ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’abrogazione dell’abuso di ufficio - 3. Una manovra legislativa in due “tappe” (pressoché) sincroniche: abolizione totale dell’abuso d’ufficio con disegno di legge ed introduzione con decreto legge della nuova fattispecie di “indebita destinazione di denaro o cose mobili” - 4. La nuova fattispecie di “indebita destinazione di denaro o cose mobili” - 5. I rapporti fra le norme interessate dalla riforma: art. 323, art. 314-bis, art. 314.
1. Introduzione
Fra le diverse cose di cui il Ministro della Giustizia non si sarà accorto, nell’emanare il decreto legge 4 luglio 2024, n. 92[1], che, immediatamente prima dell’abrogazione dell’art. 323, ha introdotto nel codice penale l’art. 314-bis, fra quelle cose, a mio parere, vi è anche la singolare assonanza linguistica fra Arenula e Merulana: un accostamento che orienta verso la sgradevole impressione che con le due riforme collegate fra loro sia stato combinato un “Pasticciaccio brutto”, che, come nel romanzo di Gadda, sembra non potersi avviare verso una soluzione soddisfacente.
Infatti, riguardo alle norme penali sopra citate, la vicenda pone molti interrogativi, che le conferiscono quasi il carattere di un giallo (forse meglio noir?...): perché finire impietosamente un delitto già (mezzo) morto? Quali sono le vere ragioni che hanno indotto il Ministero a considerare un “caso straordinario di necessità e di urgenza” il recupero (in modo assai malacconcio) del peculato per distrazione, riconducendo nella sfera dei delitti di peculato ciò che nel 1990 ne era stato espunto? Perché limitare la punibilità degli abusi distrattivi al solo caso in cui questi vengano commessi mediante una destinazione di cose mobili? Perché punire le distrazioni di cose mobili solo se l’uso al quale queste vengono destinate è “diverso da quello previsto da specifiche disposizione di legge o di atti aventi forza di legge dai quali non residuino margini di discrezionalità”? È verosimile, o, più esattamente, è statisticamente significativo il caso che la destinazione impropria di denaro o altra cosa mobile sia intenzionalmente rivolta a recare danno ad altri?
La nostra rapida indagine cercherà di dare risposte a queste ed altre domande, movendo, comunque, dalla convinzione che l’art. 323 non avrebbe dovuto essere abrogato affatto e che l’abolizione dell’abuso di ufficio, associata alla contestuale previsione della inedita fattispecie, crei insanabili disarmonie e lacune nel sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P. A.
2. L’abrogazione dell’abuso di ufficio.
Ho già avuto modo di sostenere che non sarebbe stato opportuno abrogare l’art. 323[2] e riassumo qui in modo assai breve gli argomenti che – a mio parere – destituivano di fondamento le ragioni della abrogazione, come indicate nella Relazione del Governo al disegno di legge S 808 presentato al Senato, divenuto poi alla Camera d.d.l. C 1718 e definitivamente approvato il 10 luglio scorso.
Queste le ragioni addotte dai Ministri Nordio e Crosetto, proponenti il disegno di legge:
1. Vi sono pochissime condanne per abuso di ufficio, dopo la riforma dell’art. 323 operata dal d. l. 76 del 2020.
Sed contra: lo scarso numero di condanne, in assoluto, non è mai una ragione sufficiente per cancellare un reato, che può anche essere molto grave (es.: attentato al Presidente della Repubblica, strage).
2. Vi è uno squilibrio fra il numero delle iscrizioni nel registro degli indagati e il numero delle condanne, squilibrio dovuto - si voleva intendere - alla indeterminatezza, alla imprecisione della fattispecie incriminatrice; pertanto, l’applicazione di quella fattispecie di reato avrebbe comportato un inutile sovraccarico per l’apparato giudiziario, insieme a ricadute negative per gli indagati innocenti.
Sed contra: la fattispecie, soprattutto dopo la riforma del 2020, non era affatto imprecisa, essendo capace, con i suoi numerosissimi e (certamente troppo) stringenti requisiti oggettivi e soggettivi, di filtrare, nei vari gradi di giudizio, i fatti meritevoli di sanzione, come dimostra proprio lo scarso numero di condanne definitive. Quello squilibrio, con i conseguenti, innegabili, effetti negativi per il sistema giudiziario e per gli indagati, era piuttosto dovuto ad una inesatta applicazione della norma da parte della magistratura, per rimediare alla quale la riforma Cartabia aveva già adottato opportuni ed importanti accorgimenti, e che avrebbe dovuto trovare soluzioni sul terreno processuale[3]; comunque, non avrebbe mai dovuto risolversi con la cancellazione di una norma incriminatrice necessaria e nient’affatto connotata da indeterminatezza.
3. Il sistema dei delitti contro la P. A. è estremamente articolato. anche tenendo conto dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 9, c. p., (aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio) e, quindi, dall’abrogazione dell’art. 323 non sarebbe derivato alcun vuoto di tutela. E poi, se in futuro fossero pervenute dall’Unione Europea indicazioni volte a prevedere come reato l’abuso di ufficio, si sarebbe sempre potuto sempre ricorrere a interventi additivi.
Sed contra: tanto poco vero è che l’abolizione dell’abuso di ufficio non avrebbe lasciato vuoti di tutela, che lo stesso Ministro Nordio ha ritenuto di dover porre riparo ai vuoti e ai danni che si sarebbero determinati con quella abolizione, affrettandosi - proprio nello stesso giorno in cui la Camera approvava l’art. 1 del disegno di legge C 1718 (che disponeva l’abrogazione dell’art. 323) e sei giorni prima che quest’ultimo divenisse definitivo con l’approvazione dell’intero disegno di legge - ad emanare un decreto legge, con il quale è stato aggiunto al codice penale l’art. 314-bis, che prevede una sbilenca nuova figura di reato, nel solco del peculato per distrazione, ma in realtà a “copertura” del vuoto lasciato dal defunto abuso.
Nell’ambito di queste brevi considerazioni non ritengo necessario soffermarmi più oltre sulla inopportunità dell’abolizione dell’abuso di ufficio e passo a considerare i problemi creati dall’emanazione della nuova fattispecie di cui all’art. 314-bis c.p.
3. Una manovra legislativa in due “tappe” (pressoché) sincroniche: abolizione totale dell’abuso d’ufficio con disegno di legge ed introduzione con decreto legge della nuova fattispecie di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”.
Come si è detto, il Ministro Nordio ha voluto introdurre nel codice penale questo “nuovo” reato, ricorrendo al decreto legge 4 luglio 2024, n. 92, emanato esattamente lo stesso giorno in cui la Camera ha approvato, nella seduta pomeridiana, l’art. 1 del d.d.l. C 1718, quello che dispone l’abrogazione “secca” dell’art. 323 c. p.
Nella premessa al d. l. 92/2024 si legge che è “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di definire, anche in relazione agli obblighi euro-unitari, il reato di indebita destinazione di beni ad opera del pubblico agente”. Da tale premessa si può ricavare che: 1) l’emanazione dell’art. 314-bis si è resa necessaria proprio perché l’abrogazione dell’art. 323 comporta il venir meno della punibilità di quelle condotte ancora (cioè, sino all’approvazione definitiva del d.d.l. C 1718) rientranti nell’ambito dell’abuso di ufficio ed ora divenute punibili ai sensi della nuova fattispecie; 2) la punibilità delle condotte di indebita destinazione di beni è oggetto di un obbligo posto dall’UE.
In realtà, non è assolutamente vero quanto assicurato dal Ministro della Giustizia, cioè che l’abolizione dell’abuso non determini un vuoto nella tutela penale della P. A., anche in violazione di obblighi di penalizzazione posti dall’UE. Come è già stato puntualmente ed ampiamente osservato[4], l’art. 4, comma 3, della Direttiva UE 2017/1371 del 5 luglio 2017 impone agli Stati membri di considerare reato l’intenzionale appropriazione indebita, intendendosi per tale anche l’utilizzazione di tali beni per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione. E, nel rispetto di tale obbligo, il d. lgs. 4 ottobre 2022, n. 156, aveva aggiunto all’art. 322-bis c. p., che estende ai funzionari europei la responsabilità per delitti contro la P. A. previsti dal codice penale, proprio l’art. 323; mentre il disegno di legge C 1718, art. 1, ha cancellato da quell’articolo 322-bis il riferimento all’art. 323 ed il d. l. 92/2024 vi ha aggiunto (cioè, sostituito) quello all’art. 314-bis[5]. Se, dunque, non fosse stato emanato il d l. 92/2024, l’Italia avrebbe violato un obbligo eurounitario e sarebbe stata esposta ad una procedura d’infrazione. Non è vero che il sistema dei delitti contro la P. A. non avesse bisogno, come aveva sostenuto il Ministro Nordio, dell’ulteriore tassello costituito dall’abuso d’ufficio. Evitare che si determinasse un vuoto, relativamente ad alcune condotte di distrazione, in conseguenza dell’abolizione dell’abuso di ufficio è, dunque, il vero scopo perseguito con questa manovra, articolata nei due diversi provvedimenti normativi.
Inevitabile chiedersi: perché allora, se l’abrogazione dell’art. 323 crea (relativamente a gravi condotte di distrazione) un vuoto inammissibile – in termini giuridici di fronte all’Europa, in termini politico-criminali di fronte al nostro Paese -, tanto che è necessario colmarlo immediatamente, con straordinaria urgenza, per mezzo di un decreto legge, perché allora non lasciare in vita l’abuso di ufficio, magari con modifiche ulteriori (sarebbe stata la quinta o sesta versione del delitto)? Appare sconcertante l’incoerenza di un governo che nella stessa giornata, mentre la maggioranza approva in Parlamento un disegno di legge che abolisce il delitto di abuso d’ufficio, ne introduce, con decreto legge, un altro, che copre una parte delle condotte costituenti (ancora, sino all’approvazione dell’intero disegno di legge) abuso, dopo aver respinto alla Camera tutti gli emendamenti che miravano a ridimensionare l’ambito della depenalizzazione! Purtroppo non riusciamo a trovare altra spiegazione a questo pasticcio se non quella che il governo non ha voluto recedere da un provvedimento di abrogazione divenuto simbolico – nella sua assolutezza e radicalità - della contrapposizione alla magistratura, pur a scapito della tutela dei beni giuridici del buon andamento e della imparzialità della P. A., della legalità nell’esercizio della funzione giurisdizionale e degli interessi finanziari dell’UE.
4. La nuova fattispecie di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”.
Il nuovo art. 314-bis stabilisce “Fuori dei casi previsti dall’articolo 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Secondo dichiarazioni rese alla stampa dal Ministro Nordio, la nuova fattispecie integrerebbe “un’ipotesi completamente diversa [da quella dell’art. 323 c. p.]. È diverso il bene protetto, qui si parla di distrazione… quindi non ha niente a che vedere con l’abuso di ufficio che prescindeva dalla distrazione”[6]. Tale affermazione non può essere condivisa: la nuova fattispecie è in rapporto di specialità con quella dell’art. 323 c. p.[7]: i soggetti attivi sono gli stessi, la forma del dolo è la stessa (intenzionalmente), l’evento è lo stesso (procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto). Quanto alla condotta (destinare denaro o altra cosa mobile altrui ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuino margini di discrezionalità), essa rientra interamente, come species, nel genus di condotta previsto dall’art. 323 (violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità). Ulteriore elemento specializzante del nuovo reato è che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia per ragioni del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità del denaro o della cosa mobile altrui. Tutte le condotte previste dall’art. 314-bis, senza eccezione, rientrano nell’insieme delle condotte punibili ai sensi dell’art. 323 c. p.
La nuova norma, anzi, è una specie di collage fra l’art. 314 (peculato), di cui condivide il presupposto (possesso o disponibilità di denaro o cosa mobile) e l’art. 323, dal quale mutua la descrizione della condotta, con le limitazioni specializzanti di cui abbiamo appena detto.
La differenza, rispetto al peculato di cui all’art. 314, è che quest’ultimo punisce la appropriazione, mentre l’art. 314-bispunisce la destinazione ad uso diverso. Ora, poiché “rivolgere indebitamente la cosa a un fine diverso da quello cui essa era originariamente destinata”[8] costituisce precisamente la condotta di distrazione, il nuovo delitto configura evidentemente un peculato per distrazione. La condotta tipica di questo reato, espunta dall’art. 314 dalla legge 86 del 1990, era considerata da dottrina e giurisprudenza capace di integrare il diverso delitto di abuso di ufficio, punibile ai sensi dell’art. 323 c. p.[9].
Ora, a mio parere, il collage fra art. 314 e art. 323 ha dato vita in realtà ad un pasticcio, per le ragioni di seguito esposte.
A) Sotto il profilo del nuovo delitto di indebita destinazione (leggi: peculato per distrazione) emergono numerose incoerenze e difetti.
Innanzitutto, non è ragionevole limitare la punibilità della distrazione a quei requisiti che (altrettanto irragionevolmente) erano stati dettati per l’art. 323, cioè che l’uso cui il denaro o la cosa vengono destinati sia diverso da quello “previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuino margini di discrezionalità”. Si tratta di un requisito che, per un verso, lascia fuori gravi distorsioni nella destinazione, palesemente dettate da intenti di favoritismo o di profitto, qualora ciò avvenga in casi che sfuggono a specifiche disposizioni, e particolarmente in tutti i casi, assolutamente normali, in cui il p. u. agisce con discrezionalità. Inoltre, pure per questo delitto, come per l’art. 323, il riferimento a specifiche disposizioni crea il rischio che anche irregolarità meramente formali e di poco conto possano essere ritenute tipiche, mentre quelle più gravi restino impunite. Infine, è irragionevole e grave avere escluso i regolamenti dal novero delle disposizioni che regolano la destinazione, posto che molto spesso saranno proprio i regolamenti a indicare dettagliatamente quale dovesse essere la giusta destinazione.
