piana, Giusto processo e intelligenza artificiale, Rimini, Maggioli, 2019, p. 36, i quali ritengono che la funzione classificatoria delle riviste giuridiche sarebbe implementata dalla tecnologia.
[28] Si v. M. La Torre, Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, spec. pp. 53-157.
[29] Anzi, come fa notare A. Tedoldi, Il giusto precesso civile: de profundis o palingenesi?, in G. Ferri e E. Lorenzetto (a cura di), Il giusto processo a vent’anni dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, Napoli, ESI, 2020, p. 123, “oggi agevolata da massime da massime giurisprudenziali e approfondimenti dottrinali molto più facilmente e rapidamente disponibili che in passato, grazie a banche dati e contributi consultabili in via telematica: anzi il materiale bibliografico è ormai pletorico e persino alluvionale”.
[30] A partire dalla ripresa dei processi, disciplinata originariamente dal d.l. n. 18/2020, in particolare dall’art. 83, e comunque in modalità ontologicamente diverse da quelle del processo tradizionale benché fondato su Polisweb, certamente, ma limitato al deposito degli atti processuali.
[31] Vi rientrano l’obbligo di pagamento telematico del contributo unificato (art. 221, d.l. n. 34/2020, c. 3), la trattazione scritta (c. 4), il deposito telematico dinanzi alla Corte di Cassazione (c. 5), l’udienza da remoto (cc. 6 e 7), il giuramento scritto del C.T.U. (c. 8) e l’udienza a porte chiuse (art. 23, c. 3, d.l. n. 137/2020), o la possibilità per il Giudice di celebrarla in luogo diverso da quella in cui è dislocato l’Ufficio Giudiziario. È altresì prorogata la norma che consente di tenere le udienze di separazione consensuale e quelle di divorzio congiunto mediante trattazione scritta, così come è prorogata alla stessa data la norma (art. 23, c. 8-bis, d.l. n. 137/2020) relativa alla decisione dei ricorsi per cassazione proposti per la trattazione in pubblica udienza, sostituita dall’udienza in camera di consiglio salvo che una delle parti o il Procuratore Generale faccia istanza di discussione orale, dinanzi alla Corte di Cassazione. Restava infine prorogata al 31 dicembre 2022 anche la disposizione contenuta nell’art. 23-bis d.l. 137/2021, relativa alle copie esecutive telematiche e l’estensione di tutte le ricordate disposizioni emergenziali, in quanto compatibili, agli arbitrati rituali (art. 23, co. 10, d.l. 137/2020).
[32] Parla di “svolta epocale” F. Pizzetti, Con AI verso la società digitale, in Federalismi.it, n. 23/2023, p. IV o di “mondo nuovo” A. D’Aloia, Il diritto verso “il mondo nuovo”. Le sfide dell’Intelligenza Artificiale, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 1/2019.
[33] Da ultimo, anche il processo costituzionale si è adeguato, benché soltanto con l’avvento della pandemia da Sars-Cov2 (Sul punto, cfr. M. Troisi, Processo costituzionale ed emergenza pandemica, in L. Di Majo e L. Bartolucci (a cura di), Le prassi delle istituzioni in pandemia, Napoli, Editoriale Scientifica, 2022.
[34] Cfr. i dati ufficiali del Ministero della Giustizia disponibili e consultabili in relazione a diversi periodi temporali su https://webstat.giustizia.it/Analisi%20e%20ricerche/Mediazione%20Civile%20-%20Anno%202022.pdf.
[35] Per le prime riflessioni, cfr. M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Rivista AIC, n. 3/2018, p. 872 ss., T.E. Frosini, L’orizzonte giuridico dell’intelligenza artificiale, in BioLaw Journal – Giornale di BioDiritto, on line first, F. Donati F., Intelligenza artificiale e giustizia, in Rivista AIC, n. 1/2020, V. Manes, L’oracolo algoritmico e la giustizia penale: al bivio tra tecnologia e tecnocrazia, in Dis-crimen, 15 maggio 2020, L. Rodio, Brevi riflessioni sul funzionamento e potenzialità dell’intelligenza artificiale in ambito giudiziario, in Amministrazione in cammino, 21 ottobre 2020.
[36] In esempio, in Brasile, il Tribunal Regional do Trabalho da 22ª Região, sta sperimentando la celebrazione delle udienze in modalità immersiva(cfr. https://www.gp1.com.br/pi/piaui/noticia/2022/6/6/juiz-jose-carlos-vilanova-e-classificado-para-o-premio-innovare-527077.html.).
[37] Ho espresso alcune perplessità in L. Di Majo, La sfida del Metaverso alla persona umana e ai diritti, in M. Rubino de Ritis, A. Fuccillo e V. Nuzzo (a cura di), Diritto e universi paralleli. I diritti costituzionali nel Metaverso, Napoli, ESI, 2023. In precedenza, dello stesso avviso, anche E. Mazzarella, Contro Metaverso, Milano, Mimesis, 2022.
