ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Lo stato dell’arte sui criteri di priorità nell’azione penale: evoluzione storica e prospettive future
di Federica Antonia Orlacchio
Abstract
Il contributo intende ripercorrere brevemente il percorso dei criteri di priorità nell’azione penale, dai primi sforzi organizzativi dei Procuratori, passando per le questioni relative all’assenza di una certa base normativa, sino alla recente valutazione di quest’ultima proposta da parte del Legislatore.
Evidenziando i punti più importanti di questo lungo dibattito, si vorrà da ultimo soffermarsi sulle varie proposte che hanno preceduto l’emanazione della l. 134/2021, meglio nota come Riforma Cartabia che ha, per la prima volta, introdotto una disciplina organica dei criteri di priorità, lasciando tuttavia aperti vari interrogativi. Di questi si sta attualmente discutendo in Commissione Giustizia, ove si sta valutando il testo del d.d.l. S-933, che intende completare il percorso avviato dalla riforma: esaminando il progetto, il presente contributo vorrà evidenziarne alcune criticità, interrogandosi sulle possibili soluzioni proposte in dottrina.
The article intends to briefly retrace the path of the priority criteria, starting from the prosecutors’ first organizational efforts, passing through issues related to a lack of a certain regulation, all the way to the recent evaluation of this proposal by the lawmaker.
By highlighting the most important points of this long debate, the article will lastly focus on the various proposals that preceded the emanation of the law no. 134 of 2021, better konwn as the Cartabia Reform, that for the first time introduced an organic discipline to the priority criteria, however leaving some questions open. These questions are currently being discussed by the Judiciary Committee where the text of the draft law no. S-933, which intends to complete the process started by the Reform, is being evaluated: by examining the project, this article aims to highlight some critical issues, questioning on the possibile soluzione propose in the doctrine.
Sommario: 1. I criteri di priorità quale possibile soluzione alla lenta erosione dell’art. 112 Cost. – 2. Gli sforzi organizzativi della Procura torinese – 3. L’opinabile assenza di una base normativa: un quadro incerto – 4. L’insoddisfazione resta: è necessaria una cornice legislativa – 5. Il modello statico del d.d.l Bonafede: una delega in bianco per le Procure – 6. Le scelte della Commissione Lattanzi – 7. La stabile cornice parlamentare della l. 27 settembre 2021, n. 134 – 8. I dubbi permangono – 9. Considerazioni a caldo sul d.d.l S-933 – 10. Valutazioni conclusive: i nodi da sciogliere
1. I criteri di priorità quale possibile soluzione alla lenta erosione dell’art. 112 Cost.
Lungo e tortuoso è stato il cammino che la proposta dei criteri di priorità ha dovuto affrontare in più di trent’anni di acceso dibattito, coinvolgendo importanti soggetti istituzionali sino a persuadere lo stesso Legislatore, finalmente intervenuto di recente dopo anni di colpevole inerzia, con un passo che, tuttavia, non sembra essere risolutivo.
È la legge n. 134 del 2021, meglio nota come Riforma Cartabia, a porre fine al silenzio sino ad ora serbato sul punto, nell’ottica di una più ampia aspirazione di ricostruzione organizzativa della giustizia penale, tentando di ovviare alla profonda crisi di efficienza, effettività e autorevolezza che essa patisce[1].
Una ritrosia, la sua, non da denunciare completamente, se solo vuol pensarsi alla grande tensione che l’“operazione priorità” ha da sempre presentato con il principio di obbligatorietà dell’azione penale e, soprattutto, con le interpretazioni rigide, a tratti esasperate, che dello stesso, ancor oggi, la letteratura giuridica si ostina a dare: nell’affermare, alquanto laconicamente, che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, la norma detta un principio ontologicamente irrealizzabile, nella misura in cui pretende che la pubblica accusa assicuri paritaria e soprattutto dignitosa attenzione a tutte le notitiae criminis verosimilmente riconducibili a fattispecie criminose.
Ecco che la possibilità di assicurare prioritaria trattazione a taluni procedimenti rispetto ad altri cerca di ergersi da tempo quale possibile soluzione rispetto all’annoso problema dell’ingolfamento della macchina processuale, impiegando al meglio le poche risorse materiali e umane disponibili.
Insomma, per assicurare effettività non soltanto alla regola di cui all’art. 112 Cost. ma anche ai valori ad esso sottesi è indispensabile assumere un approccio realistico, acquisendo consapevolezza del discrimen intercorrente tra la dimensione concreta del principio di obbligatorietà (e, dunque, spazi valutativi fisiologici connaturati al dovere di agire) e patologiche deviazioni dalla ratio della scelta costituzionale[2].
In questo senso deve interpretarsi la proposta qui in commento, testimonianza più evidente dello sforzo di dottrina e magistratura di lasciare inalterato il principio della legalità dell’agire, permettendo tuttavia allo stesso di adeguarsi alla realtà.
Dunque, l’idea è semplice: dinanzi all’impossibilità ormai riconosciuta di analizzare con la stessa tempistica tutte le notizie di reato, la migliore soluzione, ponendosi in una prospettiva pragmatica, sarebbe quella di individuare, sulla base di canoni obiettivi, un ordine di preferenza nello svolgimento delle indagini[3].
2. Gli sforzi organizzativi della Procura torinese
Trattasi di un’impostazione particolarmente suggestiva, emblematicamente suggerita dagli stessi uffici inquirenti: la paternità del problema è ascrivibile alle famose circolari torinesi, essendo state le prime ad aver avuto il “pregio di affrontare senza reticenze ed ipocrisia il problema”[4].
Fu Vladimiro Zagrebelsky, allora a capo della Procura torinese, ad inaugurare, nel 1990, questa nuova filosofia dell’organizzazione del lavoro, proponendo una “risposta trasparente ad uno stato di necessità”[5]: egli, partendo dal dato fattuale concernente l’eccessivo sovraccarico della procura torinese e la limitata capacità di lavoro dell’ufficio, anelava ad una programmazione dello stesso sotto il profilo quantitativo, affermando per questa via l’ineluttabilità dell’elaborazione dei criteri di priorità nella conduzione delle indagini preliminari. Sottolinea, tra l’altro, che tale modus operandi non sarebbe in contrasto con con il dettato costituzionale in tema di obbligatorietà, posto che il mancato esercizio dell’azione penale per tutte le notizie non infondate deriverebbe non tanto da considerazioni di opportunità relative alla singola notitia criminis, quanto piuttosto dall’oggettiva incapacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso.
Assolutamente lontano sarebbe pertanto il pericolo di sconfinare in arbitrio assoluto dell’ufficio, impedito a monte dai principi costituzionali di eguaglianza da un lato, e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione dall’altro.
In sostanza, nell’ottica di Zagrebelsky, i criteri di priorità si articolano verso l’alto, e dunque nella direzione di un’elevata prelazione per i reati più gravi in base alle pene edittali, alle singole tipologie di reato, alla posizione della vittima e all’attualità cautelare[6].
