ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Foreigners Everywhere, Stranieri Ovunque è il titolo della sessantesima Esposizione Internazionale di Arte in corso quest’anno a Venezia dal 20 aprile.
La sede si attaglia al titolo.
A Venezia gli stranieri sono ovunque, da sempre, dal lontano passato in cui la popolazione originaria era costituita da profughi provenienti dai centri urbani romani alla Repubblica veneziana, fulcro di scambi e commerci internazionali.
Venezia è la città che da sempre ha espresso curiosità e amore per la conoscenza[1] gli stessi sentimenti che spinsero Marco Polo – di cui proprio del 2024 si celebrano i settecento anni della scomparsa – a visitare e incontrare culture percepite come lontane e minacciose, integrandosi lui, come straniero, in quelle terre, in virtù di uno scambio umano e alla pari. Erano i tempi in cui il mercato di Rialto risuonava di lingue, etnie fogge e vitalità; e tanti paesi avevano a Venezia i Fondaghi – dei Turchi, dei Siriani, dei Tedeschi – depositi della loro manifattura e del loro ingegno. Fino ad arrivare ai tempi odierni, in cui la popolazione stanziale che conta meno di 50 mila unità, raggiunge, in certi periodi sempre più frequenti, picchi di 165 mila presenze di turisti anche in un solo giorno.
E dunque la città che per prima ideò, ben 129 anni fa, la prima Biennale, rinnova con i suoi padiglioni Nazionali, con le opere e i visitatori che vengono da tutto il mondo, questo suo destino di multiculturalismo che già mille anni fa le consentì, unica tra le città europee, di avere anche un nome arabo, Bunduqiyyah, diverso, meticcio, mescolanza di genti straniere.
A fronte delle migliaia di turisti che vivono Venezia, però, la Mostra celebra altri “stranieri”, meno privilegiati, più tormentati, ai margini, ciascuno a proprio modo, e, partendo dai criteri di identità, origine e migrazione, individua, fin dal titolo, tipologie di stranieri e di migranti che hanno arricchito la cultura del nostro tempo.
Il titolo è ripreso da una serie di lavori realizzati a partire dal 2004 dal collettivo Claire Fontaine nato a Parigi e ora con sede a Palermo. Le opere consistono in sculture al neon di diversi colori che riportano in un gran numero di lingue le parole Stranieri Ovunque, espressione a sua volta ripresa dal nome di un collettivo torinese che nei primi anni 2000 combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia.
Foreigners everywhere, secondo la presentazione del suo direttore artistico Adriano Pedrosa ha vari significati: il primo è che ovunque si vada si incontrano sempre stranieri; inoltre che, a prescindere dalla propria ubicazione sulla terra, nel profondo si è sempre stranieri anche nel proprio mondo; infine esprime la consapevolezza, cruciale per l’Europa e per il Mediterraneo, che il numero dei migranti forzati non solo è all’apice[2] ma è destinato a crescere, cosicché occorre accettare l’idea che gli stranieri sono ovunque e che dobbiamo fare i conti in maniera umana, non rassegnata ma fattiva, con le nostre paure.
Straniero, in tutte le lingue, è etimologicamente collegato al concetto di “strano” e questo è il filo conduttore dell’Esposizione: l’artista da sempre viaggia e si sposta tra città, Paesi e continenti e dunque per sua natura si ribella alle restrizioni, oggi sempre crescenti, della dislocazione o dello spostamento degli individui.
L’artista è “strano”, perturbante, molto spesso perseguitato e messo al bando soprattutto perché talora narra scomode storie di sopraffazione e negazione contro cui combatte con lo strumenti dell’arte.
Così l’artista queer che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è rifiutato perché sfugge all’idea di normalità; o l’artista outsider che si trova ai margini del mondo dell’arte, non apprezzato, non riconosciuto, spesso autodidatta e spesso costretto, in applicazione del principio nemo propheta in patria (così la bella installazione nazionale del Camerun) a tenersi lontano dal proprio mondo, a migrare per cercare spazio e ciò nonostante spesso compreso solo dopo la scomparsa.
O l’artista folk o popular molto rappresentato in questa Esposizione, a cominciare già dalla facciata d’ingresso della Biennale ai Giardini. Per la prima volta un collettivo di artisti indigeni dell’Amazzonia, il Mahku - Movimento degli artisti Huni-Kuin-, si prende la scena con un intervento monumentale sulla Facciata del Padiglione Centrale, con ben 700 mq di visioni sacre e racconti rituali. E a proseguire con le tante esposizioni dei bellissimi Arjilleristas cileni, opere artigianali costituite da manufatti tessili realizzati durante la dittatura di Pinochet (1973-1990) che con la tintura e la cucitura di immagini raccontano le lotte popolari per il cambiamento sociale e politico per il Paese.
O, infine, gli artisti indigeni, popoli primari originari di tante nazioni, spesso rifiutati e trattati come stranieri nella propria stessa loro terra di appartenenza.
Le produzioni di queste tipologie di artisti, sparse tra i Giardini e l’Arsenale, tra i Padiglioni Centrali e i Padiglioni Nazionali dell’uno e dell’altro sono il filo conduttore della Mostra e rappresentano l’idea e il complesso lavoro svolto dai curatori che hanno operato la scelta difficile di coniugare il messaggio all’opera che lo esprime. Una scelta che viene rimandata al visitatore che la farà secondo criteri propri (la bellezza dell’opera, il significato dato dall’autore o la lettura personale del messaggio fatta da chi guarda), troppo personali per essere condivisi da tutti, critici, appassionati di arte contemporanea, curiosi e visitatori casuali. Alla Biennale, ritengo più che in ogni altra esposizione, queste tipologie sono tutte rappresentate in modo forte e vivace; in particolare, oltre a critici e appassionati, tipologie d’ordinanza in ogni mostra, ci sono i curiosi – perché la Biennale è strana e desta curiosità per questa sua stranezza – e ci sono tanti visitatori casuali, attratti dalla bellezza dei luoghi dell’esposizione, dai profumi del verde dei giardini e dalle strutture monumentali del vecchio arsenale, ancora più belli perché arredati dalle luci e dai colori delle – inconsuete – opere esposte e dalle presenze umane, artisti, performers e anche semplici visitatori, altrettanto inconsueti.
Non sono un critico, sono forse un’appassionata di arte contemporanea, certamente sono una curiosa. E da tanti anni non mi faccio mai mancare una visita alla Biennale. In questa veste di curiosa propongo la mia scelta, del tutto personale, di alcune delle installazioni che più di altre mi hanno colpito, nel bene e anche nel male, in relazione ai temi trattati.
Le migrazioni. The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili (Marocco) è stato elaborato nel corso di 3 anni attraverso le rotte migratorie mediterranee del Medio Oriente e dell’Asia meridionale raccogliendo le storie dei migranti che ha incontrato nelle stazioni ferroviarie locali e in altri spazi pubblici. Le 8 installazioni video di grandi dimensioni di cui è costituita l’opera riempiono l’enorme spazio di una delle sale centrali dell’Arsenale e documentano le storie dei migranti raccontate attraverso la loro stessa mano che, con una immaginaria matita luminosa, tracciano sulle mappe il loro viaggio tra mare e terra e lo raccontano, ciascuno con la propria voce: donne, uomini, giovani e vecchi che raccontano un cammino arduo e faticoso, estenuante fino al punto che talora qualcuno decide di tornare indietro, quando la realtà da cui è fuggito lo consente; percorsi di vita e spirituali che alla fine l’artista incrocia con le costellazioni celesti, a ricordare che sono sempre state le stelle, fin dai tempi antichi, a guidare i viaggi di ogni tipo di migrante.
L’esilio. Exile Is An Hard Job è il titolo di un’opera del poeta turco Nazim Hikmet che è riprodotto a caratteri cubitali di colore rosso, come fosse uno slogan politico, sull’installazione di Nil Yalter[3] dal titolo omonimo. L’opera riproduce una grandissima tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia centrale, interamente tappezzata da video e fly poster che documentano la vita e le esperienze di immigrati ed esiliati, soprattutto di donne che con i loro volti, precocemente invecchiati, dimostrano appunto che l’esilio è un duro lavoro.
La migrante russa e la migrante ucraina. Nel suo padiglione nazionale l’Austria ha proposto il lavoro dell’artista concettuale Anna Jermolaewa, nata in Unione Sovietica ed esiliata in Austria, realizzata in collaborazione con la coreografa ucraina Oksana Serheieva. Nell’opera “In Rehearsal for Swan Lake”[4] si fa riferimento ad un ricordo legato all’adolescenza trascorsa in URSS quando, in tempi di disordini politici causati da un cambio della guardia al potere, ad esempio la morte di un capo di Stato, la televisione sovietica sostituiva le trasmissioni previste nel palinsesto con il Lago dei Cigni di Čajkovskij, mandato a ciclo continuo per giorni e giorni: cosicché nella memoria culturale collettiva sovietica il famoso belletto divenne il codice per un cambio di potere. Le due artiste quindi trasformano il balletto da strumento di svago e al tempo stesso di censura in una forma di protesta e di speranza per il futuro: le ballerine raffigurate nell’opera fanno le prove del balletto per il cambio di regime in Russia[5].
Gli artisti indigeni. Molti stati (USA, Canada, Australia, Brasile tanto per citarne alcuni) hanno molto da farsi perdonare dai loro popoli indigeni. E così ecco le opere di artisti di origine Navajo, dell’Amazzonia brasiliana e peruviana, e di aborigeni australiani.
L’Australia, in particolare, con l’opera Kith and Kin[6] (dell’artista di origini aborigene Archie Moore, ha vinto il Leone d’Oro di questa edizione, premio che la giuria internazionale assegna al Padiglione Nazionale più rappresentativo della Mostra. Un’opera in cui la grandezza espositiva, di grandissimo impatto, si coniuga al messaggio di denuncia e alla ricerca immane che c’è dietro. Le pareti del Padiglione australiano sono interamente ricoperte da lavagne di grafite nera e costituiscono un vasto murale dove l’artista ha riportato, in maniera certosina, con gesso bianco, i nomi di tutte le famiglie indigene che dai suoi studi e dalle ricerche storiche condotte presso archivi e musei, costituivano i nuclei delle famiglie aborigene australiane, segnando con un tratto di gesso i legami tra di loro, a dimostrare come fossero tutte collegate a costituire un’unica comunità familiare e sociale (Kith and Kin, appunto). Man mano che la mappa temporale scorre verso il basso i legami si assottigliano e il disegno mostra caselle vuote che segnalano l’estinzione della famiglia dovuta a invasioni coloniali, massacri, malattie, esodi ma anche alle carcerazioni di stato che hanno decimato gli indigeni, buttati in prigione perché indigeni. Al centro della sala un enorme tavolo bianco dove sono poste le pile, anch’esse bianche, dei documenti trovati dall’artista e che raccontano, attraverso i reperti dei medici legali, l’orrore delle deportazioni, delle uccisioni anche di donne e bambini e delle carcerazioni di stato verso gli aborigeni. Il grande tavolo è circondato di un apparente quadrato di marmo nero che in realtà è acqua buia nera e profonda a simboleggiare l’orrore ulteriore dell’oblio.
Gli artisti populisti. Già in altre edizioni la Biennale aveva esposte molte produzioni tessili, a simboleggiare il rinnovato interesse dell’Arte per questa forma artistica considerata di serie B, realizzata da artisti populisti, spesso autodidatti e addirittura sconosciuti. In questa edizione, oltre alle Arpilleristas di ignote artiste cilene (di cui si è detto), l’artista palestinese-saudita Dana Awartaniespone un rammendo su tela tinta con erbe e spezie, di grandissimo impatto visivo, dal titolo “Come, Let Me Heal Your Wounds, Let Me Mend Your Broken Bones[7]”. Nella presentazione dell’opera che affianca l’opera stessa è scritto che si tratta di un requiem dedicato ai siti storici e culturali distrutti dal terrorismo e dalle guerre e in particolare alla devastazione di Gaza e dei siti indiscriminatamente rasi al suolo da bombardamenti e bulldozer. L’artista crea dei buchi sui metri e metri di seta che compongono l’opera e che riempiono tutto l’ambiente, dove ogni stappo segna un sito. Poi rammenda ogni squarcio utilizzando una tecnica ormai quasi scomparsa, come una promessa di cura e di medicamento, come le erbe medicamentali della tradizione popolare locale con cui il tessuto viene tinto con colori allegri e forti.
