ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contenzioso climatico e giurisdizione
di Giuliano Scarselli
“Si chiama perciò politica quell’aspetto della realtà che concerne il complesso degli interessi collettivi”.
F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 12.
Sommario: 1. Il contenzioso climatico in Italia e la questione della giurisdizione del giudice ordinario. 2. Si deve distinguere le controversie intentate contro lo Stato, nelle quali la giurisdizione è esclusa dal principio di separazione dei poteri. 3. Segue: e dall’impossibilità di sostituire il giudice all’amministrazione. 4. Segue: da quelle intentate contro le grandi imprese, nelle quali la sussistenza (o meno) della giurisdizione va valutata secondo le regole procedurali generali. 5. Il difetto assoluto di giurisdizione tra doveri dello Stato (e/o delle imprese) e diritti dei cittadini. 6. I doveri dello Stato. 7. Segue: quelli delle imprese. 8. Segue: e i diritti dei cittadini. 9. Ai doveri degli Stati (e/o delle imprese) non corrispondono automaticamente dei diritti per i cittadini. Quando ciò si verifica e quando no. Analisi della normativa interna e comunitaria sul punto. 10. Ed inoltre: del difetto di giurisdizione delle azioni che fuoriescono dal crisma della pretesa giudiziaria. 11. Se questi argomenti possono tenere a fronte del diritto dell’Unione europea. 12. Brevissima conclusione.
1. Il contenzioso climatico in Italia e la questione della giurisdizione del giudice ordinario. Intervengo su una questione di grande attualità, che è quella della giurisdizione (o meno) del giudice ordinario a fronte di azioni giudiziarie fatte valere da associazioni, oppure da semplici cittadini, per la condanna dello Stato, o di grandi realtà economico/industriali, ad adeguarsi ai doveri della riduzione nell’emissione di gas serra per ottemperare al raggiungimento degli obiettivi nazionali e internazionali a fronte dei cambiamenti climatici in corso[1].
Al riguardo, dobbiamo soprattutto far riferimento a due controversie in Italia:
a) la prima si è chiusa in primo grado con una sentenza del Tribunale di Roma, 26 febbraio 2024, sezione seconda, n. 3552[2].
Esattamente, una associazione e dei privati adivano il Tribunale di Roma contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri per ottenere la condanna dello Stato, ai sensi degli artt. 2043 e 2058 c.c.: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990, ovvero in quell’altra, maggiore o minore, in corso di causa accertanda” (così la domanda delle parti attrici).
Costituitasi in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato, il Tribunale di Roma, con la sentenza sopra menzionata, dichiarava inammissibile la domanda per difetto assoluto di giurisdizione.
Osservava il Tribunale di Roma che: “Gli attori, nel contestare l’inadeguatezza e l’insufficienza della condotta dello Stato nel contrastare i cambiamenti climatici lamentano una responsabilità dello Stato-legislatore, non predicabile fuori dai casi di violazione del diritto dell’Unione europea”; e quindi gli attori, secondo il Tribunale di Roma, chiedevano al giudice di intervenire su “valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana che rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio”.
Una pronuncia di merito su simile domanda, per il Tribunale di Roma, si sarebbe posta: “in violazione di un principio cardine dell’ordinamento rappresentato dal principio di separazione dei poteri” (così Trib. Roma, pag. 12 della sentenza).
b) Parallelamente a questa iniziativa ve n’è stata un’altra, con la quale due associazioni, unitamente sempre a dei soggetti privati, si sono rivolte, di nuovo al Tribunale di Roma, questa volta però non contro lo Stato ma contro ENI s.p.a., perché il Tribunale dichiarasse che “ENI s.p.a., Ministero dell’Economia e delle Finanze, Cassa depositi e prestiti s.p.a., a seguito delle emissioni in atmosfera di gas serra, e in particolare CO2, provenienti dalle attività industriali, commerciali e dei prodotti per il trasporto di energia venduti da ENI, non hanno ottemperato e non stanno ottemperando al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali riconosciuti di cui ENI s.p.a. si sarebbe dovuta dotare in linea con l’Accordo di Parigi, con l’art. 2 l. 240/2016 e con gli scenari elaborati dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi, in violazione degli artt. 2 e 8 della CEDU, così come previsto dagli artt. 2 e 7 della Carta di Nizza. Per l’effetto accertare e dichiarare che ENI s.p.a., Ministero dell’Economia e delle Finanze, Cassa depositi e prestiti s.p.a., sono solidamente responsabili, per violazione del combinato disposto degli artt. 2 e 8 della CEDU, 2 e 7 della Carta di Nizza, e degli artt. 2043 (o in alternativa art. 2050 0 2051 c.c.) e art. 2059, per tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e subendi dagli attori per l’effetto delle conseguenze del cambiamento climatico che essi hanno concorso a cagionare”[3].
In questa occasione, probabilmente per la sussistenza della pronuncia del Tribunale di Roma sopra menzionata, le parti attrici promuovevano regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. per far dichiarare la giurisdizione del giudice adito circa il contenzioso promosso[4].
Il regolamento preventivo di giurisdizione porta la data del 10 giugno 2024, e la questione è pertanto al vaglio della Sezioni Unite della Corte di Cassazione[5].
2. Si deve distinguere le controversie intentate contro lo Stato, nelle quali la giurisdizione è esclusa dal principio di separazione dei poteri. Orbene, io credo che in primo luogo sia necessario distinguere il contenzioso climatico che veda quale convenuto lo Stato, da altro contenzioso climatico che veda quale convenuto una società commerciale/industriale.
La differenza è evidente, poiché lo Stato, a differenze di una società industriale, non inquina e non produce direttamente gas serra; ciò possono farlo solo i singoli cittadini, oppure le imprese.
Dal che, se io chiedo che lo Stato venga condannato “all’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990”, in realtà io non chiedo che detto abbattimento sia posto in essere dallo Stato, ma chiedo, più precisamente, che lo Stato si attivi perché tale comportamento sia tenuto dai cittadini e dall’imprese.
In questi casi la domanda giudiziaria è quindi indiretta, e non a caso le stesse conclusioni dell’atto di citazione precisano che lo Stato sia condannato più esattamente “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento”, ecc…….
Dunque, non si pretende che il giudice condanni lo Stato all’abbattimento delle emissioni artificiali di CO2-ed, bensì che lo condanni a tenere un comportamento che imponga agli altri di abbattere le emissioni artificiali di CO2-ed.
Ma questa imposizione, ovvero queste “necessarie iniziative” delle quali si chiede la condanna, non potrebbero che avere ad oggetto leggi, o atti aventi forza di legge, con i quali, appunto, imporre il rispetto degli obiettivi.
E poiché è pacifico che il giudice, in uno Stato democratico basato sul principio della separazione dei poteri, non ha alcuna possibilità di ordinare agli organi competenti di fare leggi, o atti aventi forza di legge, di qualunque tipo o natura, (ma direi che la regola valga anche negli Stati totalitari), va da sé che una simile domanda rivolta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri non può che scontrarsi con il difetto di giurisdizione[6].
In questi termini la decisione del Tribunale di Roma, 26 febbraio 2024, che ha dichiarato inammissibili le domande per difetto assoluto di giurisdizione in quanto volte a condannare lo Stato-legislatore, non può che trovare piena condivisione, pena altrimenti il venir meno di ogni regola ordinamentale e processuale.
Il potere di imporre le leggi non è riconosciuto nemmeno alla Corte Costituzionale, relativamente alla quale, al più, si parla di “sentenze monito”, ovvero di sentenze che semplicemente indicano, senza alcun obbligo per il legislatore e fuori da meccanismi di condanna giudiziale, quale possa o debba essere la disciplina costituzionalmente legittima di una determinata materia[7].
E se tale potere non spetta alla Corte Costituzionale, certamente non può spettare al giudice ordinario di merito.
Né un potere del genere può essere immaginato presso il giudice amministrativo: e ciò non solo perché il difetto assoluto di giurisdizione è, appunto, un difetto assoluto, nel senso che nessun giudice, nemmeno quello amministrativo, può avere giurisdizione su detta materia, ma anche perché comunque ciò è escluso dallo stesso art. 7, 1° comma del codice del processo amministrativo, in base al quale: “Non son impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
3. Segue: e dall’impossibilità di sostituire il giudice all’amministrazione.
A completamento di ciò aggiungerei che il difetto assoluto di giurisdizione vi è altresì quando una parte chieda al giudice lo svolgimento di una funzione che fuoriesca dai canoni della giurisdizione a fronte di quelli dell’amministrazione.
È quanto, peraltro, emerge dallo stesso art. 41, 2° comma c.p.c. per il quale non v’è giurisdizione del giudice ordinario “a causa dei poteri attribuiti dalla legge alla amministrazione stessa”.
Al riguardo, alla luce di infiniti scritti dottrinali che sussistono sui rapporti tra giurisdizione e amministrazione, direi che la giurisdizione è il potere di applicare la legge al singolo caso controverso attenendosi al dettato normativo[8], o, per usare le parole di un processualista quale Antonio Segni: “La giurisdizione può definirsi come la funzione statale destinata all’attuazione della norma concreta di legge, attuazione che ha carattere sostitutivo o surrogatorio”[9].
Nessuno, poi, esclude che nel far ciò il giudice goda di un certo potere discrezionale, ma parimenti tutti ammettono che la discrezionalità del giudice è ben diversa dalla discrezionalità della pubblica amministrazione, poiché nel primo caso il potere discrezionale del giudice è circoscritto all’interpretazione della legge, mentre nel secondo caso il potere discrezionale della pubblica amministrazione è riferito alle scelte concrete da compiere e alle decisioni da prendere[10].
Ed anzi, il tratto maggiore che separa la giurisdizione dall’amministrazione sta proprio nel grado di discrezionalità che è riconosciuto nello svolgere la funzione: interpretazione della legge da una parte, scelta e bilanciamento degli interessi generali dall’altra[11].
Si tratta di un dato già presente nella nostra dottrina classica[12], riterrei non venuto meno nel tempo presente, e che continua ancor oggi a contrappone la funzione giurisdizionale a quella amministrativa[13].
Di nuovo, se la domanda giudiziale ha ad oggetto la condanna dello Stato: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2”, è evidente che con essa non si chiede al giudice di svolgere una funzione giurisdizionale in senso proprio, quanto piuttosto di sostituirsi all’amministrazione nel prendere decisioni che questa non assume.
Né si chiede al giudice di applicare la legge, poiché anzi le controversie sui mutamenti climatici partono dal presupposto della assenza di leggi che attuino gli impegni internazionali presi dall’Italia sul clima; e, stante anche la circostanza che le norme comunitarie non contengono le determinazioni in concreto delle attività che lo Stato, le imprese o i singoli cittadini devono tenere a fronte dei cambiamenti climatici, è impensabile, a mio parere, che la discrezionalità del giudice possa spingersi fino a consentirgli di porre in essere un’attività amministrativo/legislativa quale è quella di stabilire quali siano le cose da fare in concreto per giungere ad una riduzione della produzione entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990[14].
Ove il giudice facesse una cosa del genere, egli si sostituirebbe all’amministrazione, e quindi porrebbe in essere una funzione che esorbita dalla giurisdizione[15].
4. Segue: da quelle intentate contro le grandi imprese, nelle quali la sussistenza (o meno) della giurisdizione va valutata secondo le regole procedurali generali.
Il discorso, però, può essere diverso se il convenuto del contenzioso climatico non è più lo Stato bensì una società industriale come ENI[16].
Nei confronti di ENI, o più in generale di società commerciali e/o industriali, diversamente dallo Stato, è astrattamente possibile chiedere, direttamente e in concreto, di limitare: “le emissioni in atmosfera di gas serra, e in particolare CO2, provenienti dalle attività industriali, commerciali e dei prodotti per il trasporto di energia venduti da ENI”, o comunque chiedere di accertare che ENI ha tenuto un comportamento non conforme all’Accordo di Parigi e/o al diritto comunitario (così le conclusioni della seconda citazione).
È evidente che a fronte di una controversia di questo genere, il principio della separazione dei poteri non c’entra più niente, e solo qui, secondo i criteri generali, si tratta di valutare se il giudice ordinario abbia o meno giurisdizione a provvedere.
Direi, però, che se la controversia vede come parti solo dei privati e non anche la pubblica amministrazione (e ciò al di là del caso specifico, perché ENI ha un’anima ibrida tra pubblico e privato, e in quella lite è convenuto anche il Ministero dell’Economia), v’è da porsi il problema ulteriore dell’ammissibilità o meno dello stesso istituto del difetto assoluto di giurisdizione,
V’è da chiedersi, infatti, se nei casi in cui il contenzioso è solo tra privati, un difetto assoluto di giurisdizione sia ammissibile[17], visto che il nostro sistema processuale sembra configurarlo esclusivamente nei confronti della pubblica amministrazione (artt. 37 e 41 c.p.c.), mentre la giurisprudenza, almeno per quanto io sappia, non ha dato a questo quesito risposte univoche nel tempo, in quanto in un primo momento ha ritenuto che la improponibilità assoluta della domanda tra privati per mancanza di una norma che tuteli la situazione dedotta in giudizio fosse questione di merito e non di giurisdizione[18], e poi ha cambiato orientamento, asserendo che “Il regolamento preventivo di giurisdizione è ammissibile anche in un giudizio che si svolga tra privati, in quanto la mera qualità soggettiva delle parti non è più criterio discriminante assoluto al fine di stabilire se il ricorso per regolamento preventivo sia ammissibile”[19].
Ad ogni modo direi:
a) tutto ciò che qui cerco di razionalizzare vale in ogni caso con riferimento alle controversie contro la pubblica amministrazione;
b) e vale parimenti anche con riguardo alle controversie contro le società commerciali/industriali, in quanto, senza troppa differenza, la mancanza di una norma che tuteli la situazione dedotta in giudizio può valere o come difetto di giurisdizione, ove si ritenga ammissibile l’istituto (anche) in questi casi, oppure come inammissibilità della domanda; senza mutamento del risultato sostanziale di rigetto.
5. Il difetto assoluto di giurisdizione tra doveri dello Stato (e/o delle imprese) e diritti dei cittadini.
Il difetto assoluto di giurisdizione è contemplato nel nostro ordinamento dagli artt. 37 e 41 c.p.c.
Per circoscrivere il fenomeno credo si possa semplicemente richiamare la nozione che ne dà la dottrina: “Il difetto assoluto di giurisdizione (o improponibilità assoluta della domanda) nei confronti della pubblica amministrazione, si ha ogni qual volta sia dedotto in giudizio un interesse di fatto, cioè giuridicamente non protetto dal nostro ordinamento né come diritto soggettivo né come interesse legittimo.”[20].
Si tratta, dunque, di ipotesi nelle quali la posizione dedotta in giudizio non trova tutela nell’ordinamento[21], o, detto in modo analogo, “si tratta in definitiva di ipotesi in cui vengono dedotte dinanzi al giudice situazioni soggettive (interessi semplici) che non sono tutelabili in via giurisdizionale, non avendo la consistenza né di diritti né di interessi legittimi”[22].
Questa posizione è anche quella della giurisprudenza, sia meno recente[23] che più recente[24]; dal che, ai fini della giurisdizione, si tratta di verificare se la pretesa fatta valere in giudizio abbia natura di interesse semplice oppure la consistenza di un diritto tutelato dall’ordinamento; e, nel nostro caso concreto, si tratta di valutare se i privati abbiano un diritto proprio contro lo Stato (e/o contro le imprese) con riferimento ai problemi climatici del pianeta imputabili al surriscaldamento globale.