Qualche anno più tardi, è ancora una volta la Procura di Torino ad offrire un ulteriore spunto sul tema, riaccendendo in chiave critica il dibattito: la “Circolare Maddalena” del 2007[7], successiva all’approvazione della legge 31 luglio 2006, n. 24, recante “Concessione di indulto”[8], articolava diversamente i criteri, questa volta verso il basso, in virtù di valutazioni meramente procedimentali, postergando procedimenti a citazione diretta, con indagati irreperibili o quando ancora fosse prossima la prescrizione del reato.
Evidenziata la difficile situazione in cui versavano il sistema giudiziario in generale e facendo emergere le disastrose inefficienze provocate proprio dal provvedimento clemenziale, il Procuratore riteneva “contrario ad ogni logica insistere nel trattare tutti e comunque i procedimenti pendenti”: invitava pertanto ad un uso parsimonioso dell’azione penale, privilegiando “la strada della richiesta di archiviazione (anche generosa) ogni qualvolta appaia praticabile e anche solo possibile”[9].
Lungi dunque dal guardare al futuro, come la precedente, la circolare in questione si fermava al presente[10], mirando ad esaurire le pendenze inattive e affermando, per la prima volta, la regola dell’accantonamento degli affari non prioritari, tenuto conto di una serie di fattori legati “all’oggettività del fatto, alla gravità della lesione degli interessi protetti, alla soggettività del reo, all’ interesse all’azione dell’indagato o imputato o delle persone offese, alla irreperibilità dell’indagato etc. etc.”[11].
3. L’opinabile assenza di una base normativa: un quadro incerto
I provvedimenti torinesi fanno da precedente e divengono con il tempo un indiscusso punto di riferimento per altrettante Procure della Repubblica, le quali dimostrarono, negli anni a venire, un regolare attivismo a riguardo. Emulando i propositi delle circolari cui si è fatto cenno, sono stati adottati nel tempo provvedimenti simili, ispirandosi a scelte prioritarie sulla base di specifiche esigenze e tenuto conto delle rispettive realtà circondariali: tutto ciò ha dato vita alle cd. buone prassi, ossia delle prassi organizzative che tentano di smaltire nel modo più efficace il flusso di affari[12].
Esse hanno ricevuto il placet da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha sposato la causa in maniera sempre più convinta, arrivando al punto di interpretare l’adozione dei parametri orientativi nella gestio degli affari penali (di cui valorizzava la natura prettamente organizzativa) in termini di sostanziale doverosità, nell’ottica di maggiore efficienza della giustizia e anche di uniformità dell’azione penale[13].
Tuttavia, per quanto encomiabili fossero gli sforzi organizzativi delle Procure – essendo testimonianza di una forte responsabilizzazione e presa di coscienza da parte degli stessi operatori del processo – i medesimi venivano censurati dai più, per la mancanza di una norma che conferisse alle loro scelte oggettività e predeterminazione: è proprio questo, anzi, il passaggio che ha concentrato le principali contestazioni della dottrina più ostile poiché – si diceva – una gestione orizzontale avrebbe rischiato di scalfire i contorni di una regola costituzionale sempre più in crisi.
Non può comunque nascondersi che, negli anni, vi sono stati degli interventi che hanno dato alla luce nuove norme nelle quali, non senza difficoltà e sforzo interpretativo, si è cercato di trovare un appiglio all’“operazione priorità”: il massimo risultato a cui è pervenuto il Legislatore in tempi più lontani sta nella norma dettata in tema di riforma del giudice unico, ossia l’art. 227 del d. lgs. 19 febbraio 1998, n. 51[14]. Con la disposizione de qua si è, per la prima volta, normativamente accreditata l’idea che la selezione delle notizie di reato potesse rappresentare, in una prospettiva futura, la soluzione alla malvista discrezionalità di fatto incontrollata[15].
Poco dopo il Legislatore è intervenuto nuovamente sul tema, attraverso il d. l. 24 novembre 2001, n. 341[16], che ha introdotto l’art. 132-bis tra le disposizioni di attuazione del codice di rito, con il quale sono state create corsie preferenziali per taluni procedimenti ai fini della formazione dei ruoli d’udienza da parte degli uffici giudicanti, inizialmente per ragioni spiccatamente processuali, ossia là dove si pongono gravi ragioni d’urgenza con riferimento alla scadenza dei termini cautelari. Nondimeno, l’attuale profilo contenutistico risulta sensibilmente diverso, essendo stato oggetto di ripetuti interventi normativi[17] che ne hanno mutato l’originale assetto, risultando ora comprensivo di ipotesi così eterogenee che pare difficile rinvenire per le stesse una base comune.
Per quanto apprezzabile fosse l’intento legislativo di regolamentare, secondo canoni oggettivi e soprattutto verificabili, delle priorità, nessuna delle due norme oggetto di precedente disamina ha permesso di individuare una copertura legale alle prassi.
Anzitutto militava in senso opposto l’incontestabile circostanza che entrambe fossero non tanto rivolte ai pubblici ministeri, bensì agli uffici giudicanti[18]; e, ancora, che le medesime fossero prospettate ad un momento successivo all’esercizio dell’azione penale, dunque in quanto tali non avevano rilevanza alcuna per la determinazione delle priorità, che invece si pone nei primi momenti del segmento meramente procedimentale.
4. L’insoddisfazione resta: è necessaria una cornice legislativa
L’indiscutibile incertezza derivante dall’assenza di una solida base normativa ha quindi da sempre rappresentato un’evidente criticità della teoria dei criteri di priorità, messa in discussione da quanti guardavano alle attività delle Procure come eccentriche, difettando queste ultime di fonte legislativa di rango primario.
Fondamentalmente, la predeterminazione legislativa delle precedenze da seguire nella trattazione delle notizie di reato sarebbe l’unica via per ridurre l’inventiva della magistratura inquirente, alla cui libera scelta verrebbe altrimenti rimessa la sorte di taluni procedimenti.
A dire il vero, quest’ultima strada è stata percorsa in passato, addirittura dall’Organo di autogoverno della Magistratura, tanto in sede disciplinare[19] che in altre occasioni: anzi, rebus sic stantibus, questa sarebbe apparsa per taluni la migliore soluzione poiché il magistrato inquirente disporrebbe di maggiore conoscenza, rispetto ad un legislatore lontano e distratto[20], della realtà delinquenziale del territorio di sua competenza, pertanto sarebbe maggiormente in grado di calibrare la risposta alla tracotanza degli autori del reato[21].
Quella della definizione dal basso delle priorità si sarebbe allora presentata come soluzione necessitata dinanzi alla non più tollerabile neghittosità del legislatore, che è invece intervenuto su altri settori – depenalizzazione, deproccessualizzazione, potenziamento dei riti alternativi – con scarsi risultati.