Gli artisti outsider sono quelli fuori dagli schemi, quelli che stanno al di fuori della stessa arte, uomini e donne imprigionati da una vita che per qualche ragione li rende schiavi (detenuti, persone rinchiuse in ospedali psichiatrici, comunque emarginati) che hanno trovato nell’arte la loro via di fuga. La Biennale di quest’anno espone, tra gli altri artisti outsider, l’opera di Aloise Corbaz, che ha trascorso la vita confinata in un ospedale psichiatrico svizzero, la cui arte si ritiene una presenza chiave nell’opera di Dubuffet e forse fondante nella creazione della cosiddetta Art Brut in cui la follia è alla base della creatività. “Cloisonné de théâtre”[8] costituita di grandi pannelli uniti tra di loro e dipinti con materiali improbabili quali dentifricio, filo, estratti vegetali oltre che pastelli colorati, rappresenta figure di donne, circondate da bellissimi colori, che si abbracciano e testimoniano il desiderio dell’artista di uscire dalla buia realtà che la circonda.
Gli artisti queer. Puppies Puppies un’icona dell’arte queer ha presentato alla Biennale, tra le altre opere, Woman, una scultura di bronzo a grandezza naturale realizzata a partire da una scansione in 3D del suo corpo. Un bellissimo corpo di donna con attributi maschili, posta al centro di uno spazio verde, che si impone allo sguardo del visitatore a testimoniare un tributo a coloro che normalmente sono invisibili.
Le donne. Emarginate e considerate “strane” ogni qualvolta hanno tentato di non esserlo, le donne che hanno esposto alla Biennale di quest’anno sono veramente tantissime. E tanti gli artisti uomini che hanno raccontato le donne. Gli uni e gli altri hanno raccontato storie di pregiudizi e stereotipi (così “Le fanciulle laboriose” di Giulia Andreani, bambine che cuciono, a testa bassa ad esprimere la loro rassegnazione); o di combattiva violazione degli stessi stereotipi (così “Falce, Martello e Cartuccera” di Tina Modotti, operaia, migrante e esule, espulsa dal Messico nel 1930 per la sua attività di dissidente); o, anche, di liberazione sessuale, come rappresentato dalle belle opere pittoriche esposte dall’Albania, dove i corpi nudi di donne, talora in pose imbarazzanti, narrano della necessità di uscire dallo stereotipo della sessualità femminile limitata, perché anche per le donne “l’amore è come bere un bicchier d’acqua”. (“Love As A Glass Of Water” - Iva Lulashi); o ancora di speranza del cambiamento come nell’esposizione dell’Arabia Saudita in cui una imponente installazione scultorea costituita da un’immensa rosa del deserto fatta di seta stampata reca, serigrafate, frasi fatte e opinioni mediatiche stereotipate verso le donne saudite; entrando all’interno, però, si è raggiunti dalle voci di centinaia di donne che inneggiano al cambiamento e alla necessità di scrivere un nuovo capitolo della storia femminile nel Paese. (Shifting Sands: a Battle Song[9] - Manal AlDowayan).
Iran[10] e Iraq[11], invece, ripropongono le donne madri, con opere che le rappresentano come fonti della razza umana e come specchio della cultura del popolo e come simbolo della tradizione su cui è fondata la nazione. Nulla di nuovo sotto il sole.
L’Italia. Oltre al Padiglione italiano, alla fine del lungo corridoio delle Esposizioni Nazionali ai Giardini, che è un appuntamento immancabile per tutti gli italiani, la Mostra ha dedicato un’intera sezione - dal titolo Italiani Ovunque - alla diaspora degli artisti italiani. Tra gli altri, interessante l’opera di Alfredo Volpi, figlio di immigrati italiani a Brasilia, che, impressionato dagli affreschi di Giotto, sperimenta una pittura a base di albume di uovo, mescolando elementi dell’astrattismo con le tecniche della pittura brasiliana concretista[12].
La Santa Sede È un’esperienza a sé e persino definirla un Padiglione è riduttivo. La partecipazione della santa Sede a questa Biennale, inaugurata da Papa Francesco pochi giorni fa, il 28 aprile, è lontana da tutti gli schemi espositivi consueti, sia per la sede sia per l’esperienza che offre, altrettanto lontana dal consueto. La sede è la casa di reclusione femminile dell’isola della Giudecca. Accedere non è facile, l’entrata è consentita solo in alcuni giorni e solo a 50 visitatori, suddivisi in due gruppi, previamente accreditati su un apposito sito. Il titolo, “Con i miei occhi” riprende il frammento di una poesia elisabettiana e la unisce ad un versetto del Libro di Giobbe: «Non ti amo con i miei occhi… ma i miei occhi ti hanno veduto». E fa dello sguardo lo strumento per toccare e per abbracciare con l’occhio. Il progetto si articola in una grande scultura esterna, posta sulla facciata della Cappella del carcere: due enormi piedi uniti, piedi di “povero e di emarginato”, perché, com’è scritto, “i piedi, insieme al cuore, portano il peso della vita”. Il percorso prosegue all’interno del carcere dove sono esposte sia opere di artisti professionisti sia opere realizzate dalle stesse detenute (circa 80) che, in veste di guida e di attrici, accompagnano i visitatori negli spazi espositivi che non sono altro che i luoghi in cui si svolge la vita del carcere: la caffetteria, la lavanderia, l’orto, la sala colloqui. Durante il percorso le detenute si raccontano, attraverso le opere esposte, riconquistando una visibilità e una possibilità di esprimersi che l’esperienza del carcere nega e che l’esperienza dell’arte consente. Così il titolo si svela perché la vista e la percezione consentono a due mondi estranei e paralleli, quello del carcere e quello di fuori, di incontrarsi e di dialogare.
Un’ultima curiosità Alla Biennale di Venezia resta chiuso, per protesta, il padiglione di Israele, un gesto forte di artisti e curatori, già messo in atto per la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, per chiedere il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
Conclusione. I titoli della Biennale – e i temi trattati - sono importanti e vanno tenuti nella debita considerazione perché, secondo me, è come se, attraverso l’intitolazione della Mostra e i temi prescelti, si fiutassero accadimenti che erano già nelle cose, anche se ancora ben chiari e che poi fatalmente si verificano come onde di rinnovamento e cambiamento. Sembra quasi che titoli e temi preconizzino inarrestabili movimenti dell’umanità. Così fu con “All The World’s Futures”, che immaginò l’esistenza di mondi diversi, con maggiore attenzione a questioni quali il clima e la parità di genere, poi diventati temi di fondo della cultura mondiale. O con il “Latte dei Sogni” che, dedicando l’esposizione alle favole dei bambini e all’esoterismo, ha rivendicato la necessità per l’umanità di tornare ad essere soggetti spirituali, che lottano per realizzare i loro sogni senza farsi restringere in una realtà solo consumistica. L’esempio più straordinario di questo potere dei titoli è stato senz’altro quello della Biennale del 2019 “May You Have Interesting Times”, l’augurio di avere tempi interessanti, e cioè pieni di nuovi e fondanti interessi che ci risollevassero dal considerare la vita solo alla luce del futile e del consumo. Purtroppo, alla luce degli eventi successivi, fu letto come la traduzione di un antico proverbio cinese per il quale i tempi interessanti sono quelli duri e difficili da superare. Insomma come una sorta di maledizione come fu il Covid e il ritorno delle sciagure portate dalle guerre che sopraggiunsero. E certo sono stati e sono tutt’ora tempi duri ma anche interessanti, se è vero che hanno imposto a tutti una nuova e più profonda riflessione sulla fragilità delle nostre sicurezze e sull’incertezza che governa le nostre esistenze. E dunque, volendo dare un senso al titolo di quest’anno, potremmo dire che i temi della Biennale 2024 ci dicono che ci sono, da sempre nella storia, eventi globali rispetto ai quali barricarsi nella piccola stanza del nostro piccolo mondo dal quale escludere, con le nostre paure, chiunque immaginiamo sia “Strano” o “Straniero” non serve a nulla. Semplicemente perché non è possibile.
[1] Così Pietrangelo Buttafuoco, Presidente della Biennale, nella sua presentazione della Mostra.
[2] Nel 2022 l’Alto Commissariato per i Rifugiati conta 104,4 milioni di migranti, aumentati di quasi il 30% nel 2023 e destinati ad aumentare ulteriormente.
[3] Nil Yalter è un’artista turca nata al Cairo che nel 1965 si trasferisce a Parigi. È universalmente considerata una pioniera del movimento artistico femminista globale. Pur non avendo mai ricevuto un’istruzione formale nelle arti visive, ha prodotte opere innovative nel campo della pittura, del disegno, della scultura e delle video installazioni. Alla Biennale del 2024 ha presentato, oltre ad una riedizione della sua opera Topak EV, realizzata nel 1973 e dove già affrontava il tema delle migrazioni, l’opera Exile is a Hard Job, installata nella sala di apertura del Padiglione Centrale, ai Giardini. Le è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera come riconoscimento del suo significativo contributo all’intersezione tra arti visive e migrazione.
[4] Prove del Lago dei Cigni.
[5] La Russia non è presente alla Biennale.
[6] Amici e parenti, ascendenti, discendenti e la comunità che li circonda, persone con legami.
[7] Vieni, lasciami guarire le tue ferite, lasciami riparare le tue ossa rotte.
[8] Letteralmente parete divisoria, tramezzo di un teatro. Potrebbe anche essere un richiamo alla tecnica cloisonné, tecnica della decorazione con fili, sottili nastri d’oro, argento o rame racchiusi in compartimenti (cloisons) da riempire dando l’effetto smalto.
[9] Sabbie che si smuovono: un canto di battaglia.
[10] L’Iran ha presentato l’opera, di artisti vari, dal titolo “Of One Essence Is The Human Race”: la razza umana è unitaria poiché fatta di un’unica essenza.
[11] Lorna Selim: il quadro, dal titolo “Unknown”, raffigura una madre con il figlio sulle spalle ed accanto la figlia, emblema della famiglia contadina irachena.
[12] Alfredo Volpi. L’opera esposta, “Fachada Marron” è realizzata con la tecnica delle Bandeirnhas, elemento tratto dalla tradizione popolare brasiliana, con bandierine collocate a ridosso della facciata di un edificio.
Immagine: Claire Fontaine, Stranieri ovunque, 2012.
Sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT (nota a Corte dei conti, sez. riunite, 19 ottobre 2023, n.17).
di Stefania Florian
Sommario: 1. Il problema della limitazione della giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti, ad opera dell’art. 23 quater d.l. 137/2020, in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT. I contrapposti orientamenti sulla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale prospettati dalla sentenza in commento. 2. Inquadramento della sentenza della Corte dei conti, 19 ottobre 2023, n. 17 rispetto alla sentenza della CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon. 3. Brevi considerazioni sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale. 4. Conclusioni.
1. Il problema della limitazione della giurisdizione esclusiva delle Sezioni riunite della Corte dei conti, ad opera dell’art. 23 quater d.l. 137/2020, in materia di ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT. I contrapposti orientamenti sulla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale prospettati dalla sentenza in commento.