Non condivisibile, poi, è la limitazione di tipicità alle sole condotte che abbiano per oggetto “denaro o altra cosa mobile altrui”: si tratta di una “eredità” del peculato, che rende la nuova disposizione inadatta a regolare fatti certamente meritevoli di pena, in precedenza ricompresi tra gli abusi: quelli su cose immobili[10] o su energie lavorative[11].
Inusuale poi, tecnicamente inadatto, e foriero di possibili incertezze, il ricorso al termine “uso diverso” (invece di “scopodiverso”, previsto dall’art. 4, 3° comma, direttiva UE 2017/1371), che potrebbe creare confusione con la fattispecie di peculato d’uso (art. 314, 2° comma, c. p.) e potrebbe perfino dar luogo a gravi fraintendimenti, nel caso di destinazione d’uso per un significativo lasso di tempo, che non sia però definitivo, come invece avviene quando sia (definitivamente) mutata la destinazione del bene rispetto allo scopo originario.
Ancora si deve notare che dalla mal raffazzonata “derivazione” dell’articolo 314-bis dalla formulazione dell’art. 323 è venuto fuori un inedito “peculato per distrazione con dolo intenzionale di danno”. Ora, che un abuso (art. 323) possa essere compiuto allo scopo di arrecare un danno a taluno, senza mutare destinazione ad alcuna cosa, è un fatto normale. Altrettanto normale è che il mutamento di destinazione di una cosa, effettuato con l’intenzione di avvantaggiare un certo soggetto (art. 314-bis), come conseguenza speculare, non direttamente presa di mira, possa danneggiare qualcuno. Ma poiché, per la pasticciata derivazione del nuovo articolo da quello abrogato, si è copiata anche la parte del “procurare” intenzionalmente un danno, ne emerge la descrizione di un fatto del tutto inusuale, poco plausibile, perché chi agisce mutando la destinazione di una cosa agisce, nella quasi totalità dei casi, per avvantaggiare sé o altri, e non con l’intenzione preminente di recare un danno ad altri. O almeno, nel generale “smantellamento” del presidio penale contro gli abusi dei p. u., quest’ultima ipotesi è così remota da non giustificare la previsione di una apposita condotta penalmente rilevante. Traccia di questa malfatta riunificazione delle formule dei reati è anche l’uso del verbo “procurare”, frettolosamente riferito non al solo vantaggio, ma anche al danno, per il quale, più propriamente, il codice penale ha sempre usato il verbo “arrecare”, che molto meglio si addice ai danni.
Quanto al regime sanzionatorio, non è dato di capire perché questo delitto debba essere punito meno severamente (reclusione da sei mesi a tre anni) dell’abuso d’ufficio (reclusione da uno a quattro anni): dato che la destinazione indebita è un caso speciale di abuso, essa meriterebbe almeno la stessa pena, se non, addirittura, una più severa, considerato che, in particolare, essa comporta sempre anche l’offesa all’interesse della P. A. alla destinazione della cosa, che si aggiunge a quello del buon andamento e della imparzialità della P. A., tipico dell’abuso di ufficio. Altrettanto illogico è che la pena per il nuovo delitto sia uguale a quella prevista per il peculato d’uso (art. 314, 2° comma), che è sicuramente un delitto meno grave, dato che nel caso di quest’ultimo la cosa “dopo l’uso momentaneo” viene immediatamente restituita.
B) Anche sotto il profilo dell’abuso di ufficio, ormai abrogato[12], vi sono gravi o gravissimi difetti.
Il più rilevante, a mio parere, è quello di avere cancellato definitivamente, e di non avere adeguatamente riproposto mediante l’art. 314-bis, la rilevanza di tutte le condotte di abuso in danno, che abbiano recato offesa ai diritti delle vittime di atti arbitrari del p. u. o dell’incaricato di p. s. Come abbiamo detto sopra, che tali abusi “passino” per una condotta di destinazione della cosa intenzionalmente rivolta a danneggiare taluno è molto raro e proprio per questo poco significativo per la politica criminale: l’aggiunta nell’art. 314-bis, così circoscritta, del riferimento al danno non è affatto sufficiente a colmare questa intollerabile lacuna, non degna di uno Stato di diritto.
Gravi e non infrequenti, infatti, sono gli abusi che non comportino una distrazione di cose mobili, come nel caso di una autorità di p. s. che ponga in essere indebitamente una condotta di restrizione della libertà personale o di un responsabile di servizio pubblico (operatore sanitario, sindaco, ecc.) che non consenta l’esercizio di un diritto o non provveda al rilascio, quando dovuto, di un provvedimento di autorizzazione, concessione ecc., o, infine, di un magistrato che dolosamente pronunci ingiusta sentenza di condanna contro un innocente.
Il vero fatto è che la pasticciata riforma, nel destreggiarsi fra la necessità di evitare che dall’abolizione dell’abuso d’ufficio derivasse la violazione di obblighi eurounitari di penalizzazione, da un lato, e la incrollabile volontà di ridimensionare il potere della magistratura, dall’altro, si è preoccupata esclusivamente di evitare che dal controllo giudiziario di legalità potessero derivare accuse ingiustificate nei riguardi di titolari di funzioni pubbliche ed ha gravemente trascurato di tutelare i soggetti, generalmente più deboli, che hanno diritto ad un esercizio non arbitrario delle funzioni e dei servizi pubblici[13].
Impunite resteranno, in ogni caso, tutte le condotte di abuso delle funzioni che abbiano procurato ingiusti vantaggi patrimoniali, quando ciò non comporti un mutamento di destinazione di cose mobili di cui il p. u. abbia il possesso o la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio. Così, favoritismi, a carattere patrimoniale, come l’assegnazione di un posto di lavoro a soggetto non qualificato a seguito di concorso pubblico “truccato” o decisioni giudiziarie che avvantaggino amici e colleghi di partito senza esborso di danaro affidato al giudice; ovvero, il rilascio di autorizzazioni, licenze, ecc. in difetto dei presupposti richiesti dalla legge e dai regolamenti. Non saranno punibili nemmeno i casi di abuso corrispondenti al vecchio interesse privato, realizzati omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti. Un “libero mercato” delle funzioni e dei servizi pubblici, nel quale parenti, amici e sodali di ogni genere si avvantaggiano e (ammesso che non vi sia corruzione) nessuno è chiamato a risponderne, con buona pace di coloro che non hanno “santi in paradiso”.
5. I rapporti fra le norme interessate dalla riforma: art. 323, art. 314-bis, art. 314.
Per ciò che riguarda il rapporto fra l’art. 323 ed il nuovo art. 314-bis è pacifico che vi sia una continuità normativa, poiché, come si è detto sopra, il nuovo delitto – checché ne dica il Ministro Nordio – è (anche) un’ipotesi speciale di abuso d’ufficio, col passaggio da una norma generale (abuso) ad una speciale (destinazione indebita). Si verifica, dunque, un caso di successione con semplice modificazione del regime penale, regolata dall’art. 2, 4° comma, c. p.; pertanto, relativamente ai fatti commessi prima dell’emanazione del d. l. 92/2024, che abbiano tutti i particolari requisiti previsti dal nuovo delitto di destinazione indebita, e in passato fossero punibili ex art. 323, non potranno essere revocate le sentenze passate in giudicato, mentre, se non vi è ancora una sentenza definitiva, a tali fatti dovrà applicarsi il nuovo art. 314-bis, in quanto norma (posteriore) più favorevole rispetto all’art. 323. Ovviamente, i fatti commessi dopo l’emanazione del d. l. 92/2024 saranno regolati esclusivamente dall’art. 314-bis. Invece, inaccettabilmente, tutti gli altri fatti di distrazione che non corrispondano esattamente ai requisiti dettati dal nuovo art. 314-bis, anche se in precedenza eventualmente rientrassero nella previsione dell’art. 323[14], diventeranno non punibili, per abrogazione della norma incriminatrice (art. 2, 2° comma, c.p.).
Assai interessante, invece, è il rapporto fra il nuovo delitto di destinazione indebita e quello di peculato ex art. 314 c. p. Infatti, l’art. 314-bis esordisce con la clausola “Fuori dei casi previsti dall’art. 314”, che esclude l’applicabilità della prima norma quando il fatto costituisca un peculato per appropriazione.
Al riguardo, nella Relazioni illustrative presentate, con lo stesso testo, alla Camera[15] ed al Senato[16], per la conversione in legge del decreto legge 92/2024, che ha previsto il nuovo art. 314-bis, si chiarisce che in seguito alla riforma attuata con la legge 86/1990 “sono state soppresse dal peculato (art. 314 c. p.) le condotte di ‘distrazione a profitto proprio o di altri’ e, contemporaneamente si è riformato l’abuso d’ufficio. In conseguenza di ciò, la giurisprudenza ha qualificato come abuso d’ufficio le condotte non comportanti appropriazione, consistenti nel mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche [sic![17]] … L’intervento di cui all’articolo in esame [art. 9] risponde allo scopo di chiarire definitivamente i termini di punibilità di tali condotte non appropriative, anche in ragione della necessità di preciso adeguamento alla normativa euro-unitaria”[18].
Il Ministro, però, forse non si è accorto che nella Scheda di lettura per l’art. 9 del Dossier del Servizio studi del Senato, di corredo al d. d. l. di conversione del decreto 92/2024, si è impeccabilmente chiarito, nel paragrafo “La qualificazione penale delle condotte distrattive”, come vadano ricondotte al peculato le condotte di distrazione ad esclusivo profitto privato: viene, infatti citata dal Dossier, tra le altre, anche la recente sentenza Cass. Sez. VI, n. 36496 del 2020, secondo cui: «Costituisce principio di diritto ormai acquisito che, nel delitto di peculato, il concetto di "appropriazione" comprende anche la condotta di "distrazione", in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene. Ciò nondimeno, affinché possa essere ravvisata la condotta distrattiva dante luogo al peculato, è necessario che il pubblico agente abbia impiegato le risorse - di cui aveva la disponibilità per le finalità pubbliche istituzionalmente previste - ai fini del soddisfacimento di finalità private, individuali, traendo cioè un vantaggio personale. Non è difatti configurabile l'appropriazione - necessaria ad integrare il delitto di peculato - nell'ipotesi in cui la disposizione di risorse pubbliche avvenga per finalità diverse da quelle specificamente previste, ma pur sempre nell'ambito delle attribuzioni del ruolo istituzionale svolto dall'agente pubblico in virtù delle norme organizzative dell'ente, perché in questa situazione permane la connessione fra la res ed il dominus e, quindi, la legittimità del possesso. In tale situazione può, se del caso, ravvisarsi la diversa fattispecie dell'abuso d'ufficio». E poco dopo, nel ciato Dossier si legge che “La giurisprudenza di legittimità ha qualificato come fatti di peculato anche le condotte di “distrazione” in cui la diversa destinazione impressa al bene trova fondamento in una causa illecita o illegittima, o, infine, nelle ipotesi in cui si assegni al bene una destinazione non consentita e connotata da alea (in questo senso, Cass, Sez. VI, n. 1247 del 2013). Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali richiamati il confine tra peculato e abuso d’ufficio era dunque segnato, con riferimento alle condotte distrattive, dalla natura delle finalità cui è destinato il bene. Se si tratta di finalità non privatistiche, il delitto di peculato non può configurarsi in quanto viene meno l'elemento tipico dell'appropriazione dei beni. La destinazione ad una finalità diversa da quella predeterminata ma pur sempre di interesse pubblico e non connotata da profili di illiceità o di alea restava, invece, riconducibile all’ipotesi di abuso di ufficio.”[19].
Dunque una consolidata giurisprudenza[20] conferma quell’orientamento, già sostenuto in dottrina[21], per cui se vi è commistione fra destinazione ad uno scopo diverso da quello originario, ma pur sempre di carattere pubblicistico, ed interessi privati, il fatto, anche se fossero realizzati tali interessi privati, integra(va) abuso d’ufficio, non essendovi espropriazione della P. A.[22], mentre quando la distrazione consista nel rivolgere la cosa esclusivamente verso una finalità privata, essa realizza una espropriazione della P. A. ed una “impropriazione”[23] (per sé o altri) da parte del privato, che integra una forma di peculato per appropriazione, rilevante ai sensi dell’art. 314 c. p.[24].
Al riguardo, Il Ministro non si è accorto neppure che anche l’Unione europea, nella citata direttiva 2017/1371, art. 4, 3° comma, impone agli Stati membri di considerare reato “l’intenzionale appropriazione indebita, intendendosi per tale anche l’utilizzazione di tali beni per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione” (corsivo aggiunto).
In conclusione: poiché l’art. 314-bis si applica “fuori dei casi previsti dall’art. 314”, la previsione del nuovo delitto non escluderà, neppure per il futuro, che distrazioni ad esclusivo profitto privato siano riconducibili ancora al peculato ex art. 314 c. p.[25]. Così, l’intenzione di alleggerire le responsabilità penali di sindaci e pubblici amministratori, che si è dichiarato essere il fondamento dell’abolizione dell’abuso di ufficio, non sortirà che mal coordinati e non condivisibili risultati.