Una tale affermazione viene tuttavia – opportunamente – contestata da quanti paventano il pericolo che una giustizia a macchia di leopardo possa presentarsi sì più vicina ai cittadini, ma effettivamente pericolosa. Permettere agli uffici di Procura di provvedere ex se porrebbe le basi per una differente applicazione della legge penale e per una disparità di trattamento tra individui che si troverebbero ad essere trattati in maniera assai diversa, a seconda del luogo in cui abbiano commesso il medesimo reato. Il che, a tacer d’altro, non soltanto determinerebbe momenti di tensione con l’art. 112 Cost., ma anche con gli artt. 3 e 25 Cost.[22].
Se allora la fissazione delle priorità diviene espressione di indirizzo politico in materia criminale, l’unica scelta da prendere in considerazione sarebbe quella di un coinvolgimento attivo del Parlamento: anzi, questa risulta essere la via maestra per quanti si dicono favorevoli all’introduzione dei criteri di priorità. In uno Stato di diritto ed in base ad un elementare principio di separazione di poteri, tale organo dovrebbe essere l’unico a poter regolare il sistema penale, decidendo di volta in volta, in base a trasparenti criteri di politica giudiziaria, a quale categoria di reati dare l’eventuale precedenza[23].
Una soluzione del genere avrebbe un indubbio pregio nell’ottica di conferire legittimazione democratica alle scelte di politica criminale compiute dalla pubblica accusa, anzi le assicurerebbe il massimo grado: l’idea di un collegamento tra quest’ultima e il Parlamento poggia sull’opinione per cui, all’organo che rappresenta in maniera diretta i cittadini, spettano poteri di controllo democratico su tutte le attività di rilevanza pubblica e conseguenzialmente, su una delle più importanti, ossia l’esercizio della funzione requirente[24].
Ecco che, allora, l’unico soggetto legittimato alla definizione delle priorità non può che essere proprio l’organo legislativo: calzante e significativa l’osservazione secondo cui come solo quest’ultimo può provvedere alla predisposizione di fattispecie criminose, così non può non essergli devoluto l’eventuale compito di dettare priorità ai fini dell’esercizio dell’azione penale, attraverso uno strumento suscettibile anche di controllo di costituzionalità[25].
5. Il modello statico del d.d.l Bonafede: una delega in bianco per le Procure
Gli interrogativi posti dalle precedenti riflessioni non hanno ricevuto integrale soddisfazione nel d.d.l. Bonafede, presentato dal Governo Conte II alla Camera il 13 marzo 2020: l’AC 2435[26], nell’intento di assicurare l’efficacia della risposta giudiziaria, assegnava – all’art. 3, comma 1, lett. h) – al legislatore delegato il compito di “prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Si continuava poi che “nell’elaborazione dei criteri di priorità, il Procuratore della Repubblica, curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.
Una novità, come si è detto, rilevante ma non sconvolgente[27]: difatti, non è difficile cogliere l’aderenza del disegno qui prospettato alle prassi che si sono andate formando[28], e la sua perfetta rispondenza alle indicazioni del C.S.M. succedutesi negli ultimi quindici anni.
Il circuito ivi delineato si colloca infatti interamente nell’ambito giudiziario, dall’individuazione all’applicazione, sino al controllo sull’attuazione dei criteri di priorità[29]: in un’ottica “autoreferenziale”[30] si prevedeva che l’elaborazione dei medesimi fosse devoluta alle Procure e ai progetti organizzativi redatti dai dirigenti degli Uffici del pubblico ministero. Venne attivamente coinvolto anche lo stesso C.S.M che avrebbe assicurato trasparenza nella gestione dell’azione[31]: si anelava dunque ad un dialogo ed una costante comunicazione che avrebbe dovuto – nelle intenzioni del progetto – assicurare maggiore omogeneità.
Siffatta impostazione venne tuttavia caldamente osteggiata dalla dottrina maggioritaria, la quale le muoveva aspre critiche per aver sostanzialmente sottratto al legislatore una sua funzione.
Le voci dei più auspicavano per contro un ruolo maggiormente significativo per il Parlamento, evidenziando profonde criticità della proposta: anzitutto il meccanismo delineato dal d.d.l. Bonafede avrebbe assegnato un ruolo politico alla magistratura, responsabilità che non le compete[32]; quest’ultimo sembrava poi essere insensibile a tutte le criticità derivanti da un conferimento del compito di predeterminazione dei criteri alle singole Procure, poiché non avrebbe scongiurato il rischio di una perseguibilità dei reati a macchia di leopardo[33].
Insomma, un disegno poco convincente. Ciononostante, un qualche consenso pur lo meritava e nello specifico con riferimento al meccanismo di individuazione dei criteri di priorità, nella misura in cui si chiamava il Procuratore della Repubblica a raccordarsi con gli uffici giudicanti – naturali destinatari dei provvedimenti in cui si concretizza la scelta di agire – e anche quella opposta affidata alla richiesta di archiviazione, collocando le sue determinazioni nella più ampia dimensione del distretto.
Osservandolo più attentamente, questo modello partecipato non negava totalmente il ruolo del Parlamento, ma lo articolava diversamente: la sua tipica funzione di controllo sarebbe stata invero assicurata dalla previsione secondo cui il Ministro della giustizia avrebbe provveduto all’illustrazione dell’andamento della gestione dell’azione nei vari distretti giudiziari, nel più ampio ambito delle comunicazioni annuali sull’Amministrazione della giustizia ex art. 86 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12[34].
Il Legislativo avrebbe così verificato la congruità dei dati acquisiti, ora chiedendone la correzione, ora valutando l’eventuale necessità di un intervento del Governo, volto ad assicurare un maggiore stanziamento di risorse per la revisione di taluni criteri.
6. Le scelte della Commissione Lattanzi
Per ovviare comunque alle permanenti perplessità verso il progetto sopra delineato, con la formazione del Governo Draghi, la Ministra della giustizia Prof. Marta Cartabia insediò una nuova commissione di studio per elaborare proposta di riforma: con il decreto del 16 marzo 2021 venne infatti costituita presso l’ufficio legislativo del Ministero una commissione “per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in tema di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge AC 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizone dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”.
Le modifiche presentate intendevano quindi accogliere tutte le critiche avanzate all’originaria proposta, provvedendo ad un’intensificazione del ruolo del Parlamento: ne risulta un progetto di profonda distanza culturale e tecnica[35].
La Commissione Lattanzi, “in piena aderenza con un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento”[36], intendeva dunque rimettere a quest’ultimo organo il delicato ruolo delle priorità: lo avrebbe fatto attraverso un’indicazione periodica di criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità, che avrebbe fatto riferimento all’apposita relazione del C.S.M. sugli effetti prodotti nel periodo precedente.