[38] Per una descrizione più ampia del Metaverso, dal punto di vista giuridico, cfr. M. Rubino de Ritis, A. Fuccillo e V. Nuzzo (a cura di), Diritto e universi paralleli. I diritti costituzionali nel Metaverso, cit.
[39] https://rm.coe.int/carta-etica-europea-sull-utilizzo-dell-intelligenza-artificiale-nei-si/1680993348. Sono state anche emanate, quasi contestualmente, le Ethics Guidelines for Trustworthy AI dall’High Level Expert Group in data 8 aprile 2019. Cfr., sul punto, C. Barbaro, Uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari: verso la definizione di principi etici condivisi a livello europeo? I lavori in corso alla Commissione europea per l’efficacia della giustizia (Cepej) del Consiglio d’Europa, in Questione Giustizia, n. 4/2018, pp. 189-195, D. Messina, Le linee guida in materia di Intelligenza Artificiale: alla ricerca di un’“etica by design” nel nuovo scenario digitale, in De Iustitia, n. 2/2019, pp. 87-104 e S. Quattrocolo, Intelligenza artificiale e giustizia: nella cornice della Carta etica europea, gli spunti per un’urgente discussione tra scienze penali e informatiche, in Leg. pen., 2018 pp. 1-12.
[40] Testo grammaticalmente e sintatticamente riadattato alla formulazione della proposizione, di cui si è riportato, in corsivo, la modifica del considerando n. 40 da parte dell’emendamento n. 71.
[41] A. Papa, Intelligenza Artificiale e decisione pubbliche tra tecnica, politica e tutela dei diritti, in Federalismi.it, n. 22/2022, p. 102.
[42] P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali. La questione del metodo, in Journal of Ethics and Legale Technologies, n. 1/2019, p. 29.
[43] M.G Saia, G. Rocchi e A. Polini, Definizione di intelligenza artificiale nel documento licenziato dal Gruppo di Lavoro costituito dal Consiglio Nazionale Forense Intelligenza artificiale e giurisdizione, p. 8.
[44] V. Tenore, I robot in giudizio! Considerazioni sull’utilizzo di intelligenza artificiale (AI) da parte del magistrato: Abdicare al ragionamento e alla riflessione quotidiana a favore di un robot togato, ovvero un “cretino digitale” è un bene per la giustizia e per i suoi attori e destinatari?, in Rivista della Corte dei Conti, n. 4/2023, p. 8.
[45] Libro Bianco sull’intelligenza artificiale “Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia”.
[46] Per la prima volta in Italia, una controversia di natura lavoristica ha consentito all’ordinamento tradizionale di misurarsi con l’applicazione di strumenti legati all’intelligenza artificiale. Si è trattato di verificare la correttezza delle procedure di mobilità nazionale e la programmazione dei trasferimenti da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. La questione è stata affrontata dal Consiglio di Stato con le sentenze nn. 8472, 8473, 8474 del 2019, con cui ha colto l’occasione per specificare che, pur essendo gli algoritmi uno strumento utile in una prospettiva di efficienza, efficacia, buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione per il solo fatto che una straordinaria mole di dati sono immagazzinati, riordinati ed elaborati, e dunque alcun elemento ostativo – in teoria – emerge, vi sono dei limiti insormontabili anche di derivazione europea da tener presente.
Seguono, poi, due controversie. La sentenza n. 3570 del 24 novembre 2020, pronunciata dal Tribunale di Palermo, si inserisce nel solco di quelle che hanno affrontato la questione della parificazione del rapporto di lavoro dei riders, la cui prestazione è strettamente connessa all’uso di piattaforme informatiche (app). Il Tribunale di Palermo, nella vicenda che ha interessato la nota società Foodin S.r.l. (meglio conosciuta come Glovo), ha affermato la natura di rapporto di lavoro subordinato del soggetto che presta attività lavorativa, avvalendosi di piattaforme a mezzo delle quali vengono erogati servizi di consegna.
Il Tribunale di Bologna nell’ambito della controversia su Deliveroo ha affrontato la questione della profilazione discriminatoria attraverso gli algoritmi. In effetti, il sistema di profilazione dei riders adottato dalla piattaforma Deliveroo, basato su affidabilità e partecipazione, nel trattare nello stesso modo chi non partecipa alla sessione prenotata per futili motivi e chi non partecipa perché sta scioperando o anche perché malato o perché portatore di handicap, in concreto discrimina questi ultimi, emarginandoli dalla piattaforma e riducendo significativamente le sue occasioni di accesso al lavoro. L’accesso alla prenotazione del turno di lavoro era consentito in relazione al punteggio accumulato dai riders che, tuttavia, non teneva conto delle situazioni afferenti ad uno stato di necessità, discriminando chi, per motivi ostativi legittimi, non poteva prestare l’attività lavorativa (ordinanza del 31 dicembre 2020).