La fattispecie oggetto di indagine concerne le modifiche apportate dall’art. 23 quater del d. l. 28 ottobre 2020, n. 137 (inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176) all’art. 11, co. 6, lett. b) c.g.c, che limitano la giurisdizione esclusiva in unico grado delle Sezioni riunite della Corte dei conti sui giudizi in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT ai soli fini dell’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica. Sul problema dell’interpretazione del citato art. 23 quater e del connesso art. 11, co. 6 c.g.c., così come modificato nel 2020, si è pronunciata non definitivamente, con sentenza del 19 ottobre 2023, n. 17, la Corte dei Conti, a Sezioni riunite, in sede giurisdizionale, in un giudizio che vedeva la Società Autostrade del Brennero S.p.a. come parte ricorrente, che, essendo inserita come Amministrazione pubblica nell’elenco del conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche per l’anno 2023 e concorrendo, perciò, alla determinazione dei saldi di finanza pubblica, sarebbe sottoposta alla «disciplina nazionale sul contenimento della spesa pubblica» ai sensi dell’art. 11 del c.g.c. La ricorrente, perciò, contestando il proprio inserimento in suddetto elenco in forza dell’assenza dei presupposti per l’iscrizione, chiedeva l’accertamento e la declaratoria della non applicazione nei suoi confronti della disciplina di cui all’art. 11 del d. lgs. 26 agosto 2016, n. 174 e s. m.; l’accertamento e la declaratoria dell’insussistenza dei presupposti per la sua qualificazione come «amministrazione pubblica» in violazione dell’art. 1, co. 3, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 e s.m. e della disciplina europea contenuta nel SEC 2010; nonché l’annullamento, previa sospensione degli effetti, dell’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, pubblicato nella G.U. – Serie generale n. 229 del 30 settembre 2022, nella parte in cui l’Istituto Nazionale di Statistica ha inserito, tra le «Altre amministrazioni locali», la Società Autostrada del Brennero S.p.a. per l’anno 2023 e di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguente[1].
La Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede giurisdizionale, nel dispositivo, ritenendosi giurisdizionalmente competente, si pronuncia non definitivamente disapplicando l’art. 23 quater – recepito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 – poiché tale disposizione, precludendo non solo una decisione con effetti erga omnes come l’annullamento o la disapplicazione, ma anche una sentenza meramente dichiarativa dell’insussistenza dei presupposti per la qualificazione della ricorrente come Amministrazione pubblica ai sensi dell’art.1, co. 3, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 (legge di contabilità e finanza pubblica) e del regolamento UE 594/2013, non garantirebbe il principio di effettività della tutela giurisdizionale e dell’effetto utile e dispone, conseguentemente, la propria cognizione su tutte le domande proposte rinviando, con separata ordinanza, gli incombenti istruttori ai sensi degli artt. 94 e 96 c.g.c. e la fissazione dell’udienza.
La pronuncia della Corte dei conti troverebbe fondamento nel rilievo per cui l’art. 23 quater in esame si porrebbe in contrasto sia con il diritto comunitario, sotto il profilo della violazione del «diritto al ricorso» di cui all’art. 47 CDFUE e del combinato disposto di cui agli artt. 52, par. 3 CDFUE e 6 CEDU, sia con la Costituzione, per la violazione degli artt. 3, 24, 97, 103, 111, 113 Cost. L’impedimento arrecato dalla disposizione in esame all’attuazione del principio dell’effetto utile dei regolamenti e della direttiva 85/2011/Ue, nonché del principio di effettività della tutela giurisdizionale imposto sia dalla Costituzione, sia dal diritto dell’Unione[2], avrebbe condotto, perciò, la Corte dei conti a disapplicare l’art. 23quater in esame. Questo impedimento all’attuazione dei principi comunitari sembra determinato dall’adesione alla tesi dell’impossibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale, che potrebbe ipotizzarsi nel caso in cui si escludessero dalla cognizione giurisdizionale della Corte dei conti i giudizi aventi ad oggetto una normativa diversa da quella nazionale sul contenimento della spesa pubblica. Sul punto la sentenza in commento evidenzia le contrapposte posizioni assunte dalla parte ricorrente e dalla parte resistente. L’Avvocatura dello Stato, da un lato, ravvisa nel limite introdotto dall’art. 23quater, relativo alla cognizione della Corte dei conti, uno spazio per la tutela di quelle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto comunitario da parte del giudice amministrativo[3], evidenziando come il citato articolo, se fosse interpretato nel senso di circoscrivere la possibilità di proporre ricorso alla Corte dei conti contro l’elenco ISTAT nel solo caso di applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non sarebbe incompatibile con il diritto dell’Unione (in particolare, con il regolamento n. 549/2013 e con i principi di effettività e di equivalenza) perché sarebbe comunque garantita agli enti interessati una tutela giurisdizionale effettiva.
Di contro, la ricorrente ritiene non configurabile una doppia giurisdizione speciale, perché in contrasto, da un lato, con il principio di «tassatività» sancito dagli artt. 25 e 111, co. 1 Cost. e, dall’altro, con gli artt. 103, co. 2, e 100 Cost., che individuano la Corte dei conti come il giudice competente in materia, rispettivamente, di contabilità pubblica e di controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, nonché sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria[4]. La tesi che si oppone alla configurabilità di una doppia giurisdizione speciale, perciò, esclude qualsiasi deroga alla designazione del giudice contabile come giudice competente in materia di corretta determinazione dei saldi di bilancio [5].
La Corte dei conti, oltre a condividere le ragioni della parte ricorrente, a conforto della scelta di procedere alla disapplicazione evidenzia il carattere self executing del regolamento n. 549/2013 (il cui allegato A è noto come SEC 2010) – parte di un sistema normativo comprensivo della direttiva n. 85/2011/Ue e del regolamento 471/2013/Ue – che rimetterebbe allo stesso giudice a quo la verifica del superamento del limite del principio di autosufficienza del ricorso, che sarebbe configurabile nel caso in cui il ricorrente fosse costretto a proporre più di un ricorso per l’esame della propria domanda. A questo riguardo, la sentenza in commento riporta un rilievo della Corte costituzionale che, nella sentenza dell’11 marzo 2022, n. 67, osserva che «in caso di doppia pregiudizialità, ove, per effetto di una sentenza della Corte di giustizia, vi sia certezza dell’esistenza di un diritto Ue direttamente applicabile, è onere del giudice a quo riscontrare, a pena di inammissibilità, la possibilità di una interpretazione conforme al diritto europeo (cfr. ex plurimis, C. cost. sentt. n. 7 e n. 166/2004, n. 406/2005, n. 129/2006) ovvero la sussistenza dei presupposti per la «non applicazione» della disciplina interna (C. cost. sent. n. 170/1984)»[6], che imporrebbe, perciò, la disapplicazione[7]. Nella fattispecie in esame, pertanto, il giudice adito, esclusa l’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale e rilevata l’incompatibilità del sistema giurisdizionale interno con quello comunitario, disapplica l’art. 23 quater del d.l. 137/2020[8].
2. Inquadramento della sentenza della Corte dei conti, 19 ottobre 2023, n. 17 rispetto alla sentenza della CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon.
La Corte dei conti, nella sentenza in commento, nel porre a fondamento della pronuncia con la quale disapplica l’art. 23 quater in esame il principio di effettività della tutela giurisdizionale imposto dal diritto dell’Unione[9], richiama la sentenza della CGUE, Sez. I, del 13 luglio 2023, Cause riunite C-363/21 e C-364/21, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathlon[10], che affronta alcune questioni utili all’inquadramento della fattispecie in esame.
Anche le richiamate cause riunite – in cui si contrappongono, rispettivamente, Ferrovie nord S.p.a. e la Federazione italiana Thriathlon (FITRI) all’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) in merito all’iscrizione di Ferrovie nord e della FITRI nell’elenco delle Amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato delle autorità pubbliche – affrontano il problema dell’interpretazione dell’art. 11, co. 6 c.g.c., così come modificato dall’art. 23 quater d. l. 137/2020 c.g.c. e, a fronte delle contrapposte posizioni assunte dalle parti ricorrenti e dalle resistenti principali sull’interpretazione da attribuire alla citata disposizione, la Corte dei conti decide di sospendere i procedimenti e di adire la CGUE affinchè chiarisca «se i regolamenti n 473/2013 e n. 549/2013, la direttiva 2011/85, nonché l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta e dei principi di equivalenza e di effettività, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche»[11]. Ad avviso del giudice del rinvio, non dissimilmente dalle posizioni assunte dal giudice della sentenza in commento, la limitazione di competenza introdotta dall’art. 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 determinerebbe un’assenza di controllo giurisdizionale in merito alla fondatezza della designazione di determinati enti come Amministrazioni pubbliche. «Di conseguenza, tale limitazione escluderebbe la corretta applicazione delle regole contabili e di bilancio dell’Unione contemplate tanto dal regolamento n. 549/2013 quanto dalla direttiva 2011/85 e, pertanto, il rispetto dei requisiti indicati all’articolo 126 TFUE e nel Protocollo n. 12»[12]. In particolare, la disposizione in esame, secondo il giudice del rinvio delle cause riunite, escluderebbe anche «qualsiasi controllo indipendente sulle autorità di bilancio nazionali, quale previsto da detta direttiva e dal regolamento n. 473/2013, nonché la garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva come sancito dall’articolo 19 TUE e dall’articolo 47 della Carta»[13]. Il medesimo giudice del rinvio osserva anche che nel caso in cui si ammettesse che l’art. 23 quater in esame abbia ristretto la competenza della Corte dei conti, estendendo, nel contempo, quella del giudice amministrativo, si porrebbero comunque dei dubbi sulla conformità del medesimo articolo con il principio della tutela giurisdizionale effettiva, poiché le ricorrenti dovrebbero «proporre due distinti ricorsi dinanzi a due giudici differenti per far valere i propri diritti, il che rischierebbe di ledere il principio della certezza del diritto in ordine alla determinazione del loro status con riguardo all’attuazione del regolamento n. 549/2013»[14].
Alla luce delle questioni poste dal giudice a quo, la CGUE ha ritenuto necessario «verificare, da un lato, se l’assenza di possibilità di contestare la fondatezza dell’iscrizione di un ente come amministrazione pubblica nell’elenco ISTAT, quale derivante, ad avviso del giudice del rinvio, dall’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020, confligga con le prescrizioni scaturenti dai regolamenti n. 473/2013 e n. 549/2013 nonché dalla direttiva 2011/85 e, dunque, con l’efficacia di questi ultimi nonché con l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva stabilita dal diritto dell’Unione. Dall’altro lato occorre esaminare, se tale articolo 23 quater, come interpretato dai convenuti di cui ai procedimenti principali, sia conforme all’esigenza di una siffatta tutela giurisdizionale effettiva»[15].
Sulla prima questione la CGUE rileva che al fine di assicurare che l’autorità nazionale competente rispetti la definizione del diritto dell’Unione di un ente come «amministrazione pubblica», ai sensi del regolamento n. 549/2013, la sua decisione deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale. L’effetto utile di detto regolamento, perciò, ad avviso della Corte europea, «osta ad una normativa nazionale che escluda, di fatto, qualsiasi possibilità di controllo giurisdizionale della fondatezza della qualificazione di un ente come amministrazione pubblica»[16]. L’assenza di un controllo giurisdizionale sulla qualità di «amministrazione pubblica» determinerebbe, poi, anche una compromissione della finalità e dell’effetto utile della direttiva 2011/85[17] se «i dati di bilancio di enti fossero pubblicati e trasmessi alla commissione (Eurostat) pur in assenza, in capo a tali enti, della qualità suddetta»[18].
Con riferimento, poi, alla verifica dell’idoneità dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 a soddisfare la necessità di un controllo indipendente sulle autorità di bilancio dello Stato membro interessato risultante dal regolamento n. 473/2013 e dalla direttiva 2011/85, la CGUE rileva che tali testi normativi dell’Unione «esigono l’istituzione di organismi indipendenti soltanto ai fini del rispetto delle regole di bilancio numeriche dell’Unione, ma lasciano gli Stati membri liberi di limitare la portata del controllo giurisdizionale delle loro Corti dei conti per quanto riguarda l’applicazione del regolamento n. 549/2013»[19]. Sui principi di equivalenza e di effettività rileva, infine, la CGUE di non disporre «di alcun elemento tale da far dubitare della conformità a tale principio della normativa nazionale controversa nei procedimenti principali»[20]. Sul principio di effettività ricorda il giudice ad quem che il diritto dell’Unione non impone agli Stati membri di «istituire mezzi di ricorso diversi da quelli stabiliti dal diritto interno, a meno che dalla struttura complessiva dell’ordinamento giuridico nazionale in discussione non risulti che non esiste alcun rimedio giurisdizionale tale da permettere, anche solo in via incidentale, di assicurare il rispetto dei diritti riconosciuti ai singoli dal diritto dell’Unione, oppure che l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo sia quello di commettere violazioni del diritto (sentenza del 21 dicembre 2021, Randstad Italia, C-497/20, EU:C:2021:1037, punto 62 e la giurisprudenza ivi citata)»[21].