Una volta poi definita la cornice dell’alto, si sarebbero mossi i singoli uffici giudiziari che avrebbero provveduto autonomamente, stabilendo dei criteri “dinamici” che tenessero conto della realtà locale – tanto sotto il profilo criminale quanto sotto quello organizzativo – per assicurare concretezza alle scelte parlamentari. In quest’ottica, dunque, sarebbe stato superato l’elenco di criteri statici contemplato all’interno dell’art. 132-bis disp. att. c.p.p. che – si sottolinea nella Relazione – hanno dimostrato negli anni “tutta la loro inidoneità a garantire razionale ed effettiva trattazione degli affari penali”.
Si evidenziava, pertanto, da parte dei primi commentatori, la contrapposizione tra le periodicità delle regole parlamentari e la dinamicità dei criteri dei singoli uffici di Procura, espressione di scelte di politica criminale e di una puntuale concretizzazione delle stesse sul piano territoriale. La Commissione, com’è stato evidenziato, si è mossa dunque con condivisibile cautela e delicatezza, cercando di non urtare la sensibilità degli uffici giudiziari, privati di quella competenza esclusiva che riservava loro il d.d.l. Bonafede[37].
Ad ogni modo, bisognava tessere le lodi del disegno qui in commento per la scelta di rendere obbligatorio l’intervento del Parlamento nella definizione delle priorità, considerata la loro afferenza alla materia di politica criminale. Un tratto che rendeva di gran lunga preferibile quest’ultimo rispetto al precedente, non foss’altro per una sua evidente armonia con il fisiologico rapporto tra potere legislativo e giudiziario: il primo dà le determinazioni di principio, ed il secondo, lungi dal vedersi attribuito un ruolo di mero esecutore di direttive altrui, le specifica concretamente[38].
Opinabile era invece l’eccessiva genericità della formula con cui veniva devoluto al Parlamento il compito di dettare criteri generali: essa risultava particolarmente equivoca nella misura in cui, non parlando expressis verbis di legge, lasciava aperta l’ipotesi che vi si provvedesse per il tramite di un atto di indirizzo. Atti che non difficilmente dimostrano la loro inattitudine ad assumere tali connotati: basti qui ricordare che trattasi di atti per loro natura fluidi, nel contenuto e nelle forme, dunque in quanto tali maggiormente esposti alle fluttuazioni derivanti dalle mutevoli congiunture politiche[39].
7. La stabile cornice parlamentare della l. 27 settembre 2021, n. 134
Finalmente si approda all’emanazione del testo definitivo[40], il quale assegna al legislatore una traccia sensibilmente differente: si legge nell’art. 1, comma 9, lett. i) che “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforma esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Si conclude poi per la necessità di “allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”[41].
In continuum rispetto alle scelte precedenti, si ritiene indispensabile quell’elemento interlocutorio interno alle stesse realtà circondariali, volto ad assicurare maggiore omogeneità. Salta, tuttavia, subito all’occhio una fondamentale differenza rispetto alle proposte della Commissione Lattanzi: la determinazione dei criteri da parte del Parlamento non viene affidata all’atto periodico di indirizzo politico; bensì allo strumento solenne, impegnativo e soprattutto stabile della legge che dunque, in quanto tale, risulterà vincolante per tutti gli operatori[42].
Una legge cornice rigida – dunque non periodica – completata dalle successive scelte dei capi degli uffici, sembra essere quindi un buon tentativo di mediazione, che lasci giusti spazi di manovra ai Procuratori della Repubblica ma al contempo impedisca loro di tirare troppo, con il rischio che si spezzi “la corda dell’irresponsabilità politica”[43].
Per dare attuazione alla delega, è intervenuta la minimale disciplina contenuta nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150[44], la quale ha preso posizione su poche questioni. In effetti, per dare seguito alla delega sono state adottate una serie di disposizioni non tutte contemplate all’interno del decreto legislativo che intende adempiervi: la Relazione di accompagnamento sottolinea che, nelle more dell’adozione dell’atto avente forza di legge, il Parlamento è intervenuto con la legge 17 giugno 2022, n. 71, prevedendo una modifica dal punto di vista ordinamentale[45]. Il doppio intervento supporta l’idea che i criteri di priorità abbiano una duplice rilevanza, non avendo questi essenzialmente natura procedimentale, bensì incidendo anche su scelte organizzative, sin dall’attività successiva all’iscrizione della notizia di reato[46].
Dal punto di vista procedimentale, l’art. 1, comma 1, lett. a) interviene allora sulle disposizioni di attuazione attraverso l’introduzione dell’art. 3-bis, ove si prescrive che il pubblico ministero, tanto nella trattazione delle notizie di reato quanto nell’esercizio dell’azione penale, debba conformarsi ai criteri di priorità contenuti all’interno del progetto organizzativo della Procura. Contestualmente viene introdotto l’art. 127-bis disp. att. c.p.p. dove si prevede che, nell’esercizio dei poteri di avocazione che spettano al Procuratore generale, si tenga conto dei criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio della Procura della Repubblica. Un’introduzione, si dirà, assolutamente doverosa per assicurare coerenza tra la neo-introdotta disciplina delle priorità con quanto previsto in tema di avocazione: in mancanza, vi sarebbe un paradosso nell’“avocazione per inazione”, rispetto ad un’inazione che trova giustificazione proprio nei criteri di priorità[47].
La norma necessita tuttavia di una lettura in combinato disposto con la novellata disciplina ordinamentale, secondo cui la predisposizione dei criteri, all’interno dei progetti organizzativi adottati a cadenza quadriennale e nel più ampio ambito dei criteri generali stabiliti dal Parlamento, dovrà tener conto del “numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. A dire il vero, dalla norma risulta un ingranaggio procedurale particolarmente complesso, cui viene data voce a diversi soggetti[48], provvedendo così ad una procedimentalizzazione dei criteri di priorità: i progetti organizzativi dovranno infatti essere approvati, fatte eventuali osservazioni del Ministro della giustizia, dal C.S.M. in quanto conformi agli standard dallo stesso dettati; dovranno poi essere ascoltati i dirigenti degli uffici giudicanti e il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati.
8. I dubbi permangono
Se per alcuni il risultato così raggiunto può rappresentare un punto di arrivo, esso altro non è che un punto di partenza.
Ciò è maggiormente chiaro laddove si tenga presente che quello che dai più era stato definito come intervento epocale, si limita a prevedere lo stretto necessario per consentire la redazione e l’operatività dei criteri di priorità: vengono infatti pericolosamente lasciati aperti taluni – o meglio, troppi – interrogativi, che non permettono di dirimere i contrasti che hanno sempre caratterizzato la proposta dei criteri di priorità, anzi, potrebbero essere in grado di potenziarli. Il Legislatore, piuttosto che lasciare al non detto davvero poco, va in tutt’altro senso: nulla dice, ad esempio, circa la periodicità o “fissità” della legge cornice. Propenderebbe nel primo senso la mutevolezza, nel tempo, della criminalità e delle esigenze della sua repressione[49]; nel senso opposto, invece, plurimi fattori: anzitutto, si dice, se il Legislatore avesse realmente voluto rendere periodica la legge cornice, lo avrebbe fatto expressis verbis[50], o ancora, la circostanza che pur proposta durante i lavori parlamentari, non è stata inserita nel testo definitivo.