Posta la questione in questi termini, due però sono le precisazioni da dare:
a) la prima è che, evidentemente, la valutazione dell’esistenza o meno di questo diritto va fatta in astratto e non in concreto, ovvero si tratta solo di valutare se vi sono, o non vi sono, nell’ordinamento interno e comunitario, norme di protezione in grado di fissare dei veri e propri diritti soggettivi;
b) e la seconda è che, nel far ciò, non si tratta di valutare solo se, e quali siano, i doveri dello Stato (e/o delle imprese) a fronte dei mutamenti climatici, ma anche di chiedersi se ai doveri dello Stato (e/o delle imprese) possano corrispondere contrapposti diritti soggettivi dei cittadini.
V’è la tendenza a ritenere che la sussistenza di un presupposto abbia come conseguenza necessaria la sussistenza dell’altro[25].
Al contrario, si tratta di due momenti distinti, e che distintamente vanno analizzati, in quanto entrambi debbano esserci affinché il giudice abbia giurisdizione, e l’esistenza (eventuale) dell’uno non necessariamente comporta la sussistenza dell’altro[26].
6. I doveri dello Stato.
Circa il dovere dello Stato, si debbono in primo luogo ricordare le norme.
Le fonti normative possono essere indicate nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 9 maggio 1992 (UNFCCC), reso esecutivo in Italia dalla legge 15 gennaio 1994 n. 65, e poi soprattutto nell’Accordo di Parigi sul clima del 12 dicembre 2015, ratificato in Italia con la legge 4 novembre 2016 n. 204,
A livello comunitario vi sono inoltre le Direttive del Parlamento e del Consiglio europeo del 23 aprile 2009, 2009/29/CE, il Regolamento europeo sul clima 2021/1119 del 30 giugno 2021[27], e la Decisione, sempre del Parlamento e del Consiglio europeo, 406/2009/CE.
A ciò poi si aggiungono disposizioni di carattere più generale quali gli artt. 2 e 8 CEDU, gli artt. 2 e 7 della Carta di Nizza e art. 9 Cost.
A fronte di tutte queste fonti normative, io credo non vi possa essere dubbio dell’esistenza di un dovere dello Stato a provvedere per il contenimento dell’emissione in atmosfera di gas serra.
Tuttavia, poiché par evidente che per ottenere questo obiettivo, ovvero: “l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed nella misura del 92% rispetto ai livelli del 1990” si debbano “fare delle cose”, e queste “cose da fare” non sono precisate negli atti normativi sopra richiamati, è parimenti indiscutibile che questo dovere si concretizzi con l’esercizio di un potere discrezionale/valutativo da parte dello Stato.
Ed infatti l’Accordo di Parigi, fonte sempre richiamata dalle normative successive, e in particolar modo dal Regolamento europeo sul clima 30 giugno 2021 n. 1119, non solo non contiene l’elenco delle cose da fare, ma nemmeno contiene precetti giuridici in senso stretto, quanto piuttosto affermazioni di programma.
A titolo di esempio, per l’art. 2: “I cambiamenti climatici sono preoccupazione comune dell’umanità”, cosicché l’accordo “mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C …; per l’art. 4: “Le parti che sono paesi sviluppati dovrebbero continuare a svolgere un ruolo guida”; ed ancora per l’art. 6 gli obiettivi sono quelli di: “Promuovere la mitigazione delle emissioni di gas a effetto serra…..Incentivare e facilitare la partecipazione alla mitigazione delle emissioni di gas a effetto serra”; ed infine per l’art. 10: “Le parti condividono una visione a lungo termine sull’importanza di realizzare appieno lo sviluppo e il trasferimento delle tecnologie al fine di migliorare la resilienza ai cambiamenti climatici” [28].
Direi, in estrema sintesi, che così come non può essere messo in discussione che vi sia un dovere dello Stato di difesa dell’ambiente a fronte dei cambiamenti climatici, allo stesso modo non può nemmeno essere messo in discussione che questo dovere lo Stato lo adempie con atti non specificamente determinati dalle norme e rimessi al suo potere discrezionale.
Inoltre è chiaro che, poiché l’avanzare di nuovi diritti comporta inevitabilmente una contrazione di quelli già esistenti, va da sé che lo Stato deve procedere con prudenza e bilanciamento di situazione che potrebbero porsi tra loro in contrasto.
Direi che questa è stata anche la posizione dell’Avvocatura dello Stato nella misura in cui ha sostenuto che non può non sussistere: “un bilanciamento da effettuare tra tutela ambientale e perseguimento di altri rilevanti interessi sociali”[29].
7. Segue: quelli delle imprese.
La questione, di nuovo, si presenta diversamente quando dal dovere dello Stato si passi al dovere delle grandi imprese industriali e/o commerciali come ENI.
Le imprese, evidentemente, agiscono nel rispetto delle norme, e per loro tale rispetto non potrà che essere sufficiente.
Non possono avere le imprese dei doveri oltre quelli che risultino dalle leggi esistenti; né alle imprese può immaginarsi rimproveri da carenza normativa; né, ancora, alle imprese può essere rimproverata la mancata collaborazione agli obiettivi di cui agli accordi internazionali se non nella misura in cui questi obiettivi si siano tradotti in obblighi specifici a loro rivolti.
L’espressione contenuta in citazione, pertanto, e secondo la quale vi sarebbe responsabilità delle imprese che: “non hanno ottemperato e non stanno ottemperando al raggiungimento degli obiettivi climatici internazionali riconosciuti di cui ENI s.p.a. si sarebbe dovuta dotare in linea con l’Accordo di Parigi, con l’art. 2 l. 240/2016” non sembra, a mio sommesso parere, affermazione corretta poiché: a) o si indicano quali sono specificamente le norme che obbligano ENI o altre imprese a mettersi in linea con l’Accordo di Parigi; b) oppure va da sé che ENI e le altre imprese non hanno l’obbligo di adeguarsi all’Accordo di Parigi, in quanto è un Accordo che coinvolge gli Stati, e non le imprese[30].
In questo modo, mentre questo dovere sembra sussistere per lo Stato, se pur nella elastica forma di un dovere rimesso alla discrezionalità di individuazione delle modalità possibili anche in bilanciamento con altri diritti, egual dovere non sembra potersi predicare per le imprese, che nient’altro sono tenute a fare se non rispettare le leggi esistenti che direttamente le chiamino in causa; e tutto il resto può loro essere rimproverato solo dal punto di vista morale; e ciò, evidentemente, anche ai fini della valutazione della giurisdizione.
8. Segue: e i diritti dei cittadini.
È arriviamo al tema principale, che è quello di valutare se al dovere dello Stato segua automaticamente un corrispondente diritto del cittadino.
E qui vale ricordare che, anche ammessa l’esistenza del dovere dello Stato, questo dovere non sembra proprio né riversarsi sulle imprese, né attribuire automaticamente ai cittadini un diritto generale di agire in giudizio.
Prima ancora che con elaborazioni teoriche, penso che l’insussistenza di una correlazione necessaria tra dovere/diritto si possa dimostrare semplicemente con degli esempi.
È fuori da ogni discussione, ad esempio, che lo Stato abbia il dovere di tenere ad elevati livelli di qualità gli ospedali e la sanità pubblica a tutela del diritto alla salute dei cittadini nel rispetto dell’art. 32 Cost.
Però, parimenti, ritengo che nessuno si sentirebbe di affermare che, allora, un qualunque cittadino possa adire il giudice per chiedergli di condannare lo Stato a rispettare questo suo dovere.
Così, se un cittadino si lamenta di una specifica malasanità, che gli ha prodotto un danno ingiusto, lì è ovvio che la domanda può essere solo (se del caso) respinta nel merito, e nessuna questione di giurisdizione può porsi. Ma se al contrario il cittadino, fuori da ogni fatto specifico, semplicemente lamenti l’inattività dello Stato nella corretta e adeguata tenuta e gestione degli ospedali, chiedendone al giudice la condanna a provvedere entro una certa data, lì diversamente credo che ai più apparerebbe evidente l’esistenza del difetto assoluto di giurisdizione[31].
Lo stesso, sempre a titolo di esempio, potrebbe valere per la scuola a fronte del diritto costituzionale di cui agli art. 33 e 34 Cost.
Se un cittadino si rivolgesse al giudice asserendo che lo Stato mantiene la scuola e l’istruzione in uno stato del tutto scadente per un paese democratico ed evoluto quale l’Italia e chiedesse la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’adeguamento della scuola ad un livello accettabile di qualità per un tempo futuro da determinare, oppure la condanna ad adeguare gli stipendi del personale del Ministero dell’istruzione ai parametri dell’art. 36 Cost., di nuovo queste domande, con tutta probabilità, verrebbero rigettate per difetto assoluto di giurisdizione, senza scandalo o discussione di alcuno; e, direi, anche se proposte da una associazione, e non solo da un soggetto privato.
Ma potremmo dare un terzo esempio tratto dall’art. 31 Cost. in materia di famiglia.
Al riguardo, infatti, la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei relativi compiti, con particolare riguardo alle famiglie numerose, nonché protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
Se qualcuno si dovesse rivolgere al giudice semplicemente asserendo che lo Stato è inadempiente con riguardo a questi compiti, e ne chiedesse la condanna giudiziale della protezione in modo più incisivo e concreto, beh, riteniamo, di nuovo, che la domanda verrebbe ancora una volta considerata del tutto priva di giurisdizione, e ciò senza meraviglia di alcuno.
9. Ai doveri degli Stati (e/o delle imprese) non corrispondono automaticamente dei diritti per i cittadini. Quando ciò si verifica e quando no. Analisi della normativa interna e comunitaria sul punto.
Ed infatti, stando ai principi, ai doveri dello Stato non corrispondono diritti dei cittadini, se non nella misura in cui la legge li configuri come tali in modo diretto ed esplicito.
I cittadini hanno una miriade di interessi all’interno di un contesto sociale, ma questi interessi si trasformano in diritti soggettivi solo quando la legge li prende direttamente in considerazione e assegna loro una tutela differenziata e individuale.
Conviene, in proposito, tornare alla teoria generale dei diritti[32], e ricordare che non ogni fonte normativa è in grado di creare diritti soggettivi, ma solo quella che dia vita a ciò che Giuseppe Chiovenda chiamava volontà concreta di legge[33].
Se vi è una volontà concreta di legge di attribuire ad un soggetto portatore di un interesse semplice una tutela diretta e differenziata di quell’interesse, allora lì, e solo lì, quell’interesse si trasforma in diritto soggettivo; altrimenti, la mera esistenza di un interesse di fatto dovuto ad un dovere generale dello Stato non attribuisce al cittadino un diritto soggettivo; ciò avviene solo nei casi nei quali la legge in modo espresso operi questa trasformazione.
Né è sufficiente che le fonti normative, anche di primo piano, disegnino una “situazione giuridica protetta”[34], perché si possa rinvenire in ciò diritti soggettivi giustiziabili, in quanto ogni c.d. “situazione giuridica protetta” emerge pur sempre dal rovesciamento della medaglia del dovere dello Stato: se lo Stato ha dei doveri da una parte, allora, in relazione ad essi, da altra parte, i cittadini hanno una situazione giuridica protetta.
Ma questa situazione, come detto, non configura ancora diritti soggettivi che possano essere fatti valere in giudizio se la legge non li considera tali prendendo a riferimento direttamente i privati quali destinatari della norma, e così consentendo a questi di invadere ed incidere sullo Stato[35].
Altrimenti, come già esplicitato, è chiaro che la salute per i cittadini è una situazione giuridica protetta, e tuttavia è parimenti chiaro che questa situazione giuridica protetta non consente un’azione giudiziaria per pretendere una diversa e più attenta gestione e manutenzione degli ospedali pubblici.
Dunque, se queste premesse sono corrette, e torniamo alle fonti normative dei cambiamenti climatici sopra richiamati, vediamo come in nessuna di questa fonti vi sia una volontà concreta di legge che possa, anche solo lontanamente, far ritenere esistenti dei diritti soggettivi dei privati.
Al riguardo si deve ricordare che la legge 15 gennaio 1994 n. 65 costituisce semplice ratifica della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 9 maggio 1992 (UNFCCC); successivamente tale convenzione si trasferiva nell’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015, oggetto a sua volta di ratifica ed esecuzione in Italia con la legge 4 novembre 2016 n. 204; quest’ultima, infatti, dispone ciò con gli artt. 1 e 2, e poi regola le coperture finanziarie con gli artt. 3, 4 e 5; nient’altro vi si trova.
L’Accordo di Parigi, a sua volta, e come sopra abbiamo sintetizzato, contiene una serie di impegni programmatici degli Stati a fronte dei cambiamenti climatici, ed in particolar modo, con l’art. 2, ogni Stato “mira a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia posta dai cambiamenti climatici… mantenendo l’aumento della temperatura media mondiale bel al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali”; ma nessuno dei 29 articoli, di cui è composto l’Accordo, attribuisce in modo esplicito e diretto ai cittadini diritti soggettivi, nel senso sopra chiarito, di alcuna sorte.
Lo stesso vale per le fonti comunitarie, ed in particolare:
a) la Direttiva del Parlamento e del Consiglio europeo del 23 aprile 2009, 2009/29/CE, che consta di 52 premesse e di 29 articoli, disciplina “l’attuazione di un impegno più rigoroso della Comunità in materia di riduzioni…che conduca a riduzioni delle emissioni dei gas a effetto serra superiori a quelle previste all’articolo 9”, ed ogni disposizione è sempre rivolta a Gli Stati membri oppure a la Commissione, ecc….
b) La Decisione, sempre del Parlamento e del Consiglio europeo, 406/2009/CE e sempre del 23 aprile 2009, ha ad oggetto “gli sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra al fine di adempiere agli impegni della Comunità in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2020”, e nelle 34 premesse e 16 articoli non si disciplinano ipotetici diritti soggettivi dei privati.
Lo stesso art. 16, rubricato Destinatari, espressamente asserisce che “Gli Stati membri sono destinatari della presente decisione”; inoltre gli impegni sono tutti degli Stati membri: così l’art. 3: “Ciascun Stato membro è tenuto………” “Ogni Stato membro garantisce………” “Ogni Stato membro limita………”, ecc…
c) Infine, il Regolamento europeo sul clima 2021/1119 del 30 giugno 2021, 40 premesse e 14 articoli, ha contenuto non dissimile ai precedenti: l’art. 1 richiama espressamente l’Accordo di Parigi e “stabilisce l’obiettivo vincolante della neutralità climatica nell’Unione entro il 2050” e “istituisce un quadro per progredire nel perseguimento dell’obiettivo globale di adattamento di cui all’articolo 7 dell’accordo di Parigi”; inoltre l’art. 3 è dedicato alla Consulenza scientifica sui cambiamenti climatici, l’art. 4 ai Traguardi climatici intermedi dell’Unione, l’art. 6 alle Valutazioni dei progressi compiuti e delle misure dell’Unione, ed ancora l’art. 7 alle Valutazioni delle misure nazionali.
Non v’è, anche in questo Regolamento, alcuna norma che possa avere il crisma dell’attribuzione di specifici diritti soggettivi ai privati.