[47] C. Cali, L’imparzialità del giudicante. Alcune implicazioni etiche derivanti dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale in giurisprudenza, in A. Alù e A. Ciccarello, La Pubblica Amministrazione del futuro. Tra sfide e opportunità del settore pubblico, Napoli, Editoriale Scientifica, 2021, pp. 121-134, M. Gialuz, Quando la giustizia penale incontra l’intelligenza artificiale: luci e ombre del risk assessment tools tra Stati Uniti ed Europa, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 1/2019.
[48] P. Calabrese, Algoritmi e PA: ok del Consiglio di Stato anche per attività discrezionale, purché conoscibile, in Osservatorio AIR, ma anche S. Sassi, Gli algoritmi nelle decisioni pubbliche tra trasparenza e responsabilità, in Analisi giuridica dell’economia, n. 1/2019 e R. Ferrara, Il giudice amministrativo e gli algoritmi. Nota estemporanea a margine di un recente dibattito giurisprudenziale, in Diritto Amministrativo, n. 4/2019.
[49] Secondo A. Arvidsson, Introduzione ai media digitali, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 23 “con il termine algocrazia viene descritto un ambiente digitale di rete in cui il potere viene esercitato in modo sempre più profondo dagli algoritmi, cioè i programmi informatici che sono alla base delle piattaforme mediatiche, i quali rendono possibili alcune forme di interazione e di organizzazione e ne ostacolano altre”.
[50] Tutti i sistemi di intelligenza artificiale non possono che essere resi trasparenti per il cittadino in relazione al tipo di programma utilizzato, al metodo di inserimento e di rielaborazione dei dati immessi nel processo decisionale artificiale. Deve restare ferma la distinzione tra la responsabilità della decisione dalla scelta di ricorrere all’algoritmo.
In secondo luogo, V. Canalini, L’algoritmo come “atto amministrativo informatico” e il sindacato del giudice, 2019, in Giornale di diritto amministrativo, n. 6/2019, F. D’Alessandri, Procedimento amministrativo: l’importanza del ricorso agli algoritmi, in Quotidiano giuridico, 2020.
[51] Il solo fatto di non poter assumere, come giustificazione della propria azione, il ricorso al modello informatizzato di intelligenza artificiale, preserva la motivazione di ogni provvedimento adottato, laddove la pubblica amministrazione è chiamata a giustificare una propria scelta che non può non rimanere sotto la signoria del responsabile del procedimento (umano). Il fondamento normativo si rinviene nell’art. 22 GDPR. Sul punto, v. G. Comandè e G. Malgieri, Why a Right to Legibility of Automated Decision-Making Exists in the General Data Protection Regulation, in International Data Privacy Law, n. 4/2017, N. Muciaccia, Algoritmi e procedimento decisionale: alcuni recenti arresti della giustizia amministrativa, in Federalismi.it, n. 10/2020.
[52] Il ricorso a sistemi di intelligenza artificiali basati su algoritmi non deve presentare, nel sistema di acquisizione dei dati o di rielaborazione dei dati, pregiudiziali che potrebbero essere legati proprio al modo in cui si raccolgono tali dati.
[53] Questo già accade nella Corte di Cassazione, ove viene previsto un Magistrato spogliatore con funzione per lo più di filtro.
[54] G. Zaccaria, Figure del giudicare: calcolabilità, precedenti, decisione robotica, in Riv. dir. civ., 2020, p. 77.
[55] F.M. Buggè e I Nasso, No time no space: il processo pandemico e la sua eredità possibile, in L. Bartolucci L. e L. Di Majo (a cura di), Le prassi delle istituzioni in pandemia, cit., p. 343 ss.
[56] M. Gianecchini, Avvocato, lei ce l’ha un’intelligenza artificiale? Da Ross a Kyra, ecco i servizi legali informatizzati, in Corriere Imprese Nordest, 17 settembre 2017.
[57] R. Susskind, L’Avvocato di domani, cit., p. 80.
[58] Su questi aspetti, si rinvia per approfondimenti a J. Barnett e P. Treleaven, Algorithmic Dispute Resolution - The Automation of Professional Dispute Resolution Using AI and Blockchain Technologies, in The Computer Journal, Vol. n. 61, n. 3/2018, pp. 399-408, R. Ott, Online Dispute Resolution: Review of Initiatives Worldwide, in Computer Fraud & Security, n. 1/2000, pp. 13-15.
[59] Cybersettle ha offerto un sistema di risoluzione on line delle controversie basato su un automatismo double-blind biding: vengono abbinate le richieste del querelante con le offerte delle compagnie di assicurazione. Se le offerte si avvicinavano l’una all’altra in un particolare round, allora il sistema divideva la differenza tra le offerte e il regolamento dichiarato (cfr. T. Ballestreros, International Perspectives on Online Dispute Resolution in the E-Commerce Landscape, in International Journal of Online Dispute Resolution, n. 2/2021, pp. 85-101, ma anche M.A. Wheeler, A. Michael e G. Morris, Cybersettle, in Harvard Business School Case 902-158, n. 4/2001, pp. 1-15.