Nonostante la CGUE non escluda la possibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale nell’ordinamento interno, la Corte dei conti, nella sentenza in commento, ritiene che il legislatore non abbia «in nessun modo alterato i confini dell’ambito oggettivo della cognizione del giudice contabile»[22], che continuerebbe «a riguardare complessivamente “la ricognizione delle amministrazioni pubbliche operata dall’ISTAT”»[23], ma abbia modificato il quomodo della giurisdizione, delimitando, quindi, i soli «fini» della giurisdizione contabile[24]. In particolare, ad avviso della Corte dei conti, la disposizione in esame avrebbe «escluso la capacità di questo giudice di statuire in modo vincolante a fini diversi da quelli relativi della normativa nazionale, escludendo la disponibilità di mezzi di tutela, quali l’annullamento (produttivo di effetti erga omnes) o la disapplicazione a garanzia di altri effetti/fini, tra cui, quelli del diritto Ue»[25], pregiudicando il principio dell’effetto utile della direttiva 2011/85[26] e del connesso principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
La richiamata sentenza della CGUE, tuttavia, non pare escludere una giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo, evidenziando come i regolamenti n. 473/2013 e n. 549/2013, la direttiva 2011/85, nonché l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta e dei principi di equivalenza e di effettività, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una normativa nazionale che limiti la competenza del giudice contabile a statuire sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco delle amministrazioni pubbliche, purché siano garantiti l’effetto utile dei regolamenti e della direttiva summenzionati nonché la tutela giurisdizionale effettiva imposta dal diritto dell’Unione. Inoltre, la stessa CGUE rileva che «qualora il giudice del rinvio dovesse accogliere l’interpretazione dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 proposta dai convenuti, ossia quella secondo cui soltanto il giudice amministrativo è competente ad annullare l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT ed il giudice contabile può controllare unicamente la legittimità di tale iscrizione in maniera incidentale allorché statuisce sull’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non si potrebbe ritenere che tale disposizione leda il principio di effettività o che essa riveli un elemento da cui risulta che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE sarebbe violato»[27]. «Infatti, in una simile ipotesi, esisterebbe un mezzo di ricorso giurisdizionale che permette di assicurare il controllo sulle misure adottate dall'ISTAT in applicazione del regolamento n. 549/2013 e della direttiva 2011/85»[28]. Con riguardo al rischio di un allungamento dei procedimenti, cui potrebbe condurre la configurabilità di una doppia giurisdizione speciale, rileva la CGUE che «gli enti iscritti nell’elenco ISTAT che intendono contestare la loro designazione quali amministrazioni pubbliche non sono tenuti a presentare due distinti ricorsi, vale a dire uno davanti al giudice amministrativo e un altro davanti alla Corte dei conti. Infatti, da un lato, essi potrebbero chiedere al giudice amministrativo l’annullamento erga omnes della decisione che li ha iscritti in quest’elenco. Dall’altro, dinanzi alla Corte dei conti, essi potrebbero contestare le conseguenze della loro iscrizione nell’elenco suddetto e ottenere, eventualmente, in maniera incidentale, la disapplicazione di tale iscrizione»[29]. La CGUE, infine, supera il problema relativo al possibile crearsi di una situazione di incertezza giuridica, in relazione all’eventuale formarsi di giudicati contrastanti sulla fondatezza dell’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT, rilevando che «la semplice possibilità che si verifichino simili divergenze non è sufficiente per concludere per l’esistenza di una violazione dell’articolo 19 TUE, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta e del principio di effettività, purché un ente che contesti la decisione di qualificazione adottata nei suoi confronti possa limitarsi a proporre un unico ricorso per veder esaminata la propria domanda. Ciò non toglie che incombe all’ordinamento giuridico italiano prevedere le modalità concrete di esercizio dei mezzi di ricorso, in modo tale da non pregiudicare in maniera sproporzionata il diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47 della Carta»[30]. Inoltre, osserva la CGUE, «il fatto che il giudice competente – ossia, secondo i convenuti di cui ai procedimenti principali, il giudice amministrativo – non sia, come indicato da detto giudice del rinvio, quello designato dalla Costituzione della Repubblica italiana quale giudice competente in materia di bilancio è privo di rilevanza dal punto di vista del diritto dell’Unione»[31].
3. Brevi considerazioni sull’ammissibilità di una doppia giurisdizione speciale.
A fronte della posizione assunta dalla CGUE, per cui non sembrerebbe impossibile considerare l’art. 23 quater in esame compatibile con la normativa comunitaria, purchè siano garantiti il principio di effettività e dell’effetto utile, occorre verificare, muovendo dalla citata sentenza della Corte dei conti, se il sistema normativo interno consenta di configurare la giurisdizione amministrativa come una giurisdizione di carattere generale per quanto riguarda la tutela dell’interesse legittimo.
A questo riguardo, la Corte dei conti – esclusa la compatibilità dell’art. 23 quater del d. l. 137/2020 con il diritto Ue in forza della rimessione, da parte della CGUE, al giudice nazionale del riscontro dei limiti ostativi a tale compatibilità – osserva che per costante giurisprudenza, ai sensi degli artt. 100 e 103 Cost., la giurisdizione «generale» in materia di contabilità pubblica compete alla Corte dei conti. Inoltre, una giurisdizione generale del giudice amministrativo per l’annullamento degli atti sarebbe esclusa anche in ragione dell’«avvenuta codificazione della clausola generale dell’equilibrio di bilancio»[32] e della tutela del bilancio quale «bene pubblico» in senso giuridico, che comporterebbe costanti verifiche preventive e consuntive riservate alla Corte dei conti dall’art. 100 Cost.[33]. Tuttavia, tali rilievi della Corte dei conti non sembrano del tutto convincenti se si considera che già il previgente art. 1, co. 169 della legge del 24 dicembre 2012, n. 228 rimetteva al giudice amministrativo tutte le decisioni concernenti l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT. Pare, pertanto, che la riserva di giurisdizione in favore della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, co. 2 Cost. – per cui «la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge» – non escluda una competenza generale e residuale del giudice amministrativa in materia di interessi legittimi, ma incontri il limite funzionale della interpositio del legislatore[34] contenuta nel codice di giustizia contabile[35]. Ai fini dell’attribuzione di una determinata competenza giurisdizionale alla Corte dei conti in materia di contabilità pubblica non pare sufficiente, quindi, il generale riferimento al concorso dell’elemento soggettivo, che attiene alla natura pubblica dell’ente e di quello oggettivo, che riflette la natura pubblica del denaro e del bene oggetto di gestione, rientrando, già secondo una risalente giurisprudenza, «nella discrezionalità del potere legislativo valutare se e quali siano le soluzioni più idonee alla salvaguardia dei pubblici interessi»[36]. Se, quindi, l’art. 103, co. 2 Cost. fosse inteso come una norma di garanzia conservativa della giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica e, proprio in quanto norma sulla ripartizione della giurisdizione, non risultasse dotato di un’assoluta generalità, ma necessitasse di apposite specificazioni legislative[37], non sembra potersi escludere che il legislatore ordinario possa non solo ampliare le materie assegnate alla giurisdizione della Corte dei conti tanto nell’ambito delle «altre materie specificate dalla legge» quanto in quello delle «materie di contabilità pubblica»[38], ma anche restringere la potestas judicandi della medesima Corte, in forza di valutazioni discrezionali, anche di opportunità politica, che potrebbero condurre a ravvisare nel giudice contabile una minore idoneità all’esame di determinate controversie[39].
La configurabilità di una giurisdizione generale e residuale del giudice amministrativo laddove il cittadino si contrapponga all’esercizio del potere autoritativo dell’Amministrazione non sembra porsi in contrasto con la Costituzione anche se si considerano gli artt. 113, co. 3 e 103, co. 1 Cost. Infatti, una parte della dottrina ha rilevato come, da un lato, «il giudice ordinario, che pacificamente ha giurisdizione in materia civile e penale […] e che decide in materia di diritti soggettivi non abbia però una giurisdizione esclusiva in merito, perché la sua giurisdizione sul punto è limitata dalla possibilità prevista dall’art. 103, comma 1, Cost. sulla giurisdizione in tema di diritti soggettivi del Consiglio di Stato» e, dall’altro, come «il Consiglio di Stato […] ha giurisdizione a tutela di interessi legittimi, ma non ha una giurisdizione esclusiva sul punto, poiché il disposto di cui al terzo comma dell’art. 113 Cost., che consente che anche ad altri giudici sia attribuito il potere di annullamento dei provvedimenti amministrativi, dimostra come questi giudici, nella specie il giudice ordinario, abbiano una giurisdizione estesa agli interessi legittimi (se si trattasse di diritti soggettivi non vi sarebbe un problema di annullamento ma di riconoscimento di nullità)»[40].
Una rimessione al giudice amministrativo di una tutela generale degli interessi legittimi, inoltre, sembra essere confermata, oggi, dal legislatore ordinario che, con le modifiche apportate all’ 37c.p.c.[41] dalla riforma Cartabia, distinguendo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o degli altri giudici speciali e individuando, perciò, il giudice amministrativo come un giudice che ha una posizione particolare nell’ordinamento, che lo distingue dagli altri giudici speciali in genere[42], sembra individuare nello stesso il giudice naturale degli interessi legittimi[43], come il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti soggettivi. Questa distinzione tra il giudice amministrativo e gli altri giudici speciali è ripresa dal legislatore anche all’art. 362 co. 1 c.p.c., che definisce gli altri casi di ricorso in Cassazione[44]. Sulla possibilità di considerare la giurisdizione amministrativa sullo stesso “piano” di quella ordinaria, una parte della dottrina ha evidenziato anche il richiamo operato dal c.p.c. ai principi di chiarezza, specificità e sinteticità degli atti, propri del codice del processo amministrativo[45] e applicabili, dopo la riforma Cartabia, anche nel processo civile. Anche l’art. 7 c.p.a., infine, devolvendo alla giurisdizione amministrativa «le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi […] concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» pare attribuire rilievo, ai fini della configurabilità della giurisdizione amministrativa, non all’avvenuto esercizio del potere attraverso l’emanazione di un provvedimento imperativo suscettibile di incidere unilateralmente nella sfera giuridica del destinatario dell’atto, ma all’avvio di un procedimento amministrativo, in cui il privato si contrappone all’“esercizio” del potere autoritativo dell’Amministrazione[46]. La predisposizione annuale dell’elenco Istat delle Amministrazioni pubbliche, pertanto, non essendo un atto assunto dall’Amministrazione iure privatorum, rientrerebbe nella giurisdizione generale del giudice amministrativo[47].
4. Conclusioni.
Alla luce delle considerazioni esposte, con riguardo alla possibilità di configurare una doppia giurisdizione speciale all’interno del sistema, se si ammettesse una cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo in materia di ricognizione delle Amministrazioni pubbliche, potrebbe ritenersi che l’art. 23 quater in esame abbia inciso sul titolo legittimante il giudizio dinnanzi alla Corte dei conti ai fini della configurabilità della sua giurisdizione. Non è infrequente, infatti, che il legislatore devolva alla giurisdizione dell’uno o dell’altro giudice una stessa materia a seconda del titolo fatto valere in giudizio, identificabile con la causa petendi, per cui la giurisdizione è determinata sulla base dei fatti allegati da chi propone l’atto introduttivo e dalla intrinseca natura della posizione giuridica che in base ad essi viene fatta valere[48]. Si pensi, ad esempio, alla materia delle pensioni dei militari, in cui «la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti […] è limitata solo a quanto concerne con immediatezza, anche nella misura, il sorgere, il modificarsi e l’estinguersi totale o parziale del diritto alla pensione in senso stretto, restando esclusa da tale competenza ogni questione connessa con il rapporto di pubblico impiego, quale la determinazione della base pensionabile e dei relativi contributi da versare, sulla quale, invece, la giurisdizione è del giudice amministrativo» (Cons. Stato Sez. VI, 30-04-2002, n. 2323)[49]. Se, quindi, si ritenesse che l’art. 23 quater in esame, imponendo alla Corte dei conti di decidere solo con riguardo all’applicazione della normativa interna sulla spending review, abbia ristretto la materia della giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, la disapplicazione, nel caso di specie, sarebbe pronunciata da un giudice privo di giurisdizione.