In sintesi, è necessario non mettere sullo stesso piano quelli che sono i diritti soggettivi dagli interessi e/o dai desideri dei cittadini: i primi giustiziabili, i secondi rimessi alla discrezionalità del potere legislativo e amministrativo, ovvero alla politica.
10. Ed inoltre: del difetto di giurisdizione delle azioni che fuoriescono dal crisma della pretesa giudiziaria.
A completamento di queste osservazioni credo possa poi aggiungersi che le domande fatte valere in questi giudizi appaiono altresì fuoriuscire completamente dal crisma della giurisdizione.
Si consideri al riguardo quanto segue:
a) In primo luogo le domande proposte appaiono di contenuto generico a fronte del dovere di specificità che una domanda giudiziale deve avere per essere ammissibile.
Esattamente, chiedere al giudice di condannare lo Stato: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa”, ecc…… costituisce domanda priva di determinazione, poiché non in grado di individuare con la dovuta specificità qual è, o quali sono, gli obblighi di fare al quale, o ai quali, la parte condannata è tenuta.
Si tratta, pertanto, di una domanda che si pone in contrasto con lo stesso art. 163 n. 3 c.p.c., per il quale la citazione introduttiva del processo deve contenere: “la determinazione della cosa oggetto della domanda”.
La giurisprudenza considera infatti nulla la citazione quando l’oggetto del giudizio sia “assolutamente incerto”[36].
b) Conseguentemente, la sentenza che, paradossalmente, dovesse accogliere una simile domanda, condannando così lo Stato allo abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed, sarebbe poi sentenza priva delle condizioni del titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., visto che il titolo esecutivo ha sempre ad oggetto “un diritto certo, liquido ed esigibile”[37], e visto che per certezza del titolo “deve intendersi la precisa individuazione del bene oggetto dell'esecuzione per consegna e rilascio e della prestazione di fare o non fare nell'esecuzione”[38].
In ogni caso detta sentenza sarebbe priva della possibilità di essere attuata in sede esecutiva.
Ed infatti, stante l’assoluta genericità degli obblighi di fare prospettati con la domanda, sarebbe poi impossibile dare una valutazione oggettiva del suo (o meno) adempimento, né il terzo libro del codice di procedura civile dedicato al processo di esecuzione appare in grado, nelle sue articolazioni, di consentire l’attuazione forzata di una sentenza a contenuto così indeterminato[39].
c) Inoltre, la domanda non sembra corrispondere nemmeno ai principi della legittimazione ad agire ex art. 81 c.p.c.
La legittimazione ad agire è infatti strettamente connessa alla titolarità individuale del diritto fatto valere in giudizio, e solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, che si denominano di legittimazione straordinaria, è consentito a terzi la deduzione in giudizio di diritti che siano da riconoscere in capo a soggetti diversi da quelli presenti nel processo[40].
Qualcosa di analogo sta nel Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), che nell’art. 263, 4° comma espressamente statuisce in punto di legittimazione ad agire: “Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente”.
Poiché l’azione esercitata in questi processi non attiene, al contrario, né ad atti adottati nei confronti delle parti attrici, né ad atti che li riguardino direttamente e individualmente, ma solo ad interesse generici, che toccano l’intera comunità in egual misura, le parti attrici sono carenti di legittimazione ad agire nel senso in cui essa è giudizialmente riconosciuta[41].
Conferma di ciò si ha anche con la decisione dalla Corte Giustizia unione europea 26 settembre 2024 n. 340/23, per la quale: “Riconoscere ad alcuno la legittimazione ad agire fondata unicamente sulla violazione dei suoi diritti fondamentali mediante atti di portata generale, come il regolamento impugnato, equivarrebbe a svuotare di sostanza le prescrizioni dell'articolo 263, quarto comma, TFUE.”.
E conferma di questa posizione si ha anche in forza della sentenza CEDU 9 aprile 2024 (GC) 53600/20, la quale, nel giudizio per la responsabilità da cambiamento climatico della Svizzera, ha escluso la legittimazione ad agire dei privati, e ammessa la legittimazione delle associazioni solo in presenza di tre criteri, tra i qual quella di “essere legalmente stabilita nella giurisdizione interessata o avere la legittimazione ad agire in tale giurisdizione”[42].
E poiché tale legittimazione nella giurisdizione interessata non sembra proprio sussistere, o sussiste solo in presenza di "una lesione diretta, concreta ed attuale dalla violazione di termini"[43], va da sé che le domande giudiziali qui ad analisi non sono state proposte da parti aventi la legittimazione ad agire[44].
d) Le domande giudiziali, inoltre, nella misura in cui hanno ad oggetto la condanna dello Stato a tenere un comportamento futuro, (per l’abbattimento, entro il 2030, ecc…), hanno parimenti ad oggetto quella che viene definita condanna in futuro.
In questi termini la domanda contrasta altresì con il principio secondo il quale la giurisdizione non può essere utilizzata se non per fatti passati[45], mentre la condanna in futuro è ammissibile solo in via del tutto eccezionale, e nelle sole ipotesi specificamente previste dalla legge (ed in questi casi nessuna legge autorizza l’utilizzo della condanna in futuro).
Ciò perché, par evidente: “la sentenza di condanna presuppone una lesione attuale del diritto, e dunque che si sia già verificato l’inadempimento”, cosicché: “la condanna in futuro costituisce uno strumento eccezionale, circoscritto alle ipotesi espressamente previste dalla legge[46].
e) Soprattutto, una sentenza del genere, la quale dovrebbe individuare “l’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento”, ecc… avrebbe carattere c.d. costitutivo/determinativo, ovvero darebbe al giudice il potere di determinare in concreto il contenuto dell’obbligazione[47].
Ma una simile determinazione, a parte il fatto che non sembra possibile per le ragioni già illustrate, si porrebbe in ogni caso in contrasto con il principio secondo il quale il giudice può pronunciare sentenze costitutive/determinative solo nei casi tipici individuati dalla legge e nella stretta misura ivi prevista, e ciò ai sensi dell’art. 2908 c.c.[48] E qui siamo fuori da questo ambito, non solo perché non v’è legge che legittimi il giudice a pronunciare in questi casi sentenze costitutivi/determinative, ma anche perché ciò è possibile solo quando il contenuto dell’obbligo non è determinato, ma tuttavia esiste sul piano del diritto sostanziale, mentre in questi casi, per quanto sopra detto, non esiste nemmeno un diritto soggettivo in relazione alle pretese giudiziali avanzate.
f) Infine, una sentenza del genere non rispetterebbe i criteri del giudicato giurisdizionale civile, e ciò, direi, né da un punto di vista oggettivo che soggettivo.
In senso oggettivo poiché esso non riesce ad avere la forza tipica del giudicato sostanziale, in quanto privo di un comando che possa ritenersi giudizialmente individuato a carico della parte obbligata soccombente.
E in senso soggettivo, poiché il dovere di abbattimento, entro il 2030, delle emissioni artificiali di CO2-ed non potrebbe considerarsi posto a vantaggio delle sole parti attrici vittoriose in giudizio, ma andrebbe considerato a vantaggio di tutti, così di nuovo confondendo il piano giudiziale della legittimazione processuale con quello politico della soddisfazione di un interesse, e finendo altresì per attribuire alla giurisdizione una funzione di tipo oggettivo che non esiste nel nostro sistema[49].
11. Se questi argomenti possono tenere a fronte del diritto dell’Unione europea.
In estrema sintesi, noi avremmo più ragioni di difetto di giurisdizione a fronte del c.d. contenzioso climatico: a) v’è difetto assoluto di giurisdizione perché il giudice non può ordinare allo Stato di fare leggi o atti aventi forza di legge o di invadere la sfera riservata all’amministrazione; b) v’è difetto assoluto di giurisdizione perché il giudice non può decidere questioni relativamente alle quali le parti attrici non hanno situazioni soggettive di diritto; c) e v’è infine difetto assoluto di giurisdizione perché il giudice non può decidere una questione che fuoriesce completamente dai crismi della pretesa giudiziaria.
Questo è quanto mi sembra di poter sostenere.
Ma poi, da vecchio giurista di civil law, mi sopraggiungono dei dubbi, e mi chiedo se tutti questi ragionamenti non siano superati dai tempi, e non siano travolti dal nuovo diritto comunitario, che guarda più alla sostanza delle cose, fino a considerare inutili cavilli, o sterili sforzi logici, le dissertazioni che impediscano o limitino ai cittadini l’accesso al giudice.
Sinceramente, però, non credo sia questa la conclusione da dare, ed anche rianalizzando il diritto comunitario concernente le questioni trattate, io non riesco a trovare niente (forse per mia inadeguatezza) che possa rovesciare i punti esaminati.
Precisamente, rilevo ancora quanto segue.
11.1. Vi sono le norme comunitarie sopra richiamate, ovvero, oltre all’Accordo di Parigi, le Direttive del Parlamento e del Consiglio europeo del 23 aprile 2009, 2009/29/CE, il Regolamento europeo sul clima 2021/1119 del 30 giugno 2021, e la Decisione, sempre del Parlamento e del Consiglio europeo, 406/2009/CE, oltre alle disposizioni di carattere più generale quali gli artt. 2 e 8 CEDU, gli artt. 2 e 7 della Carta di Nizza.
Per le ragioni già esposte, non mi sembra che queste fonti normative si pongano in contrasto con i rilievi svolti.
11.2. V’è, poi, la vicenda Urgenda, sempre menzionata in ogni scritto di Climate change litigation e anche richiamata dalla sentenza del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024 n. 3552: “dove lo Stato olandese (considerato tra i paesi maggiormente emissivi in Europa) è stato condannato definitivamente dalla corte Suprema nel dicembre 2019”[50].
Ma, a parte la circostanza che, nel caso, non si tratta di una Corte europea bensì di una Corte olandese[51], ma, a parte ciò, la situazione non sembra affatto cristallizzata con tale pronuncia, se si considera che proprio in questi giorni è uscita la notizia dell’accoglimento di un appello della società Shell dinanzi alla Corte dell’Aja, che ha annullato il giudizio di primo grado emesso dopo una causa intentata da gruppi di ambientalisti olandesi, che imponeva alla multinazionale britannica di ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030.
Per la Corte dell’Aja non si può imporre una soglia precisa a una singola azienda[52].
11.3. V’è, soprattutto, la sentenza già menzionata CEDU 9 aprile 2024 (GC) 53600/20 nel giudizio di responsabilità da cambiamento climatico della Svizzera[53].
Sia consentito stigmatizzare che si tratta di una sentenza lunga 288 pagine.
Comprendo che una decisione della CEDU debba trovare compromessi tra diverse, e a volte contrapposte, sensibilità, ma trovo davvero riprovevole che non si riesca a produrre provvedimenti giudiziari più precisi e più brevi, soprattutto alla luce dei tempi moderni, che impongono alla giustizia di essere sintetica e specifica.
Ciò premesso, si tratta di una decisione che fissa molti principi generali, per poi concludere, con riferimento alla Svizzera, che: “La Corte ha riscontrato alcune lacune critiche nel processo di creazione del quadro normativo nazionale da parte delle autorità svizzere, tra cui la mancata quantificazione, attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo, delle limitazioni delle emissioni nazionali di gas serra. Di conseguenza, lo Stato convenuto aveva superato il suo margine di apprezzamento ed era venuto meno ai suoi obblighi positivi ai sensi dell’articolo 8 del presente contesto”.
Qualcuno potrebbe argomentare che se la CEDU, con questa sentenza, ha provveduto nel merito, allora il tema preliminare della giurisdizione è contenuto e implicitamente riconosciuto.
Da un punto di vista logico, la deduzione tiene.
Da un punto di vista più strettamente giuridico, però, il tema della giurisdizione non appare affatto trattato nella lunga sentenza in questione, e tutto semplicemente viene ricondotto alla questione della legittimazione ad agire dinanzi alla Corte.
Peraltro, una cosa sembrano le azioni di condanna presenti nel contenzioso italiano, altra cosa il mero accertamento che la Corte europea ha posto in essere nei confronti dello Stato svizzero.
E parimenti, una cosa è la legittimazione ad agire, altra cosa la giurisdizione: si dovesse tornare agli esempi fatti, se una associazione a tutela della salute promovesse in Italia una controversia per la buona tenuta degli ospedali, forse qualcuno potrebbe arrivare a riconoscere a questa associazione la legittimazione ad agire, ma difficilmente riconoscerebbe la giurisdizione di una simile domanda.
Ad ogni modo la stessa sentenza precisa che l’accesso al giudice è consentito solo “allo status di vittima ai sensi della Convenzione”, e che al riguardo: “la Corte non ha ritenuto di poter applicare in questo contesto la giurisprudenza relativa alle vittime potenziali, ciò potrebbe coprire praticamente chiunque e non funzionerebbe quindi come criterio limitativo”.
Ed infatti, anche nel rispetto dell’art. 263, 4° comma del Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), la legittimazione ad agire può infatti essere riconosciuta a: “Qualsiasi persona fisica o giuridica” relativamente a questioni: “che la riguardano direttamente e individualmente”.
Poi, però, la sentenza esclude la legittimazione delle parti private ma la riconosce all’associazione, con criteri, a mio sommesso parere, non solo dubbi, ma nemmeno esplicitamente indicati, visto che la Corte motiva sul punto: “Nelle circostanze del caso di specie e tenendo conto di tutti i fattori pertinenti, la Corte ha ritenuto che l’associazione ricorrente soddisfacesse i criteri pertinenti e avesse quindi la necessaria legittimazione ad agire”.
I criteri pertinenti sono: “Scopo dell’associazione…..essere senza scopo di lucro…la natura e l’estensione delle sue attività…….i suoi membri e la sua rappresentatività…i suoi principi e la trasparenza della sua governance….circostanze particolari del caso”, ecc…., per cui: “la concessione di tale legittimazione è nell’interesse della corretta amministrazione”; senza, salvo che non cada in errore, una analisi specifica di rispondenza di detti criteri ai requisiti della associazione attrice del giudizio.
11.4. Ora, io credo che nessuno si sentirebbe di negare che la soluzione adottata da questa sentenza appare di dubbia conformità all’art. 263, 4° comma del Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE), e che nessun giudice italiano potrebbe concedere o negare la legittimazione ad agire con una simile motivazione.
Ed inoltre questa sentenza non appare (almeno a me) in linea con altre decisioni comunitarie su temi analoghi.
Faccio riferimento non solo a quelle già richiamate dall’Avvocatura dello Stato nella difesa al contenzioso denominato del “giudizio universale”[54], bensì anche ad altre, che non sembrano proprio coordinarsi con essa[55]; e, come che sia, si ripete, una cosa è la legittimazione ad agire, altra la giurisdizione.
11.5. In ogni caso ricordo altresì che le sentenze CEDU vincolano l’Italia solo se riferibili ad un orientamento consolidato, e la materia non sembra al momento essere circoscritta da un orientamento consolidato, visto che la sentenza CEDU 9 aprile 2024 (GC) 53600/20 è la sola che al momento si ha.