[60] In Francia, in esempio, WeClaim è una forma alternativa di risoluzione delle controversie parzialmente automatizzata che supporta i privati nella redazione di reclami raccoglie adesioni volte ad attivare azioni collettive.
[61] Una piattaforma di e-commerce molto nota (E-bay) ha sperimentato un sistema i-cloud di risoluzione delle controversie (Modria), accessibile ad imprese, privati ed enti pubblici che possono personalizzare e costruire il proprio Online Dispute Resolution, tra cui diagnosi della controversia, negoziazione, mediazione e arbitrato, gestione del flusso di lavoro configurabile autonomamente che gestisce l’assunzione di casi, la generazione di documenti, la pianificazione, la reportistica e la messaggistica.
[62] Money Claim Online è un sistema che “consente agli utenti senza alcuna conoscenza legale di recuperare i soldi a cui hanno diritto, senza dover gestire moduli complessi né mettere piede in alcun tribunale di contea. Il servizio si occupa di una varietà di reclami, come i debiti non pagati fino a 100.000 sterline. Esso consente al ricorrente di presentare un reclamo online, di tenersi aggiornato sul suo andamento e, se necessario, di andare in giudizio per ottenere una sentenza ed eventualmente la sua esecuzione” (R. Susskind, L’Avvocato di domani, cit. p. 128).
[63] A. Colella e A. Strata, Il legal design: una nuova prospettiva di accessibilità e democratizzazione del linguaggio giuridico, in L’Eurispes, 26 aprile 2022.
[64] Come rileva G. Pasceri, Introduzione all’intelligenza artificiale, in AA.VV., Innovazione, intelligenza artificiale, giustizia, Quaderno dell’Ordine degli Avvocati di Milano, luglio 2021 pp. 8-9, “Il sistema ‘machine learning’ consente di acquisire informazioni, classificarle per poi, in base ad un algoritmo che sfrutta la lettura di ‘similitudini’, offrire un risultato. Questo sistema permette all’agente intelligente di apprendere senza essere programmato esplicitamente. In altri termini, il machine learning automatizza la costruzione del modello analitico catalogando una quantità significativa di dati. L’algoritmo usa modelli statistici e ricerche operative per trovare informazioni nascoste nei dati stessi. Come anticipato, per realizzare un machine learning occorre addestrare l’agente intelligente fornendogli un ‘training set’. In questo modo, l’agente intelligente: a) acquisisce dei dati; b) elabora e analizza le relazioni esistenti tra gli stessi; c) fornisce un risultato output corrispondente a quanto appreso. Nell’ambito del machine learning vengono classificate tre categorie di apprendimento: i) l’apprendimento non supervisionato; ii) l’apprendimento supervisionato; iii) l’apprendimento per rinforzo. Nell’apprendimento non supervisionato l’agente intelligente riceve solo dati input. L’agente non conosce quale sia l’output atteso dall’operatore. In questo modo l’AI è portato a scoprire ed estrapolare caratteristiche salienti di dati utili all’esecuzione della funzione affidatagli. L’apprendimento supervisionato, invece, presuppone che all’agente intelligente si forniscano set di dati con relativi output attesi. In questo modo, il sistema è spinto ad apprendere come corretta correlazione tra il dato input inserito al dato output atteso. In questo modo, l’agente intelligente è in grado di catalogare gli input negli output. L’apprendimento per rinforzo è sostanzialmente utilizzato quando l’ambiente in cui opera l’agente intelligente è mutevole o dinamico. In questo modo l’agente intelligente è portato ad operare in modo da risolvere il problema secondo le circostanze del caso. All’acquisizione di dati input, l’agente intelligente tenta di risolvere il problema autonomamente. Se la correlazione è esatta l’addestratore “premia” l’agente, diversamente lo indirizza verso la soluzione corretta. In questo modo l’agente intelligente è portato, nel tempo, a riuscire a valutare dati input mutevoli e dinamici (come nel caso della chirurgia, della guida autonoma etc.). Nel ‘deep learning’ o apprendimento profondo, i dati vengono processati tramite una successione c.d. profonda dei livelli di attivazione, sfruttando i progressi computazionali in grado di apprendere modelli complessi attraverso una enorme quantità di dati. Gli algoritmi, non essendo più vincolati esclusivamente alla creazione di un set di relazioni comprensibili, iniziano a identificare autonomamente le relazioni tra elementi. Per tali ragioni, la deep learning è studiata per fornire previsioni e interpretazioni di problemi estremamente complessi o, associando un dato certo ad un dato incerto, autoapprendere (cd. self-learning), riuscendo a valutare e attivarsi adeguatamente anche in un ambiente o in presenza di dati input mutevoli e dinamici”. Cfr., sul punto, anche S. Shalew-Shwartz e S. Ben-Davis, Understanding Machine Learning: From Theory of Algorithms, Oxford, Oxford University Press, 2014.
[65] M. Patrini e G. Pirotta, Intelligenza artificiale e impatto sulla professione dell’avvocato, in AA.VV., Innovazione, intelligenza artificiale, giustizia, Quaderno dell’Ordine degli Avvocati di Milano, cit., p. 27.