Ulteriori incertezze concernono il riferimento ai “criteri generali”, ponendo una locuzione così generica una serie di questioni: dovrebbe essere sia evitata una mera predisposizione di elenco di reati da preferire, direttamente proveniente dal Legislativo, tanto una statuizione eccessivamente vaga, tale da riconoscere ampio spazio discrezionale alle Procure.
Difficoltà tutte avvertite dal Parlamento che, a distanza di quasi due anni dalla delega, tarda a stilare una griglia di criteri generali: le Procure, nel frattempo, attendono, tant’è che si è reso doveroso per l’Organo di autogoverno intervenire nuovamente[51].
Le acque sembrano tuttavia cominciare a smuoversi: in questi mesi si sta discutendo, in Commissione Giustizia, del d.d.l. S-933, intitolato “Disposizioni di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale” di iniziativa dei senatori Zanettin e Stefani. Nell’ottica di ovviare ad una serie di lacune ed incongruenze della disciplina attuativa della delega, i proponenti intendono, tra le altre cose, affiancare all’art. 3-bis disp. att. c.p.p. un nuovo articolo 3-ter, prefiggendosi di cristallizzare il rispetto del principio per cui il pubblico ministero debba attenersi ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi, a tal fine indicandoli specificamente[52]:
9. Considerazioni a caldo sul d.d.l S-933
Questa (tardiva) iniziativa legislativa – non semplicemente opportuna, ma assolutamente necessaria – si espone nondimeno ad una serie di critiche.
Anzitutto si evidenzia, da parte dei primi commentatori, un vizio di fondo: la proposta sembra infatti alterare l’equilibrato meccanismo compromissorio delineato dalla l. 134/2021 prima e dalla l. 71/2022 poi, che unisce una valutazione preventiva definita all’interno di una legge cornice alla concretizzazione di quelle stesse indicazioni da parte dei Procuratori, i quali vi provvedono attraverso un procedimento partecipato.
A ben vedere, il d.d.l qui in commento introduce direttamente – come parametro di riferimento dell’attività dei pubblici ministeri – i criteri di priorità, non facendo più comprendere quale sia il rapporto tra i criteri generali di spettanza del Legislatore e quelli “di dettaglio” contenuti nel progetto organizzativo[53].
Non convince, poi, l’estrema vaghezza che lo contraddistingue: in effetti le lett. a) e c) sembrano sposare una logica piuttosto ampia, ispirata a criteri formali e oggettivi, che sebbene appaia coerente con l’intento del Legislatore di definire dei “meta-criteri”, risulta essere eccessivamente generica. In effetti, il criterio della “gravità dei fatti” appare poco specifico, sino al punto di divenire privo di contenuto precettivo. Tale problema interpretativo, tuttavia, potrebbe trovare una soluzione se si facesse riferimento alle previsioni edittali: un Legislatore attento e sensibile, si dice, è colui che gradua la pena sulla base della gravità del reato[54].
I medesimi problemi si pongono poi per il riferimento all’ “offensività in concreto del reato” che, anzi, rischia addirittura di sovvertire ogni criterio generale di priorità sulla base di una valutazione concreta, effettuata caso per caso dall’Autorità Giudiziaria procedente[55].
Un’ispirazione diversa sembra invece connotare la lett. b) che identifica singole fattispecie di reato, sicuramente coerente con l’ottica del “doppio binario” che, in aderenza a direttive sovrananzionali, intensifica la tutela di vittime di taluni reati, velocizzando i tempi dei relativi procedimenti. Nondimeno, essa non soltanto rischia di determinare una disomogeneità e poca chiarezza del dettato legislativo, ma accentua il pericolo di cavalcare, per questa via, l’onda dell’emotività dell’opinione pubblica, molto instabile e soprattutto particolarmente suggestionabile.
Discutibile risulta poi il richiamo, nella lett. a), “alla realtà criminale e alle esigenze di protezione della popolazione”: una scelta, questa, giustificata dai proponenti in virtù del forte legame tra le medesime e i criteri di priorità e, tra le altre cose, perfettamente rispondente alle indicazioni dell’Organo di autogoverno nella “super-circolare” del 2017, che riconosce ai pubblici ministeri un compito di mediazione tra le istanze del territorio e l’azione penale[56]. Orbene, un soggetto politicamente irresponsabile e privo di legittimazione democratica come la pubblica accusa non potrà misurare sic et sempliciter la maggiore o minore sensibilità della comunità rispetto alla persecuzione di taluni reati: quest’ultime integrerebbero valutazioni di carattere politico, in quanto tali in collisione con l’art. 112 Cost., che ammette tutt’al più una discrezionalità tecnica.
Così come formulato, allora, tale “meta-criterio” non convince: per allontanare i pericoli di una regionalizzazione del sistema a scapito dell’uniformità dell’azione penale, sarebbe necessaria una cornice legislativa più stringente e stabile – la cui completezza presupporrebbe un’analisi di vari fenomeni criminali e peculiarità regionali – che potrà essere poi adeguatamente dettagliata dai singoli Procuratori.
Tantomeno condivisibile la seconda parte della lett. c), nella misura in cui raccorda la previsione dell’offensività in concreto alla condotta della persona offesa: una lettura poco approfondita lascerebbe addirittura intendere che sia la volontà di quest’ultima a condizionare la determinazione delle priorità, in palese contrasto con i principi del nostro sistema[57].
Più chiaro invece si presenta forse il richiamo al “danno patrimoniale o non”, riferendosi ad un concetto di gravità in concreto del fatto, desumibile dal danno provocato; mentre del tutto inopportuno è il profilo della mancata partecipazione dell’indagato ai percorsi di giustizia riparativa: certo, una lettura – troppo – generosa potrebbe permettere di ricavarne indirettamente una valorizzazione in positivo per l’indagato che decida di parteciparvi. Ma, comunque, più forti sono i dubbi di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., che non può vedersi così condizionato.
A prescindere dal discutibile profilo contenutistico, ciò che desta maggiori perplessità è il mancato coordinamento con il nutrito catalogo di reati cui dare una precedenza nella formazione di ruoli d’udienza e trattazione dei processi, ossia l’art. 132-bis disp. att. c.p.p[58]: quandanche la norma abbia costituito guida irrinunciabile per la fase investigativa, essa risponde ad una logica del tutto differente, per cui sarebbe necessaria un’armonizzazione tra gli uffici requirenti e giudicanti che sia rispettosa della razionalità del sistema e dunque degli artt. 3 e 111 Cost. Anzi, si osserva, l’occasione potrebbe essere proprizia per una riscrittura dell’infelicissima norma che, a dire il vero, non ha mai funzionato: certo, l’operazione è alquanto delicata e difficile.