Ricordo la pronuncia della nostra Corte costituzionale al riguardo:
“La questione è, altresì, inammissibile per l'erroneità del presupposto interpretativo secondo cui il giudice nazionale sarebbe vincolato all'osservanza di qualsivoglia sentenza della Corte di Strasburgo e non, invece, alle sole sentenze costituenti "diritto consolidato" o delle "sentenze pilota" in senso stretto. Infatti, se è vero che alla Corte di Strasburgo spetta pronunciare la «parola ultima» in ordine a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, resta fermo che l'applicazione e l'interpretazione del sistema generale di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo, poggiando sull'art. 117, primo comma, Cost. deve quindi coordinarsi con l'art. 101, secondo comma, Cost. nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso.”[56].
Dunque, le questioni di giurisdizioni si inseriscono, direi indiscutibilmente, nell’ambito della “applicazione e l'interpretazione del sistema generale di norme che è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri”, e l’assenza di un orientamento consolidato della giurisprudenza europea sul punto esclude che i giudici interni non possano, in tema di giurisdizione, continuare ad applicare le regole proprie di tale istituto processuale.
11.6. Altri precedenti degni di rilievo, non mi sembrano sussistere.
12. Brevissima conclusione.
In conclusione, la sensazione è quella che si sia voluto utilizzare la giurisdizione per ottenere da essa un monito allo Stato affinché sia più efficiente e più determinato nel provvedere all’adempimento degli obblighi comunitari e internazionali con riferimento ai mutamenti del clima.
Ma la giurisdizione non può essere utilizzata per questi scopi, e
nella misura in cui invece lo scopo ultimo di queste iniziative è proprio quello di ottenere ciò, esse non appaiono condivisibili, poiché la politica non può rendersi oggetto di giudizio, e perché, come diceva Francesco Carnelutti è politica, e non giurisdizione: “quell’aspetto della realtà che concerne il complesso degli interessi collettivi”.
Per citare un altro classico, sembra proprio che i tempi di oggi rispondano alle sue previsioni: “Progressivo affievolimento del diritto soggettivo fino a ridursi a un interesse occasionalmente protetto; allargamento del diritto amministrativo a scapito del diritto civile; assorbimento del processo civile nella giurisdizione volontaria e nella giustizia amministrativa; aumento dei poteri discrezionali del giudice; annebbiamento dei confini non solo tra diritto privato e diritto pubblico, ma anche tra diritto sostanziale e diritto processuale; aspirazione sempre più viva del diritto caso per caso. – Tutti questi sono gli aspetti di una crisi che il processualista segue con ansietà nel suo specchio, nel quale si riflette, tradotto in forma di teoria, il vasto travaglio del mondo”[57].
[1] Sul contenzioso climatico v. ad esempio E. BENVENUTI, Climate change litigation e diritto internazionale privato dell’unione europea: quale spazio per la tutela collettiva? in Riv. dir. intern. priv. proc., 2023, 848 e ss.; F. VANETTI – L. UGOLINI, Contenzioso climatico: recenti sviluppi e riflessioni, in Ambiente e Sviluppo, 2024, 403 e ss.; M., DELSIGNORE, Il contenzioso climatico dal 2015 ad oggi, Giornale di diritto amministrativo, 2022, 265 e ss.; S. NESPOR, I principi di Oslo, Giornale dir. amm. 2015, 750 e ss.; F.Z. GIUSTINIANI, Contezioso climatico e diritti umani: il ruolo delle Corti europee sovranazionali, in Federalismi.it., 2023, 271 e ss.; N. DE SADELEER, Il contenzioso climatico dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Riv. giur. dell’Ambiente, 2024, n. 57.
[2] Vedi la sentenza anche in Nuova giur. civ. comm., 2024, 309 e ss., con nota di C.M. MASIERI, La causa “giudizio universale” e il destino della Climate change litigation, con ampie indicazioni bibliografiche e di precedenti giudiziari.
La sentenza ha già ricevuto numerose critiche. V. per tutti A. MOLFETTA, La sentenza giudizio universale in Italia: un’occasione mancata di fare giustizia climatica, in Osservatorio costituzionale, Associazione italiana dei costituzionalisti, Fasc. 5/2024. Altri commenti critici sono contenuti nel sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it.
[3] Vedila nel sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it
[4] Sempre in www.contenziosoclimaticoitaliano.it
[5] Si veda VINCRE – HENKE, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, Rivista di Biodiritto, 2023, 137 e ss.
[6] Riterrei che questa regola valga pacificamente anche per la Corte europea dei diritti dell’uomo. V. al riguardo N. DE SADELEER, Il contenzioso climatico dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Riv. giur. dell’Ambiente, n. 57, 2024: “La Corte EDU ha ricordato i limiti del principio della separazione dei poteri, sottolineando che «un intervento giurisdizionale, ..., non può prendere il posto delle misure che devono essere adottate dal potere legislativo e da quello esecutivo, o sostituire tali misure»”; seppur: “il controllo giurisdizionale è complementare ai processi democratici (§ 412)”.
[7] Per tutti si veda CORTE COSTITUZIONALE, Servizio Studi, Il dialogo con il legislatore: moniti auspici e richiami nella giurisprudenza costituzionale dell’anno 2022, Roma, 2023, 7 e ss.; R. PINARDI, Moniti al legislatore e poteri della Corte costituzione, Quaderni costituzionali, 2022, 3, www.forumcostituzionale.it; A. SPADARO, Del rapporto tra giudice costituzionale e legislatore, in Riv. AIC, 2023, 103 e ss.; E COCCHIARA, L’evoluzione dei moniti della Corte costituzionale al legislatore: un bilancio a settant’anni dalla legge 87 del 1953, Gruppo di Pisa, 2023, 3, 1 e ss.
[8] Ricordo in questo senso studi classici quali GALLI, Il concetto di giurisdizione, in Studi in onore di M. D’Amelio, Roma, 1933, II, 171; e soprattutto MORTARA, Commentario al codice e alle leggi di procedura civile, Milano, 1923, I, 20, per il quale: “Risulta abbastanza chiaro che la funzione giurisdizionale costituisce quella difesa del diritto obiettivo per virtù della quale ottengono protezione le facoltà soggettive al medesimo conformi”; CALAMANDREI, Limiti fra giurisdizione e amministrazione nella sentenza civile, in Opere, Napoli, 1965, I, 65, per il quale la giurisdizione è “un’attività secondaria di natura dichiarativa”; SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1966, I, 16, per il quale la giurisdizione è: “attuazione del diritto oggettivo, o del diritto soggettivo garantito dalla norma”; CARNELUTTI, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1936, I, 230, per il quale la giurisdizione è la precisa “composizione della lite”; ANDRIOLI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1973, I, 29.
[9] v. SEGNI, Giurisdizione (in generale), voce del Nov.mo Digesto, Torino, 1961, X, 987.
[10] V. infatti RASELLI, Il potere discrezionale del giudice civile, Padova, II, 1935; ID., Alcune note intorno ai concetti di giurisdizione ed amministrazione, Roma, 1926, 4; FABBRINI, Potere del giudice, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1985, XXXIV, 721; SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Studi in onore di Segni, Milano, 1966, IV, 243; DE MARINI, Considerazioni sulla natura della giurisdizione volontaria, Riv. dir. proc., 1954, 270.
[11] Mi permetto di ricordare in argomento un mio vecchio studio, SCARSELLI, La tutela dei diritti dinanzi alle autorità garanti. Giurisdizione e amministrazione, Milano, 2000, 202 e ss.
[12] Ricordo ancora F. FERRARA, Potere del legislatore e funzione del giudice, Riv. dir. civ., 1911, 510; PACCHIONI, Dei poteri creativi della giurisprudenza, Riv. dir. comm., 1912, 41; COVIELLO, Dei moderni metodi d’interpretazione della legge, S. Maria Capua Vetere, 1908, 18; LIPARI, Il problema dell’interpretazione giuridica, Il diritto privato nella società moderna, a cura di S. Rodotà, Bologna, 1970, 118.
[13] Aggiungerei, poi, che il divieto posto al giudice di non invadere la sfera dell’amministrazione, ovvero la sfera del potere discrezionale e politico degli organi dello Stato a ciò preposti, non vale solo per il giudice civile, ma costituisce una regola generale, applicabile anche al giudice penale e al giudice amministrativo.
Esattamente: a) per il processo penale si ricorda l’art. 606 c.p.p. per il quale: “Il ricorso per cassazione può essere proposto per i seguenti motivi: a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri”; b) e per il processo amministrativo si ricorda l’art. 31, 3° comma c.p.a.: “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”; e l’art. 7, che richiama l’art. 134 c.p.a., i quali statuiscono che il giudice amministrativo può pronunciare con cognizione estesa anche al merito nelle sole controversie espressamente indicate nella legge.
[14] Il discorso non muterebbe se il giudice, nel pronunciare la sentenza domandata, invece di determinare le cose da fare in concreto, si limitasse ad accogliere la domanda nella sua generalità per come presentata, ovvero condannasse semplicemente lo Stato: “all’adozione di ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento”, ecc…,
Saremmo egualmente in una ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione per quanto esposto nel paragrafo n. 10.
[15] Si consideri anche Corte cost. 18 gennaio 2018 n. 6, la quale al punto 15 della motivazione asserisce che: “L’eccesso di potere giudiziario denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come sempre è stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosidetta invasione o sconfinamento)”.
[16] V. in argomento F. GOISIS, CEDU e contenzioso climatico nei confronti delle grandi imprese: quale impatto?, in NT+Diritto.il sole24ore, 20 novembre 2024.
[17] In argomento v. Iannicelli, Il c.d. difetto assoluto di giurisdizione fra privati per mancanza di posizione giuridica astrattamente tutelabile, Foro it., 1988, I, 3394; tra i classici LIEBMAN, Domanda infondata e regolamento di giurisdizione, Riv. dir. proc., 1953, II, 35; GARBAGNATI, Improponibilità della domanda e regolamento di giurisdizione, Giust. Civ., 1987, I, 2849.
[18] V., ad esempio, Cass. 15 giugno 1987 n. 5256; e Cass. sez. un. 30 giugno 1999 n. 368; Cass. 7 marzo 2001 n. 90.
[19] Così invece Cass. 13 giugno 2008 n. 15196; Cass. 21 febbraio 2018 n. 4235; e Cass. 9 marzo 2020 n. 6690.
[20] PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2023, 241.
Tra i classici, sul punto, ricordo, ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, I, 127: “La così detta improponibilità della domanda ha luogo quando la pretesa del privato è sì intensamente assoggettata ai poteri attribuiti alla amministrazione attiva da essere sfornita di tutela nel processo contro quest’ultima (CARNELUTTI, Istituzioni, II, n. 423); P. D’ONOFRIO, Commento al codice di procedura civile, Torino, 1957, I, 82: “Il difetto di giurisdizione si verifica allorquando si sottoponga alla autorità giudiziaria ordinaria una pretesa la quale non è azionabile in modo assoluto, ovvero quando la pretesa non ha rilevanza giuridica...Un interesse meramente religioso, estetico o morale, ad esempio, non è tutelabile”;
[21] V. A. MASSARI, Regolamento di giurisdizione e competenza, in Nov.Dig.it., Torino, XV, 1968, 283, citato da G. GIOIA, La decisione sulla questione di giurisdizione, Torino, 2009, 67.
[22] Così BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2019, I, 116.
[23] Cass. sez. un. 30 marzo 2005 n. 6635: “Il difetto assoluto di giurisdizione è ravvisabile quando manchi nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio”
[24] Cass. sez. un. 1° giugno 2023 n. 15601: “Il difetto assoluto di giurisdizione è configurabile quando manca nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio”. Si veda anche Cass. sez. un. 29 maggio 2023 n. 15058: “Sulla domanda proposta nei confronti dello Stato italiano per il risarcimento dei danni derivanti dalla mancanza di una disciplina normativa per la tutela della maternità delle donne avvocato vi è difetto assoluto di giurisdizione, poiché essa comporta non già la delibazione di una posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma un sindacato sulla sfera riservata dalla Costituzione allo Stato legislatore”.
[25] V. fin d’ora, per tutti BELLOMO, Nuovo sistema del diritto amministrativo, IQ, Diritto e scienza, 2023, I, 43, per il quale: “Non sempre al dovere – diversamente dall’obbligo – in capo a un soggetto corrisponde un diritto in capo ad altro soggetto, potendo sussistere interessi non qualificati che spetta all’amministrazione valutare discrezionalmente. In tale accezione, dunque, l’interesse di fatto consiste nell’interesse dei cittadini ad essere ben amministrati”. Si veda anche CHIEPPA-GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2024, 163.
[26] È questa, direi, anche la posizione dell’Avvocatura dello Stato nel giudizio sfociato nella sentenza del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024; v. la comparsa di risposta nel sito www.contenziosoclimaticoitaliano.it, pag. 26: “Occorre a tal proposito rilevare che l’adesione degli Stati agli accordi sul clima non è idonea di per sé a fondare la base legale da cui evincere un obbligo di natura vincolante la cui (eventuale) violazione vale a fondare un’azione di responsabilità nei confronti delle istituzioni degli Stati stessi”.
[27] D. BEVILACQUA, La normativa europea sul clima: una regolazione strategica o un passo troppo timido, Riv. giur. dell’ambiente, 2022, n. 29.
[28] È questa anche la posizione dell’Avvocatura dello Stato, comparsa di risposta, pag. 27: “L’accordo di Parigi si basa sulla definizione di contributi nazionali non vincolanti di mitigazione, che devono essere stabiliti autonomamente da ciascuna delle parti contraenti (sistema bottom-up…..e soggetti a periodica revisione sulla base delle indicazioni che verranno elaborate dalle istituzioni e dagli organismi previsti dal sistema della Convenzione quadro dell’Accordo stesso…..Per assicurare l’attuazione degli impegni non sono stati, comunque, previsti meccanismi sanzionatori, essendosi privilegiata la diversa strategia di affidare il successo dell’accordo a piani contenenti contribuzioni alla riduzione globale delle emissioni volontariamente e ambiziosamente assunte dagli Stati”.
[29] Avvocatura dello Stato, comparsa di risposta, pag. 15.
[30] Al riguardo v. anche la recentissima Cass. sez. un. 19 giugno 2024 n. 16837: “Il difetto assoluto di giurisdizione per invasione della sfera riservata al legislatore è configurabile quando il giudice speciale ha applicato una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete”.
[31] In senso, direi, del tutto conforme, BELLOMO, Nuovo sistema del diritto amministrativo, cit., 43, il quale fa degli esempi analoghi a quelli sviluppati nel testo. Si legge: “Esempi di interessi di fatto aderenti a tale nozione (ovvero alla circostanza che non attribuiscono corrispondenti diritti ai cittadini) possono indicarsi nell’interesse ad una buona e funzionante illuminazione pubblica, alla manutenzione delle pubbliche strade, alla funzionalità e qualità dei servizi pubblici”.
Di nuovo appare chiaro che nessun cittadino può adire il giudice per pretendere dallo Stato, genericamente, l’adempimento di questi doveri.
[32] V., senza alcuna pretesa di completezza, LENER, Potere (dir. priv.), voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1985, XXXIV, 610; CESARINI SFORZA, Diritto soggettivo, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1964, XII, 659; FALZEA, Efficacia giuridica, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1965, XIV, 432 e ss.; SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 70 e ss.; BETTI, Dovere giuridico (teoria gen.), voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1965, XIV,53 e ss.