Non è, allora, il caso di concludere che a via Arenula è stato combinato un “pasticciaccio brutto”, uscire dal quale è davvero complicato?
Resta da augurarsi che, sulla scorta delle osservazioni che varie voci hanno proposto, le Camere possano addivenire ad una più ponderata e razionale versione della nuova disposizione, in sede di conversione in legge del decreto legge. Ma la cosa non sembra molto probabile, visto l’incaponimento con cui si sta procedendo in tanti altri settori riguardanti la giustizia.
[1] Pubblicato sulla GU n. 155 del 4 luglio 2024, ed entrato in vigore il 5 luglio 2024.
[2] Mi permetto di rinviare, per più ampie considerazioni sul punto, a M. Parodi Giusino, La proposta di abolizione dell’abuso d’ufficio: discutibili ragioni e dannose conseguenze, in Leg. pen. web, 10.5.2024, passim.
[3] Così M. Donini, Abrogare i reati per risolvere i problemi del processo. Dal falso in bilancio all’abuso di ufficio, in SP, 15 luglio 2024. Che la “malattia” non fosse l’abuso, ma l’atteggiamento dei PM, troppo facilmente inclini ad iscrivere i fatti nel registro delle notizie di reato, anche quando ne mancassero gli elementi costitutivi è stato sostenuto già da M. Gambardella, L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la riformulazione del traffico d’influenze nel “disegno di legge Nordio”, in SP, 26 settembre 2023, p. 4.
[4] Per una completa ricostruzione sulla previsione del nuovo reato in relazione alla Direttiva sopra citata v. G. L. Gatta, Morte dell’abuso d’ufficio, recupero in zona Cesarini del ‘peculato per distrazione’ (art. 314-bis c.p) e obblighi (non pienamente soddisfatti) di attuazione della Direttiva UE 2017/1371, in SP, 10 luglio 2024.
[5] Dimenticando, tuttavia, di inserire il riferimento all’art. 314-bis anche nell’art. 323-bis (Circostanze attenuanti) e, secondo l’indicazione G. L. Gatta, Morte dell’abuso d’ufficio, cit., p. 9-10, anche negli artt. 322-ter, 240-bis, 322-quater, 32-quater, 32-quinquies, 165, 4° comma, e 166, 1° comma.
[6] In una intervista pubblicata su Il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2024.
[7] In senso contrario, ma soltanto in base alla affermazione che i delitti di cui all’art. 323 e 314-bis sarebbero “strutturalmente eterogenei fra loro”, M. Gambardella, Peculato, abuso d’ufficio e nuovo delitto di “indebita destinazione di denaro o cose mobili” (art. 314-bis c. p.). I riflessi intertemporali del decreto-legge n. 92/2024, in SP 17 luglio 2024.
[8] A. Pagliaro – M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale. P. s. I. Delitti contro la pubblica amministrazione10, Milano, 2008, p. 50.
[9] Quando non dovesse addirittura essere ricondotta all’art. 314, come vedremo più avanti.
[10] Come nota G. L. Gatta, Morte dell’abuso d’ufficio, cit. p. 8.
[11] Così M. Gambardella, Peculato, abuso d’ufficio, e nuovo delitto di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, cit.
[12] Al momento in cui scriviamo si aspetta ancora la pubblicazione della legge.
[13] Condivisibile il giudizio espresso in tal senso da M. Donini, Abrogare i reati per risolvere i problemi del processo, cit.
[14] Così, ad es., nel caso che la “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” riguardasse non l’uso diverso cui la cosa è destinata, ma altri profili della condotta; ovvero nel caso che la distrazione integrasse abuso d’ufficio perché il p. u. o l’incaricato di p. s. avessero agito “omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti”.
[15] AC 1947 - Relazione tecnica illustrativa del disegno di legge di conversione del d. l. 92/2024, presentato alla Camera il 4 luglio 2024.
[16] AS 1183 - Relazione tecnica illustrativa del disegno di legge di conversione del d. l. 92/2024, presentato al Senato il 5 luglio 2024.
[17] È noto che nel peculato le cose possono anche non appartenere alla pubblica amministrazione, essendo confluita (legge 86/1990) nell’art. 314 la “Malversazione a danno di privati”, sino ad allora prevista dall’abrogato art. 315 c. p.
[18] AC 1947, cit., p. 9; AS 1183, cit., p. 10.
[19] Dossier AS 1183, p. 35 ss.
[20] La giurisprudenza della Cassazione è costante al riguardo: fra le numerose decisioni v. Cass., Sez. VI, sent. 27910 del 23.9.2020 (dep. 7.10.2020) in Ced Cass. 279677; Cass. Sez. VI, sent. 19484 del 23.1.2018 (dep. 4.5.2018) in CED Cass. 273783.
[21] Già in tal senso A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione5, Milano, 1992, pp. 31-34 e 39-40; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Art. 314 – 335-bis cod. pen. Commentario sistematico3, Milano, 2013, pp. 35-36; volendo, anche M. Parodi Giusino, Abuso d’ufficio, in Dig. disc. pen., IV ed., vol. VIII, Torino, 1994, p. 597 ss.
[22] Di parere diverso D. Micheletti, La “distrazione” gioca brutti scherzi. Sulle ricadute intertemporali del nuovo art. 314-bis c. p., in disCrimen 8.7.2024, p. 3 e 4-5, secondo il quale la giurisprudenza avrebbe ricondotto al peculato “qualunque forma di condotta distrattiva del denaro o di altri beni pubblici che si traduca nel soddisfacimento di interessi privatistici” e, dunque, la riforma operata dal d. l. 92/2024 avrebbe avuto l’effetto, per le ipotesi di distrazione previste dal nuovo art. 314-bis, di ridurre sensibilmente la pena rispetto a quella prevista dall’art. 314 (reclusione da 4 anni a 10 anni e sei mesi).
[23] L’inusuale termine vuole tradurre il tedesco Aneignung. Secondo C. Pedrazzi, Gli abusi del patrimonio sociale ad opera degli amministratori, in RIDPP, 1953, p. 545, n. 37, sarebbe preferibile, in italiano, la traduzione con appropriazione. Tuttavia, è sembrato preferibile ricorrere al termine di impropriazione (così Cass. Sez. U., 19054 del 20.12. 2012 [dep. 2.5.2013], in Ced. Cass. 255296, p. 20 ss.) per esprimere più chiaramente che in ogni appropriazione vi sono due momenti: uno di estromissione del precedente proprietario (espropriazione) ed un altro di immissione di sé nei diritti spettanti al primo (appunto, impropriazione).
[24] Ancora secondo la stessa Cass., n. 36496 del 2020 “Va invero riaffermato che, nell'attuale assetto normativo quale risultante dalla riforma con la legge n. 86 del 1990, la "distrazione" del denaro o di altra cosa mobile altrui è punibile come peculato solo in quanto l'atto di destinazione sia compiuto per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali, sì da realizzare, nella sostanza, una sottrazione dal patrimonio dell'avente diritto del bene a vantaggio dell'agente che se ne impadronisca, cioè una "appropriazione", unica condotta tipica prevista dalla fattispecie incriminatrice de qua”.
[25] In tal senso, con argomentazioni pienamente condivisibili, M. Gambardella, Peculato, abuso d’ufficio, e nuovo delitto di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, cit. Contra D. Micheletti, La “distrazione”, cit., p. 5.
Immagine: particolare da Pieter Claesz, Stilleven met kalkoenpastei (Natura morta con pasticcio di tacchino), pittura a olio su legno, 1627, Rijksmuseum, Amsterdam.
Questo contributo costituisce il quarto di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio, D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza di Costantino De Robbio, La legge Nordio e il giudizio di impugnazione di Carlo Citterio.
È stata alla fine approvata la cd. riforma Nordio che riguarda, fra le altre cose, anche il tema delle misure cautelari.
Cercando di definire le linee essenziali della riforma queste possono essere così definite.
Posto che quando andrà a regime (due anni dall’entrata in vigore della legge) la collegialità per l’applicazione della misura cautelare del carcere per l’applicazione delle altre misure cautelari (carcere compreso) il giudice provvederà all’interrogatorio anticipato, fatta salva l’eventualità in cui la misura sia disposta per le esigenze cautelari di cui alla lett. a) e b) dell’art 274 c.p.p., nonché in relazione a quanto previsto dallo stesso art. 274 lett. c) relativamente ai delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. o all’art 362 comma 1 ter c.p.p. ovvero a gravi delitti connessi con l’uso di armi o altri mezzi di violenza personale (si tratta in larga parte di reati a pericolosità presunta). Fermo restando quindi che il giudice procederà all’interrogatorio anticipato qualora ritenga applicabile una misura e non sussistano condizioni ostative, deve riaffermarsi che a fronte della richiesta del pm spetterà al giudice valutare preliminarmente le condizioni per la loro applicabilità ai sensi dell’art. 291 c.p.p.
Sono molte le situazioni nelle quali si procede all’applicazione delle misure cautelari nel corso del procedimento e appare pertanto opportuno verificare se in tutti i casi sia necessario procedere all’interrogatorio anticipato. Non dovrebbe essere oggetto di discussioni che tutti in tutti i casi di operatività dell’art. 302 c.p.p. si proceda all’interrogatorio anticipato, essendo espressamente previsto che la misura sia applicata dopo l’interrogatorio. Se si tratta del carcere sarà necessario sui tempi procedere con quello collegiale.
Un interrogatorio non sembrerebbe necessario nel caso disciplinato dall’art. 27 c.p.p., salvo il caso in cui il giudice emetta un provvedimento nuovo o fondato su nuovi elementi. Nel caso in cui la misura perda efficacia per la nuova procedura troverà operatività la riforma.
La particolare struttura processuale dell’udienza di convalida artt. 391 e 307 c.p.p. (con future tensioni per la collegialità) consente di concludere nel senso del contraddittorio anticipato. Una prima questione si prospetta in relazione a quanto previsto dal comma 4 dell’art. 299 c.p.p. relativamente all’aggravamento delle esigenze cautelari. Invero il riferimento alla collegialità di cui al comma 4 secondo periodo dello stesso articolo non è risolutivo, prospettandosi in tutti e due i percorsi applicativi. Tuttavia, corrisponderebbe alla ratio della riforma - non sussistendo ragioni ostative - procedere all’interrogatorio anticipato.
Maggiormente controversa sembra prospettarsi, alla luce dell’ampiezza delle valutazioni attribuite al giudice, la procedura applicativa nel caso di cui all’art. 276 c.p.p. Se non sussistono ragioni ostative (esigenze cautelari e natura dei reati) si potrebbe procedere all’interrogatorio anticipato e, se si tratta del carcere, anche a quello collegiale. Il problema si prospetta stante il richiamo espresso anche nella procedura di revisione (art. 635 c.p.p.). Nel contesto qui affrontato bisogna considerare anche le situazioni di cui agli artt.275 comma 1 bis e comma 2 ter c.p.p. Ora, se l’interrogatorio anticipato è sostitutivo di quello dell’art. 294 c.p.p. deve tenersi conto che quest’ultimo è esportabile prima dell’inizio del dibattimento. In ogni caso i citati provvedimenti sono governati dal pericolo di fuga che, come detto, è ostativo al contraddittorio anticipato. Prescindendo dalla premessa, tuttavia, ci si potrebbe interrogare nel caso di cui all’art. 275, comma 1 bis c.p.p. nell’ipotesi di cui alla sola lett. c e di reato non ostativo. Stante i presupposti accentuatamente oggettivi di fronte all’art. 275, comma 2 ter c.p.p. l’ipotesi negativa appare comunque preferibile. Una variabile potrebbe essere costituita da quanto previsto dal comma 5 dell’art 300 c.p.p. a seguito della decisione delle Sezioni Unite in ordine alla proponibilità del riesame e non dell’appello. Invero la mancanza di indicazioni specifiche in ordine ai presupposti per la riemissione/emissione della misura potrebbe suggerire la celebrazione del contraddittorio anticipato. Non può negarsi che tutte queste ultime situazioni nascondano l’insidia del pericolo di fuga, facilmente arginabile del resto dall’indicazione in tal senso nella richiesta del pm.
Se il problema dei provvedimenti di cui agli artt. 382 bis e 384 bis c.p.p. rifluisce entro lo schema della convalida con il segnalato problema della collegialità per il carcere (quando sarà), meritano approfondimento le misure cautelari di cui agli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p. Ora, stante il richiamo di cui all’art. 362 comma 1 ter c.p.p. da parte dell’art. 291 comma 1 quater c.p.p., deve ritenersi che sia escluso il contraddittorio anticipato e non trattandosi di carcere anche la decisione collegiale, ma non il tempo entro il quale la decisione deve essere assunta (art 362 ter c.p.p.). Quanto all’applicazione ai sensi del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p. trattandosi della misura del carcere si procederà collegialmente in futuro, ma non con il contraddittorio anticipato.
Immagine: un oratore che parla in un'aula di tribunale o un predicatore cristiano (?). Rilievo, marmo, IV sec d.C., dal Tempio di Ercole, Museo Archeologico, Ostia.
Presso l’Università del Salento, gli Studenti dei corsi di Diritto comparato dei cambiamenti climatici, afferente alla Laurea magistrale in Scienze per la cooperazione internazionale, hanno dato vita a un portate di documentazione sul contenzioso climatico italiano, intitolato Osservatorio di comparazione interformanti sul contenzioso climatico italiano.