[1] Corte dei conti, Sez. riunite, 19 ottobre 2023, n. 17, sub 1. In particolare: «Con il primo motivo di ricorso, (I) è stata denunciata la violazione della l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo (vizio formale). ISTAT, infatti, secondo la tesi della società ricorrente, agirebbe in base all’inopinata tesi di non ritenersi obbligata ad osservare le regole del giusto procedimento, in virtù della natura vincolata del provvedimento autoritativo. Tale tesi ha l’effetto di costringere la società ad attivare necessariamente la propria difesa direttamente in sede giurisdizionale, con danno alle proprie ragioni» (sub 3.1.). «Dal punto di vista sostanziale, il ricorrente ha negato la sussistenza dei requisiti per essere qualificata “amministrazione pubblica” ai sensi del SEC 2010. In particolare, ha contestato (II) la sussistenza di un “controllo pubblico” (secondo motivo di ricorso), atteso che nessuna delle partecipazioni ascrivibile a soggetti pubblici, da sola, garantisce il controllo della maggioranza dei voti. In merito, ISTAT non avrebbe in alcun modo dimostrato l’esistenza di un formale vincolo (di legge o fondato su atti negoziali) tramite cui le varie amministrazioni pubbliche si coordinano per esercitare un controllo unitario» (sub 3.2.). «Infine, (III) (terzo motivo di ricorso), A22 ha negato di operare fuori mercato, quale soggetto la cui attività è prevalentemente “non destinabile alla vendita”. Il punto centrale di tale difesa riguarda la tesi della qualificabilità della tariffa autostradale alla stregua di un corrispettivo, avente le caratteristiche di un “prezzo economicamente non significativo” ai sensi del SEC 2010. Infatti, il carattere regolamentato di un prezzo, secondo il SEC (§§3.19 e 20.19) non escluderebbe il carattere economicamente significativo dello stesso» (sub 3.3.).
[2] Testualmente Corte dei conti, cit., sub 4.
[3] Corte dei conti, cit.: «Secondo la difesa di ISTAT e MEF […] la sentenza non avrebbe negato, ma confermato, la separazione tra due ambiti normativi, quello privatistico (ovvero degli effetti sui poteri gestionali dei soggetti inclusi nell’elenco ISTAT, mediante la distinzione tra enti pubblici e privati) e quello pubblicistico-europeo (concernente la delimitazione della finanza pubblica). Seguendo questa impostazione, il legislatore interno non si è posto in contrasto con il diritto Ue, poiché la “mappatura della finanza pubblica”, come correttamente riconosciuto dalla Corte di giustizia, può essere verificata dal giudice amministrativo, mentre i risvolti contabili (ex art. 103 Cost.) restano attribuiti alla cognizione della Corte dei conti» (sub 15-15.1).
[4] Testualmente Corte dei conti, cit., sub 12.2
[5] La difesa della parte ricorrente, in altri termini, esclude la possibilità per il giudice o, comunque, per l’interprete di «desume[re] criteri di attribuzione della giurisdizione alternativi o opposti a quelli che il legislatore stesso ha espressamente indicato»[5] in forza della «tassatività» delle norme sulla giurisdizione, che «risulta ancora più rigoroso in materia di bilancio, dove vige, in virtù del combinato degli artt. 81, co. 6, Cost. e 5, co. 1, lett. a) l. cost. n. 1/2012, una riserva formale e assoluta in materia di controlli sull’andamento della finanza pubblica» (Corte dei conti, cit., sub 40).
[6] Corte dei conti, cit., sub 3.2.
[7] Corte dei conti, cit., sub 3.3 La Corte dei conti, con riguardo al principio dell’effetto utile, afferma che «l’obbligo di disapplicazione, infatti, è direttamente connesso a tale principio (C. cost. sent. n. 67/2022, punto 10.2 in diritto; Corte di giustizia, sentenza 22 febbraio 2022, RS, C-430/21, RS, punto 88, ECLI:EU:C:2020:99), costituendo una garanzia e una forma di tutela obbligatoria a disposizione di ciascun giudice nazionale che deve applicare il diritto Ue» (sub 3.3).
[8] Sul rilievo dei principi generali di diritto comunitario v. D. DE PRETIS, I principi del diritto amministrativo europeo, in M. RENNA – F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 41-59.
[9] Testualmente Corte dei conti, Sez. riunite, 19 ottobre 2023, n. 17 (sub 4).
[10] Rileva la CGUE, Sez. I, 13 luglio 2023, Ferrovienord e Federazione Italiana Triathon, C-363/21 e 364/21, EU: C: 2023: 563: «[…] qualora il giudice del rinvio dovesse accogliere l’interpretazione dell’articolo 23 quater del decreto-legge n. 137/2020 propugnata dai convenuti di cui ai procedimenti principali nonché, all’udienza, dal governo italiano, ossia quella secondo cui soltanto il giudice amministrativo è competente ad annullare l’iscrizione di un ente nell’elenco ISTAT ed il giudice contabile può controllare unicamente la legittimità di tale iscrizione in maniera incidentale allorché statuisce sull’applicazione della normativa nazionale sul contenimento della spesa pubblica, non si potrebbe ritenere che tale disposizione leda il principio di effettività o che essa riveli un elemento da cui risulta che l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE sarebbe violato” (sub 95). «Infatti, in una simile ipotesi, esisterebbe un mezzo di ricorso giurisdizionale che permette di assicurare il controllo sulle misure adottate dall’ISTAT in applicazione del regolamento n. 549/2013 e della direttiva 2011/85» (sub 96).
[11] CGUE, cit., sub 60
[12] CGUE, cit., sub 61
[13] CGUE, cit., sub 61
[14] CGUE, cit., sub 62
[15] CGUE, cit., sub 63
[16] CGUE, cit., sub 70
[17] La direttiva 2011/85, infatti, all’art. 1 enuncia le regole relative ai quadri di bilancio degli Stati membri, necessarie «per garantire il rispetto, da parte degli Stati membri, degli obblighi che incombono loro in virtù del Trattato FUE per quanto riguarda l’esigenza di evitare disavanzi pubblici eccessivi» (CGUE, cit., sub 71).
[18] CGUE, cit., sub 77
[19] CGUE, cit., sub 83
[20] CGUE, cit., sub 91
[21] CGUE, cit., sub 92
[22] Corte dei conti, cit., sub 26
[23] Corte dei conti, cit., sub 26
[24] Corte dei conti, cit., sub 26.1; 26.2
[25] Corte dei conti, cit., sub 26.3
[26] Cfr CGUE, cit., sub 94
[27] CGUE, cit., sub 95
[28] CGUE, cit., sub 96
[29] CGUE, cit., sub 97
[30] CGUE, cit., sub 98
[31] CGUE, cit., sub 99
[32] Corte dei conti, cit., sub 36.1
[33] Corte dei conti, cit., sub 36.1
[34] Dig. disc. pubbl., «giurisdizioni amministrative speciali» (voce) 494 Cfr. O. SEPE, ult. op. cit., 97. L’Autore prosegue: «L’elaborazione giurisprudenziale […] e le stesse pronunce sia della Corte costituzionale (sentenza 3 giugno 1966, n. 55) sia della Cassazione (Sez. riunite, 20 luglio 1968, n. 2616) hanno portato a chiarire che la Costituzione ha voluto una giurisdizione di contabilità caratterizzata da un ambito di materie, cioè una giurisdizione generale contabile che, essendo di diritto oggettivo, “è disegnata dalle materie di contabilità pubblica, ma che, in quanto generale, è automaticamente espansibile per ciò che attiene a dette materie, mentre lo è in guisa subordinata alla volontà legislativa per quelle altre specificate dalla legge, vale a dire per quelle altre materie per le quali solo si potrebbe porre il problema della natura derogatoria della giurisdizione della Corte rispetto alle giurisdizioni generali”» (11).
[35] Rileva C.E. GALLO, Considerazioni a prima lettura circa le ricadute della riforma Cartabia sul processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 3/2023, 450: «Per quanto concerne la Corte dei conti, la Corte costituzionale in passato ha sempre escluso che alla medesima sia attribuita una giurisdizione esclusiva in materia di contabilità pubblica, ritenendo che occorresse in ogni caso una interpositio legislatoris: oggi l’interpositio c'è, ed è contenuta nel codice di giustizia contabile, ma è pur vero che vi sono una serie di ambiti nei quali la responsabilità di soggetti legati alla pubblica amministrazione in modo variegato è attribuita al giudice ordinario»
[36] Dig., cit., 494. Si rileva, a questo riguardo, che «l’assenza di determinazione dei limiti concernenti la “tendenziale generalità” della giurisdizione della Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, 2° co. Cost., inducono la giurisprudenza costituzionale ad un atteggiamento restrittivo, espresso in C. Cost., n. 641/1987, la quale, riannodando le fila dell’interpretazione giurisprudenziale sulla norma dell’art. 103, 2° co. Cost., afferma: a) la materia della contabilità pubblica non è definibile oggettivamente, ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all’oggetto, ma anche rispetto ai soggetti; b) la giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica è solo tendenzialmente generale e pertanto sono possibili deroghe con apposite determinazioni legislative, specialmente nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione; c) la cognizione delle cause attinenti alla responsabilità patrimoniale per danni cagionati ad enti pubblici da pubblici funzionari involge questioni relative a diritti soggettivi, per i quali, in assenza di apposite disposizioni derogatorie, anche di rango costituzionale, sarebbe competente il giudice ordinario; la riserva di giurisdizione spettante alla Corte dei conti ai sensi dell’art. 103, 2° co. Cost., incontra il limite funzionale della interpositio del legislatore, cui spetta, nei limiti ad esso imposti dalle norme costituzionali sulla ripartizione della giurisdizione, fra le quali rientra l’art. 103, 2° co. Cost., la determinazione della sfera di giurisdizione dei giudici (ordinario, amministrativo, contabile, militare ecc…)» (494)
[37] Dig., ibidem
[38] O. SEPE, La giurisdizione contabile, in G. SANTANIELLO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1989, 36: «La seconda parte del precetto contiene un rinvio alle leggi ordinarie vigenti e future; la prima parte copre con l’usbergo della costituzionalità le materie di contabilità pubblica. In effetti la Corte costituzionale ha più volte affermato che l’art. 103, nel riservare alla giurisdizione della Corte dei conti le materie di contabilità pubblica, ha recepito la nozione tradizionalmente accolta dalla legislazione vigente e dalla giurisprudenza, comprensiva dei giudizi di conto e di quelli di responsabilità; sotto l’aspetto soggettivo ne ha allargato l’ambito oltre quello, cui aveva originario riferimento, di amministrazione diretta dello Stato. Tale sarebbe il significato e il contenuto dell’aggettivo pubblico, com’è confermato dallo stesso uso fattone in altre disposizioni della Costituzione (ad es. art. 54, 2° comma; artt. 97 e 98). La giurisprudenza della Corte costituzionale nelle dette materie, per le quali occorrono “apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all’oggetto ma anche rispetto ai soggetti” è solo tendenzialmente generale. sono possibili deroghe alla giurisdizione ordinaria solo con apposite disposizioni legislative, specie nella materia della responsabilità amministrativa non di gestione». Cfr. T.A.R. Lazio sez. III - Roma, 09 gennaio 2017, n. 246, sub 4.