[33] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, 2: “Analizzando l’idea del diritto soggettivo, si trova che questo si risolve in una volontà concreta di legge. Ogni norma contenuta nella legge è una volontà generale, astratta, ipotetica, subordinata cioè al verificarsi di determinati fatti. Ogni volta si verifica il fatto o il gruppo di fatti previsti dalla norma, si forma una volontà concreta della legge, in quanto dalla volontà generale e astratta nasce una volontà particolare che tende ad attuarsi nel caso singolo”.
[34] In questo senso, ancora, VINCRE – HENKE, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, Rivista di Biodiritto, 2023, 143 per i quali le fonti normative di protezione dell’ambiente raffigurano situazioni giuridiche protette “tanto al singolo soggetto quanto alla collettività”.
[35] Per tutti v. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, 161, il quale, seppur con diverse parole, ritengo manifestasse la stessa idea: “La differenza tra diritto soggettivo e facoltà è facile da tracciare sul filo della differenza tra l’agere e il iubere: la facoltà non esce dalla sfera dell’interesse proprio mentre il diritto soggettivo invade la sfera dell’interesse altrui”.
[36] V. Cass. 28 agosto 2009 n. 18783; Cass. 3 marzo 2008 n. 5743; Cass. 9 settembre 2004 n. 18184; Cass. 1° giugno 2001 n. 7448;
[37] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, 169; L. MONTESANO, Condanna civile e tutela esecutiva, Napoli, 1965, 185, e ID., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 175.
[38] Così LUISO, Diritto processuale, Il processo esecutivo, Milano, 2009, 23, secondo la tradizione della dottrina, tra la quale ricordo: REDENTI, Diritto processuale civile, Milano, 1957, II, 121; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, 12; GRASSO, Titolo esecutivo, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1992, XLIV, 692, per il quale il diritto certo è quello che “deve emergere esattamente e compiutamente, nel suo contenuto e nei suoi limiti dal relativo provvedimento giurisdizionale o atto negoziale”. In giurisprudenza Cass. 25 febbraio 1983 n. 1455: “Requisito essenziale dei titoli esecutivi, giudiziali e stragiudiziali, menzionati dall' c. p. c. è la certezza del diritto risultante dal titolo stesso, intesa nel senso che la situazione giuridica accertata in favore di un soggetto deve emergere esattamente e compiutamente, nel suo contenuto e nei suoi limiti dal relativo provvedimento giurisdizionale”. Scriveva altresì Giuseppe Chiovenda che: “La sentenza di condanna presuppone la convinzione del giudice che in base alla sentenza si possa senz’altro, o immediatamente dopo un certo tempo, procedere dagli organi dello Stato agli atti ulteriori necessari per l’effetto del conseguimento del bene garantito dalla legge (v. infatti CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, I, 169).
[39] VINCRE – HENKE, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, Rivista di Biodiritto, 2023, 149, ritengono che potrebbe risolvere il problema, in questi casi, l’esecuzione indiretta di cui all’art. 614 bis c.p.c.; il tutto, comunque, in una prospettiva “difficile da pronosticare”.
Io non credo, tutto al contrario, che in questi casi la strada dell’art. 614 bis c.p.c. sia percorribile, poiché nella misura in cui gli obblighi di fare oggetto di questi contenziosi consisterebbero in interventi normativi dello Stato, rimessi peraltro al suo potere amministrativo/discrezionale, e da realizzarsi nel bilanciamento con tutti gli altri diritti e interessi pubblici coinvolti, trovo del tutto inammissibile che a fronte di ciò il giudice possa condannare lo Stato ad una somma di denaro quale sanzione per ogni giorno di ritardo nell’attuazione delle misure.
Se poi si aggiunge che questi obblighi di fare sui quali l’art. 614 bis c.p.c. dovrebbe operare sarebbero contenute in un dispositivo della sentenza a contenuto del tutto generico, e tale da rendere praticamente impossibile una verifica oggettiva dell’adempimento o meno della sentenza,
[40] Sulla legittimazione processuale v. ora L. GALATI, Processo senza soggetti, Milano, 2021, 156 e ss.
[41] In questo senso anche l’Avvocatura generale dello Stato, comparsa di risposta, pag. 22: “Gli odierni attori non appaiono legittimati ad agire in giudizio per lamentare forme di alterazione indiretta dell’ambiente, quali potrebbero essere le conseguenze del cambiamento climatico dovuto ad emissioni di gas serra, in quanto titolari di una posizione indifferenziata rispetto a quella di qualunque altro soggetto”.
A conferma di questa posizione l’Avvocatura dello Stato richiamava i precedenti comunitari di: a) caso Armando Carvalho e a.v. Consiglio e Parlamento europeo (causa T-330/18); b) Corte di Giustizia, 15 luglio 1963, causa C-25/62, Plaumann, punto 199; c) CEDU Lopez Ostra v. Spagna 1994; d) CEDU Guerra v. Italia, 1998; e) CEDU Oneryildiz v. Turchia, 2004; f) CEDU Cordella v. Italia, sentenza 24 gennaio 2019, sul caso “Ilva”.
[42] N. DE SADELEER, Il contenzioso climatico dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Riv. giur. dell’Ambiente, n. 57, 2024, ricorda che per la menzionata sentenza CEDU, la legittimazione ad agire spetta solo quando v’è: “il «rischio reale» di un «impatto personale e diretto» sul ricorrente”, che: “debba essere «particolarmente elevato» (§§ 486 - 488), il che esclude un semplice pregiudizio superficiale. Quindi, la vittima dovrebbe essere «esposta in modo intenso agli effetti del cambiamento climatico», il che implica “un bisogno imperioso di garantire la sua protezione individuale” (§ 487)”.
[43] V. Cons. Stato, 20 settembre 2024, III, n. 7704.
[44] Per una critica alla legittimità generalizzata delle associazioni a far valere in giudizio interessi diffusi v. ora anche PROTO PISANI – VERDE, Verso una giurisdizione di tipo oggettivo, nota critica a Cass. sez. un. 23 novembre 2023 n. 32559, in Riv. dir. proc., 2024, 1031, per i quali: “Il nostro sistema di giustizia – ricordiamolo – è di tipo soggettivo, in quanto il giudice può intervenire se è chiamato in causa da chi è titolare del rapporto giuridico contestato o è diretto destinatario del provvedimento impugnato”.
[45] Si veda anche, al riguardo, l’art. 34, 2° comma c.p.a., per il quale: “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
[46] Così, espressamente, BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2019, I, 47/48.
Si veda anche in argomento PAOLINI, Note sulla condanna in futuro, Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 507; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 182.
[47] v. in argomento PAGNI, Le azioni di impugnativa negoziale, Milano, 1998, 1 e ss.; MONTESANO, Obbligo a contrarre, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1979, XXIX, 508 e ss.; PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva, Riv. dir. proc. 1991, 60 e ss.
[48] V. al riguardo PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2023, 161, per il quale: “L’art. 2908 c.c. vale ad imporre il marchio della tassatività alle ipotesi riconducibili nello schema dommatico della tutela costitutiva”. V. anche DI MAIO, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 307; E MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 155: “l’inquadramento della tutela giurisdizionale dei diritti in via determinativa sotto la categoria descritta nell’art. 2908 c.c. non è senza concrete conseguenze, giacché comporta la tipicità della tutela in esame”.
[49] V. infatti ancora PROTO PISANI – VERDE, Verso una giurisdizione di tipo oggettivo, cit., 1031 e ss.
[50] Così, espressamente, la sentenza del Tribunale di Roma 26 febbraio 2024 n. 3552, pag. 7.
[51] In questo contesto possono ricordarsi anche le pronunce del Tribunale amministrativo di Parigi del 3 febbraio 2021, con la quale è stata riconosciuta una responsabilità omissiva in relazione agli obiettivi e agli impegni comunitari e nazionali, e la sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 29 aprile 2021, che si è pronunciata sulla parziale incostituzionalità della legge federale sui cambiamenti climatici del 2019.
[52] V. al riguardo, M. PIGNATELLI, Il sole24 ore, 12 novembre 2024.
[53] Vedila in https://hudoc.echr.coe.int/it#
[54] Rinvio alla nota n. 41.
L’avvocatura dello Stato, comparsa di risposta, pag. 16 e ss., indica poi numerose sentenze internazionali in senso conforme all’inammissibilità dei ricorsi.
[55] Corte europea dei diritti dell’uomo, Gran Camera 9 aprile 2024: “La Corte, all'unanimità, ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da sei cittadini portoghesi relativamente alle ricadute, odierne e future, del cambiamento climatico”; F.Z. GIUSTINIANI, Contezioso climatico e diritti umani: il ruolo delle Corti europee sovranazionali, in Federalismi.it., 2023, 271 e ss.
[56] Così espressamente Corte Cost. 26 marzo 2015 n. 49; conforme Corte Cost. 4 dicembre 2009 n. 317: “Con riferimento ad un diritto fondamentale garantito anche dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall'ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. In particolare, la Corte non può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per il tramite dell'art. 117, primo comma, Cost., rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. L'obiettivo di massima espansione delle garanzie deve essere conseguito attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che tutelano i medesimi diritti protetti a livello convenzionale e nel necessario bilanciamento con altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, suscettibili di essere incisi dall'espansione di una singola tutela. La protezione dei diritti fondamentali deve, dunque, essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro, e la realizzazione di un equilibrato sistema di tutela è demandata, per gli ambiti di rispettiva competenza, al legislatore, al giudice comune e al giudice delle leggi. Il risultato complessivo dell'integrazione delle garanzie dell'ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall'incidenza della singola norma Cedu sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali. Resta fermo che la Corte costituzionale non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l'apposizione di riserve, della Convenzione, ma può valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni compiute dalla Corte in tutti i giudizi di sua competenza”. V. anche in senso analogo Corte Cost. 11 marzo 2011 n. 80.
[57] P. CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, Studi sul processo civile, Padova, 1947, V, 26.
Immagine: Chmee2/Valtameri, CC BY 3.0
Oggi 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Giustizia Insieme ricorda lo stupro di Franca Rame. Si trattò di un episodio emblematico di violenza politica, avvenuto in un’epoca in cui l’emancipazione femminile avanzava con progressi importantissimi eppure era frenata da forti controspinte, a tutt’oggi non esaurite ed allora estremamente pervasive, ad ogni livello. Franca Rame non era una donna in condizioni di fragilità, era invece estremamente forte culturalmente e, grazie alla notorietà, socialmente. Questa forza, purtroppo, non la mise al riparo dal subire l’aggressione e fece anzi di lei un bersaglio particolarmente visibile, più facile di altri. La sua storia oggi ammonisce che la lotta alla violenza deve essere radicale, poiché nessuna delle risorse che una donna potrà mettere in campo le consentirà mai di sottrarsi alla violenza se il contesto sociale e culturale in cui ella vive ed agisce non è a sua volta attrezzato e determinato a tal fine.
Storia di uno stupro. Il corpo e le parole di Franca Rame.
di Sibilla Ottoni
Prendere la parola. Tradurre un pensiero in una forma; individuare un contenuto e portarlo verso l’esterno. Comunicarlo. Se dire è un atto, un’azione umana sorretta da volontà, comunicare è un atto sorretto da precisa intenzione. E tra gli atti comunicativi, sopra tutti si pone il gesto artistico, per cui la scelta della forma è costitutiva. La forma comporta un lavorio sul contenuto, una ponderazione. Ma più oltre, costringe ad un contegno, implica una postura, che è sempre un posizionamento, quindi una scelta di campo, quindi un atto politico. Ancora, il gesto artistico non esiste se non in relazione ad un destinatario astratto, plurale, indefinito: è, sempre, un atto pubblico. Il gesto artistico, che lavora un contenuto fino a dargli una forma e la consegna a un fuori indefinito e potenzialmente illimitato, è dunque il più politico degli atti.
Il progetto artistico e politico di Franca Rame e Dario Fo è emblematico di una concezione di intellettuale impegnato che prende la parola per confrontarsi con la storia. La fase centrale di quell’esperienza coincide con la fase storica segnata dall’inesorabile metamorfosi delle ideologie e dei relativi apparati fino ad allora dominanti, paradigmi che andavano perdendosi e la cui crisi polarizzava lo scontro politico. Da che lato stessero Rame e Fo è noto: dal lato di quella coscienza di classe ormai compiutamente teorizzata e che acquisiva una nuova consapevolezza di sé. Sulla scena artistica, in Europa era arrivato il living theatre, e dal canto suo la compagnia Rame-Fo prediligeva, facendone un manifesto letterario, le case del popolo ai teatri convenzionali, che anzi insieme al popolo si occupavano, come avvenne con la Palazzina liberty.
Il linguaggio scaturito da quel sodalizio è estremamente stratificato e complesso. Non solo la lingua ed i testi; anche i perché, i come e i dove contribuiscono a formare la presa di parola. Attraverso l’esplicita ibridazione dell’attività artistica con l’impegno sociale, indistinguibile a sua volta da quello politico, Rame e Fo radicano la propria libertà in una corrispettiva assunzione di responsabilità: l’adesione piena e dichiarata al sostrato assiologico del proprio agire, una novecentesca autonomia della volontà.
Una complessità culturale che non può essere intesa senza adeguati strumenti, eppure ne è evidente la potenza. E infatti la rappresaglia politica contro quel progetto, nell’incapacità di comprenderlo e rispondere, sferra un colpo bassissimo e mira al bersaglio umano; e all’essere umano donna, nonostante sia solo una parte di quel duo, la parte più invisa, colpevole di uno slancio che con tutta evidenza le si reputa illegittimo, proprio e soltanto a lei; e alla donna nella sua vulnerabilità più fisica e primordiale, annullandone in un sol colpo l’intelletto, il progetto, l’atto, riabbassandola brutalmente a soggetto dominato.
Il 9 marzo 1973, Franca Rame viene presa da cinque paramilitari di estrema destra, caricata su un furgoncino. Sta andando dal parrucchiere, esce dal Cinema-teatro Rossini occupato dalla Comune. Dentro si prova uno spettacolo intitolato Pum pum! Chi è? La polizia.
Il femminismo di Franca Rame, come per forza avviene con ogni femminismo che possa definirsi tale e quindi basato su un’idea di uguaglianza, non è che una parte delle sue attività, il Soccorso Rosso per i detenuti, l’impegno al fianco di quello che ancora può definirsi proletariato, inteso come un popolo operaio privo degli strumenti, assurti a dominanti, della borghesia capitalista. Una così evidente autocoscienza in capo ad una donna non può esserle ancora perdonata. Peggio, non può esserle perdonato il successo, e con esso l’ampiezza del pubblico che il messaggio raggiunge, da sempre unità di misura per la gravità dei crimini letterari. E il linguaggio di Rame, agli occhi della controparte politica, è tanto più offensivo perché alla spudoratezza della parola libera aggiunge il tono irridente, canzonatorio della commedia. La controparte politica, del resto, non solo è quella che semplifica, ma è anche quella che fa della violenza una bandiera, e non esita a usarla contro Rame.
Ciò che accadde è notorio. La punizione è l’offesa massima al corpo della donna, chiamata a pagare il conto per tutti. Non un banale sfogo di violenza sessuale: una spedizione punitiva che umiliando il corpo intendeva colpire il progetto culturale, intellettuale, politico, di cui Rame tuttavia non era che una singola esponente, insieme a Fo, alla Comune, a tutta la sinistra radicale ed extraparlamentare. A lei, tuttavia, spetta il trattamento speciale. Le sigarette spente sulla pelle, le lamette, lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce, la parola. È a sua volta un gesto politico, un atto sorretto da volontà, attuato con specifica postura. Ma vile, perché non supportato da un’assunzione di responsabilità. Non portato a viso aperto, e quindi privo dell’adesione al proprio sostrato assiologico. Un gesto anonimo, di cui non si individueranno mai con certezza processuale gli autori, sebbene è un dato storicamente verificato che quel 9 marzo il mandato alla banda neofascista venne da ambienti istituzionali[1].