[66] Ex multis, cfr. V. Vigoriti V., Garanzie costituzionali del processo civile. “Due process of Law” e art 24 Cost., Milano, Giuffrè, 1970, M. Chiavaro, Processo e garanzie della persona, Milano, Giuffrè, 1984, N. Tonolli, Il principio di parità delle armi nell’equo processo e la regola nemo in propria causa testis esse debet, in Riv. Int. Dir. dell’uomo, 1996, E.A. Marzaduri, La parità delle armi nel processo penale, in Quaderni Costituzionali, n. 2/2007, p. 378 ss., P. Sordi, Il giusto processo civile, in Cortecostituzionale.it, 2014, M. Salvemini, Il giusto processo amministrativo tra parità delle parti, verità materiale e divieto di ius novorum, in Dirittifondamentali.it, n. 2/2019, p. 1 ss., E. Lupo, Le garanzie di contesto: la parità tra le parti, in Legislazionepenale.eu.
[67] Cfr., sul punto, per il diritto processuale penale, G. Ubertis, La prova penale: profili giuridici ed epistemologici, Padova, Utet, 1995, ma anche F. Stella, Oltre il ragionevole dubbio: il libero convincimento del giudice e le indicazioni vincolanti della Costituzione italiana, in AA. VV., Il libero convincimento del giudice penale. Vecchie e nuove, Milano, Giuffrè, 2004, P. Tonini P. e C. Conti, Il diritto delle prove penali, Milano, Giuffrè, 2012. Per quanto concerne i profili di diritto processuale civile, M. Taruffo, La valutazione delle prove, in M. Taruffo (a cura di), Per la chiarezza di idee su alcuni aspetti del processo civile, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., n. 3/2009, e dello stesso A., La prova nel processo civile, Milano, Giuffrè, 2012, G. Monteleone, Intorno al concetto di verità «materiale» o «oggettiva» nel processo civile, in Riv. dir. proc., n. 1/2009.
[68] Per una ricostruzione del sistema delle impugnazioni, si rinvia ai più prestigiosi manuali di diritto processuale civile e penale, tra cui (ma senza presunzione di esaustività), G. Verde, Profili del processo civile, Napoli, Jovene, 2008; C. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, Giappichelli, 2000; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, Jovene, 1999; V. Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, Jovene, 1979; G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, Jovene, 1965, F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, P. Tonini e C. Conti, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2021, P.M. Corso, O. Dominioni, A. Gaito, M.N. Galantini, G. Garuti, O. Mazza, G. Spangher, G. Varraso e D. Vigoni (a cura di), Procedura penale, Torino, Giappichelli, 2021.
[69] G. Ferrara, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e «giusto processo», in Rass. Parl., 1999, p. 359 ss., M. Bove, Art. 111 Cost. e “giusto processo civile”, in Riv. Dir. Proc., 2002, p. 479 ss. e B. Capponi B. e V. Verde (a cura di), Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “Giusto processo” in materia civile, Napoli, Esi, 2002. Sul versante penale, M. Cecchetti, (voce) Giusto processo (dir. cost.), in Enc. dir., vol. V Aggiornamento, Milano, 2001, p. 595 ss.
[70] Sono state diffuse dalla Fédération des Barreaux d’Europe delle Linee guida sull’utilizzo dei sistemi di Large Language Models (LMMs), disponibili, nella versione italiana, all’indirizzo internet https://www.ordineavvocati.lu.it/wp-content/uploads/2023/07/Avvocati-e-IA-Linee-guida-FBE.pdf.
[71] I segni del tempo sono già visibili: si è avuta conoscenza, nel Congresso Nazionale Forense tenutosi a Lecce, dal 6 all’8 ottobre 2022, che dal 2016 il robot Ross viene utilizzato dallo studio legale Baker e Hostetler per analizzare la documentazione relativa ai reati finanziaria. JP Morgan utilizza COIN, un robot che esamina e rielabora accordi commerciali. In Italia, l’algoritmo Anthea è stato utilizzato per raggiungere accordi genitoriali in tema di esercizio dei diritti e dei doveri sui minori. Modelli ulteriori di algoritmi come Ironclad, Prometheo e Caselex, si sono già stabilizzati in numerose realtà legali.
[72] Per una ricostruzione sui principi del giusto processo, cfr., ex multis, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, Roma, Zanichelli, 2012, pp. 82-196 e, più recentemente, P. Raucci, La valenza autonoma della formula “giusto processo” in Costitizuone, Padova, Wolters Kluwer, 2023.