10. Valutazioni conclusive: i nodi da sciogliere
Le riflessioni che precedono dimostrano come l’acceso dibattito sui criteri di priorità fatichi a trovare soluzione.
Certo è che sul Parlamento grava un compito delicatissimo: per quanto lacunosa, la recente iniziativa legilsativa ha l’indubbio merito di aver preso dichiaratamente posizione in questo articolato dibattito, in cui ancora forti sono le voci dottrinali che si dicono assolutamente contrarie all’introduzione dei criteri di priorità all’interno di un ordinamento, come quello italiano, governato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Si tratta di un veicolo normativo da trasformare secondo talune direttive per far sì che diventi un vero e proprio statuto dei criteri di priorità. Ecco, dunque, i nodi da sciogliere.
Si auspica una maggiore chiarezza del dettato normativo, che definisca anzitutto cosa debba intendersi per fascicolo prioritario: ciò, infatti, non significa semplicemente “metterlo davanti” ad altri, ma destinare ad esso le migliori risorse umane e materiali; sono scelte da ponderare attentamente, per allontanare il rischio di condannare i reati “secondari” ad una sicura prescrizione. Doveroso sarà poi il coordinamento con l’art. 132-bis disp. att. c.p.p., per assicurare omogeneità tra priorità investigative e quelle da seguire nella fase giudicante: il traino dovrebbe essere individuato nelle prime, cui facciano seguito i criteri nella formazione dei ruoli d’udienza.
Ulteriore tratto su cui la proposta rimane discutibilmente silente è quello relativo alle conseguenze della mancata osservanza dei criteri definiti dai progetti organizzativi: è una questione particolarmente delicata, poiché si tratterebbe di capire se, ad esempio, possa essere sottoposto a procedimento disciplinare il magistrato che non abbia osservato la scala delle priorità, esercitando l’azione penale che il dettato costituzionale proclama obbligatoria; non si dimentichi che è tuttavia possibile valorizzare a tal fine un rimedio processuale già presente nel nostro ordinamento, qual è quello dell’avocazione, la cui disciplina è stata già adeguata alle novità di cui qui si sta tenendo conto.
Si tratta, insomma, di questioni che non possono essere lasciate aperte, ma che al contrario necessitano di un approfondito esame.
[1] Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR. La Procura tra prospettive organizzative, temi istituzionali e scelte comportamentali, in Quest. giust., 2021, p. 55.
[2] Fiandaca-Di Chiara, Il pubblico ministero e l’esercizio dell’azione penale, in Una introduzione al sistema penale: per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene, 2003, p. 248.
[3] Catalano, Introduzione, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali delle scelte sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 1 ss.
[4] Ceresa-Gastaldo, Dall’obbligatorietà dell’azione penale alla selezione politica dei processi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, p. 1427.
[5] Rossi, Per una concezione “realistica” dell’obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust., 1997, p. 315. L’espressione in realtà è una costante in tutte le delibere del Consiglio Superiore della Magistratura tese ad esprimere un favor verso gli sforzi organizzativi degli uffici inquirenti.
[6] Si specifica infatti che non è possibile definire le priorità sulla base del mero criterio cronologico, nè tantomeno è possibile affidarsi alla debole indicazione della semplicità e della rapidità della trattazione dell’indagine preliminare, occorrendo una valutazione maggiormente approfondita. Punto di riferimento indiscusso saranno considerazioni rivenute all’interno dello stesso ordinamento e sulla ragionevolezza su cui esso si fonda.
[7] Circolare della Procura della Repubblica, Tribunale di Torino, 10 gennaio 2007, “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della legge 31 luglio 2006 n. 241 che ha concesso l’indulto”, in Quest. giust., 2007, p. 621 ss.
[8] L’approvazione della legge di indulto, non essendo stata accompagnata da un parallelo provvedimento di amnistia, aveva sollevato non pochi problemi, avendo comportato l’immediata liberazione dei detenuti, ma senza tuttavia aver alleggerito gli uffici dal carico giudiziario esistente.
[9] Maffeo, I criteri di priorità dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, in Proc. pen. e giust., 2022, p. 62 ss.
[10] Una differenza sottolineata dallo stesso autore della circolare nel su intervento al Convegno La circolare Maddalena e il futuro dell’obbligatorietà dell’azione penale (Torino, 12 marzo 2007), organizzato dalla Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e Valle D’Aosta. Qui afferma infatti che “è profondamente diversa dalla circolare Zagrebelsky perchè tra la mia e quella antecedente passa la stessa differenza che c’è tra futuro e passato: mentre la prima impostava una prospettiva futura, la mia si è limitata a prendere atto di una certa situazione, di un certo provvedimento che sicuramente introduceva una nota di minore utilità in una situazione in cui, di fatto, gli uffici giudiziari torinesi sarebbero arrivati inevitabilmente a seguito del formarsi delle serie di discrezionalità che si sommano”. Si ascolti l’intero intervento in https://www.radioradicale.it/scheda/220013/la-circolare-maddalena-e-il-futuro-della-obbligatorieta-dellazione-penale.it.
[11] Circolare della Procura della Repubblica, Tribunale di Torino, 10 gennaio 2007, “Direttive in tema di trattazione dei procedimenti in conseguenza della applicazione della legge 31 luglio 2006 n. 241 che ha concesso l’indulto”, cit., p. 621 ss., punto 7.
[12] Così Sottani, Organizzazione degli uffici di procura. Modelli organizzativi e bilanci delle Procure della Repubblica, in L’obbligatorietà dell’azione penale. Atti del XXXIII Convengo Nazionale di Verona 1-12 ottobre 2019 dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale, Giuffrè, 2021, p. 64.
[13] Sul punto, si veda l’analisi di Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi es esercizio dei poteri di vigilanza, in Dir. pen. cont., 9 novembre 2016, p. 7 ss; Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134, in Quest. giust., 2021, pp. 86-91.
[14] Secondo la norma “Al fine di assicurare la rapida trattazione dei processi pendenti alla data di efficacia del presente decreto, nella trattazione dei procedimenti e nella formazione dei ruoli di udienza, anche indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento, si tiene conto della gravità e concreta offensività del reato, del pregiudizio, che può derivare da ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa”.
[15] Frioni, Le diverse forme di manifestazione della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 557. Effettivamente, l’intervento normativo qui in commento si pone come un’importante risposta, in ambito penale, alle difficoltà organizzative che già gravano sul sistema e che maggiormente si sarebbero poste in virtù della ristrutturazione degli uffici giudiziari secondo il modello del giudice unico. In un tale contesto, il legislatore non si è semplicemente limitato ad operare su un piano prettamente organizzativo, ma è piuttosto intervenuto sulla disciplina processuale, allo scopo di stimolare la rapida definizione dei procedimenti in corso attraverso l’introduzione di specifici meccanismi acceleratori. Si legga sul punto il prezioso contributo di Bresciani, Commento all’articolo 227 d. lgs. 19/2/1998 – Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado, in Leg. pen., 1998, p. 475 ss.