Nel suo vuoto di senso e nella sua povertà estetica e semantica, anzi proprio per questo, quel gesto punitivo indubbiamente riesce nell’intento umiliante, come lo abbiamo appreso dalla viva voce dell’artista, che pochi anni dopo racconterà in un monologo la violenza, e quei primi minuti, le ore successive, ma ne impiegherà ancora molti per confessare che si tratta di autobiografia.
Il monologo si conclude con la scelta di non denunciare. È la presa di coscienza dell’incomunicabilità tra linguaggi troppo diversi: il linguaggio del gesto artistico, la libera presa di parola e di responsabilità; il linguaggio dei picchiatori fascisti, la vigliacca rappresaglia anonima, che attacca il corpo della donna perché non sa attaccare la parola dell’artista e l’azione militante; e un terzo linguaggio, platealmente assente da questa dialettica, che è quello dell’istituzione, cui la vittima non si affida. Questa terza voce dovrebbe elevarsi al di sopra di quelle antitetiche spinte, entrambe naturali, sociali, governando i rapporti tra esse. Dovrebbe parlare un’altra lingua, quella della responsabilità giuridica, del confine, pronunciare una parola capace di dare ordine allo scontro sanguinoso accaduto nella realtà riportandolo, in qualche modo, in termini che rendano tollerabile la prosecuzione di una coesistenza. A casa no, si dice dapprincipio Franca Rame appena scesa dal furgoncino, un istintivo rifiuto di richiudersi intorno alla propria offesa, amplificandola. Ma questo linguaggio istituzionale che dovrebbe essere salvifico viene invece visto come a sua volta potenzialmente lesivo, da chi già è stato troppo oltraggiato, e così si difende. Sto ferma non so per quanto tempo a guardarmi quell’ingresso, appoggiata al muro della casa di fronte. Quest’ambivalenza è storicamente molto significativa, storicamente inteso come ieri e come oggi. Ci dice quanto ancora non fosse risolto il rapporto col corpo della donna, già scelto in un abominevole automatismo come il bersaglio naturale, forse perché il più facile. La donna, che per aver preso la parola è già stata castigata, viene di nuovo punita poiché non ha diritto a una difesa delle istituzioni, o in ogni caso perché vive in un contesto in cui deve esitare, dubitare, chiedersi quale sarebbe la risposta, temere una rinnovata offesa, prefigurarsene l’intollerabilità. A prescindere dalla realtà dei fatti, già solo questa percezione decreta il fallimento dell’istituzione, e già è una punizione per la donna, che infatti se la autoinfligge: rinuncia, non ci prova nemmeno. Penso cosa dovrei subire se dovessi entrare ora. Penso alle domande. Penso ai mezzi sorrisi. Penso…e ci ripenso. Poi mi decido. Vado a casa. Vado a casa. Li denuncerò…domani. La voce di Franca Rame a questo punto è un singhiozzo lentamente trascinato, uno strazio. Il solo pensiero di poter ricevere un mezzo sorriso. E peste colga chi non ha capito.
Quei tre linguaggi così distanti per forza si scontrano in un modo sanguinoso, non c’è un terreno su cui possano intendersi. Sempre antagonisti saranno la libera presa di parola e il colpo basso di chi non assume su di sé la propria azione, né nel contenuto, né nella forma, e il linguaggio dell’istituzione che resta colpevolmente al margine, impotente, quando non è coinvolta nella scelta della forma peggiore.
Ma il gesto politico, come il gesto artistico, ha un doppio fondo. Un’arma di ritorno che può recuperare anche quel torbido, quell’umiliazione, trasformandola anch’essa in un prodotto artistico, un prodotto politico, militante. E non è una rivincita, attenzione, non ne verrà alcuna consolazione. Non esiste risarcimento possibile per la persona lesa nella sua dignità. È un’altra cosa, qualcosa che sta accanto, che non restituisce niente. E nondimeno cura, ma non la vittima, cura qualcos’altro. La dimensione collettiva traspone fuori la ferita di dentro, le mille sputate che mi son presa nel cervello, e le lenisce lì, su un corpo plurale, impersonale, altrimenti vivo. Un apparente artificio che sembra una ricerca di conforto, ma non è altro che un ritorno naturale, un effetto riflesso in una sfera che è stata intaccata tanto quanto quella individuale, che se ne sia coscienti o meno. Poiché il corpo di uno è il corpo di tutti, e soprattutto il corpo dell’artista.
[1] I fatti relativi allo stupro di Franca Rame furono parzialmente accertati nel corso di una inchiesta condotta alla fine degli anni ’90 dal giudice Guido Salvini sugli atti terroristici irrisolti, a partire dai fatti di Piazza Fontana, al fine di ricercare prove documentali delle dichiarazioni che erano state rese da vari estremisti di estrema destra. Dagli atti di quel processo emerse che l’azione contro Franca Rame fu ispirata da ufficiali della caserma dei Carabinieri Pastrengo, col fine di dissuadere Rame nella sua attività di sostegno ai carcerati col Soccorso Rosso. Il reato era tuttavia ormai prescritto. A riguardo, negli atti della Commissione Parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi istituita nel 1992 si legge: “Nel 1997 Angelo Izzo, un estremista di destra condannato per stupro e omicidio (fatti del Circeo), dichiarerà che lo stupro di Franca Rame era stato suggerito dai vertici della 1„ Divisione carabinieri ´Pastrengo a (Milano), allora comandata dal generale Giovanni Battista Palumbo, teste al primo processo e all'inchiesta parlamentare sul Piano Solo e iscritto alla P2. Nel 1998 un pregiudicato per reati comuni, già picchiatore nero, arrestato per traffico di eroina, confermerà la dichiarazione di Izzo accusando dello stupro un neofascista riparato a Londra. Quest'ultimo negherà l'addebito, ricordando di essere ´finito in galera per un anno proprio in seguito a un'indagine del generale Palumbo. Non sarebbe venuto a chiedere proprio a me di stuprargli Franca Rame’. Nell'ambito dell'inchiesta del giudice Salvini, il generale dei carabinieri in congedo Nicolò Bozzo testimonierà che il generale Palumbo avrebbe accolto la notizia dello stupro con una risata e il commento ´era ora’. Il 17 febbraio 1998 il premio Nobel Dario Fo indirizzerà una lettera aperta al presidente Scalfaro”. Da un’intervista a Bozzo pubblicata su L’Espresso il 26 febbraio 1998: “Quel mattino avevo appena ricevuto un fonogramma nel quale veniva data la notizia dell’aggressione della sera prima a Franca Rame. Il fatto era gravissimo e subito avvertii io stesso il mio superiore, il Generale Giovan Battista Palumbo. In quel momento era serissimo, ma quando gli consegnai quel messaggio, gioì: cambiò subito espressione, come a dire ‘Finalmente, era ora’. Approvava quell’operazione punitiva.”.
Il patriarcato esiste
di Maria Teresa Covatta
In apertura dello scritto “Sulla servitù delle donne” del 1836 John Stuart Mill chiarisce che la condizione di inferiorità giuridica delle donne si fonda su un principio sbagliato in se stesso in quanto trae la sua legittimazione da consuetudini che, non essendo il prodotto di una deliberazione fondata su ragioni di giustizia o utilità sociale, risultano essere un retaggio di barbarie, un frammento del sistema del diritto fondato sulla forza nonché l’esatto contrario di ciò che definiamo come civilizzazione.
Mill afferma che, atteso che la storia stessa del progresso della civiltà coincide con la progressiva abolizione del diritto fondato sulla forza in favore di relazioni regolate in base ai principi moderni di libertà e uguaglianza, qualunque sistema che tolleri l'inferiorità della donna rispetto all'uomo risulta storicamente e logicamente contraddittorio
Queste parole che possono ritenersi superate rispetto al nostro sistema giuridico attuale, certamente formalmente tra i più avanzati in tema di parità e di contrasto alla violenza di genere, meritano tutt'oggi una riflessione atteso che l'uso della forza è ancora, di fatto, uno dei modi in cui viene gestita la relazione uomo donna
La lotta a questa persistenza della barbarie è il senso della giornata mondiale della violenza contro le donne che si celebra il 25 novembre.
Il patriarcato esiste ancora. Inoltre chiamarlo maschilismo, come ha precisato di recente il ministro della pubblica istruzione italiano, per chiarire la sua precedente affermazione secondo cui il patriarcato non esiste, non cambia le cose posto che una diversa terminologia non modifica la realtà. Con il termine maschilismo, infatti, si indica l'adesione a comportamenti, atteggiamenti personali, sociali e culturali con cui gli uomini esprimono la convinzione di una loro superiorità nei confronti della donna sul piano intellettuale, psicologico, biologico che legittima posizioni di possesso, di predominio e di autoritarismo, occupando una posizione di privilegio nella società.
In sociologia il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono in via primaria il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e talora persino di controllo della proprietà privata, esercitando, in ambito familiare, quale figura maschile di riferimento, la propria autorità sulla donna e sui figli.
Se storicamente il termine patriarcato è stato usato per riferirsi al dominio autocratico da parte del capo di una famiglia, in tempi moderni si riferisce più generalmente a un sistema sociale in cui il potere è prevalentemente detenuto dagli uomini adulti ed esercitato secondo un modello “maschilista” nel senso detto sopra.
Il patriarcato come sistema di controllo istituzionalizzato ha dato in passato, e dà ancora oggi in una grandissima parte del mondo, un diritto al possesso della donna inteso come diritto anche all’abuso fisico e psicologico
La congiuntura tra patriarcato come privilegio e autorità e la concezione della donna come proprietà finisce per sfociare in quella che è stata definita la “cultura dello stupro” in cui violenza sessuale e altre forme di violenza verso le donne sono viste come possibili all'interno di un ordine sociale barbarico, per dirla con Mill, che resiste e impedisce di superare, nell'ambito dei rapporti tra i sessi, quel particolare tipo di relazione che ancora ci ricorda, nel contesto familiare, il rapporto padrone che comanda e servo che deve ubbidire, nel rapporto politico quello tra despota che decide e suddito che non ha diritto di protestare e infine, nel contesto dei conflitti, quello tra il vincitore e il vinto da annientare fisicamente e psicologicamente.
Il corpo della donna, già bottino in tutte le guerre, diventa anche in tempo di pace campo di battaglia perché attraverso la violenza sessuale e l'annientamento definitivo del corpo femminile si afferma una signoria a cui non si rinuncia nonostante le leggi formali, nazionali e internazionali, lo vietino. E che supporta il diritto a reprimere le decisioni delle donne di affrancarsi da relazioni violente o semplicemente non gradite o, in contesti internazionali sempre più vicini, a manifestare il proprio dissenso o la propria aspirazione alla libertà.
La violenza che si consuma in ambito familiare anche nei paesi civili spesso seguita anche dall'uccisione, come ci raccontano gli agghiaccianti dati dei femminicidi di casa nostra, si manifesta come esercizio di potere sociale e si affianca al fenomeno sempre troppo poco conosciuto dello stupro di guerra e allo stupro come arma di repressione politica, costituendo tutti insieme declinazioni diverse di un orrendo crimine che ha un unico comune denominatore, qual è quello dell'esercizio di un dominio in nome della prevalenza della forza fisica.
Lo stupro di guerra da sempre usato come arma massiva, ancorché riconosciuto come crimine contro l'umanità, resta sempre ai livelli più alti della hit della violenza contro le donne, come forma di annientamento del nemico umiliandolo, terrorizzandolo e modificandone l'assetto politico a fronte di eventuali intelligenze con gli opponenti.
Ed è ancora oggi una vera e propria piaga che tutti gli enfatici “mai più” pronunciati dall'umanità in risposta agli orrori delle due guerre mondiali non sono stati in grado né di arginare né di punire assicurando i colpevoli alla giustizia
Dal passato proseguendo fino alla terrificante realtà dell'oggi, in conflitti sempre più vicini e più massificati, la violenza sessuale resta un'arma di dominazione agita contro il nemico usando il corpo delle donne: dalle dominazioni coloniali al genocidio armeno dalle “marocchinate” alle “mongolate” dell'Italia della seconda guerra mondiale alle violenze perpetrate nella ex Jugoslavia e alla violenza assurta a pulizia etnica in Bosnia Erzegovina, passando per il Ruanda, la Palestina, la Somalia, la Nigeria, l'India, l'ex Birmania, il Darfur, le terre Curde occupate dall’Isis fino all’America Latina e ancora, in tempi più vicini, la Repubblica popolare del Congo, la Siria, l’Etiopia, la Colombia, Haiti, l'Ucraina, Israele e Gaza.
Secondo i dati di Strategic Initiative for Women in the Horn of Africa, in Sudan sono sempre più le donne che scelgono il suicidio piuttosto che sottostare allo stupro di massa perpetrato sia dalle milizie RSF che dall’esercito golpista i quali, secondo il rapporto di United Nation High Commissioner for Human Rights (OHCHR) violentano e uccidono anche bambine di pochi anni.
Ma lo stupro è anche una potente arma politica, praticata anche da noi fortunatamente in un passato lontano anche se non lontanissimo come ci ricorda la terribile violenza che fu esercitata contro Franca Rame.
Secondo le fonti di Amnesty International riportate da Avvenire, la violenza sessuale è stata utilizzata diffusamente dalle autorità iraniane come arma nell'arsenale della repressione delle proteste per Donna Vita e Libertà.
Lo stesso sta accadendo in Myanmar per reprimere l'opposizione al regime militare instauratosi nel 2021: come dire se la protesta è donna la violenza sessuale procede o segue le percosse e le torture riservate a tutti.
Anche in Afghanistan le donne che protestano contro l'applicazione dei precetti talebani sono incarcerate e lì ripetutamente abusate. E, per concludere l'opera, segue la puntuale video registrazione dell'abuso, con l'esposizione del corpo nudo e del viso ben riconoscibile della vittima, che consente, attraverso la diffusione, di ricattarla e di vittimizzarla ancora di più.
E dunque, come accade nel nostro mondo occidentale e civilizzato dove si registra un aumento esponenziale della diffusione on line di messaggi di odio sessuale, anche l'uso della tecnologia può essere un'arma attraverso cui il patriarcato (o il maschilismo se il termine piace di più!) manifesta la volontà maschile di non perdere il potere sul corpo e sulla vita delle donne.
Una volontà che ancora oggi trova un fertile terreno nell'affermazione, anche pubblica, di cause di giustificazione morale legittimanti le condotte violente. Tra queste al primo posto la gelosia, che, nonostante l'abolizione del diritto d'onore dati al 1981, continua, anche nelle aule dei tribunali, ad essere portata avanti come causa del comportamento violento maschile la cui responsabilità va dunque ricondotta alla donna che vi ha dato causa.
E ciò perché rimane ancora il pervasivo retaggio della cultura patriarcale tradizionale secondo cui, nei rapporti affettivi, la gelosia è ritenuta un segno d’amore facendo della possessività, soprattutto maschile, la cifra di relazioni in cui il dominio e il controllo sull’altro sono la regola.