[73] In questo senso, G. Ferrara, Garanzie processuali dei diritti costituzionali e «giusto processo», cit., p. 539 ss.. F. Gallo, Quale modello processuale per il giudizio tributario?, in Rass. trib., n. 1/2011, p. 12 ss. e M. Luciani, Il “giusto” processo amministrativo e la sentenza amministrativa “giusta”, in Dir. proc. amm., n. 1/2018, p. 38. Contra, M. Patrono, Il giusto processo: profili costituzionali, in G. Ferri e E. Lorenzetto (a cura di), Il giusto processo a vent’anni dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, cit., pp. 12-59. Mediana la posizione di A. Police, Art. 111, cit., secondo cui, “pur essendo sostanzialmente priva di portata innovativa, l’introduzione dei primi due commi dell’art. 111 non risulta però del tutto priva di conseguenze. In primo luogo, infatti, tali commi, nel cristallizzare l’orientamento interpretativo, peraltro ampiamente consolidato, che amplia la portata dell’art. 24 Cost., fino a ricomprendervi i principi della disciplina processuale, hanno quanto meno la funzione di escludere eventuali ripensamenti dell’interprete in senso restrittivo”. G. Fiandaca, Il legislatore non deve ridursi al livello della Consulta, in Italia Oggi, 22 dicembre 1998, ha letto la riforma come una risposta all’orientamento della Corte costituzionale che, secondo alcuni, era rimasta ancora collocata nella vecchia dimensione inquisitoria del codice di procedura penale.
[74] M. Patrono, Il giusto processo: profili costituzionali, cit., p. 16.
[75] M. Patrono, op. ult. cit., p. 47.
[76] A. Tedoldi, Il giusto precesso civile: de profundis o palingenesi?, cit., p. 122.
[77] L.P. Comoglio, Art. 24 Cost., cit., p. 6.
[78] A. Police, Articolo 24, in R. Bifulco, A. Celotto e M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, Utet, 2006, p. 511.
[79] È quanto prospetta anche G. Zaccaria, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, cit., p. 34, per il quale “si apre così una competizione tra regole dettate dalla scrittura digitale e norme giuridiche. Si viene in tal modo a creare anche una convivenza tra testi normativi e fatti, così come tradizionalmente intesi nel mondo giuridico, da un lato e tra loro trasformazione omogeneizzante in dati, dall’altro”.
[80] Corte costituzionale, sentenza n. 1146/1998.
[81] In questo senso, anche M. Cecchetti, Il principio del “Giusto processo” nel nuovo art. 111 della Costituzione. Origini e contenuti normativi generali, in P. Tonini (a cura di), Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e sulla valutazione della prova, Padova, Cedam, 2001, p. 77 e P. Ferrua, Il giusto processo in Costituzione, in Diritto e giustizia, n. 1/2000.
[82] P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile [1940], in M. Cappelletti (a cura di), Opere giuridiche, Vol. V, Napoli, 1970, p. 426.
[83] M. Patrono, Il giusto processo: profili costituzionali, cit., p. 30, giustificata dalla Corte costituzionale «nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» (Corte costituzionale, sentenza n. 421/2001).
[84] Ed infatti, L.P. Comoglio, Art. 24 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., p. 28, rileva la stretta connessione tra il diritto di difesa e l’art. 3 Cost., nella parte in cui il riferimento all’eguaglianza, “indubbiamente, il tessuto connettivo delle garanzie processuali” rende implausibile ogni tentativo del legislatore di introdurre strumenti discriminatori a svantaggio delle parti processuale relativamente alla possibilità di ricorrere ai mezzi istruttori.
[85] Corte costituzionale, sentenza n. 255/1992.
[86] Corte costituzionale, sentenza n. 114/1968.
[87] Corte costituzionale, sentenza n. 46/1957.
[88] L.P. Comoglio, La garanzia costituzionale dell’azione e il processo civile, Padova, Cedam, 1970, pp. 306-307.
[89] L.P. Comoglio, op. ult. cit., p. 140.
[90] P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 100.
[91] Corte costituzionale, sentenza n. 66/1964 e n. 44/1968.
[92] Su aspetti più ampi che legano contraddittorio e giusto processo, si rinvia a M. Manzin e F. Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars. Il contraddittorio fra principio e regola, Milano, 2008, p. 3 ss.
[93] G. Sorrenti, Articolo 111, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa e G.E. Vigevani, La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 303. Parla di “forza epistemica del contraddittorio”, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, p. 129 ss.
[94] Corte costituzionale, sentenza n. 3/2010.
[95] Corte EDU, Doorson c. Olanda, 26 marzo 1996.
[96] Che l’Avvocato preserva con la presenza umana nelle fasi del processo e volto alla “persuasione” del Giudice sulle tesi proposte (A. Traversi, La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie, cit., p. 212 ss.)
[97] G. Ziccardi, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, cit., pp. 34-35.
[98] C. Castelli e D. Piana, Giusto processo e intelligenza artificiale, cit., p. 92.
[99] L. Di Majo, Le incognite sull’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel processo costituzionale in via incidentale, in La Rivista Gruppo di Pisa, n. 2/2023, p. 59.
[100] Cass. civ., SS.UU., n. 13902/2013.
[101] A. Traversi, op. ult. cit., p. 221.
[102] F. Iacovello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 168.