[39] Testualmente O. SEPE, La giurisdizione, cit., 98.
[40] C. E. GALLO, Considerazioni, cit., 450
[41] Art. 37, co. 1, secondo periodo: «Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado».
[42] Testualmente C. E. GALLO, ult. op. cit., 449
[43] Cfr. M. NIGRO, Giustizia amministrativa, III, Bologna, 1983. L’Autore, distinguendo tra «giurisdizione amministrativa ordinaria e giurisdizioni amministrative speciali» (162) e ravvisando nei giudici amministrativi i “giudici ordinari del contenzioso amministrativo» (162) e nella Corte dei conti «la più importante delle giurisdizioni speciali […] alla quale la Costituzione riconosce competenza “nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge” (art. 103 II c.)» (164) osserva: «Le giurisdizioni amministrative speciali sono quelle costituite per somministrare giustizia in particolari materie: esse si debbono considerare speciali rispetto al giudice dei diritti (tribunali ordinari) se, o per la parte in cui, conoscono di diritti, o rispetto al giudice degli interessi (Consiglio di Stato e Tribunali amministrativi) se, o per la parte in cui, conoscano di interessi legittimi, il che comporta che là dove si arresta la loro competenza riprende vigore rispettivamente quella dei tribunali ordinari o quella dei tribunali amministrativi» (164).
[44] Testualmente C. E. GALLO, ult. op. cit., 449. Sulla riforma Cartabia v. F. DE STEFANO, La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura, in www.giustiziainsieme.it
[45] GALLO, ult. op. cit., 449
[46] Cfr. Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204. Lo stesso art. 7 c.p.a. devolve alla giurisdizione amministrativa «[…] le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo […]».
[47] Cfr. T.A.R. Lazio sez. III – Roma (sub 3). Cfr. Dig., cit., 492
[48] Cons. Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2020, n. 6022; Cons. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2017, n. 3418; Cons. Stato, Sez. IV, 14 gennaio 2016, n. 81; T.A.R. Lazio, Sez. III – Roma, 21 febbraio 2023, n. 2935; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 20 febbraio 2020, n. 811; T.A.R. Emilia Romagna, Sez. I – Parma, 7 dicembre 2017, n. 395; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 4 dicembre 2017, n. 5720; T.A.R. Lazio, Sez. I – Roma, 13 ottobre 2016, n. 10239; T.A.R. Lombardia, Sez. III – Milano, 7 gennaio 2015, n. 4; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 7 maggio 2015, n. 2538; T.A.R. Piemonte, Sez. I – Torino, 6 marzo, 2015, n. 431; T.A.R. Campania, Sez. V – Napoli, 2 dicembre 2014, 6300.
[49] TAR Abruzzo, Sez. I – L’Aquila, 23 giugno 2022, n. 273, sub 2.1.
La scienza giuridica ha dedicato finora scarsa attenzione alla comunicazione delle istituzioni europee. Il tradizionale approccio può essere riassunto da un vecchio motto latino che recita: “verba volant, scripta manent”. Le parole pronunciate volano via, solo ciò che è scritto rimane – e, quindi, merita di essere preso in considerazione, potendo imporre diritti e obblighi agli individui. Tuttavia, nella società dell'informazione in cui viviamo, questo approccio rischia di non essere più convincente né sostenibile.
Uno scarno comunicato stampa della BCE, adottato dopo il famoso discorso del “whatever it takes”, ha minacciato il principio del primato del diritto dell’Unione europea nel caso Gauweiler. La decisione di spostare la sede dell'Agenzia europea del farmaco da Londra ad Amsterdam, che ha portato a quattro cause davanti alla Corte di giustizia dell'UE, è stata adottata in primo luogo attraverso un tweet. La “Dichiarazione UE-Turchia” sulla gestione della crisi dei rifugiati siriani, secondo la Corte di giustizia e il Tribunale, era una mera dichiarazione intergovernativa, pubblicata tramite un comunicato stampa, e quindi non sottoponibile allo scrutinio del Giudice dell’Unione.
Legislazione e comunicazione sono sempre andate di pari passo per regolare le società. Tuttavia, l'ascesa di Internet e dei social media ha chiaramente proiettato quest'ultima in una nuova dimensione, il cui impatto sulla sfera giuridica deve ancora essere pienamente compreso e affrontato dai giuristi.
Gli studi sulla soft law hanno fatto un primo tentativo in questo senso, concentrandosi su atti che hanno una natura ambigua ma che almeno presentavano le caratteristiche di atti giuridici, per quanto atipici, spesso adottati seguendo procedure previste da ulteriori fonti. Al contrario, i comunicati stampa, gli annunci, i post sui social media vanno chiaramente al di là di tale perimetro definitorio, essendo spesso fonti non scritte o non giuridiche, adottate attraverso procedure non regolamentate –eppure, nonostante tali considerazioni, hanno spesso un impatto enorme sugli individui.
In questo contesto, la cattedra Jean Monnet “Verba Volant, sed Imperant? The Legal Challenges of EU Communication” si propone di discutere se e in che misura i mezzi e le strategie di comunicazione possano essere considerati come nuove fonti del diritto dell’Unione europea e come i principi consolidati della tutela giurisdizionale dell’ordinamento sovranazionale possano affrontare le sfide che tale “nuovo mondo” implica. A tal fine, la Conferenza inaugurale mira a riunire accademici e professionisti, sia a livello nazionale che europeo, per discutere le implicazioni giuridiche della comunicazione dell’Unione europea e per rilevare il suo impatto nei vari settori delle politiche dell’Unione.
A questo link tutte le informazioni: https://lawcom.unife.it/inaugural-conference.
Nella sua ormai lunga esperienza professionale Lei ha avuto l’occasione di svolgere diverse funzioni: è stato sostituto Procuratore a Napoli, anche presso la DDA, poi all’ufficio del massimario, Presidente dell’ANAC ed attualmente riveste il ruolo di Procuratore della Repubblica a Perugia. Tale diversità di ruoli Le ha consentito di analizzare il fenomeno corruttivo sotto diverse angolature, sia come investigatore in relazione al caso concreto che come, potremmo dire, studioso ed osservatore del fenomeno.
Quali sono i punti deboli del sistema attuale di tutela contro la corruzione, cosa manca e cosa sarebbe auspicabile introdurre o modificare, tanto in un’ottica di garanzia per l’indagato che in un’ottica di tutela effettiva della collettività contro un fenomeno i cui effetti si riverberano sulla efficienza ed effettività dei servizi resi al cittadino e dunque sullo sviluppo economico, sociale, culturale del Paese.
È necessario prima di affrontare specificamente la questione posta partire da una considerazione di fondo. Grazie soprattutto al lavoro svolto in sede internazionale e riversatosi in varie convenzioni, la più importante delle quali è quella dell’ONU del 2003 varata in Messico a Merida, la corruzione non è più vista solo come un atto, pur grave, di “tradimento” del funzionario pubblico rispetto al dovere di fedeltà assunto con l’Istituzione di appartenenza. Soprattutto quella corruzione che riguarda il sistema lato sensu delle commesse pubbliche (la cd. grand corruption) va, invece, considerata come un meccanismo che distorce le regole della concorrenza e del mercato, al punto di minare persino le stesse fondamenta della democrazia. Su questo punto sono concordi tutti i preamboli delle convenzioni internazionali e non è un caso che una felicissima definizione di essa attribuibile al Presidente Mattarella, la indica come “furto di democrazia”.
Questo cambio di paradigma è fondamentale perché giustifica la messa in campo di strumenti molto più raffinati del passato che si imperniano non solo sulla tradizionale attività repressiva/penale ma anche sulla più moderna prevenzione.
Grazie allo stimolo internazionale, l’Italia si è dotata, a partire dalle legge Severino del 2012, di un armamentario molto più efficiente di quello precedente, valutato positivamente sul piano sovranazionale, creando anche un’autorità indipendente ad hoc (l’ANAC) con il compito di sovrintendere al rispetto delle disposizioni in materia di prevenzione ma non mancando di rafforzare contestualmente gli strumenti repressivi, sia introducendo nuovi reati (corruzione per l’esercizio delle funzioni, traffico di influenze illecite etc), ma anche di strumenti ritenuti idonei a farla emergere (attenuanti in caso di caso di collaborazione, non punibilità in presenza di un’autodenuncia, possibilità di utilizzare le operazioni sotto copertura etc).
Sarebbe impossibile in questa sede individuare criticità e punti di forza di questo nuovo ed articolato impianto, ma io credo che esso sia ben strutturato ed ha già dato alcuni buoni risultati, consentendo all’Italia di recuperare tante posizioni, ad esempio nella classifica di Transparency international.
Quell’impianto necessiterebbe di una manutenzione che non lo metta, però, in discussione e soprattutto dovrebbe essere supportato anche dal punto di vista culturale e politico. Invece, nell’ultimo periodo l’intero sistema anticorruzione è oggetto di critiche ed attacchi anche da esponenti delle Istituzioni pubbliche che ne stanno facendo perdere la sua forza. Non c’è legge che possa funzionare se chi dovrebbe sostenerla non ci crede ed anzi propone revisioni profonde e, a mio modo di vedere, peggiorative.
È stato approvato anche alla camera il disegno di legge C. 1718 che porta il nome dell’attuale Ministro della Giustizia, Nordio. La modifica normativa che connota tale disegno di legge è certamente l’abolizione tout court della controversa fattispecie dell’abuso d’ufficio, rispetto alla quale lei ha già preso espressamente posizione fornendo un contributo tecnico – giuridico in sede di audizione alla Camera dei deputati, avvenuta il 13 settembre 2023 che, come quello di altri Suoi colleghi, pare essere rimasto del tutto inascoltato.
Perché, in sintesi, gli effetti dell’abrogazione di tale norma possono determinare un serio arretramento nel sistema di tutela contro la corruzione?
Voglio premettere che è mia convinzione che l’abrogazione dell’abuso di ufficio abbia effetti deleteri sul sistema Paese che vanno ben oltre le questioni della corruzione. Viene meno, infatti, un presidio, che al di là dell’applicazione concreta, di legalità dell’azione amministrativa. Il delitto di abuso tutela, infatti, direttamente il valore costituzionale dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione pubblica, sanzionando comportamenti di strumentalizzazioni dell’azione amministrativa che dovessero intenzionalmente avvantaggiare o danneggiare qualcuno. Ed è falso quanto viene ogni giorno affermato anche da personaggi di primo piano della politica, secondo cui l’abrogazione non attenuerebbe la tutela del valore costituzionale dell’imparzialità perché il sistema in generale ha già altri strumenti alternativi È invece indiscutibile, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, che gli atti prevaricatori o i favoritismi anche eclatanti, compiuti senza una controprestazione di utilità, resteranno senza tutela penale. certo essi potranno, se emersi, essere sanzionati in via disciplinare, ma non c’è bisogno di una conoscenza profonda dell’amministrazione pubblica per sapere quanto sia inefficiente il sistema disciplinare nella pubblica amministrazione. L’abrogazione ridurrà senza dubbio, quindi, il controllo di legittimità sull’azione amministrativa ed indirettamente, quindi, rischierà di creare un humus favorevole ai fatti corruttivi. Ma l’effetto più negativo per le indagini sulla corruzione deriva dall’impossibilità di utilizzare l’abuso di ufficio come “reato spia”. Chi si occupa di indagini di pubblica amministrazione sa bene che un’indagine per corruzione molto raramente parte da una notizia di reato specifica e che essa soprattutto consegue ad indagini sulla regolarità di atti amministrativi. Quando in futuro non si potrà avviare nessun accertamento su possibili strumentalizzazioni dell’azione amministrativa, sarà difficilissimo reperire in altro modo una notizia di reato per corruzione. Questa affermazione, che viene contestata dai fautori dell’abrogazione con argomenti squisitamente ideologici (del tipo che i reati spia sarebbero espressione di una cultura della “pesca a strascico”), trova, invece, supporto proprio dalle convenzioni internazionali che ritengono indispensabile, per un’efficacia azione anticorruzione, la previsione di una fattispecie penale di abuso.