L’Osservatorio nasce dall’esperienza delle attività di tirocinio e di casi di studio, promosse all’interno dei corsi. Questa esperienza si è poi consolidata nell’impegno di diversi gruppi studenteschi a discutere costantemente i problemi dell’emergenza climatica, con specifico riguardo agli strumenti di mobilitazione cittadina che li manifestano. Di questi, com’è noto, i contenziosi c.d. “propriamente strategici” rappresentano la forma più diffusa e crescente.
L’indirizzo del portale è: https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/.
Esso è strutturato in quattro sezioni.
Nella prima sono elencati i contenziosi climatici strategici – giudiziali e stragiudiziali – promossi in Italia, con i documenti processuali resi pubblici dalle parti, nella loro produzione cronologica per ogni singola fase del procedimento, e con gli eventuali provvedimenti adottati.
La seconda è dedicata alla dottrina giuridica italiana, con un elenco, in ordine alfabetico, dei temi oggetto di discussione all’interno dei contenziosi climatici, negli approfondimenti offerti, in pendenza o a commento delle decisioni.
La terza è intitolata note e commenti a sentenze, perché raccoglie appunto analisi e valutazioni delle sentenze o decisioni, che chiudono i contenziosi climatici strategici italiani, nei diversi gradi di procedimento.
Infine, la quarta, denominata “Osservatorio interformanti e Bibliografia”, offre i Report periodici di comparazione dell’Osservatorio (il primo dei quali è in corso di elaborazione) nonché i libri e i saggi monografici italiani connessi ai temi del diritto climatico e del contenzioso italiano, in generale o con riguardo a specifici profili.
L’auspicio, perseguito con questa iniziativa, è quello di offrire un aggiornamento periodico, ragionato per contesti e argomenti, a disposizione di chiunque voglia approfondire il modo con cui, in Italia, si mobilitano gli strumenti giuridici della tutela giudiziale, per contribuire a una più efficace e incisiva lotta al cambiamento climatico antropogenico.
Foto di Krzysztof Golik via Wikimedia Commons.
In materia di peculato, si veda anche Nuovi confini del peculato tra tutela del buon andamento e presidio patrimoniale della pubblica amministrazione di Maria Sabina Calabretta.
L’art. 314 bis c.p.: nuovo reato o saldi di fine stagione?
di Graziella Viscomi
Sommario: 1. Il peculato, fra passato, presente e futuro. - 2. Il peculato per distrazione nella evoluzione giurisprudenziale. - 3. Il “nuovo” peculato per destinazione diversa.
1. Il peculato, fra passato, presente e futuro.
L’art. 314 c.p. definisce il delitto di peculato, prescrivendo: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi”.
Nella formulazione precedente, la disposizione prevedeva: “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso di denaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, se l’appropria ovvero la distrae a profitto proprio o di altri, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa non inferiore a lire mille”.
Con l’art. 9 del D.L. n. 92 del 04 luglio 2024, recante: “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia”, è stato disposto l’inserimento nel codice penale, dopo l’art. 314 c.p., della seguente disposizione rubricata “Indebita destinazione di denaro o cose mobili”, la quale testualmente recita: “Fuori dei casi previsti dall’art. 314, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o di atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e, intenzionalmente, procura a sé o ad altri, un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Prima di addentrarci nella rapida analisi del nuovo testo normativo, viene da fare una immediata riflessione a proposito dell’uso della decretazione e del conseguente concetto di urgenza.
È noto, invero, che il senso della normazione governativa, del ricorso ad un iter “accorciato” sia disegnato come una eccezione nel nostro ordinamento che deve trovare la sua ratio nel bisogno di provvedere per porre rimedio ad una situazione contingente, definita proprio da necessità ed urgenza.
Orbene, l’evidente anomalia sta, prima di tutto, nella circostanza che tale stato contingente cui porre rimedio ha, lo si deve tristemente ammettere, origini normative risolvendosi nella previsione della abrogazione del reato di cui all’art. 323 c.p. di cui al d.d.l. c.d. Nordio (AC 1718, trasmesso dal Senato il 16 febbraio 2024 e approvato definitivamente dalla Camera dei Deputati il 10 luglio scorso).
In altre parole, il Governo ad iniziativa dei Ministri della Giustizia e della Difesa, ha prima avviato l’iter di approvazione della legge di abrogazione dell’art. 323 c.p.; poi, sempre il Governo, ha realizzato (forse) che tale abrogazione avrebbe creato un vulnus di diretto interesse comunitario incidendo sulla gestione dei fondi pubblici e, per porre rimedio al danno che certamente ciò andrà a creare, ha introdotto la nuova disposizione.
2. Il peculato per distrazione nella evoluzione giurisprudenziale.
Al fine di meglio comprendere la relazione fra abuso di ufficio e “nuovo” peculato, occorre effettuare alcune riflessioni, non potendosi cogliere diversamente, di primo impatto, la portata di una disposizione inserita, invero, appena dopo il delitto di peculato e rubricata, peraltro, come “bis” di quell’articolo, quasi a volerne sottolineare la natura di species a genus.
Il motivo per il quale, invero, si è scelto di aprire il presente scritto con la formulazione delle precedenti versioni del “peculato” risiede proprio, nella circostanza, che si discute della speciale figura del peculato “per distrazione”.
Il peculato c.d. per distrazione è figura espressamente disciplinata nel codice penale sino al 1990, anno in cui è stato eliminato dalla disposizione di cui all’art. 314 c.p. il riferimento alla distrazione a profitto proprio o di altri.
Ciò non significa, tuttavia, che le condotte distrattive siano rimaste impunite. C’è stata, nel frattempo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha affrontato la questione in diverse occasioni.
Ci si pregia di richiamare quelle più significative, partendo dal richiamo a diversi ed incisivi passaggi che possono leggersi nella decisione n. 1247 del 17.7.2013-14.1.2014 della Suprema Corte nel cui contesto è stato evidenziato:
“La nozione di "appropriazione" accolta nell'art. 314 c.p. ha, infatti, un significato più ampio di quello che aveva prima della riforma del '90 e più ampio anche di quello che lo stesso termine possiede, secondo l'orientamento tradizionale, nel delitto di appropriazione indebita, dove l'appropriazione, ad esempio, non abbraccia qualsiasi forma di uso delle cose possedute. Nel delitto di peculato l'appropriazione può, invece, essere integrata anche dall'uso della cosa che avvenga con modalità e intensità tali da sottrarla alla disponibilità del legittimo proprietario o della p.a.; in tali casi, verificandosi la "impropriazione" del bene, il pubblico funzionario finisce per abusare del possesso, impedendo alla p.a. di poter utilizzare la cosa per il perseguimento dei suoi fini. (…) Commette, pertanto, peculato, il pubblico agente che, esercitando arbitrariamente i poteri di disponibilità della cosa di cui per ragioni di ufficio ha il possesso, la sottrae, anche solo temporaneamente, alla destinazione istituzionalmente assegnatale. (…) Ne deriva che nel testo attuale dell'art. 314 c.p. "appropriarsi" non vuol dire soltanto far propria la cosa, ma anche usare illecitamente in modo non momentaneo, o anche momentaneo, ma senza restituirla immediatamente dopo l'uso, la cosa e/o il denaro di cui si ha la disponibilità per ragioni di ufficio o di servizio. (…) Anche in ragione degli interessi tutelati, quindi, deve concludersi che sussiste "appropriazione" non soltanto quando il pubblico agente fa "sua" la cosa, ma anche quando lo stesso abusa dell'uso della cosa e/o del denaro di cui ha il possesso per ragioni di ufficio o di servizio, togliendo così alla pubblica amministrazione la possibilità di utilizzare la stessa per il perseguimento di pubbliche finalità (…) Ne discende che, poiché il soggetto che devia la cosa da una finalità ad un'altra si comporta, per un momento, sulla cosa stessa come se ne fosse il proprietario, molte di quelle forme di peculato che prima erano considerate peculato per distrazione sono ora divenute peculato per appropriazione. In buona sostanza, con la riforma del '90, la condotta distrattiva risulta declassata da componente tipizzata ed autonoma del delitto di peculato a semplice modalità di condotta riscontrabile in una pluralità di reati contro la pubblica amministrazione, sicché non sussiste alcuna incompatibilità normativa e neppure logica tra condotta distrattiva e reato di peculato, ben potendo, a date condizioni, la condotta in esame integrare anche il delitto previsto dalla nuova formulazione dell'art. 314 c.p. Con la soppressione del riferimento alla condotta distrattiva, il legislatore non ha, quindi, inteso togliere rilevanza a tale condotta rispetto alla configurabilità del peculato, ma ha semplicemente eliminato l'unico dato testuale che qualificava la condotta distrattiva come diversa ed alternativa rispetto a quella appropriativa, dovendosi invece il rapporto tra appropriazione e distrazione inquadrare come legame tra genus e species (Sez. 6, sentenza n. 40148 del 24-10-2002, Gennari, su DeG n. 5 del 2003). Ne deriva che la distrazione altro non è che una particolare forma di appropriazione, dal momento che chi imprime alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, non fa altro che appropriarsi della stessa. Conseguentemente il pubblico amministratore che, invece di investire per le finalità cui erano destinate le risorse finanziarie di cui ha la disponibilità, le impiega per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi, attua quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, esercita una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini. Si impadronisce -e, quindi, si appropria- del denaro posseduto, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007, Rv. 236146, Guida; Sez. 6, Sentenza n. 23066 del 14/05/2009, Rv. 244061, Provenzano; Sez. 6, Sentenza n. 7492 del 18/10/2012, Rv. 255529, Bartolotta; Sez. 6, Sentenza n. 16381 del 21/03/2013, Rv. 254709, Abruzzese) [...]”.
Fin qui, dunque, è chiaro che nel nostro sistema ordinamentale quelle condotte del pubblico ufficiale di uso delle risorse pubbliche con sottrazione alle finalità cui erano destinate, risolvendosi in una appropriazione personale, sono sempre state considerate peculato.
A ciò deve aggiungersi che l’ermeneutica interpretativa consentiva di inglobare non solo le condotte poste in essere dal soggetto esecutore, cioè colui che per definizione, ha poteri di cassa direttamente spendibili. Ma anche e soprattutto quelle figure apicali, anche e soprattutto politiche che, con atti di alta amministrazione/indirizzo incidono sulla destinazione delle risorse pubbliche (si pensi, ad esempio, alle delibere regionali di impressione della destinazione ai fondi pubblici, ovvero alle delibere del D.G. di un’ASP o di una fondazione in house che impegnano un determinato capitolo di spesa nel bilancio).
Si parla, infatti, di disponibilità materiale o giuridica del pubblico denaro. Così la Suprema Corte: “In tema di peculato, la nozione di possesso di danaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del danaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione. Ne consegue che l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti "uti dominus" nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio e la sua conseguente appropriazione possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi. (Fattispecie relativa a misura cautelare personale disposta nei confronti del segretario di una fondazione che aveva sottoscritto quote di un fondo di investimento utilizzando danaro dell'ente di cui aveva la disponibilità per ragioni di ufficio, peraltro in violazione di una delibera del c.d.a. che vietava espressamente l'assunzione di rischi)” (Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007 Cc. (dep. 20/03/2007) Rv. 236146).
Dunque, condizione necessaria per la liceità della spesa è la puntuale destinazione dei fondi all’ambito delle finalità istituzionali, dunque, deve esservi coerenza, pertinenza, una causalità diretta con gli obiettivi da perseguire in virtù della primaria destinazione delle somme impressa dal soggetto pubblico erogatore. La deviazione da tale finalità, con utilizzazione in proprio favore (ovvero, anche per finalità che, pur genericamente di interesse pubblico non siano espressamente riconducibili alle attribuzioni e competenze della funzione istituzionale svolta, ma a quella di altre funzioni attribuite a soggetti pubblici distinti), determina una interversione del possesso ed appropriazione intrinsecamente illecita (in tal senso cfr. Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza, n. 23066 del 14/05/2009 Ud. (dep. 04/06/2009), Rv. 244061 ove si evidenzia che: “In questo caso, infatti, lo stravolgimento della connessione funzionale determina lo stravolgimento del sistema organizzativo-istituzionale che priva di ogni legittimazione la concreta spendita della somma di cui si ha la disponibilità, materiale o giuridica (Sez. 6, sent. 33069 del 12.5 - 5.8.2003 in proc. Tretter, Sez. 6, sent. 10908 del 1.2 - 28.3.2006 in proc. Caffaro; Sez. 6. Sent. 352 del 7.11.2000 - 18.1.2001 in proc. Cassetti), sicché la spendita del denaro avviene uti princeps e costituisce mera interversione del possesso”).
Ancora più tranchant la già citata sentenza n. 1247 del 17.7.2013-14.1.2014 nonchè Cass. Pen., Sez. 6, Sentenza n. 25258 del 04/06/2014 Ud. (dep. 13/06/2014), Rv. 260070 ove è sottolineato che: “imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene”).