[16] “Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia”, convertito con modifiche nella l. 19 gennaio 2001, n. 4.
[17] D. l. 23 maggio 2008, n. 92 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), conv. con modif. dalla l. 24 luglio 2008, n. 125; d. l. 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema id protezione civile e di commissariamento delle province), conv. con modif., dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119; l. 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice di penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) e la l. 17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate); l. 26 aprile 2019, n. 36 (Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa).
[18] Così, Catalano, La lunga marcia dei criteri di priorità, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali delle scelte sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 56; Frioni, Le diverse forme di discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen¸ 2002, p. 557; Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, in Cass. pen.¸ 2020, p. 12 ss; Maffeo, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 65.
[19] Conviene qui ricordare il famoso “Caso Vannucci” riportato in Cass. pen., 1998, p. 1490 ss.
[20] Deganello, Notizie di reato ed ingestibilità dei flussi: le scelte organizzative della procura torinese, cit., p. 1592 ss.
[21] Catalano, L’individuazione dell’organo cui affidare la fissazione dei criteri di priorità, in Quando perseguire. Aspetti costituzionali sui criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, Giappichelli, 2023, p. 155.
[22] Così Maffeo, I criteri di priorità dell’azione penale tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 61 ss. Si fa poi notare in dottrina, tra le altre cose, che come la magistratura non potrebbe dar vita a fattispecie penali di derivazione giurisprudenziale, per le stesse ragioni non potrebbe allestire criteri gerarchici che accelerino o decelerino la persecuzione dei reati, poiché così facendo le si riconoscerebbe una discrezionalità politica che non le si addice. Si tratta di un passaggio opportunamente evidenziato da Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 16 il quale continua che “non bisogna confondere i progetti semplicemente organizzativi, al cui elaborazione spetta alle procure, con i criteri di priorità che incidono sulla persecuzione dei reati, sino a comprometterla di fatto per reati collocati nella fascia inferiore”.
[23] Petrelli, Azione penale, non basta la super-circolare, Il Mattino, 26 novembre 2017.
[24] Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, p. 286.
[25] Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, cit., p. 16.
[26] “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso la corte d’appello”.
[27] Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, in Quest. giust., 2021, p. 50.
[28] Anzi, sarebbe chiara la volontà di fornire alle medesime una base normative ad hoc. Così Gialuz-Della Torre, Il progetto governativo di riforma della giustizia approda alla camera: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in Sist. pen., 2020, p. 164 ss. Questi ultimi Autori criticano la suddetta proposta, aspettandosi che si intervenisse diversamente, e cioè attribuendo ruolo centrale al Parlamento: anelavano, per questa via, che fosse “lo stesso Parlamento a rivendicare a sé la responsabilità di dettare le direttive generali in tema di criteri di priorità, le quali potrebbero poi essere specificate, tenuto conto delle peculiarità territoriali, a livello di procure. È evidente la difficoltà di tale prospettiva, ma sarebbe certamente più rispettosa dell’architettura costituzionale. Ove una tale strada non sia considerata politicamente percorribile, quantomeno è auspicabile che venga chiarito in modo esplicito nel testo della legge delega, per come oggi configurato l’obbligo in capo alle procure della Repubblica di rispettare nella stesura dei criteri di priorità le indicazioni del Consiglio superiore della magistratura, onde assicurare così almeno una certa uniformità tra i parametri adottati a livello locale”.
[29] Si veda sul punto Rossi, I criteri di priorità tra legge cornice ed iniziativa delle procure, in Quest. giust., 2021, p. 78; Monaco, Riforma della giustizia penale e criteri di priorità nell’esercizio dell’azione, in Federalismi.it, 2022.
[30] Rossi, I criteri di priorità tra legge cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 76 ss.
[31] Giarda-Spangher, Art. 3-bis – Priorità nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale, in Codice di procedura penale commentato, Wolters Kluwer, 2023, tomo IV, p. 3152 ss.
[32] Catalano, La lunga marcia dei criteri di priorità, cit., p. 59.
[33] Tarli Barbieri, Stato di diritto e funzione requirente in Italia: un unicum europeo?, cit., p. 50.
[34] Maffeo, I criteri di priorità tra legge e scelte organizzative degli uffici inquirenti, cit., p. 61 ss.
[35] Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice e iniziativa delle procure, cit., p. 78.
[36] Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. AC 2435, 24 maggio 2021, p. 20, consultabile presso https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LATTANZI_relazione_finale_24mag21.pdf.
[37] Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, in Proc. pen. e giust., 2021, p. 1401 ss.
[38]Ancora Ferrua, I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Verso quale modello processuale?, cit., p. 1043 il quale si pronuncia positivamente circa le scelte della Commissione Lattanzi poiché “alle procure ben può essere offerta la possibilità di intervenire in funzione consultiva nel procedimento legislativo, fornendo dati sul carico penale e sulle risorse disponibili, avanzando proposte e suggerimenti. I pubblici ministeri continueranno inoltre a godere di una notevole discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, perché i criteri saranno necessariamente fissati con direttive generali, presumibilmente per categorie di reati in base all’interesse leso; all’interno delle quali saranno sempre gli uffici giudiziari ad individuare reati cui applicare le priorità”.
[39] Rossi, I criteri di priorità tra cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 79. E ancora, Vicoli, Scelte del pubblico ministero nella trattazione delle notizie di reato e art. 112 Cost.: un tentativo di razionalizzazione, cit., p. 287 ss. L’Autore infatti evidenzia come la risoluzione sia strettamente connessa alla funzione di indirizzo politico e dunque volta ad arricchire il rapporto Camera-Governo; parimenti per l’ordine del giorno, laddove se ne valorizzi la natura di atto di indirizzo, essendo rivolto prioritariamente all’Esecutivo. In definitiva, si tratta di atti che pur potendo essere adottati per specifici scopi, afferiscono al legame fiduciario tra Parlamento e Governo, controllando il primo che l’attività del secondo sua conforme al programma stilato al momento della fiducia. Anzi, si dice, l’inattitudine degli atti de quibus ad assurgere a strumenti per la definizione delle priorità dovrebbe già dedursi dalle loro caratteristiche strutturali, assumendo spesso il carattere dell’accessorietà.
[40] Legge 27 settembre 2021, n. 134 contenente “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.
[41] Si espressero in questo senso già risalenti voci dottrinali, tra cui Illuminati, Come adattare la “domanda” all’“offerta” di giustizia, in La ragionevole durata del processo; garanzie ed efficienza della giustizia penale, Giappichelli, 2005, p. 92 ss.
[42] Opzione, conviene ricordarlo, avente un duplice pregio: non solo limita i problemi di eguaglianza, ma rende controllabili dalla Corte Costituzionale le scelte prioritarie.
[43] Queste le parole di Caprioli, I criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tra “Delega Cartabia” e legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Cass. pen., 2024, p. 1427 ss.