È noto che la ragione posta a fondamento della necessità di abolire l’abuso d’ufficio sia, in sintesi, la presunta inutilità della norma – valutata in virtù delle poche sentenze di condanna e delle numerose assoluzioni scaturite dai procedimenti penali avviati per tale fattispecie - unitamente agli effetti persino dannosi che la stessa avrebbe comportato ingenerando la c.d. “paura della firma” e la conseguente paralisi dell’azione amministrativa.
Si tratta di una giusta chiave di lettura? Cosa indica, se così non è, il dato relativo alle assoluzioni e come avrebbe potuto essere diversamente letto e valorizzato?
Che ci sia una tendenza nell’amministrazione a rallentare l’azione amministrativa per la paura dei funzionari di subire conseguenze negative sul piano personale per il loro agire è un dato purtroppo indiscusso. Nel nostro linguaggio si è persino coniata un’espressione (“burocrazia difensiva”) mutuata da altri ambiti (quello sanitario dove si parla di “medicina difensiva) che è assolutamente sconosciuta in altri Paesi. Dare, però, la colpa di questa situazione all’abuso di ufficio è frutto di una visione superficiale che sarà purtroppo certamente smentita nel prossimo futuro. I fatti dimostreranno che anche dopo l’abolizione dell’abuso la burocrazia difensiva non sparirà affatto e le amministrazioni non eccelleranno per la celerità delle decisioni. La paura della firma ha ragioni più complesse, frutto spesso di una cattiva organizzazione dell’amministrazione e di una non sempre adeguata preparazione dei funzionari, di cui essi non hanno nessuna colpa, perché non vengono loro nemmeno spiegate le tantissime e continue modifiche legislative in ambiti delicati, come ad esempio quelli degli appalti pubblici. Quanto al dato delle assoluzioni, è certamente indiscutibile che ve ne sono state numerose soprattutto nei tre gradi di giudizio, spesso anche con il ribaltamento di decisioni di condanna di primo grado. Le ragioni di ciò sono varie e dipendono indiscutibilmente non solo dalla struttura della norma ma anche dall’interpretazione della giurisprudenza che ha ritenuto, fra i parametri normativi che giustificano la violazione di legge, di annoverare anche regole spesso elastiche che rendono non sempre chiaro stabilire a priori cosa è lecito e cosa non lo è. Questa considerazione avrebbe, però, giustificato un intervento di modifica sulla fattispecie e non certo l’abrogazione. Del resto, il legislatore del 2020 con una riforma certo non scritta bene era intervenuto sul punto e non si è voluto nemmeno attendere gli esiti concreti di tale riforma; era una battaglia ideologica quella di mostrare “lo scalpo” dell’abuso di ufficio. Il legislatore, quindi, con la scelta che ha fatto ha ammesso la sua impotenza nello scrivere una norma migliore! Credo, invece, sia un argomento davvero insignificante quello pure utilizzato durante la fase di discussione del ddl che molti procedimenti di abuso si concludono con un nulla di fatto e cioè con l’archiviazione. Se dovessimo applicare questo criterio per stabilire quali norma lasciare in vita, rischieremmo di dover abrogare mezzo codice, a partire dal delitto di furto, in cui oltre il 95 per cento dei procedimenti vengono definiti con archiviazione per essere ignoti gli autori del reato. Ovviamente l’argomento parte dall’idea che nei confronti dei funzionari pubblico anche solo l’avvio di un procedimento potrebbe rappresentare un danno, non controbilanciato dall’archiviazione. Questa affermazione è almeno parzialmente vera, ma anche in questo caso si sarebbe potuto intervenire con disposizioni ad hoc per sterilizzare queste conseguenze negative (e la riforma di Cartabia le aveva già avviate stabilendo che la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato non può determinare effetti pregiudizievoli), piuttosto che giungere al taglio netto.
Quanto, secondo la sua esperienza, il tipo di discrezionalità esercitata (politica, amministrativa o tecnica) contribuisce a rendere maggiormente controllabile, e dunque criticabile ex post, la correttezza dell’agire del pubblico funzionario? Potrebbe essere utile diversificare la responsabilità in ragione del tipo di discrezionalità esercitata o della qualifica rivestiva o del tipo di condotte realizzate, prevaricatrici o favoritrici o, ancora, in relazione al settore specifico di riferimento (es: settore sanitario o degli appalti)?
Partiamo da una considerazione. La discrezionalità nella pubblica amministrazione rappresenta un dato fisiologico, direi persino ontologico. Serve perché l’amministrazione deve essere in grado di adattare le norme alle situazioni concrete che non sono prevedibili in astratto. L’idea di un’amministrazione che si limita ad eseguire le norme di legge è una semplificazione che non tiene conto della complessità delle vicende soprattutto in una società come quella attuale caratterizzata da tante stratificazioni e specificità. Ciò detto è evidente che la discrezionalità è maggiormente a rischio di strumentalizzazioni illecite rispetto all’attività vincolata ma è un rischio che non si può in astratto sterilizzare. Esistono poi forme diverse di discrezionalità che concedono maggiori o minori margini di scelta da parte del funzionario. Onestamente sarei scettico nel pensare che possa graduarsi la responsabilità penale o di altro tipo in relazione alle diverse forme di discrezionalità. Credo, invece, una strada percorribile potrebbe essere quella di lavorare su regole non giuridiche (tipo linee guida) che contengono regole sostanziali e procedimentali idonee a guidare nei casi concreti la discrezionalità ed il cui rispetto potrebbe valere come una presunzione di legittimità per l’azione del funzionario. Un sistema, quello cui penso, non diverso da quello delle linee guida nei vari settori della medicina, riconosciute giuridicamente dalla legge Gelli/Bianco. Un tale meccanismo potrebbe forse garantire maggiormente il cittadino rispetto agli arbitri, ma anche il funzionario rispetto ai rischi che potrebbero derivare dal suo agire.
Abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Il DDL Nordio prevede anche la modifica dell’art. 346 bis c.p., con un ritorno all’originaria versione della norma, per come introdotta nel 2012 dalla Legge Severino ma, allo stesso tempo, un restringimento dello spettro applicativo della fattispecie con la previsione della natura “economica” dell’utilità data o promessa e una tipizzazione assai stringente del concetto di “mediazione onerosa”.
Quali sarebbero, a suo modo di vedere, gli effetti collaterali di questa modifica normativa, specialmente alla luce della coeva abrogazione dell’abuso d’ufficio?
Malgrado il traffico di influenze sia stato introdotto da poco più di 10 anni (dalla legge Severino del 2012) siamo alla terza riscrittura! E già questa è una clamorosa patologia del sistema. Un tira e molla che non fa onore alla nostra legislazione. Ciò detto, voglio premettere che io non ero stato fra entusiasti della modifica della fattispecie arrecata dalla legge cd. “spazzacorrotti” 2019 e soprattutto non mi aveva convinto l’assorbimento nella norma del millantato credito. Questo reato, infatti, si era ritagliato nel corso degli anni un suo spazio nel sistema penale, perché puniva un comportamento fraudolento nei confronti di un soggetto privato che danneggiava contestualmente anche l’immagine di imparzialità dell’amministrazione pubblica e dei suoi funzionari. La scelta della “spazzacorrotti”, che aveva avuto come effetto di rendere punibile anche chi era stato vittima di una vera e propria frode, non mi aveva convinto anche si trattava di un’opzione patrocinata dalle convenzioni internazionali. Il ddl Nordio sul punto torna indietro, ma senza ripristinare il millantato credito; fa, invece, confluire la millanteria (o come si preferisce dire la “vendita di fumo”) nella truffa, che però è sanzionato in modo molto più lieve del precedente delitto oltre ad essere procedibile a querela. Ma la parte della riforma che più mi trova critico è quella in cui è stata definita la “mediazione illecita”; si tratta di un concetto generico, soprattutto perché nessuna disposizione chiarisce quando la mediazione è lecita, che aveva sempre attirato gli strali della dottrina, per il suo difetto di tassatività e quindi in astratto la scelta del legislatore non può che essere condivisibile. Senonché, però, nella sua determinazione il ddl Nordio ha richiesto, fra l’altro, quale requisito imprescindibile che l’attività oggetto di traffico debba costituire per il pubblico ufficiale trafficato un illecito penale. Con la contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, le cd “mediazioni cd onerose” (quelle cioè in cui il trafficante si fa dare denaro o utilità economica per un suo “intervento”), finalizzate ad ottenere da parte del pubblico ufficiale una strumentalizzazione delle sue funzioni, diventeranno lecite. Ciò significa che da domani la condotta di chi dovesse chiedere del denaro per richiedere una “raccomandazione” ad un componente di commissione di concorso per far promuovere un candidato non costituirebbe più reato! E tanti altri analoghi esempi potrebbero essere fatti. È un passo indietro indiscutibile per il contrasto al malaffare nella pubblica amministrazione. Con le modifiche del decreto Nordio si depotenzia quindi in modo significativo la capacità applicativa della norma, con il rischio, altresì, che quelle poche condanne ottenute potranno persino decadere.
Si ritiene utile ripubblicare questo contributo, già apparso su Questa Rivista il 19 luglio, a beneficio delle lettrici e dei lettori.
Surrogazione di maternità come “reato universale"
Audizione in Commissione Giustizia del Senato sui disegni di legge n. 163, 245, 475 e 824, in data 22 maggio 2024
di Gabriella Luccioli
Nell’infinito dibattito sulla compatibilità della gestazione per altri con il nostro ordinamento è forse giunto il momento di porre un punto fermo. La maternità surrogata, sanzionata penalmente dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40, è una pratica che offende, in ogni sua conformazione, la dignità della madre e quella del bambino: della prima, in quanto ridotta ad una donna cosa, a mero contenitore di una vita destinata per contratto ad altri e soggetta ad un controllo proprietario che investe la salute, il vitto, al fumo, lo stile di vita, le frequentazioni, del secondo in quanto reso oggetto di scambio fin dal momento del suo concepimento, gestito alla stregua di un bene cedibile o donabile, mero strumento per soddisfare il desiderio di genitorialità degli adulti, deprivato alla nascita dei suoi dati anagrafici, nonché del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica. E tale lesione si verifica sia che la pratica surrogatoria abbia assunto carattere oneroso sia che sia espressione di solidarietà.
Come è noto, la Costituzione e le Carte dei diritti attribuiscono al concetto di dignità un contenuto ampio, nel quale coesistono una dimensione soggettiva, ancorata alla sensibilità, alle esperienze ed alla percezione dei singoli individui, ed una oggettiva, che attiene al valore originario e non comprimibile di ciascuna persona; la dignità ferita dalla maternità surrogata chiama in gioco la sua dimensione “oggettiva”, identificata con la dignità innata, che appartiene al patrimonio irrinunciabile di ciascuno e non può essere oggetto di scelte di volontaria rinuncia, perché ogni ferita di quella dignità è una ferita a tutto il genere umano. Nella visione di Kant la dignità di ogni persona, elemento coessenziale al suo status, esprime la dignità dell’intera umanità; ogni essere umano è diverso dagli altri, ma tutti sono eguali in dignità.
La lesione del valore supremo della dignità della donna e del bambino comporta che la trascrizione automatica dell’atto di nascita di un bimbo avvenuta all’estero a seguito di surrogazione, che finirebbe per legittimare in modo indiretto detta pratica, non sia consentita per il suo irriducibile contrasto con l’ordine pubblico internazionale.
Questi principi sono stati affermati a chiare lettere dalle Sezioni Unite della Cassazione con le note sentenze n.12193 del 2019 e n. 38162 del 2022, sono stati ribaditi dalla Corte Costituzionale nelle pronunce n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021. È peraltro evidente che il rilievo giuridico che si pretenderebbe di attribuire con la trascrizione automatica al progetto genitoriale dei committenti implicherebbe necessariamente l’assorbimento dell’interesse del figlio con quello degli aspiranti genitori.