La Corte di Cassazione si era anche occupata della distrazione delle pubbliche risorse ripetutamente tracciando confini molto precisi fra la fattispecie di cui all’art. 314 c.p. e quella del “quasi” abrogato art. 323 c.p.: “Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le ipotesi di distrazione, che prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 86 del 1990 rientravano nell'originaria ipotesi `omnicomprensiva' di peculato, di cui al previgente art. 314 cod. pen., come ipotesi alternative a quelle di appropriazione, integrano gli estremi di un abuso di ufficio dell'art. 323 cod. pen. anziché di un peculato per appropriazione di cui al nuovo art. 314 dello stesso codice, a seconda che l'impiego distrattivo del denaro o della altre cose mobili altrui - di cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abbia il possesso o la disponibilità, anche giuridica, in ragione del suo ufficio o servizio - che presuppone sempre un abusivo esercizio delle funzioni o del servizio, avvenga a scopi privati o meno: con la conseguenza che la distrazione di quei beni da una ad altra finalità pubblica può configurare, in presenza degli altri requisiti richiesti dalla legge, un peculato laddove la distrazione finisce per rappresentare una forma di appropriazione laddove il mutamento della destinazione di quei beni venga operata per ragioni esclusivamente o prevalentemente di tipo privato (in questo senso Sez. 6, n. 10896 del 02/04/1992, Bronte ed altri, Rv. 192873)” (cfr. Cass. Pen., Sez. 6, Sentenza n. 25258 del 04/06/2014 Ud. (dep. 13/06/2014), Rv. 260070).
3. Il “nuovo” peculato per destinazione diversa.
Nel contesto normativo poc’anzi descritto, la tutela garantita dall’art. 314 c.p. era massima.
Ci si deve, pertanto, necessariamente chiedere se l’introduzione dell’art. 314 bis c.p. ponga realmente un rimedio all’abrogazione (con l’abuso di ufficio) anche della condotta di distrazione a finalità mista (pubblica e privata) disegnata dalla Giurisprudenza o se, al contrario, non rischi di inglobare tutte le condotte distrattive, prestando il fianco ad interpretazioni diverse e più restrittive
In virtù della pena con cui tale nuova condotta è punita, invero, il nuovo delitto impedisce l’uso dell’attività intercettiva, non può legittimare una misura cautelare coercitiva, è collegata al regime di prescrizione più breve, è punito in forma decisamente più lieve e senza che ne discendano pene accessorie significative.
Orbene, il dubbio nasce in relazione alla specificazione della modalità della condotta appropriativa, che, peraltro, la nuova norma descrive nei termini non più di distrazione e neppure di appropriazione.
Il precetto si riferisce, invero semplicemente alla “destina(zione) ad un uso diverso”.
Non è, inoltre, sufficiente, per l’integrazione del delitto l’impressione alla cosa (denaro od altro bene, chiarirà la disposizione in seguito), di un uso diverso da quello stabilito, risultando necessario anche che il vincolo di destinazione sia previsto o dalla fonte normativa primaria (specifiche disposizioni di legge) ovvero atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità (si riproducono, dunque, i vincoli normativi introdotti all’art. 323 c.p. dall'art. 23 comma 1 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76).
Tale precipitato, dunque, circoscrive un vincolo più stringente, già limitativo della portata dell’abuso d’ufficio, atteso che la fonte di disciplina più usata nel contesto amministrativo è quella secondaria, del regolamento, delle delibere e delle circolari. La violazione di tali fonti, tuttavia, risulta irrilevante nella verifica della legittimità (rectius, liceità) dell’operato del pubblico amministratore che, sostanzialmente, rimarrà completamente libero di muoversi impunemente (a titolo di esempio si richiama, nuovamente, per gli effetti dirompenti, l’atto aziendale di un’ASP).
Sul punto, peraltro, la Suprema Corte nel trattare la fattispecie di peculato aveva inteso evidenziare che l’azione dei pubblici funzionari deve essere guidata dal rispetto dei principi espressi dagli artt. 3, 81, 97, 100 e 103 Cost. che nel loro insieme convergono nel richiedere che ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa che non può essere la mera indicazione nella legge di bilancio, che la gestione delle spese pubbliche è sempre soggetta a controllo, anche giurisdizionale, che l’impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alla corrispondenti finalità istituzionali, come indicate dalla propria previsione normativa e che tale impiego deve in ogni caso rispettare i principi di uguaglianza, imparzialità, efficienza (che a sua volta, comprende quelli di efficacia, economicità e trasparenza (Cass. Pen. 14.5-4.6.2009, n. 23066).
In altre parole, le difficoltà all’operatività della disposizione incriminatrice create dalla più recente modifica all’abuso di ufficio risultano traslate integralmente nella scrittura dell’art. 314 bis c.p.
Ben poco, dunque, è stato recuperato all’area del penalmente rilevante nel contesto del nuovo reato che, pertanto, non pare porsi nel solco comunitario della volontà di efficace contrasto dei reati commessi dai pubblici ufficiali in danno della pubblica amministrazione.
V’è da chiedersi, invece, cosa accadrà di quelle condotte distrattive che, per le modalità di attuazione e, in particolare, per la scissura totale dall’impiego in ottica pubblica, siano da qualificarsi come appropriative tout court.
È legittimato l’interprete a credere che valga ancora l’assimilazione del peculato per distrazione a quello per appropriazione, laddove manchi una qualsivoglia finalità pubblica?
In senso contrario depone il testo letterale della norma che limita il recinto applicativo a quelle destinazioni di denaro diverse da quelle volute in una fonte normativa primaria o equiparata dal contenuto vincolante e che intenzionalmente (svanisce, dunque, anche il dolo generico che connota la figura del peculato) provochino un vantaggio per l’agente o un danno per la pubblica amministrazione.
Non vi è alcun riferimento espresso alla finalità che guida la destinazione che, dunque, sembra aver perso di rilevanza nell’ottica legislativa (dimenticanza o scelta?)
Inoltre, non va sottovalutata la rubrica della disposizione che qualifica la destinazione come “indebita” (dunque, non coerente, non lecita, anche in tal caso mettendo in dubbio che il riferimento sia circoscritto solo alle condotte prima qualificabili come abuso di ufficio per la compresenza di finalità pubblica e privata).
Di nessun aiuto appare la Relazione illustrativa che, in modo superficiale e scarno, afferma: “in seguito alla riforma attuata con la l. n, 86/19000 sono state soppresse dal peculato (art. 314 c.p.) le condotte di ‘distrazione a profitto proprio o di altri’ e, contemporaneamente si è riformato l’abuso d’ufficio. In conseguenza di ciò, la giurisprudenza ha qualificato come abuso d’ufficio le condotte non comportanti appropriazione, consistenti nel mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche (…). L’intervento di cui all’articolo in esame risponde allo scopo di chiarire definitivamente i termini di punibilità di tali condotte non appropriative, anche in ragione della necessità di preciso adeguamento alla normativa euro-unitaria”.
Come si vede, la Relazione presta il fianco, nuovamente a dubbi sul concetto di condotta appropriativa, quasi a non accettare più l’assimilazione in essa della condotta distrattiva nel senso graniticamente riconosciuto dalla Suprema Corte, imponendo una lettura normativa vincolata. Si riferisce invero al “mero” mutamento di destinazione.
Viene da chiedersi, dunque, che margini di interpretazione differenti lasci la clausola di sussidiarietà con cui si apre l’art. 314 bis c.p.: “Fuori dei casi previsti dall’art. 314”.
Come è da intendersi tale enunciato? Significa “fuori dai casi di appropriazione”, così lasciando intatta l’interpretazione della norma laddove assimila ad essa la distrazione ad uso esclusivamente privato? Oppure, ammette la sussistenza di condotte diverse nei quali l’appropriazione può manifestarsi considerandole meno gravi, recuperando le condotte che avrebbero costituito abuso di ufficio?
Ad avviso di chi scrive, la coerenza del sistema ed un reale abbraccio al vincolo comunitario impongono di ritenere, con una opera di interpretazione -innanzitutto- logica, che le condotte già recuperate dalla giurisprudenza nell’alveo di quelle a contenuto appropriativo siano rimaste punite dalla disciplina del peculato tradizionale.
Ed in effetti, ancor più in una ottica sistematica tale interpretazione appare l’unica idonea a garantire un senso di coerenza al sistema: eviterebbe di equiparare alle condotte in cui la distrazione presenta (anche) una finalità pubblica quelle in cui essa è totalmente assente, creando un’area di sostanziale impunità soprattutto nei confronti di coloro che “decidono” dell’uso del denaro per averne la disponibilità nel senso giuridico di cui si è detto.
Si tratta di una conclusione logica il cui fondamento si rinviene nella consolidata giurisprudenza di cui si è detto. La Suprema Corte ha chiarito che gli amministratori pubblici “agendo uti domini e imprimendo alle risorse dell'Ente una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, e così "appropriandosi" di tali beni, attuando proprio quell'inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, gli imputati hanno esercitato una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini: si sono impadroniti -e, quindi, si sono appropriati- dei capitali posseduti, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione. [...] Gli imputati hanno conseguentemente disposto delle somme uti domini, nel senso che alle stesse é stata data una destinazione discrezionale, senza vincoli o limiti, come avrebbe potuto fare il proprietario del bene. In buona sostanza, gli imputati, in spregio a precise disposizioni in materia di investimenti pubblici, hanno impegnato il denaro dell'Ente in operazioni a rischio, idonee a consumarlo, ed al fine di recare profitto ad un terzo, senza perseguire ed anzi negando ogni finalità pubblica dell'operazione. Il non avere agito secondo le indicazioni fissate (tali possono essere considerate quelle imposte dalla normativa nel caso di specie), esponendo le risorse dell'Ente ad un rischio non consentito con la mancata restituzione parziale dello stesso, va qualificato come inadempimento alla obbligazione di restituzione discendente da un impiego diverso da quello pattuito, comportamento integrante la condotta di disposizione uti dominus di denaro altrui (sez. 2, sentenza 11-4-2012, n. 24530, Piasente). Nel caso in esame, per altro, avendo gli imputati disposto dei fondi andando ben oltre le facoltà̀ di disposizione dei beni consentite loro dal titolo in virtù̀ del quale li possedevano, si é verificata una profonda scissura nella permanenza della connessione funzionale e quindi della legittimità̀ del possesso”.
Una diversa interpretazione non consegnerebbe più all’Europa un “nuovo” reato volto a colmare l’abrogazione di quello preesistente, bensì regalerebbe agli amministratori infedeli una facile scappatoia.
Sarebbe, dunque, auspicabile, che in sede di conversione, il Legislatore ripensasse la formulazione della disposizione rendendola più chiara.
Questo contributo costituisce il terzo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista. Si veda D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere) di Andrea Apollonio, D.d.l. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza di Costantino De Robbio.
Sommario: 1. Le novità in materia di impugnazione - 2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto - 3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare - 4. Addio all’appello del pubblico ministero (e la parte civile?) avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta.
1. Le novità in materia di impugnazione.
Tre sono le novità in materia di impugnazione introdotte dal disegno di legge C.1718 (era il S.808), approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati lo scorso 10 luglio, contenute rispettivamente nelle lettere o) e p) dell’art. 2.
Le prime due sono eccentriche al testo e al disegno di legge originario. Accolgono in concreto sollecitazioni asistematiche dell’Avvocatura penale, sono state introdotte dalla Commissione giustizia del Senato [[1]] e, in concreto, confermano che il legislatore se e quando vuole intervenire tempestivamente trova la strada opportuna [[2]].
La prima (lettera ‘o’ prima parte) riguarda la pronta abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 cod.proc.pen. che dispone(va) a pena di inammissibilità il deposito, insieme con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori, della dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizi.
La seconda (lettera ‘o’ seconda parte) riguarda l’altrettanto pronta abrogazione di parte del comma 1-quater del medesimo art. 581, limitatamente all’obbligo, quando si è proceduto in assenza e il difensore ha nomina fiduciaria, di depositare con l’atto di impugnazione del difensore anche uno specifico mandato ad impugnare rilasciato al medesimo dopo la pronuncia della sentenza. L’obbligo pertanto permane solo nel caso di difesa d’ufficio.
Queste due norme sono state introdotte dall’art. 33 del d.lgs. n. 150/2022 e sono (erano) in vigore dal 30 dicembre 2022 per le sole impugnazioni proposte a decorrere da tale data. Le censure di incostituzionalità loro rivolte sono state ritenute manifestamente infondate dalla giurisprudenza di legittimità (per tutte Sez.4, sent. 44630/2023).
La terza (lettera ‘p’) elimina l’appello del pubblico ministero (e notiamo subito apparentemente non anche della parte civile) avverso le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali si procede con la citazione diretta a giudizio (550, commi 1 e 2).
2. La brevissima vita dell’obbligo di depositare, insieme con l’atto di impugnazione, la dichiarazione o elezione di domicilio: l’approccio sistematico, questo sconosciuto.
2.1. La previsione dell’obbligo di deposito della dichiarazione o elezione di domicilio insieme con il deposito dell’atto di impugnazione va vista nel contesto sistematico del nuovo giudizio di impugnazione introdotto dalla cd Riforma Cartabia pertinente il settore penale e processuale penale (legge 134/2021 e d.lgs. 150/2022), e finalmente operativo per le impugnazioni proposte dal 01/07/2024 (dopo diciotto mesi di incomprensibile rinvio) [[3]].
Essa è invero strettamente pertinente sia all’introduzione di termini stringenti per la trattazione dei giudizi di impugnazione, in particolare all’istituto (morituro ma tuttora vigente) della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione disciplinato dall’art. 344-bis, che alla connessa rivisitazione dei tempi per l’avviso della fissazione del giudizio di appello.