[103] Mentre invece, come giustamente ammonisce G. Sorrenti, Articolo 111, cit., ricorda che “il contraddittorio, oltre ad un fondamento tecnico, ha anche una irrinunciabile valenza etica. Se anche infatti si arrivasse a disporre, grazie all’inarrestabile progresso tecnologico, di strumenti che assicurassero il raggiungimento della verità, non si potrebbe prescindere da modalità rispettose della dignità umana, in quanto kantianamente, nessun verdetto, per quanto in astratto corretto, potrebbe essere ‘giusto’ se conseguito a prezzo di una degradazione dell’uomo da soggetto a oggetto”.
[104] N. Paolantonio, Il potere discrezionale della pubblica automazione. Sconcerto e stilemi (Sul controllo giudiziario delle “decisioni algoritmiche”), in Diritto Amministrativo, n. 4/2021, p. 835.
[105] J. Tang, A. LeBel, S. Jain e A.G. Huth, Semantic reconstruction of continuous language from non-invasive brain recordings, in Nature Neuroscience, n. 26/2023, pp. 858–866.
[106] M. Patrono, Il giusto processo: profili costituzionali, cit., p. 45.
[107] G. Zaccaria, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, Modena, Mucchi Editore, 2023, p. 54.
[108] In Argentina e in Colombia godono dell’autorità di precedente vincolante le sentenze della Corte Suprema rese in materia di diritto costituzionale; in Svizzera i Tribunali Cantonali sono obbligati a conformarsi alla decisione del Tribunale Federale quando questo abbia dichiarato incostituzionale una legge cantonale; in Portogallo l’autorità del precedente è riconosciuta alle sentenze rese dal Tribunal Supremo de Justicia quando sono pubblicate nel Diario del Governo; in Turchia le cc.dd. sentenze di unificazione che possono essere emanate dalla Corte di Cassazione o dal Consiglio di Stato godono altresì di una tale prerogativa. In particolare, in alcuni ordinamenti latino-americani la dottrina legal, cioè la funzione creatrice e vincolante delle pronunce del Tribunale Supremo – come in Spagna – è riconosciuta dall’ordinamento positivo: un ricorso al Tribunale Supremo è ammesso contro una decisione giudiziaria per violazione della legge se questa decisione ha violato una dottrina legal, cioè una giurisprudenza fissata da più decisioni del Tribunale Supremo. In Messico, la Costituzione Federale consacra espressamente la dottrina legal e sono necessarie 5 decisioni consecutive perché sia riconosciuto il carattere del precedente obbligatorio. In Germania, quando una regola è stata consacrata da una giurisprudenza costante, diviene regola consuetudinaria e a questo titolo deve essere applicata dai giudici.
[109] Sul quale vi è ampio dibattito in dottrina, da tempo immemore. Cfr., ex multis e senza presunzione di esaustività, A. Cadoppi, Il valore del precedente, Torino, Giappichelli, 2007, G. Gorla, (voce) Precedente giudiziario, in Enc. Giur. Treccani, Vol. XXXVI, 1991, U. Mattei, Precedente giudiziario e stare decisis, in Dig. Disc. Priv., Vo. XIV, 1996, M. Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2007, V. Zagrebelsky, Dalla varietà della giurisprudenza alla unità della giurisprudenza, in Cass. pen., 1988.
[110] Contra C. Castelli e D. Piana, Giusto processo e intelligenza artificiale, cit., p. 49, per i quali, la duttilità degli orientamenti “trascura i costi che la varianza della giurisprudenza comporta, sia come incertezza sui propri diritti e quindi sull’esito che una eventuale causa può avere, sia come inevitabile stimolo ed incremento della domanda di giustizia. A fronte di giurisprudenze diverse è inevitabile che il cittadino prima e l’avvocato poi provino la strada giudiziaria nella speranza di qualche possibilità di successo. La prevedibilità di un orientamento, specie quando questo è il frutto di un serio confronto e di successivi assestamenti giurisprudenziali, dà certezza al diritto, scoraggia azioni temerarie e solidifica il diritto”.
[111] L. Viola, Interpretazione della legge con modelli matematici, Diritto Avanzato, Milano, 2017, p. 23.
[112] N. Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna, Il Mulino, p. 25.
[113] G. Verde, L’art. 111 della Costituzione a venti anni dalla riforma. Spunti per una discussione, in G. Ferri e E. Lorenzetto (a cura di), Il giusto processo a vent’anni dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, cit., p. 2.
[114] G. Sorrenti, Articolo 111, cit., pp. 302-303.
[115] Cassazione, sentenze n. 8622/2012 e n. 14199/2021.
[116] Cassazione, sentenza n. 24866/2017.
[117] All’avvocato, insomma, è demandato il compito di “ispezionare” l’algoritmo (N. Cristianini, La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano, Bologna, Il Mulino, 2023, passim).
[118] F. Romeo, Giustizia algoritmica, Torino, Giappichelli, 2020.