Così il “diritto di proteggere” celato dietro un preteso dovere di protezione che ha ben altri contenuti e che inevitabilmente rimanda all'esercizio del controllo, alla cancellazione del diritto di autodeterminazione, anche in relazione alla procreazione, e alla privazione di una o di più libertà.
Non può che leggersi così la promessa del capo di un'importante Paese Occidentale Civilizzato di “proteggere le donne anche contro la loro volontà”.
Non per fare paragoni e tornando al regime talebano, si segnala la forte condanna espressa di recente dall’ONU contro la pratica ora invalsa in Afghanistan di imprigionare le donne vittime di abuso sessuale, giustificando la carcerazione con la necessità di proteggerle, ovviamente contro la loro volontà, e ancora una volta facendo pagare il danno al danneggiato.
Volendo formulare un augurio per questo 25 novembre la speranza è che ci siano presto leggi e soprattutto percorsi culturali che servano a sradicare il patriarcato, partendo dalla consapevolezza della sua esistenza, e che possano formare, anche nei giovani, una nuova coscienza del rapporto uomo donna. E che cancellino per sempre l’idea che le donne debbano essere protette con un “tipo” di protezione decisa dagli uomini.
Cambiare funzioni
di Paola Cervo
«C'è una stagione ignota agli altri ma vera, nella quale il detenuto ha maturato la convinzione di avere pagato il giusto. Sa che doveva pagare (il gergo del carcere usa sempre questo verbo: “ho fatto due rapine e le ho pagate”) e sente che quella quantità corrisponde al dovuto secondo la “sua” idea di giustizia. Se siamo capaci di cogliere quel tempo, è salvo lui con tutto il percorso fatto, e siamo salvi noi.»
Il libro da cui tutto è cominciato è “Fine Pena: Ora” di Elvio Fassone.
Quando l’ho letto non potevo immaginarlo, ma queste parole hanno scavato nella mia testa per qualche anno, un pochino alla volta. Nel frattempo sono successe tante cose, ho parlato spesso con Marco e con Milena, ed alla fine eccomi qui.
1° ottobre 2024, fuori dalla porta della mia stanza c’è scritto “il magistrato di sorveglianza” e sotto c’è il mio nome.
Nei giorni precedenti il mio trasferimento, gli avvocati che mi incontravano in Corte di Appello sono sembrati sbigottiti dalla mia decisione. Qualcuno si è spinto a chiedermi perché mai volessi penalizzare così la mia carriera invece di fare domanda per la Cassazione o per una presidenza; qualcuno mi ha chiesto perché volessi relegarmi in quel luogo e smettere di essere un giudice, qualcun altro ha ammiccato come a dire che lo capiva benissimo, se dopo tanti anni di prima linea avevo scelto un posto dove non si lavora.
Forse per reazione a tutte queste condoglianze professionali ho voluto giurare indossando la toga e il bavaglino.
Siamo giurisdizione e la toga ne è il simbolo, ma da oggi non sarò il giudice che assolve o condanna. Confesso che ne sono sollevata.
Negli anni in cui le parole di Fassone scavavano, mi capitava a volte di avvertire una fitta troppo forte in certe condanne, o un sollievo troppo grande in certe assoluzioni: decisioni che sapevo essere corrette, che ho creduto destinate alla conferma in Cassazione, decisioni che adotterei di nuovo, ma non era quello il punto. Il punto era che ne avvertivo il peso, e non più solo la responsabilità.
E dunque, eccomi qui.
I primi detenuti che incontro stanno sistemando degli arredi in legno al piano di sopra, in tribunale, sotto l’occhio di un enorme poliziotto in borghese che sfoggia sul petto un distintivo più grande della mia mano. Noto l’etichetta, in quell’istituto c’è il laboratorio di falegnameria.
Prendono le scale per scendere al mio piano quasi insieme a me, attacco bottone ed iniziamo a chiacchierare. Vengono dall’ istituto che condividerò con altre colleghe. Mi presento, gli chiedo come si chiamino, le iniziali dei loro cognomi non sono lettere mie. Sono appena arrivata ma scopro che mi conoscono già, ho accordato un permesso di necessità ad un loro compagno di reparto, e mentre mi stupisco della velocità con cui viaggiano le notizie in carcere mi assale il dubbio atroce che la notizia si sia sparsa perché ho commesso chissà quale errore.
In attesa che venga reperito un armadio per stipare i fascicoli rossi della conversione delle pene pecuniarie, inizio a studiare i miei fascicoli delle misure di sicurezza.
La misura di sicurezza si esegue a pena espiata. Lo so da sempre, lo avrò scritto in non so quanti dispositivi, eppure oggi qualcosa stona. Mi sorprendo a chiedermi perché una persona dovrebbe essere socialmente pericolosa dopo avere espiato una pena che la ha rieducata; eppure eccole qui, le misure di sicurezza, ed eccomi qui.
Vigilo sulla casa di lavoro.
Il collega al quale subentro mi propone di fare insieme la mia prima visita all’istituto, ed io accetto felice. Sarò io, adesso, l’unico magistrato di sorveglianza per gli internati.
La direttrice mi accoglie con cordialità, parliamo di assistenza sanitaria e di qualche internato più problematico. È autunno ma fa caldissimo, il balcone è aperto su un gigantesco albero e le zanzare sono entusiaste di avermi lì.
Anche gli internati sanno già chi sono, nei pochi giorni che separano il mio trasferimento dal mio ingresso in casa di lavoro ho già emesso svariati procedimenti, il mio nome gli è già familiare.
L’istituto ha un piccolo tenimento agricolo dove si coltivano melanzane, peperoncini di fiume, alberi da frutta, cavolo nero, finocchi, vite. Ci sono delle rose stupende, piantate da un anziano e terribile ndranghetista che – pare – quando è stato dimesso è tornato in Calabria a fare il nonno.
Lungo i viali che conducono ai reparti vengo letteralmente circondata dagli internati.
Non riesco quasi più a camminare.
Imparerò a conoscere i loro nomi ed i loro visi ma intanto mi lascio assediare dalle loro domande, esamino e commento con loro i documenti e le ordinanze che mi chiedono di leggere – casualmente, hanno tutti in tasca l’ultimo provvedimento che li riguarda, l’ultima istanza che hanno protocollato alla matricola, l’ultima lettera del figlio o della madre. Sono estremamente rispettosi l’uno dell’altro, aspettano il loro momento per parlarmi senza dare fretta a chi sta parlando, ma avverto che tutti mi stanno studiando.
Anche io voglio conoscerli. Entro nel reparto, ci disponiamo in cerchio in un passaggio abbastanza ampio da contenerci tutti. Non ho molto da dire perché non li conosco ancora, preferisco ascoltarli.
Alcuni sono davvero esasperati perché non capiscono come mai si trovano lì, dal momento che hanno già “pagato il reato”; altri mi chiedono, ora con foga e ora con stanchezza, perché si trovino ancora lì.
Mentre guido verso casa riaffiorano vecchie letture sull’ergastolo bianco, intanto ripasso mentalmente l’elenco dei fascicoli che l’indomani voglio studiare.
Sono impacciata, lenta, è tutto nuovo.
Litigo con SIUS, le norme sembrano sfuggirmi, guardo i miei colleghi – i magistrati di sorveglianza ‘veri’, così generosi ed accoglienti con me – e mi chiedo quanto mi ci vorrà per acquisire la loro esperienza e la loro competenza. Eppure mi sembra di essere lì da sempre.
Gli avvocati mi raccontano dei loro assistiti detenuti, prima di uscire dalla mia stanza uno di loro mi confessa: «sa, dottoressa, è il mio primo assistito».
Ricevo molte lettere.
La prima me la ha inviata un detenuto che è coetaneo del mio figlio più piccolo.
«Gentile dottoressa sono M.B., un suo assistito». Un mio assistito. Forse sarà così, forse quando avrà espiato questa lunga pena scopriremo insieme che sarà stato così.
Ma tra i miei assistiti ce n’è uno, che non ho ancora mai visto anche se conosco il suo nome da anni. Il reato per il quale lui sta scontando l’ergastolo è il reato per il quale io sono diventata magistrato. Chissà, magari non è una coincidenza, magari dovevo cambiare funzioni perché il cerchio si chiudesse.
Siamo giurisdizione e ora che sono da quest’altro lato lo vedo proprio nitidamente. E vedo anche che questo è proprio “l’altro lato”. C’è un confine ideale tra l’essere giudice della cognizione ed essere giudice dell’esecuzione, ed io ho scelto di varcarlo dopo 23 anni passati “dall’altro lato”. Chissà se tornerò mai indietro.
Indipendenza ed imparzialità del giudice. Piccole cose che so di loro.
di Giancarlo Montedoro
Ringraziamenti a guisa di premessa: giudice partigiano e giudice asceta
Vorrei ringraziare il Centro internazionale magistrati Luigi Severini per avermi invitato a all’International Forum “High Culture of jurisdiction. Impartiality and quality of the judge”.
Si tratta di un’importante occasione di incontro fra magistrati di diverse nazionalità non solo europee.
Son grato a Paolo Micheli Presidente del centro e Giuseppe Severini e per aver organizzato questo libero confronto e sono lieto di aver potuto aiutare la professoressa Piana nella preparazione del meeting.
Mi piace ricordare che il Centro è dedicato a Luigi Severini che fu giudice e partigiano, figura poliedrica, poi aderente al Partito d’azione e amico di Aldo Capitini un intellettuale quest’ultimo che solo l’odierno deficit di memoria storica non celebra come dovrebbe fra le massime personalità politiche del secolo scorso, credente, non violento, resistente alla maniera crociana, pacifista, libertario, animalista, vegetariano: un Ghandi italiano.
Giudice e partigiano non sono qualità in contrasto se non apparente.
Del giudice si predica l’imparzialità da più parti.
Certo così deve essere il suo lavoro ordinario.
Ma vi sono circostanze storiche nelle quali è il diritto ad essere sotto attacco.
Sono le circostanze storiche tragiche vissute nell’epoca dei totalitarismi, un’epoca nella quale le libertà sono state violate e nella quale la legge è divenuta instrumentum regni.
Allora anche il giudice che ama la libertà può essere chiamato a deporre la toga e fare la sua parte nel conflitto.
Normalmente e fortunamente non è così: la lotta jeringhiana per il diritto si svolge nelle sedi istituzionali.
Perché il diritto è sempre una lotta: ad esempio contro le leggi incostituzionali o i provvedimenti amministrativi illegittimi o – nel mercato – avverso le violazioni della fair competition.
Una perenne lotta – quella alla quale il giudice assiste – dei cittadini e delle imprese per trovare il loro spazio vitale.
Dello Stato per garantirci l’ordine e curare i pubblici interessi domando privati egoismi nella legalità sostanziale.
La giurisdizione è un luogo di calma ritualizzata – uno spazio protetto – che ha – normalmente – il conflitto per oggetto per mediarlo o risolverlo, assegnando ragioni e/o torti.
Quindi il giudice può divenire partigiano proprio e solo per difendere il suo essere giudice e deve sapere che ha il dovere di non esserlo (partigiano) quando la storia – per felici circostanze legate al contesto politico sociale ed istituzionale – gli consente di continuare ad essere giudice indipendente.
L’incontro poi si svolge all’Università per stranieri di Perugia luogo di confronto da sempre fra diverse culture.
Mi piace ricordare che il pluralismo è l’essenza della Costituzione e siamo qui in un luogo che lo celebra, favorendo dalla sua istituzione lo studio, l’educazione e l’apprendimento fra giovani di tutto il mondo.
La premessa del dialogo intessuto dal Centro è la significatività di ogni esperienza giudiziaria e l’intento è, nel mettere a confronto tali esperienze, suscitare una sorta di polifonia, di musica a più voci, che non teme il contrappunto ma se ne avvantaggia per superare l’ignoranza e limitare la fallibilità umana.
Piccole cose come introduzione
Alcune piccole cose che ho appreso – come lezione – negli anni – non pochi ormai – in cui mi è accaduto di fare il giudice.
Prima piccola cosa: la giustizia è fatta di differenti punti di vista.
Il film Rashomon di Akira Kurosawa la simbolizza a sufficienza.
Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l'assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
In un Giappone ancora dilaniato dai lasciti del dopoguerra, Kurosawa ritorna a un'altra epoca di morte e sofferenza, quel periodo Heian in cui di fronte alla porta del tempio di Rashô non scorrevano che sangue, violenza e frode.
Prendendo spunto dai racconti di Ryûnosuke Akutagawa, Kurosawa riflette sulla natura dell'uomo e sulla sua inclinazione alla menzogna, guidata da un esasperato spirito di autoconservazione. A contare non è mai il senso di verità o di giustizia, ma la salvaguardia del proprio tornaconto e di un miserrimo particulare, tale da portare – è il caso del personaggio del samurai – a mentire anche post mortem pur di difendere il proprio onore.
Ma se questo è già l'apologo originario di Akutagawa, risultato della messa in scena di tre versioni – tutte discordanti e tutte false – della stessa storia, Kurosawa vi aggiunge una nuova valenza, in cui la riflessione si estende a un'ulteriore menzogna, quella dell'immagine e del cinema come suo strumento principe. E le conclusioni di Kurosawa sull’illusorietà del cinema risultano anticipatrici della condizione della verità nell’epoca della civiltà dell’immagine e dei mass media. E anche della verità fornita dal processo dovremmo non scordarci mai che si tratta di verità umana (verità processuale convenzionalmente accettata).
Le versioni dell'assassinio non si limitano ad essere raccontate dai personaggi, infatti, ma sono offerte alla visione del pubblico come se si trattasse di realtà oggettiva e indiscutibile; ciò che si vede dovrebbe tradursi in ciò che è, anziché rivelarsi mutevole nei contenuti e nello stile, ma tutto alla fine risulta illusorio come nel sogno taoista della farfalla.
Il giudice dovrebbe avere consapevolezza della fallibilità della ragione umana e dovrebbe avere confidenza con la logica scientifica popperiana della falsificazione (evitando ogni forma di sacralizzazione della scienza).
Seconda piccola cosa: ogni discorso è situato.
Ciò significa che esistono delle premesse implicite, un complesso di pregiudizi e preferenze, un processo di precomprensioni, una pressione dell’inconscio e delle dinamiche culturali in ogni giudizio.
Enrico Scoditti ha – per questo motivo – kantianamente detto che il giudice dovrebbe essere indipendente innanzi tutto da se stesso.
Questa uscita da sé è un buon metodo, ma alla fine difficilmente attuabile se non impossibile, proponendo un modello di giudice asceta.
Non è facile uscire dalla propria passionalità e nemmeno dal linguaggio che ci forgia, rispetto al quale siamo come mosche in un bicchiere.
Un rimedio – modesto ma efficace – può essere l’onesta consapevolezza di questa realtà pre-razionale pre-logica al fine di domarla per quanto possibile.
Terza piccola cosa: la giustizia è lo sguardo del Terzo.
L’oggetto della giustizia è la lite, il conflitto: esso per essere risolto reclama lo sguardo del Terzo.
La terzietà è l’essenza della giustizia.
Astensione, ricusazione, incompatibilità, conflitti di interessi sono solo meri strumenti per assicurare lo sguardo del Terzo.
Esso – dal punto di vista teologico politico – tiene luogo dello sguardo di un dio o così potrebbe essere figurato da chi ha sempre – perennemente – nostalgia dell’Assoluto.