Infatti a regime (per le impugnazioni proposte dopo il 31/12/2024) i termini di durata massima al cui superamento consegue la improcedibilità dell’azione penale in corso sono (di regola) di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione. Entrambi decorrono trascorsi novanta giorni dalla scadenza per il deposito della (motivazione della) sentenza, che il giudice ha determinato nel dispositivo [[4]].
Contestualmente, i termini per l’avviso della data fissata per il giudizio di appello si raddoppiano da venti a quaranta (601, comma 5), con un rilevante aumento che è connesso alla rivisitazione del sistema dei termini per: le richieste di giudizio in presenza (598-bis, comma 2), la proposizione del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello (599-bis), la presentazione delle conclusioni e delle repliche per il giudizio in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti (598-bis, comma 1, seconda parte).
Con riferimento a tali termini risulta evidente che i due anni utili a disposizione del giudice di appello assorbono gli eventuali ritardi: nel deposito della sentenza oltre il termine assegnato, senza che si sia ricorsi alla proroga ex 154 disp. att. cod. proc. pen. (ovvero comunque con superamento dei novanta giorni consentiti per questa); nella trasmissione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice che ha deliberato la sentenza; nella registrazione del fascicolo da parte della cancelleria del giudice dell’impugnazione; comunque dai quaranta giorni (anziché 20) per l’avviso della fissazione [[5]]. Tutti questi fatti procedimentali erodono pertanto (sul piano organizzativo quanto meno) il tempo utile a disposizione del giudice di appello. Che tale erosione possa avvenire anche da disfunzioni dell’Amministrazione (il raddoppio venti/quaranta è consapevole scelta sistematica del legislatore; ma i ritardi attengono a condotte) e, quindi, sia dato astrattamente non rilevante sul piano della disciplina dei principi sarebbe affermazione condivisibile se chi ha l’obbligo costituzionale di fornire le risorse per rispettare il senso e la finalità delle norme legislative non fosse lo stesso soggetto che formula le norme e non ti fornisce le risorse. In proposito, se è vero che l’art. 110 Cost. assegna al Ministro della giustizia la competenza per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, è pur vero da un lato che lo stesso agisce innanzitutto con i mezzi finanziari, e le norme, che il Parlamento gli mette a disposizione, dall’altro che le esperienze degli ultimi anni (e di più legislature e governi di diversa composizione) hanno sempre più assottigliato l’autonomia dei due momenti (e poteri) della legislazione e dell’esecuzione.
In questo contesto sistematico si inserisce (inseriva) la previsione ex art, 581, comma 1-ter, per la quale il deposito dell’atto di impugnazione deve (doveva essere) accompagnata dal deposito di una dichiarazione o elezione di domicilio specificamente servente il successivo avviso della data di fissazione del giudizio di appello: secondo questa previsione normativa, il giudizio di impugnazione si celebra dando avviso della trattazione all’imputato nel luogo o alla persona che egli ha specificamente indicato per quella trattazione di un nuovo e autonomo grado di giudizio che si svolge su sua richiesta. Tale accorgimento è l’unico che consente di avere tempi per l’avviso coerenti e congrui al complessivo sistema di termini che caratterizzano il nuovo giudizio di appello (in particolare a fronte di esperienze quotidiane di plurime modifiche delle dichiarazioni o delle elezioni di domicilio spesso pure presentate in contesti diversi dove agiscono soggetti differenti: polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari, giudice del dibattimento e giudice dell’impugnazione). Non è pertanto palesemente illogica, gratuitamente asistematica o costituzionalmente problematica la previsione che l’inizio di un nuovo grado di giudizio sia caratterizzato dall’azzeramento delle a volte oggettivamente complesse vicende afferenti la regolarità delle notifiche nel grado precedente. Chi consapevolmente chiede procedersi a nuovo grado di giudizio è nelle condizioni di fornire un’indicazione da quel momento certa e unica per la notificazione dell’avviso della data di fissazione del processo che ha chiesto (anche eventualmente indicando consapevolmente il difensore nominatogli d’ufficio o scelto fiduciariamente, difensore con il quale ha onere di mantenere i rapporti. qualora la sua situazione di vita renda problematica l’indicazione specifica).
2.2 Questo richiamo sistematico al legame strettissimo tra nuova disciplina del giudizio di appello e onere di depositare insieme dichiarazione o elezione di domicilio “ai fini (spiega espressamente il comma 1-ter) della notificazione del decreto di citazione a giudizio” mantiene piena efficacia, è opportuno chiarirlo subito, anche nel caso in cui venisse completato l’iter normativo che intende abrogare l’istituto disciplinato dall’art. 344-bis per ripristinare l’applicazione dell’istituto della prescrizione nei giudizi di impugnazione (le proposte di legge unificate 893-745.1036.1380-A sono state già approvate dalla Camera dei deputati e sono ora all’esame del Senato).
La pregnanza dei tempi utili per la trattazione rimarrebbe infatti problematica di permanente piena rilevanza, anche con la “nuova” prescrizione.
Infatti, l’introducendo nuovo art. 159-bis cod. pen. prevede sì una sospensione biennale del corso della prescrizione dopo le sentenze di condanna (due anni per il giudizio di appello, un anno per il giudizio in Cassazione) ma dispone che la stessa ‘salti’ se il giudice dell’impugnazione non deposita la sentenza entro quegli stessi termini (due anni, appello, un anno, legittimità). Gli stessi, oltretutto, decorrerebbero già dalla scadenza del termine che il giudice dell’impugnazione ha indicato nel dispositivo per il deposito della sentenza. Il che significa, in concreto e per esempio, che comunque i mesi utili non sono per l’appello ventiquattro ma quantomeno ventidue e quindici giorni e per la Cassazione non dodici ma otto e quindici giorni. Entrambi i tempi infatti sono al lordo del tempo – normalmente quarantacinque giorni – che l’imputato condannato ha per impugnare) [[6]].
Ecco pertanto che l’intervento della legge in via di pubblicazione (che muove dal cd. d.d.l. Nordio) con l’abrogazione del comma 1-ter dell’art. 581 entra nel nuovo sistema dei giudizi di impugnazione con un approccio palesemente e oggettivamente atomistico.
Per quanto detto, infatti, rispetto al nuovo sistema che ha (aveva) un suo delicato equilibrio di termini e tempi, funzionale e attento ai diversi, e a volte confliggenti, aspetti rilevanti nella sempre complessa relazione tra diritto di difesa ed efficienza del sistema, interviene esclusivamente sul meccanismo dell’avviso di fissazione, astraendolo dalla logica del sistema e creando così le premesse per un’ulteriore erosione del tempo utile per la trattazione. Tale intervento pertanto, consapevolmente o meno, di fatto riduce la possibilità concreta di rispettare i termini di durata massima del giudizio di impugnazione evitando l’improcedibilità o mantenendo efficacia alla nuova sospensione della prescrizione (secondo la legge del giorno).
Opportuno richiamare le prevalenti ragioni di contestazione della norma del comma 1-ter, di spessore prevalentemente pratico.
Si è detto che: in realtà se si era andati a sentenza, in realtà si sapeva già dove trovare l’imputato; sarebbe difficile recuperare il provvisoriamente condannato per fargli fare la necessaria dichiarazione o elezione; il diritto di difesa dell’imputato non potrebbe mai soccombere alle esigenze organizzative/funzionali dell’Amministrazione.
Sono ragioni che paiono francamente deboli.
L’imputato condannato nel grado precedente è oggi un imputato necessariamente consapevole della pendenza di quel giudizio. Le censure e critiche sul tema significativamente non si sono mai confrontate con le conseguenze della nuova assai più rigida disciplina della citazione al giudizio di primo grado, orientata sulla conoscenza effettiva della pendenza e della trattazione della fase processuale. Basta richiamare: la nuova disciplina dell’assenza, con innanzitutto l’attuale contenuto dei primi tre commi dell’art. 420-bis, del comma 5 e del comma 7 (e 604, commi 5-ter e 5-quater per l’appello); la precedente e coerente sentenza 23948/2020 delle Sezioni Unite in materia di elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, anche in relazione all’art. 162, comma 4-bis; gli avvisi che vanno dati alla persona sottoposta alle indagini sugli oneri che gli competono nel rapporto con il difensore (157, comma 8-ter; 161, comma 1, seconda parte). In definitiva, il primo giudizio non può essere celebrato con un imputato che sia incolpevolmente inconsapevole e incolpevolmente ignori chi sia il suo difensore.
Quanto al tempo disponibile per procurarsi la dichiarazione o elezione di domicilio, in realtà la parte, conoscendo da subito il dispositivo, ha, cumulativamente, il tempo che il giudice ha indicato per il deposito della sentenza, il termine ordinario per impugnare (normalmente ormai attestantesi su quello massimo di quarantacinque giorni), gli ulteriori quindici giorni assegnati all’imputato rimasto assente (585, comma 1-bis; sul delicato ma interessante e attualissimo tema dell’effettiva instaurazione di un rapporto professionale imputato/difensore sia consentito un ulteriore rinvio) [[7]].
È stato anche affermato che il fatto che sia l’imputato a chiedere il giudizio di impugnazione non potrebbe comportare alcun suo onere aggiuntivo rispetto alla mera richiesta, rimanendo pur sempre lo Stato a procedere contro di lui e quindi a doverselo cercare e pertanto apparendo la pretesa dell’indicazione di domicilio effettivamente utile alla trattazione del giudizio di impugnazione sarebbe in qualche modo pretesa di una ‘collaborazione’ che non compete all’imputato.
In realtà, con riferimento ai principi costituzionali (che danno rilievo anche alla ragionevole durata, all’efficienza ed all’efficacia del giudizio) ed alla nozione di diritto di difesa nell’insegnamento della Corte costituzionale e nella giurisprudenza delle Corti europee, la ‘pretesa’ statale che chi chiede un ulteriore grado di giudizio indichi dove vuole essere avvisato francamente non appare tale da essere sussunta in uno stravolgimento inaccettabile del diritto di difesa. Anche perché altrimenti occorrerebbe una seria riflessione sulla permanenza di una disciplina processuale che consenta alla persona citata a giudizio di non presentarsi davanti al giudice, piuttosto che obbligarne la presenza in prima udienza per aver certezza della consapevole contezza dell’accusa ed anche per tutte le informazioni necessarie, come le discipline processuali di diversi Stati europei prevedono.
Un cenno incidentale finale pare doveroso. Sarebbe utile approfondire le ragioni per le quali anche con una norma dal testo preciso e chiaro come l’art. 581 comma 1-ter (“con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata, a pena di inammissibilità, la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”: deposito l’atto di impugnazione e “con” quello anche la dichiarazione o elezione di domicilio), la contestualità dei due depositi (eventualmente con unico atto per l’appello) sia stata messa in discussione con alternative oltretutto numerose e tali da rendere necessario il rinvio del tema alle Sezioni unite (Quinta sezione penale, ord. 19/06/2024). Probabilmente sono maturi i tempi per una riflessione serena sul ruolo attuale della Corte di cassazione, sul metodo con cui perviene alla nomofilachia che le compete, sullo stesso metodo di lavoro delle diverse Sezioni, perché il contesto appare forse ancora in cerca di un nuovo efficace equilibrio dopo la ‘decapitazione’ collettiva indotta nella giurisdizione di legittimità dalla perversa sinergia tra la riduzione dell’età di servizio a 70 anni e la necessità dei quattro anni per la legittimazione all’incarico semidirettivo di presidente di sezione.
Sul punto, vedremo ad esempio se e come l’applicazione del principio del tempus regit actum avrà efficacia operativa non contrastata nel rispondere al quesito sugli effetti dell’abrogazione del comma 1-ter in relazione agli appelli in cui l’atto è stato depositato nella vigenza della norma.
3. Le curiose ricorrenza e sorte dello specifico mandato ad impugnare.
L’intervento sul comma 1-quater dell’art. 581 ha scelto la soluzione intermedia di un’abrogazione parziale [[8]].
3.1. Nei processi in cui l’imputato è stato processato in assenza, solo per il difensore di fiducia (tale al momento del deposito dell’atto di impugnazione) non è più necessario lo specifico mandato ad impugnare.
Tale obbligo permane nel caso di difensore di ufficio. Quindi il difensore di ufficio dell’assente non può proporre impugnazione senza uno specifico mandato ad impugnare dell’assistito, mandato che deve essere rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (da intendersi, quando la motivazione non sia contestuale, come pubblicazione del dispositivo, posto che è quello l’atto che determina e circoscrive la ‘pronuncia’/deliberazione che la successiva motivazione può solo spiegare ma non modificare).
Ciò vale anche per il giudizio di legittimità (per tutte Sez.6 sent. 2323/2024).
Sul tema peculiare dell’esigenza del mandato speciale anche per il difensore nominato sostituto del titolare della difesa ex art. 97, comma 4, e da alcuna giurisprudenza considerato legittimato all’autonoma proposizione dell’impugnazione, sia consentito un rinvio [[9]].
Pure in questo caso l’intervento è stato atomistico e asistematico.