[119] V. Tenore, I robot in giudizio! Considerazioni sull’utilizzo di intelligenza artificiale (AI) da parte del magistrato: Abdicare al ragionamento e alla riflessione quotidiana a favore di un robot togato, ovvero un “cretino digitale” è un bene per la giustizia e per i suoi attori e destinatari?, cit. p. 26.
[120] M.T. Cicerone, De oratore ad Quintum fratrem, libro II, par. 205.
[121] Corte costituzionale, sentenza n. 125/1979: «Per il nostro ordinamento positivo, il diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali si esercita, di regola, mediante l’attività o con l’assistenza del difensore dotato di specifica qualificazione professionale, essendo limitata a controversie ritenute di minore importanza ovvero a procedimenti penali per reati cosiddetti bagatellari la possibilità che la difesa venga esercitata esclusivamente dalla parte».
[122] Secondo il Principio (f) della Carta, «l’Avvocato non può fornire consulenza o rappresentare efficacemente il cliente se non ha un’adeguata formazione professionale, formazione che deve essere permanente come risposta ai rapidi mutamenti del diritto e della pratica dell’avvocatura e del contesto economico e tecnologico. Le norme professionali sottolineano che l’Avvocato non può accettare un incarico se non è competente nella materia della controversia che è sottoposta alla sua attenzione».
[123] L.P. Comoglio, Art. 24 Cost., cit., p. 57.
[124] F. Roia, La tradizione della cultura giuridica italiana e le sfide della modernità, in Rassegna Forense, 2008, p. 219.
[125] In esempio, e ciò è un profilo rilevante anche per l’accesso alla giustizia, la scarsa disponibilità economica della parte che si rivolge al difensore. Come è noto, i sistemi di intelligenza artificiale costano e rappresentano per l’Avvocato un costo per la propria attività che non potrà non ricadere sull’utente finale, cioè il cliente.
[126] Per una rassegna, anche più ampia, dei profili critici rispetto all’attività contrattuale, Cfr. R. Trezza, Il contratto nell’era del digitale e dell’intelligenza artificiale, in Il diritto dell’economia, n. 2/2021, pp. 287-319.
[127] R. Susskind, L’Avvocato di domani, cit., p. 80
[128] La Corte di Cassazione ha distinto diverse fattispecie punibili per colpa lieve o colpa grava. Ex multis, benché senza presunzione di esaustività, cfr. Cass. civ., s. n. 8546/2005, Cass. civ., s. n. 16275/2015, Cass. civ., s. n. 30169/2018.
[129] M.T. Cicerone, De oratore ad quintum fratrem, libro II, par. 101.
[130] M.T. Cicerone, Ibidem, par. 304-306.
[131] G. Ferri, Osservazioni di un costituzionalista sulla legge costituzionale n. 2 del 1999, in G. Ferri e E. Lorenzetto (a cura di), Il giusto processo a vent’anni dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, cit.
[132] Esorta R. Susskind, L’Avvocato di domani, cit., p. 197, “a usare la tecnologia per tracciare nuove strade per il diritto, la nostra istituzione sociale più importante”.
[133] G. Meliota, Intelligenza Artificiale e giustizia predittiva, in Rivista di diritto del risparmio, n. 2/2022.
[134] A. Del Noce, Note sul tema etico dell’intelligenza artificiale, relazione al Congresso Nazionale Forense di Lecce, 6-7-8 ottobre 2022, p. 14
[135] Rileva sul punto G. Zaccaria, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, cit., p. 36, che “tanto nel ragionamento giuridico che controlla l’intero procedimento, quanto nella decisione robotica, c’è un insopprimibile aspetto di soggettività, che è legato alla storicità dell’uomo, che interpreta e programma. Solo che nel primo caso tale soggettività è esplicitata e manifesta, nel secondo invece essa è celata nei meccanismi della programmazione”.
[136] G. Zaccaria, op. ult. cit., p. 36.
[137] Parla di “esigenze aziendalistiche” (benché non riferite all’Intelligenza Artificiale, ma al giusto processo), G. Verde, L’articolo 111 della Costituzione, cit., p. 11.
[138] L.P. Comoglio, Art. 24, cit., p. 57.
[139] Così, V. Tenore, I robot in giudizio! Considerazioni sull’utilizzo di intelligenza artificiale (AI) da parte del magistrato: Abdicare al ragionamento e alla riflessione quotidiana a favore di un robot togato, ovvero un “cretino digitale” è un bene per la giustizia e per i suoi attori e destinatari?, cit., p. 12.
[140] Ammonisce G. Zaccaria, La responsabilità del giudice e l’algoritmo, cit., p. 65, “legittime cautele e non aprioristici rifiuti, critiche fondate e adesioni sorvegliate”.
[141] Su questi aspetti, cfr. il rapporto licenziato dal World Economic Forum, reperibile su http://reports.weforum.org/digital-transformation/artificial-intelligence-improving-man-with-machine/.
[142] C. Castelli e D. Piana, Giusto processo e intelligenza artificiale, cit., p. 10.
[143] A. Tedoldi, Il giusto processo civile, cit., p. 133.
(Immagine fonte)
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