Judex Deus: un paradosso non desiderabile, per nulla accettabile, connotato da una dismisura (evitata dall’ingiunzione biblica “nolite iuridicare”) da scongiurare lasciando la terzietà giocare con gli eventi, intendendola come forma di attraversamento del dolore e della vita da parte di un uomo (fallibile) fra gli uomini (altrettanto fallibili).
La terzietà produce paradossi, vediamone quindi alcuni.
Il primo paradosso: è miglior giudice chi non vuole giudicare; il giudice riluttante.
Camus ha detto: “non può negarsi, per il momento, che i giudici siano necessari, ma cionondimeno non riesco a comprendere come un uomo possa proporre se stesso per un compito così strabiliante”.
Vi sono alcuni precisi corollari di questa profonda affermazione di Camus:
1) Il giudice che lo diviene per caso potrebbe essere meglio da quello che vuole fortemente diventarlo, maturando ambizioni di successo e carriera.
2) Occorre mantenere e promuovere sempre l’umiltà del giudice come opposto della sua ubris.
3) L’umanesimo è importante.
4) Il modello del giudice asceta è forse impossibile, ma il modello del giudice riluttante nel giudicare (infine prudente) è alla portata di tutti, purché sia temperato da un forte senso del dovere.
Il secondo paradosso: v’è connessione inestricabile fra diritto e violenza; il diritto è anche ritualizzazione della violenza.
Il giudice penitente. Il giudice strumento della violenza.
Lo Stato weberianamente ha il monopolio della violenza.
Esercita violenza legittima, ma in un perenne “ritorno del rimosso” può veder di nuovo l violenza dominare la scena (è accaduto nelle esperienze totalitarie).
Basta pensare a Kafka ed al suo “Il processo”[1] o ancora a Camus ed al suo “La caduta”[2] Antoine Garapon ha studiato – nel saggio Del giudicare – l’Archeologia della scena giudiziaria (pp. 173-200): il rituale, il rapporto fra scena, teatro e processo che raffredda e legittima la violenza (specie nel processo penale).
Su tale analisi si è rilevato da parte di Daniela Bifulco, nell’introduzione del libro, che nel soffermarsi sulle origini religiose del giudizio nella civiltà occidentale, Garapon si mostra ben consapevole di tale raddoppiamento-spostamento rituale della violenza (analizzato soprattutto dagli studi di Girard sul capro espiatorio), che, continuando a funzionare nella sfera secolarizzata del politico, rischia di mettere tra parentesi il concetto razionale di responsabilità giuridica individuale – l’unico ad aver cacciato dai tribunali moderni la brutalità dell’ordalia e del giudizio di Dio, con il ritorno di una perenne sproporzione fra accusatore ed accusato.
In questo teatro il giudice – col suo corpo togato e seppure in maniera inconscia e/o velata dall’ascetica professionale – incarna, più che l’imparzialità del Terzo (cfr. pp. 83-86), l’assurda – kafkiana – superiorità della Legge rispetto all’accusato (cfr. p. 67), il suo spettacolare potere di condanna non sembra molto distante dalle “antiche trame ordaliche e dall’ambivalenza del sacro” (dalla Prefazione di D. Bifulco, p. XVII).
Siamo cioè di fronte al paradosso per cui la violenza processuale, che in quanto forza e autorità (cfr. in tedesco l’asse semantico Gewalt > Macht) pretende di fondare la democrazia e lo stato di diritto ovvero la trasparenza della responsabilità giuridica, può essere solo teatralmente – dunque tragicamente e mai del tutto sostanzialmente a meno che non si affronti il problema dei fini e dei valori (che pure a sua volta è contraddistinto dalla lotta) – distinta dall’altra violenza pre- o infra-giuridica, che, etichettata come ‘crimine’ minaccia la comunità: in fondo, si tratta della stessa violenza, che solo il rituale giudiziario, con le sue maschere e la sua differenziazione dei ruoli, permette di trasformare in qualcosa di lecito e giusto, dunque di democratico (ove la democrazia venga intesa come dominio della maggioranza e non come democrazia costituzionale sostanziale).
In questo quadro può ricordarsi anche che l’origine hobbesiana dello Stato si radica sulla violenza delle guerre religiose e che il diritto fiorisce nello spazio della loro sospensione come è ben noto a tutti gli studiosi dello ius publicum europaeum.
Il nesso hobbesiano conflitto – violenza – forza – diritto è costitutivo dell’esperienza giuridica e la dialettica fra queste componenti viene costantemente a riproporsi nella storia sia pure senza una direzione predeterminata da alcuna filosofia.
Agli albori dell’esperienza totalitaria del nazismo W. Benjamin scrive sulla critica della violenza.
Il testo propone il problema se in generale e in linea di principio sia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini giusti.
Ivi si legge: “il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia.
E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre nei suoi rigori. Il senso più profondo della minaccia giuridica si dischiude solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui emerge. Un valido riferimento ad essa si trova nel campo delle pene. Tra le quali, da quando è stato messo in questione il valore del diritto positivo, la pena di morte è quella che ha più di ogni altra suscitato critiche... se il diritto origina dalla violenza – dalla violenza coronata dal destino – è lecito supporre che al livello massimo di potere, quella cioè sulla vita e sulla morte, là dove esso entra a far parte dell’ordinamento giuridico, le sue origini affiorino ben rappresentate e si manifestino paurosamente proprio nella realtà attuale”.
Il diritto si può fare strumento della violenza nella storia, come nell’epoca del totalitarismo ed il giudice può essere cieco strumento della violenza.
Profetico– tenuto conto dell’atmosfera che si respirava all’epoca dell’avvento del nazismo – è quanto Benjamin scrive del puro potere della polizia anche in situazioni dove c’è la polizia senza il bilanciamento del giudice[3].
Le conclusioni del saggio sono pessimistiche:
“il diritto appare in una luce morale tanto equivoca che sorge spontanea la domanda se, per regolare i conflitti di interesse tra uomini, non vi siano altri mezzi che violenti.”
Il terzo paradosso: Costituzionalismo e dimensione del sacro. Le basi morali della Rule of Law.
Si tratta del dilemma di Bökenförde:
«Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall'interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall'omogeneità della società. D'altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»
(Staat, Gesellschaft, Freiheit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1976, p. 60).
La secolarizzazione ha due volti: uno virtuoso ossia la fine della legittimazione a divinis del potere (fenomeno visto da Lowith in chiave storicistica, da Blumenberg senza una consolazione ma confidando nella forza dell’illuminismo) ed uno insidioso ossia l’approdo nichilistico della società che perde ogni cifra di trascendenza (plurale non necessariamente monista) e di capacità di speranza (Schmitt, Bloch da prospettive diverse se non opposte come quella della reazione conservatrice e del messianismo marxista).
È quel che accade con la versione minima, debole, procedurale della Rule of Law.
Con il contesto della cooperazione europea e globale sul piano economico che consente all’economico di dominare il politico, nella produzione della lex mercatoria.
Tanto che attualmente potrebbe predicarsi del liberalismo quello che una volta di diceva del socialismo: occorre distinguere il liberalismo ideale (ad esempio quello di Croce che relegava l’economia ad uno stadio non elevato dello sviluppo dello spirito) e quello reale che invece ha sposato o spesso rischia di sposare una logica inversa nel rapporto economia – politica – cultura.
Questo spiega il declino del costituzionalismo, anche in UE [4].
Sullo sfondo del ritorno di conflitti bellici (che speriamo cedano al più presto il posto a percorsi di pace) e di una generale svalutazione della vita umana (indotta da problemi demografici ed ambientali).
Un mondo senza alcuna dimensione sacrale del diritto (un mondo nichilistico in cui tutto è negoziabile) è esposto a crisi continue e resta spaesato e senza speranza.
Le divisioni tradizionali fra sfera pubblica sfera privata non funzionano più perché il loro presupposto era comunque un residuo sacrale del “politico”.[5]
E ci chiede se il fondamento della costituzione debba continuare ad essere visto nel contratto (come nella tradizione hobbesiano – lockeano – rousseauiana) sempre rivedibile con operazioni estenuate di ingegneria costituzionale o nel senso morale dell’individuo ossia nella sua capacità di essere libero (messa a rischio dalla rivoluzione digitale) anche scegliendo tragicamente fra valori differenti[6].
Ma sempre nel levinassiano senso dell’Altro come scaturigine dell’Ethos.
In che senso può operare il sacro?
Tema complesso ovviamente. Tocca il rapporto religione politica.
Al giurista è consentito volare più basso.
Il sacro opera come limite, come coscienza del limite.[7]
Tolstoj sovviene: “Se riesci a provare dolore sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri sei umano...”.
Può aggiungersi se senti la sofferenza della creazione come nelle encicliche che Papa Francesco ha dedicato al tema del rispetto della Natura, oggi oggetto della complessa attuazione costituzionale degli articoli 9 e 41 nuovo testo allora sei un uomo che si sente parte della creazione e sei un uomo felice.
Con le parole di Rilke, sentiamo di poter dire:
“Si cominciò a capire la natura quando non la si capì più”.
Il senso del limite, la immedesimazione nel dolore, restando terzi e ascoltando le voci degli altri: la professione del giudizio è tutta qui.
[1] Il protagonista del romanzo, Josef K., è impiegato come procuratore presso un istituto bancario. Una mattina, due uomini a lui sconosciuti si presentano presso la sua abitazione, dichiarandolo in arresto, senza tuttavia porlo in stato di detenzione. K. scopre così di essere imputato in un processo. Pensando ad un errore, decide di intervenire con tempestività per risolvere quello che ritiene essere uno spiacevole (ma temporaneo) malinteso.
Ben presto, K. si rende conto che il processo intentato nei suoi confronti è effettivamente in corso. K. tenta inizialmente di affrontare la macchina processuale con la logica e il pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro presso la banca. Tuttavia, tempi e modalità di svolgimento del processo, né altri aspetti del suo funzionamento, non vengono mai pienamente rivelati all'imputato, neppure nel corso della sua deposizione presso il tribunale. A K. non verrà mai comunicato il capo di imputazione che pende su di lui.
Dietro consiglio dello zio, K. affida a un avvocato il mandato di difenderlo. Pur rassicurando K. in merito all'impegno profuso per il suo caso, l'avvocato pare tuttavia procedere con la medesima opacità che è propria del tribunale, mettendo in atto iniziative la cui efficacia K. non è in grado di valutare appieno. K. decide infine di rimuovere il mandato all'avvocato, a dispetto del tentativo di dissuasione da parte dello stesso legale difensore. K. entrerà anche in contatto con un pittore, Titorelli, che sembrerà prodigarsi a suo vantaggio, anche in questo caso però senza effetti tangibili.
Questa rinuncia alla difesa prelude all'epilogo della vicenda. Josef K. viene infatti prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata. K. muore in conseguenza di una condanna inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico, e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.
[2] Il protagonista della Caduta è Jean-Baptiste Clamence è un brillante avvocato parigino, una persona dedita al benessere degli altri che si prodiga in innumerevoli buone azioni che lo rendono un uomo stimato dalla maggior parte dei suoi conoscenti. Durante un lungo monologo (o dialogo, che egli intrattiene con un ascoltatore cui non cede mai la parola e che può essere identificato con il lettore stesso), Clamence si rende conto che la sua vita è in realtà incentrata su se stesso, sul proprio egocentrismo e sul senso di superiorità nei confronti di chiunque che lo pervade.
Inoltre, mentre in pubblico mostra una maschera di virtù, in privato è un uomo dedito alla ripetizione continua e frustrata dei più disparati piaceri, dall'alcol alle donne. Resosi così conto della fondamentale duplicità della sua esistenza e della sua persona, decide di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, facendo del bar Mexico City il suo nuovo "studio".
In quel luogo, egli cerca di far confessare e redimere i suoi uditori, assumendo il ruolo di profeta, pur essendo ben consapevole di essere un falso profeta, portando così le persone a provare ogni sorta di colpevolezza. La sua nuova condotta, però, non è un caso esemplare di redenzione, ma appunto una caduta, poiché Clamence ha invero abbandonato la maschera di duplicità che si era reso conto di indossare: ciò non avviene rendendosi migliore, bensì abbandonando quella compassione di facciata che lo aveva contraddistinto in precedenza, annullando in questo modo quei valori che riescono a tenere insieme la società basata sulle apparenze additata dallo scrittore.
Il nocciolo della nuova filosofia di vita del protagonista al Mexico City è quello del giudice-penitente. Essa consiste nel confessare a chiunque le proprie colpe (vere o fittizie), in modo da costringere l'ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: in questo modo, accusando se stesso, riesce a rendere colpevole l'umanità intera; ecco quindi che, partendo dalla posizione di penitente, egli diventa giudice.
[3] La polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia.
Al contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati.
Anche se nei dettagli la polizia sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
[4] An increasing number of scholars have begun to express heightened concerns about the decline of constitutionalism in the context of the euro crisis management. For example, Agustín Menéndez has documented the breadth of the European Union’s ‘constitutional mutation’, warning that ‘the breakdown of constitutional law will result in the mid- or long-run in the breakdown of the Social and Democratic Rechtsstaat’. Gunnar Beck cautions that the recent euro crisis adjudication in the European and national courts has allowed a bending of the rules to suit the executive to the extent that ‘the Rechtsstaat is effectively suspended’.
The prevailing theories in Italy, as summarised by Andrea Simoncini, are that the euro crisis measures have accelerated a ‘decline of European constitutionalism’, with constitutions ‘destined to be obsolete’ in ‘the present age [that is] no longer the age of constitutions’.
A small but growing number of scholars have even expressed concern about the EU having taken an authoritarian turn in the euro crisis governance. Christian Joerges and Maria Weimer have cautioned against the entrenchment of ‘authoritarian executive managerialism’11 that ‘threatens to discredit the idea of the rule of law and its intrinsic linkages to democratic rule’.
Alexander Somek finds that in the EU’s euro crisis management, ‘formal legal constraints are bent in order to accommodate necessities’; he is concerned that this has led to ‘authoritarian liberalism’ and ‘loss of political agency’, with the executive branch gaining power, as the constraints on governance are economic.
Michael Wilkinson, also describing the EU crisis governance as ‘authoritarian liberalism’, has observed a process of ‘de-democratisation’, ‘de-legalisation’ and the overriding of Europe’s constitutional law with market teleology.
Altri riferimenti in Albi, Anneli; Bardutzky, Samo. National Constitutions in European and Global Governance: Democracy, Rights, the Rule of Law: National Reports (English Edition) (pp.33-34). T.M.C. Asser Press. Edizione del Kindle.
[5] Cfr. G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari Roma 2022.
[6] In tal senso vi sono illuminanti spunti nella lezione di Capograssi ripresa giustamente da V, Caputi Iambrenghi in Libertà e Autorità volumi I e II Napoli, 2021.
[7] È quanto mostra Garimberti ne L’etica del viandante, Milano, 2023 che sposa un politeisimo neopagano che per il giurista rispettoso della Carta fondamentale diviene pluralismo non nichilistico dei valori.
Immagine: Paul Cézanne, Natura morta con caraffa, bicchiere e mele, olio su tela, circa 1877, H. O. Havemeyer Collection, Bequest of Mrs. H. O. Havemeyer, 1929, Metropolitan Museum of Art, New York.
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