Il nostro codice di rito consentiva e consente già al difensore di munirsi di una procura speciale ad impugnare, che può essere rilasciato dall’imputato anche prima della deliberazione della sentenza che chiude il grado: lo prevede l’art. 571, comma 1. Tale procura speciale, però, trasferisce il diritto all’impugnazione che, per il solo giudizio di appello, l’imputato può esercitare personalmente, con la relativa legittimazione. Ciò comporta che il difensore che depositi l’atto di impugnazione in ragione di una procura speciale rilasciata ai sensi dell’art. 571 ‘consuma’ il diritto e la legittimazione personali dell’imputato, con la conseguenza che quell’imputato non potrà più proporre autonomamente impugnazione anche quando in ipotesi in concreto non a conoscenza della trattazione del giudizio di appello (in tal caso accedendo direttamente ai rimedi propri della fase esecutiva)
Con il mandato specifico ad impugnare, ex art. 581, comma 1-quater, il difensore acquisisce invece una propria legittimazione, autonoma e distinta da quella personale dell’imputato.
Lo scopo del mandato speciale è infatti quello di assicurare “che il giudizio di impugnazione (appello o legittimità) si svolga nei confronti di un ‘assente consapevole’, così da limitare lo spazio di applicazione della rescissione del giudicato e dei rimedi restitutori (per tutte, Sez.6, 2323/2924 cit.)” ovvero di perseguire il “legittimo scopo di far sì che le impugnazioni vengano celebrate solo quando si abbia effettiva contezza della conoscenza della sentenza emessa da parte dell'imputato, per evitare la pendenza di regiudicande nei confronti di imputati non consapevoli del processo, oltre che far sì che l'impugnazione sia espressione del personale interesse dell'imputato medesimo e non si traduca invece in una sorta di automatismo difensivo (Sent. 44630/2023 cit.)”.
La differenza tra diritti/poteri e legittimazioni ex artt. 571 e 581-quater evidenzia l’autonomia del tema della consapevolezza e della conoscenza del giudizio da parte dell’imputato rispetto al tema del diritto/potere di impugnare. Ed è proprio questa netta distinzione, che viene in considerazione anche per il tema della cd consumazione del potere di impugnazione (tema che ha presentato un peculiare ‘scontro’ tra Sezioni unite della Corte di cassazione e Corte costituzionale) [[10]].
Anche per quanto attiene al mandato specifico per impugnare paiono quindi essere prevalse generiche ragioni di fattibilità, se non comodità, tralasciando le originarie esigenze sistematiche che avevano determinato l’introduzione della norma. In tal modo si è però, quanto ai difensori di fiducia, riaperta la possibilità di giudizi di impugnazione che si celebrino in contesti di obiettiva inconsapevolezza della fissazione del giudizio da parte dell’assistito, con le conseguenti necessità di rinnovazione dei processi dei gradi di impugnazione a quel punto inutilmente trattati con dispersione delle già non adeguate risorse di uomini e mezzi messe a disposizione della Giustizia. L’esperienza quotidiana di udienza presenta invero più volte il caso del difensore formalmente di fiducia ma che ha interrotto i rapporti con l’assistito e, per ragioni deontologiche per esempio, non intende ‘abbandonarlo’ contando su un successivo contatto, ovvero che ritiene di interpretare le intenzioni dell’assistito momentaneamente non reperibile.
In proposito si è già accennato alla necessità, alla luce della nuova più stringente disciplina dell’assenza, di approfondire due temi in genere non adeguatamente trattati: quello della relazione ruolo processuale/ruolo professionale/deontologia sul punto specifico del rapporto giudice/difensore/nuovi presupposti dell’assenza/imputato e quello degli eventuali limiti della tutela (anche ‘europea’) dell’imputato consapevole ma non diligente per scelta o oggettivo disinteresse [[11]].
3.2. L’intervento parzialmente abrogativo determina una situazione che curiosamente ricorda in buona parte quanto già vissuto dalla nostra legislazione processuale penale, a proposito del rapporto “diritto di difesa e giudizio contumaciale”.
Come in altra sede ricordato, nel testo originario il codice Vassalli prevedeva già, e, per entrambe le tipologie di difesa (fiduciaria e d’ufficio), proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [così recitava l’art. 571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste].
E’ significativo che, quindi, la necessità del mandato specifico per l’impugnazione del contumace (l’odierno assente, questi assai più garantito) è stata esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il genuino processo accusatorio: proprio anche nell’originaria impostazione teorico-sistematica si era pertanto considerato pienamente coerente ai principi del processo accusatorio l’onere, per l’imputato rimasto contumace per sua scelta, di dover conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
Altrettanto significativo è che nella relazione accompagnatoria la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, per l’impugnazione proposta in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
Orbene, la necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999. È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di voler consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato.
Quindi, da un lato non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio originario che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, si deve evincere, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, per sé non modificava la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto procedimentale), appariva almeno potenzialmente difficoltosa.
Da qui però l’eliminazione dell’esigenza del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia, per i quali invece pur non si ritenevano sussistere particolari problemi e difficoltà.
Dal 1999 molto è in effetti cambiato in tema di difesa d’ufficio, in tema di assenza/contumacia e presupposti dell’applicazione dell’istituto, in tema di costruzione del rito di appello penale. Sicché anche le ragioni uniche indicate per l’abbandono del principio accusatorio originario della necessità del mandato speciale per chi era stato processato oggi avrebbero dovuto essere rivisitate e comunque corroborate da ben altri e certo meno generici argomenti a sostegno.
Ed invece il Legislatore elimina l’obbligo del mandato speciale per l’impugnazione dell’assente e lo fa solo per il difensore d’ufficio, con una scelta che ‘ribalta’ la lettura del 1999, è obiettivamente atomistica ignorando tutto il nuovo sistema che pur lui stesso ha costruito in tema di assenza e che, quanto specificamente al rito di appello ed ai suoi presupposti introduttivi, dal 01/07/2024 è finalmente il nuovo rito in vigore (per le impugnazioni proposte da tale data e con esaurimento di migliaia di procedimenti che gli inutili rinvii hanno consegnato al rito ‘emergenziale’: un’ ‘emergenza’ che durerà così, processualmente, dal novembre 2020 ad alcuni anni ancora).
Solo a un feroce nemico si potrebbe suggerire di scommettere contro un non remoto ulteriore intervento atomistico per riportare tutto a come era dopo la legge del 1999 (appunto però, in tutt’altro contesto normativo), ignorando le esigenze sistematiche che, esse solo in significativa sintonia con l’originario testo del codice Vassalli, hanno condotto all’introduzione del comma 1-quater nel testo ora modificato.
3.3. È opportuno evidenziare un ulteriore specifico punto problematico che la disattenzione del Legislatore atomistico avrebbe potuto agevolmente risolvere ed evitare.
Il comma 1-ter è stato abrogato.
Nel comma 1-quater l’unica modifica letterale introdotta è l’inserimento della locuzione “di ufficio” dopo la locuzione “del difensore”.
Peccato che in questo modo il testo del comma 1-quater reciti ora: “Nel caso di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore di ufficio è depositato, a pena di inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.”
Il riferimento alla dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato era nel testo originario del comma 1-quater. Quindi, per sé l’abrogazione secca del comma 1-ter non ha immediata conseguenza, perché il comma 1-ter si riferiva a tutti gli appelli, di imputati presenti e assenti e di difensori di fiducia o di ufficio.
Nel momento in cui il Legislatore ha ‘salvato’ il comma 1-quater in questo modo chirurgico, disciplinando la sorte dell’imputato assente assistito da difensore di ufficio in modo autonomo, ha legittimato anche l’interpretazione per cui l’obbligo per l’imputato assente e assistito dal difensore di ufficio di accompagnare il mandato specifico concorre con quello di depositare anche la dichiarazione o elezione di domicilio.
L’interpretazione alternativa dovrebbe valorizzare il termine “contenente” come solo descrittivo dell’esigenza di dettare modalità specifiche di adempimento dell’obbligo imposto dal comma 1-ter(l’unico atto contenente anche il conferimento del mandato specifico, quindi un mero richiamo applicativo) e non un’autonoma imposizione dell’onere di indicazione del domicilio per la notificazione del decreto di citazione a giudizio. Ma la lettera della norma, quando per sé suscettibile di lettura conservativa, si emancipa dalle idee confuse dell’autore (art. 12, primo comma, prima parte, ‘preleggi’).
4. Addio all’appello del pubblico ministero avverso i proscioglimenti per i reati a citazione diretta (p.s.: e la parte civile?).
4.1 Il pubblico ministero non può più appellare le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali, ai sensi dei primi due commi dell’art. 550, si procede con citazione diretta a giudizio. Intuitivo l’apparente ragionamento che associa una minor rilevanza sociale del disvalore dei reati alla loro assegnazione della competenza al tribunale in composizione monocratica. Tale associazione, in astratto approccio sistematico sicuramente ineccepibile, è dopo la robusta integrazione di competenza determinata dall’art. 32, comma 1, lett. a), d. lgs. N. 150/2022 probabilmente più discutibile.
Si tratta pertanto di una ulteriore contrazione della possibilità di impugnare le sentenze di primo grado da parte del pubblico ministero, che allo stato lascia il potere di impugnazione per i reati diversi da quelli di cui all’art. 550, primi due commi. Una contrazione che qualitativamente diviene molto significativa, in particolare rispetto alle precedenti che hanno influito prevalentemente sulla contestabilità della qualificazione giuridica e del trattamento sanzionatorio e quindi su una sentenza di condanna e del proscioglimento limitatamente a due tipologia di reati contravvenzionali.
È noto l’indirizzo della Corte costituzionale sul tema delle impugnazioni del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento: sentenze n. 26 del 06/02/2007 e 85 del 04/04/2008 [[12]].
Il fatto che l’abolizione per il pubblico ministero del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento non sia ‘tombale’, residuando per i reati ‘più gravi’, tali individuati in relazione al rito, probabilmente rende manifestamente infondata ogni questione di legittimità costituzionale, specialmente se si valorizza l’associazione art. 550=reati meno gravi. Certo sul piano sistematico l’equilibrio sarebbe stato ben più consistente se il Legislatore non avesse già cominciato a intaccare gli oneri imposti alle appellanti parti private dal d. lgs. 150/2022 (che pur ha anche ulteriormente diminuito i poteri della parte pubblica: si pensi alla nuova disciplina dell’appello incidentale).
4.2.1 Il tema dell’impugnazione da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento dovrebbe meritare però un approccio più tecnico e meno ideologico o di strumentalizzazione politica (per tutelare questo o quell’imputato ‘eccellente’ per risolvere sue contingenze processuali). È stato tema spesso brandito con argomenti di pancia più suggestivi che convincenti da chi propugna l’esclusione totale del potere e da chi lo vorrebbe più ampio (anche tornando all’impugnabilità piena originaria, pure, ad esempio, dei vari punti della decisione afferenti il trattamento sanzionatorio).
In realtà si dovrebbe iniziare a ragionare consapevolmente sui limiti strettissimi che anche l’appello avverso le sentenze di proscioglimento oggi ammissibile trova in esito alla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione sull’applicazione del parametro/criterio/norma dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” alla fattispecie della prima condanna in appello.
In sintesi estrema, l’appello della parte pubblica non potrà mai essere accolto se l’esito argomentativo dell’impugnazione sia solo quello di una ricostruzione alternativa, pur logica e convincente, che tuttavia consenta ancora ad alcuno di seguire il ragionamento e l’apprezzamento di merito diversi del giudice di primo grado che ha assolto. La più grande differenza del passaggio assoluzione-condanna rispetto alla tipologia di “rafforzamento” della motivazione propria del passaggio condanna-assoluzione si manifesta nelle modalità dell’applicazione della regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel secondo caso il giudice d’appello può limitarsi a spiegare la ritenuta sussistenza di un tal dubbio. Nel primo caso deve spiegare perché, dopo la propria argomentazione, la lettura probatoria del primo giudice non è più ragionevolmente sostenibile: deve cioè spiegare perché il fatto che il primo giudice abbia assolto non è idoneo a mantenere nel processo un ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1; ciò specialmente quando, ed è il caso certo più impegnativo e delicato, il materiale probatorio oggetto della valutazione rimane il medesimo.
Per questo (ed è aspetto autonomo rispetto al tema che stiamo trattando ma assai pertinente ed è opportuno richiamarlo) il mancato confronto dell’appello del pubblico ministero con quel criterio che il giudice di appello dovrà applicare (appunto, l’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”) in realtà dovrebbe determinare già l’inammissibilità per aspecificità dell’impugnazione della parte pubblica. Per l’appello che chiede la prima affermazione di responsabilità nel procedimento, deve infatti ritenersi sussistere un terzo tipo di genericità/aspecificità, che si affianca all’aspecificità intrinseca ed estrinseca, proprie di ogni atto di appello, ma è da loro del tutto diverso: è l’aspecificità che deriva dal non aver affrontato e spiegato anche il punto dell’applicazione della regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”: in particolare il non aver spiegato quali sono i vizi intrinseci, di logicità o violazione di legge o scostamento da materiale probatorio determinante che, una volta indicati dall’appellante e condivisi dal giudice, impediscono a chiunque di ripercorre il percorso argomentativo della decisione del precedente grado di giudizio.
In altri termini, l’impugnazione di appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento deve evidenziare dei vizi (logici, normativi, oggettivi) condivisi i quali nessuno può ripetere il ragionamento argomentativo logico/probatorio del primo giudice del merito. Perché, appunto, se lo può ripetere abbiamo due alternative e non quella unica, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, e la prima decisione, di proscioglimento, deve essere confermata anche se ‘meno convincente’. Quindi, non sussisterebbe spazio per una seconda pronuncia di merito di prima condanna, basata su una ricostruzione più convincente ma senza che la mancanza di vizi strutturali oggettivi impedisca di mantenere la possibilità della ricostruzione diversa del primo giudice.