Tali conclusioni vanno assunte come principi definitivamente acquisiti nel nostro ordinamento e non più oggetto di discussione: lo richiede l’esigenza di certezza del diritto e di stabilità e prevedibilità delle decisioni, lo impone l’urgenza di porre un argine a quella molteplicità di iniziative scoordinate che vanno dalla emissione di circolari ministeriali rivolte ai sindaci, tramite i prefetti, perché non trascrivano certificati di nascita emessi all’estero o alle proposte di “sanatoria” per i bimbi già nati, in un quadro di notevole confusione.
Il Parlamento con i disegni di legge oggi all’esame ha scelto di rafforzare la configurazione della surrogazione quale fattispecie criminosa introducendo una sorta di reato universale[1], attraverso l’aggiunta al comma 6 dell’art. 12 della legge n. 40 del 2004 di un periodo ai sensi del quale il cittadino italiano che compie atti di surrogazione all’estero è punito secondo la legge italiana. In tal senso è il disegno di legge S. n. 824, che riproduce il testo approvato dalla Camera dei Deputati nello scorso luglio. Tra le varie proposte di legge presentate alle Camere fin dalla precedente legislatura la scelta di voto è dunque caduta su quella, di contenuto assai stringato e di semplice articolazione, che non ha altro oggetto che l’estensione della punibilità alle condotte di surrogazione dei cittadini all’estero. Nello stesso senso è il disegno di legge S. n. 245.
Non si è intervenuti quindi in tali disegni di legge né sulla struttura della fattispecie né sul trattamento sanzionatorio, il quale in ragione della sua non elevata entità sembra porsi come strumento repressivo dell’esercizio organizzato della pratica in discorso piuttosto che come misura di dissuasione dei committenti nella loro aspirazione alla genitorialità.
Gli altri due disegni di legge sono un po' più articolati, in quanto l’uno estende l’ambito di applicazione anche alla commercializzazione di gameti o di embrioni avvenuta all’estero (atto n. 163), l’altro eleva in misura consistente la pena prevista per la surrogazione (atto n. 475). Entrambi inoltre sembrano riguardare, con l’uso del pronome chiunque, sia i cittadini italiani che gli stranieri.
Mi soffermo per esigenze di tempo sul cosiddetto reato universale, comune a tutti gli articolati.
La scelta operata in detti testi, che nella sua nettezza solleva questioni complesse sul piano del diritto penale internazionale, appare del tutto impropria, di chiara ispirazione propagandistica e di evidente matrice identitaria ed ideologica, nonché priva di ogni utilità sul piano concreto.
Va innanzi tutto osservato che la conclamata volontà di configurare la gestazione per altri come reato universale, in deroga al principio generale della territorialità, confligge con il dato di fatto che detta pratica nel panorama internazionale è disciplinata in modo assai diversificato, essendo consentita in alcuni Stati solo per fini altruistici, in altri anche per fini commerciali, in altri ancora essendo sanzionata in qualunque sua forma. Secondo la comune accezione costituiscono reati universali quelli percepiti come tali a livello globale, come i crimini di guerra, la pirateria, la tortura, il genocidio.
Del tutto impropria appare quindi l’intenzione di istituire un reato universale in relazione ad un fatto che non è universalmente assunto come tale.
Va inoltre considerato che, a legislazione vigente, secondo la norma generale di cui all’art. 6, comma 2, c.p. il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. La giurisprudenza ha fornito una nozione ampia del concetto di in parte, ritenendo sufficiente a radicare la giurisdizione del giudice italiano qualsiasi condotta che si inserisca nella serie di comportamenti diretti alla realizzazione dell’illecito: in ragione dell’ampio collegamento con la giurisdizione italiana così accolto resta integra la punibilità secondo il nostro ordinamento, oltre che nel caso di nascita del bambino in Italia, in tutti i casi in cui l’accordo di surrogazione sia stato concluso in territorio italiano o comunque sia stata posta in essere in Italia qualsiasi condotta (ad esempio il pagamento del corrispettivo pattuito) eziologicamente collegata all’evento della surrogazione.
L’art. 7 c.p. ha attribuito il crisma della universalità ad alcuni specifici reati che esigono la punizione del colpevole, cittadino o straniero, in qualsiasi luogo siano stati commessi, in ragione della loro capacità lesiva di interessi fondamentali dello Stato. Ai fini che qui interessano non appare ragionevole invocare l‘ipotesi di cui al n. 5 di detto art. 7, riguardante ogni altro reato per il quale specifiche disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana, atteso che detta norma di chiusura va logicamente interpretata in armonia con le altre previsioni contenute nello stesso art. 7 e non può pertanto non riferirsi a fattispecie penali omogenee alle altre: come è evidente, la surrogazione non ha nulla di simile ai reati contro la personalità dello Stato o contro i suoi elementi identificativi, come il sigillo o le monete, che hanno un’impronta intrinsecamente extraterritoriale. Si ritiene generalmente in dottrina che i reati assoggettabili a tale più ampia estensione della giurisdizione italiana debbano essere quelli posti a tutela di fondamentali interessi statuali o di interessi di riconosciuto valore universale, certamente non ravvisabili nel delitto di surrogazione. Non senza considerare che stante la lieve entità della pena prevista per tale delitto sono possibili istituti deflattivi che consentirebbero di non arrivare ad una sentenza di condanna e in ogni caso di evitare l’esecuzione della pena detentiva[2].
Del tutto estraneo alla previsione in esame è l’art. 8 c.p., secondo il quale è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’art. 7.
Va altresì ricordato che ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p. qualsiasi delitto comune punito con pena inferiore nel minimo a tre anni, e quindi anche la gestazione per altri, è già punibile se commesso interamente all’estero da cittadini italiani (sempre che si trovino nel territorio dello Stato), a richiesta del Ministro della giustizia, ovvero a istanza o a querela della persona offesa. Non ho notizia di iniziative adottate in passato[G1] dal Ministro in relazione a surrogazioni di maternità realizzate interamente all’estero.
È ulteriormente da osservare che secondo la prevalente letteratura scientifica e parte della giurisprudenza, avallata dai lavori preparatori al codice penale, il citato art. 9 c.p. consente di punire all’estero un reato comune commesso da cittadini solo ove sussista la doppia incriminazione, configurato tale elemento come requisito implicito di punibilità del delitto comune commesso dal cittadino all’estero e come strumento regolatore dei rapporti di cooperazione giudiziaria internazionale tra i vari Paesi. Il Parlamento sembra voler prescindere da tale requisito, non ponendosi la questione della implausibilità di una fattiva collaborazione dello Stato estero per l’accertamento di un fatto considerato lecito nel suo ordinamento. È allora forte il rischio di ridurre l’affermazione della giurisdizione italiana ad una mera enunciazione simbolica, espressione di uno sterile paternalismo.[3] Va in aggiunta considerato che il superamento del requisito della doppia incriminazione aprirebbe seri problemi in ordine alla consapevolezza della illiceità e perseguibilità della condotta.
In conclusione la norma in esame, che incide direttamente sulla disciplina contenuta negli articoli da 7 a 10 del codice penale, si profila come del tutto velleitaria ed inutile.
L’introduzione della modifica dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40, che appare a mio avviso giustificata nella sua inutilità soltanto dalla finalità di rafforzare lo stigma dell’illiceità penale della gestazione per altri e di escogitare uno strumento volto a disincentivarne l’utilizzo, scoraggiando il turismo procreativo, risulta infine del tutto disallineata rispetto alle sollecitazioni più volte dirette al legislatore dalla Corte Costituzionale a trovare in tempi rapidi, con un intervento da ultimo definito indifferibile, uno strumento di definizione dello status dei minori nati da gestazione per altri.
Dietro la scelta del Parlamento sembra leggersi il rifiuto di apprestare soluzioni normative ai problemi scaturiti dall’utilizzo delle nuove tecniche riproduttive, seguendo una linea politica tesa soltanto alla individuazione del nemico comune da sconfiggere. Una scelta siffatta non solo esprime indifferenza rispetto al dovere di rispondere ad una esigenza sociale che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone, e soprattutto dei bambini, ma segna una grave frattura tra le istituzioni, per il mancato rispetto delle decisioni e delle sollecitazioni della Corte Costituzionale, che è organo di garanzia dei diritti, e per la mancata volontà di assumere la responsabilità di completare il sistema di tutele del quale detta Corte ha segnalato le carenze, affrontando finalmente la disciplina della maternità surrogata non da un solo lato di visione, ma in tutta la sua complessità ed in tutte le sue implicazioni.
Occorre insomma separare la valutazione della fattispecie illecita dalle sue ricadute sul rapporto di filiazione, prendendo finalmente consapevolezza che quei bambini sono comunque venuti al mondo, esistono ed hanno il diritto di avere uno status, quello status del quale l’art. 315 c.c. ha sancito inequivocabilmente l’unicità.
Questa è la vera priorità: apprestare con spirito laico e senza nascondersi dietro steccati ideologici regole dirette a fornire tutela a detti minori.
Non sembra inutile al riguardo ricordare che il 14 marzo 2023 la Commissione politiche europee del Senato ha approvato una risoluzione che, svolgendo rilievi critici alla proposta di Regolamento europeo in tema di filiazione e certificato europeo di filiazione, dopo aver ampiamente richiamato la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38162 del 2022 ha affermato che appare … condizione essenziale che la proposta preveda esplicitamente la possibilità di invocare la clausola dell’ordine pubblico in via generale su tutti i casi di filiazione per maternità surrogata, a condizione di assicurare una tutela alternativa ed equivalente, quale quella del citato istituto dell’adozione in casi particolari, e che ciò valga esplicitamente anche con riguardo al certificato europeo di filiazione.
1 V. in senso critico CALVANESE, La surrogazione di maternità realizzata all’estero e la sua punibilità in Italia, in giudicedonna.it, n. 1-2/2023; FUSCALDO, Il reato di maternità surrogata: ratio e questioni, in Diritto.it, 25 settembre 2023; GATTA, Surrogazione di maternità come “reato universale”? A proposito di tre proposte di legge all’esame del Parlamento, in Sistema Penale, 2 maggio 2023.
[2] V. sul punto D’ALOIA, Serve davvero il “reato universale” di maternità surrogata?, in federalismi.it,18 ottobre 2023.
[3]V. sul punto MANNA, Rilievi critici sulla penale rilevanza tout court della maternità surrogata e sulle proposte governative di qualificarla come “reato universale”, in Sistema Penale, 18 luglio 2023; PELISSERO, Surrogazione di maternità: la pretesa di un diritto punitivo universale. Osservazioni sulle proposte di legge n. 2599 (Carfagna) e 306 (Meloni), Camera dei Deputati, in Sistema Penale, 29 giugno 2021.
Sul tema si vedano anche Il totem del “reato universale” e quei bambini dimenticati dal Parlamento di Gabriella Luccioli, Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia di Mirzia Bianca, Maternità surrogata. Le conclusioni della Procura generale all’udienza dell’8 novembre 2022. Requisitoria dell'Avvocato generale Renato Finocchi Gherzi, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022 di Mirzia Bianca, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso di Gabriella Luccioli, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite di Arnaldo Morace Pinelli, Non si attende il legislatore. Lo spinoso problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni unite di Arnaldo Morace Pinelli, Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta. Nota a Trib. Milano 23.9.2021di Rita Russo, La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33 di Arnaldo Morace Pinelli. Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S.Stefanelli) Intervista di Rita Russo, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? di Gabriella Luccioli, Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore. Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) -Cour de Cassation - Assemblée plénière. di Rita Russo, Ricorso alla surrogazione di maternità da parte di una coppia di donne e condizione giuridica del nato. Commento a Trib. Bari, decr. 7 settembre 2022 di Emanuele Bilotti, Il cambiamento della famiglia: aspetti psico-sociali e problemi giuridici di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo, Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c., L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006) di Stefania Stefanelli, Il diritto alla cura dei nati contra legem di Alberto Gambino; Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021 di Gilda Ferrando, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020 di Mirzia Bianca, Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia di T. Greco, Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione di Rita Russo, Fecondazione post mortem di Remo Trezza, Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere. La lezione di Gabriella Luccioli: dalla discriminazione all’uguaglianza.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.