4.2.2. Occorre quindi riflettere se, con l’attuale consolidata giurisprudenza di legittimità, vero e proprio ‘diritto vivente’, non sia effettivamente il ricorso per cassazione il più idoneo ed efficace mezzo di impugnazione di una decisione ‘viziata’ in modo tale da non poter essere ‘riproposta’ (conclusione che priverebbe di effettivo interesse il tema del se sia indispensabile o meno attribuire, o lasciare, al pubblico ministero l’appello quale mezzo di impugnazione di merito e legittimità).
L’indagine sul parametro che il giudice deve utilizzare per applicare correttamente al caso del passaggio assoluzione/condanna la regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ex art. 533, comma 1, presenta qualche sorpresa.
La massimazione delle sentenze della Corte di cassazione, e alcune delle motivazioni di queste, fanno riferimento ai concetti di “maggiore persuasività”, “forza persuasiva superiore”.
Ma l’analisi delle massime e il confronto con la motivazione cui quelle massime si riferiscono può essere caso di scuola di una reiterazione della massimazione che, in qualche modo, vive di vita propria: ciò accade quando il testo della sentenza massimata manifesta spunti diversi e addirittura non sussumibili in quella ‘stanca’ massima che si rigenera [[13]]. E, del resto, se ci si astrae un momento da questa reiterazione del richiamo alla “persuasività”, basta pensare che un ricorso che deducesse di motivazione “non persuasiva” sarebbe destinato all’inammissibilità: perché la persuasività è concetto di merito, non riconducibile ad alcuno dei tre tassativi vizi della lettera E dell’art. 606 e tantomeno riconducibile a un vizio di violazione di legge, anche processuale.
Deve quindi chiedersi come si possa allora utilizzare il concetto di “persuasività” – che è merito – per salvare o no la prima condanna in appello. In realtà la lettura delle sentenze così massimate mostra per lo più una casistica procedimentale che consente di pervenire ad un diverso, più chiaro e adeguato criterio, che è stato individuato nelle prospettazioni: “se il medesimo materiale probatorio è valutato in modo diverso da due differenti Giudici del merito e la motivazione di uno dei due non è viziata da mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà su aspetti determinanti, non è possibile affermare la colpevolezza dell'imputato”; ovvero: “l'insostenibilità oggettiva della prima decisione, per vizi intrinseci della motivazione o per mutamento del quadro probatorio, dopo la motivazione d'appello” [[14]].
Concludendo, se in definitiva la condanna in appello è consentita solo quando la motivazione del giudice di primo grado presenta vizi che, evidenziati, attestano l’impossibilità di poter ripercorrerne il percorso argomentativo pervenendo quindi a due ricostruzioni alternative, davvero occorre prender atto che il ricorso per cassazione potrebbe essere mezzo di impugnazione idoneo ed efficace per la tutela dell’aspettativa, certo socialmente apprezzabile, che una sentenza realmente ‘errata’ possa essere rivisitata con un secondo giudizio di merito che muova dall’eliminazione di quei vizi (impregiudicato l’esito del rinnovato apprezzamento di merito). E ciò per ragioni tecniche, che nulla hanno a che fare con approcci ideologici o politici strumentali.
4.3. E la parte civile? Può, invece, appellare le sentenze di proscioglimento anche per reati a citazione diretta?
L’intervento normativo riguarda palesemente solo l’art. 593. La disciplina dell’impugnazione della parte civile è disciplinata dall’art. 576, immodificato: recita tuttora che la parte civile può proporre impugnazione, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio e, quando ha consentito al giudizio abbreviato, contro la sentenza deliberata ai sensi dell’art. 442.
L’inappellabilità oggettiva, che come tale riguarda tutte le parti, private e pubblica, è solo per i casi tassativamente indicati nell’art. 593, comma 3; per il resto, l’imputato impugna nei casi previsti dal 593, comma 1, il pubblico ministero nei casi previsti dal 593, comma 2 (quello solo modificato), la parte civile nei casi previsti dal 576. Il legislatore con l’articolo 6 della legge n. 46/2006 ha abrogato il principio che la parte civile possa impugnare “con il mezzo previsto per il pubblico ministero” (in allora contenuto nel primo comma dell’art. 576).
Appare assolutamente singolare, e purtroppo significativo, che reintervenendosi nella stessa direzione seguita dalla legge 46/2006, quanto ai limiti dell’appello del pubblico ministero, venga ripetuta la medesima confusione sulla posizione della parte civile che aveva imposto l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 27214/2007, in particolare par. 5 del considerato in diritto). Ma lì si trattava di confermare la possibilità di appellare della dimenticata parte civile. Occorrerà verificare se quell’insegnamento possa essere utile per percorrere la via inversa: la ‘restrizione’ del potere di impugnazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento per reati a citazione diretta. Altrimenti si aprirà un autonomo e diverso profilo di possibile incostituzionalità: non già, per quanto detto, la limitazione ulteriore del potere del pubblico ministero, ma la disparità di trattamento tra il pubblico ministero che non può impugnare il proscioglimento nei reati a citazione diretta e la parte civile che può farlo. Il che, in un processo penale, è “un po’ forte”. A proposito di asistematicità…
[1] Dai resoconti parlamentari, risulta che nella seduta del 09/10/24 la sen. Gelmini proposte l’emendamento 2.73contenente la sola integrale abrogazione del comma 1-quater; nella seduta 10/01/2024 il Governo propose la riformulazione nel testo attuale, condiviso anche dall’originaria proponente; nella seduta 11/01/2024 l’emendamento venne approvato nel testo rimodulato come proposto dal Governo.
[2] Entrambe non avrebbero potuto essere introdotte con il cd decreto legislativo delegato correttivo (n. 31/2024), perché incoerenti alle previsioni della parte di delega contenuta nella legge n. 134/2024.
[3] Chiarendo subito che in realtà per il giudizio di legittimità la problematica rileva solo per il ricorso del difensore iscritto all’albo ma nominato di ufficio (unico caso in cui va dato avviso della fissazione dell’udienza anche all’imputato nel cui interesse è proposto il ricorso: 613, comma 4, in relazione all’art. 613, comma 2; conforme da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024); per questo sul tema i riferimenti nel testo saranno prevalentemente al giudizio di appello. Per quanto riguarda lo specifico mandato ad impugnare ex art. 581, comma 1-quater, invece le posizioni sono analoghe nei due gradi di giudizio (per tutte, da ultimo Sez.6 sent. 2323/2024 cit.).
[4] Per le sentenze di annullamento con rinvio della Corte di cassazione è aperta la problematica dell’applicazione dell’art. 617, comma 2 (il deposito deve avvenire entro trenta giorni) ovvero dell’art. 544.
[5] Significativamente le Sezioni unite hanno confermato che per gli appelli depositati prima del 01/07/2024 il termine a comparire è di venti giorni: il passaggio è tra due sistemi, non è possibile un inconsapevole (non voluto, senza ratio) sistema intermedio con norme sparse che vivono di vite autonome incoerenti tra loro: informazione provvisoria 09/2024 del 27/06/2024.
[6] Sul singolare intreccio operato dal Legislatore tra ‘sospensione Orlando’ (legge n. 103/2017), improcedibilità abrogata (344-bis), ripristino dell’applicazione dell’istituto della prescrizione (normativa già approvata alla Camera), sia permesso rinviare a https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-penale/3085-avanti-tutta-a-marcia-indietro-la-ragionevole-durata-del-giudizio-penale-di-appello-prescrizione-improcedibilita-notifiche .
In proposito appare utile richiamare la nota inviata da tutti i presidenti delle Corti di appello al Ministro della giustizia e ai Presidenti delle Commissioni giustizia della Camera e del Senato per rappresentare la necessità che ogni eventuale nuova disciplina venga accompagnata da una specifica disciplina transitoria:
[7] In questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio , in particolare i paragrafi 4 e 5.
https://www.sistemapenale.it/it/documenti/morte-prematura-dellimprocedibilita-e-ritorno-della-prescrizione-in-appello-le-preoccupazioni-dei-presidenti-delle-corti-dappello-in-una-lettera-al-ministro-della-giustizia-e-alle-commissioni-parlamentari
[8] Come sopra ricordato alla nota n.1 quanto al comma 1-quater l’iniziativa è del Governo.
[9] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2603-gli-approfondimenti-sulla-riforma-cartabia-3-pensieri-sparsi-sul-nuovo-giudizio-penale-di-appello-ex-d-lgs-150-2022 paragrafo 3.1.2
[10] V. https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio par. 3.3.
[11] https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-penale/2664-limputato-del-giusto-processo-ovvero-degli-articoli-581-commi-1-ter-e-1-quater-cod-proc-pen-di-carlo-citterio, in particolare il paragrafo 4.
[12] Sent. 26/2007: È costituzionalmente illegittimo l'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva. Il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111, secondo comma, Cost., non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e del difensore dell'imputato, stanti le differenze fisiologiche fra le due parti: tali dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza. A tali requisiti non risponde la norma contestata, che introduce una dissimmetria radicale, privando in toto il pubblico ministero del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda soccombente, con la conseguenza che una sola delle parti, e non l'altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole. Tale sperequazione non è attenuata dal fatto che l'appello è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive, trattandosi di ipotesi assolutamente eccezionali, né dall'ampliamento dei motivi di ricorso in Cassazione, perché tale rimedio non attinge alla pienezza del riesame del merito. La rimozione del potere di appello del pubblico ministero - generalizzata, perché estesa indistintamente a tutti i processi, e unilaterale, ossia senza contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo - non trova giustificazione neppure alla luce delle rationes che, secondo i lavori parlamentari, sono alla base della riforma, ed altera il rapporto paritario tra le parti con modalità tali da determinare anche un'intrinseca incoerenza del sistema, poiché il potere di appello viene sottratto al pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado ma mantenuto nel caso di soccombenza solo parziale. Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura.
Sent. 85/2008: È costituzionalmente illegittimo l'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dall'imputato, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa sia dichiarato inammissibile. L'art. 1 della stessa legge, privando l'imputato del potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva, è lesivo del principio di parità delle parti, in quanto non sorretto da alcuna razionale giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di corretta amministrazione della giustizia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, stante l'equiparazione fra sentenze di proscioglimento dagli esiti ampiamente diversificati, e del diritto di difesa, cui la facoltà di appello dell'imputato è collegata come strumento di esercizio. Sulla base di tali valutazioni, deve correlativamente considerarsi costituzionalmente illegittimo in parte qua anche l'art. 10, comma 2, della medesima legge.
[13] Come esempio di sentenze massimate secondo il concetto della plausibilità maggiore quando invece argomentano espressamente (e solo) in realtà di vizi della prima sentenza assolutoria, ribaltata <<la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di condanna nell'ambito di processo celebrato con il rito abbreviato, nella quale il verdetto di colpevolezza era fondato su puntuali rilievi di contraddittorietà della motivazione assolutoria, ai quali la Corte di appello era pervenuta sulla base dello stesso materiale istruttorio acquisito in primo grado, ma ampliando la piattaforma valutativa presa in esame dal giudice di prima cura >> (sent. 12273/14); <<la Corte ha annullato la sentenza di condanna del giudice di appello che aveva riformato una sentenza di assoluzione in ordine al delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso limitandosi a valutare diversamente i medesimi dati probatori esaminati in prime cure>> (sent. 45203/13); <<la Corte ha confermato la sentenza di condanna del giudice di appello che, riformando una sentenza di assoluzione di primo grado per il delitto di truffa per l'incertezza sulla sussistenza del dolo, aveva valorizzato circostanze di fatto già esistenti, ma pretermesse dal primo giudice, idonee a dimostrare con certezza il carattere doloso della condotta>> (sent. 11883/13).
[14] Sia consentito il richiamo a Cass. Sez. 6, sentenze 44767/2015 e 8705/2013 per una più accurata esposizione; alla sentenza 8705/2013 ed al suo principio di diritto espressamente si richiama ad esempio Sez.5, sent. 54300/2017, che purtuttavia viene massimata sulla maggiore plausibilità: ma ciò consente, quantomeno, di affermare che il concetto di “maggiore plausibilità” o “forza persuasiva superiore” in realtà si risolve in una maggior doverosa rispondenza all’effettivo materiale probatorio ed alla logica del ragionamento, trascurati dal primo giudice, da parte del giudice di appello. Del resto, già S.U. sent. 33748/2005 avevano chiarito che “In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.” Nient’affatto “persuasività maggiore”, quindi, ma indicazioni puntuali di specifiche “incompletezze o incoerenze”.
Significativa e concordante anche, tra tutte, Sez.6 sent. 10130/2015, così massimata: “il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di condanna in appello, per il reato di omissione di atti d'ufficio, di un medico di turno nel servizio di guardia medica, in relazione al mancato espletamento di una visita domiciliare sollecitata telefonicamente, osservando che il giudice di secondo grado non solo non aveva indicato alcun elemento specifico pretermesso o non adeguatamente valutato in primo grado, ma neppure aveva disposto una perizia medico legale al fine di disporre elementi di valutazione aggiuntivi).
Foto: Underwood&Underwood, Traveling by the Underwood Travel System - Stereographs, Guide-Books Patent Map System, stereo foto albumina, New York, 1908, Chicago Art Institute, Gift of Harold Allen.
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