[44] “Attuazione della legge 27 settembre, n. 134. Recante al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione die procedimenti giudiziari”.
[45] Più nello specifico, l’art. 13 ha direttamente sostituito i commi 6 e 7 dell’art. 1 del d. lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in materia di organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero: si prevede ora che il progetto organizzativo dell’ufficio inquirente, predisposto dal procuratore della Repubblica, contenga criteri di priorità finalizzati alla selezione delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento, “tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale, e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziari disponibili”.
[46] “Relazione illustrative al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, p. 253, consultabile in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/10/19/22A06018/sg.
[47] Queste le parole di Marzaduri, durante la sua audizione informale sul d.d.l. S-933 (Disposizioni in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale) in 2a Commissione (Giustizia), martedì 16 gennaio 2024. Si ascolti il suo intervento in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244509.
[48] Caprioli, I criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato tra “Delega Cartabia” e legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, cit., p. 1427 ss.
[49] Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre, n. 134, in Quest. giust., 2021, p. 94.
[50] A favore di questa soluzione è Rossi, I “criteri di priorità” tra legge cornice ed iniziativa delle procure, cit., p. 80.
[51] Si legga la Delibera del 3 maggio 2023 consultabile presso il sito del Consiglio Superiore della Magistratura.
[52] Si legga la Relazione introduttiva del presente disegno di legge, consultabile in https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01394143.pdf.
[53] Così il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, il Dott. Santalucia, intervenuto in videoconferenza in 2a Commissione (Giustizia) sul d.d.l. S-933 (Disposizioni in materia di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale), martedì 30 gennaio 2024. Si ascolti il suo intervento in https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244677. Prima ancora anche il Prof. Gialuz, secondo cui tale proposta rappresenterebbe un passo indietro rispetto ai risultati conquistati con la l. 134/202, innestandosi sul modello statico che prevede la definizione delle priorità direttamente da parte del Parlamento, e di cui già v’è traccia nel nostro ordinamento, stante la disposizione di cui all’art. 132-bis disp. att. c.p.p, https://webtv.senato.it/4621?video_evento=244509.
[54] Ancora, Marzaduri, cit.
[55] Criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale: l'audizione di UCPI, 30 gennaio 2024, https://www.camerepenali.it/cat/12286/criteri_di_priorità_nellesercizio_dellazione_penale_laudizione_di_ucpi.html.
[56] Circolare sull’organizzazione degli Uffici di Procura (Delibera del Pelunum in data 16.11.2017, così come modificata alla data del 16.6.2022), www.csm.it, p. 2.
[57] Criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale: l'audizione di UCPI, cit., p. 2.
[58] Conviene ricordare che l’art. 4 del d.d.l. S-933 intende ampliare notevolmente il catalogo della norma qui in commento inserendovi la lett. a)-quater (processi relativi ai delitti di cui agli articoli 558-bis, 583-quater, e 612-ter del codice penale).
Immagine: William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844, olio su tela, cm 91×122, National Gallery, Londra.
In tema di decreto legge 92 del 4 luglio 2024 “Carcere Sicuro” si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024, e Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario di Fabio Gianfilippi, pubblicato il 10 luglio 2024.
Osservazioni sugli interventi in materia di Liberazione anticipata e misure in materia penitenziaria di cui al Decreto legge n. 92 del 4 luglio 2024. Audizione presso la Commissione Giustizia del Senato in materia di D.L. 92 del 2024, 10 luglio 2024.
di Maria Cristina Ornano
Il Decreto legge n. 92 del 4.7.2024 introduce alcune importanti novità in materia penitenziaria, in relazione alle quali una prima lettura critica suggerisce le osservazioni di seguito esposte.
Art.1 Assunzione di personale
L’art. 1 del Decreto prevede l’assunzione di mille operatori di Polizia penitenziaria da farsi in due scaglioni di 500 unità ciascuno tra il 2025 ed il 2026. Si tratta di un intervento apprezzabile e, tuttavia, non sufficiente, né adeguato. Non sufficiente, ove si considerino le scoperture degli organici del personale di Polizia penitenziaria e i tempi effettivi dell’immissione in ruolo, che ragionevolmente non potrà avvenire per il primo scaglione prima del 2027 nonostante il previsto periodo di formazione ridotto rispetto all’ordinario, previsione, questa, che preoccupa data la delicatezza dei compiti assegnati agli operatori di Polizia Penitenziaria.
Non adeguato, perché ripropone un’idea di sicurezza del carcere affidata al solo controllo ed alla vigilanza, trascurando del tutto il profilo trattamentale: il decreto, infatti, non prevede nuove assunzioni di funzionari giuridico pedagogici, psicologi e mediatori culturali. Figure tutte indispensabili per il trattamento e la rieducazione e, con essi, per la stessa sicurezza all’interno degli istituti di pena, la quale, all’evidenza deve fondarsi, anzitutto, sull’osservanza del patto trattamentale che proprio le figure richiamate sono istituzionalmente chiamate a stimolare.
Art. 5 Interventi in materia di liberazione anticipata
Entrando nel vivo della riforma, apprendiamo dalle premesse del decreto che l’obiettivo perseguito con l’intervento riformatore è, tra gli altri, quello della semplificazione delle procedure e dell’accesso ai benefici penitenziari.
Tuttavia, l’esame dell’articolato conduce a ritenere che l’effetto che si produrrà, al netto dell’eliminazione di qualche onere procedurale di scarso impatto, sarà assai diverso: appesantimento della procedura, tempi di definizione più lunghi e un aggravio dei carichi di lavoro dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianze, mentre è facile prevedere che non ci sarà il pur auspicato ed atteso effetto di alleggerimento del sovraffollamento carcerario.
In dettaglio:
A) L’art. 5 comma 1: Obbligo di indicazione del fine pena “virtuale” nell’ordine di esecuzione
Con il comma 1 dell’art. 5 si novella l’art. 656 c.p.p. con l’introduzione del comma 10 bis, con il quale si gravano le Procure dell’obbligo di indicare nell’ordine di esecuzione, accanto al fine pena effettivo, quello figurativo o virtuale, ossia quello derivante dal calcolo delle detrazioni di pena che sarebbero applicate in caso di regolare condotta inframuraria e di partecipazione alla proposta rieducativa. A fronte di una informazione che appare di scarsa utilità pratica per i detenuti ai quali è già oggi ben chiara la possibilità di conseguire uno sconto di pena in caso di comportamento esente da rilievi disciplinari, le Procure saranno onerate di un calcolo che dovrà farsi, per così dire, manualmente, perché il sistema informatico non fa questo genere di elaborazioni, le quali possono presentare in concreto profili problematici, in caso, ad esempio, di plurimi titoli e di periodi di “presofferto”; è facile che si possa incorrere in errori e v’è il rischio che, paradossalmente, si possano ingenerare equivoci negli operatori e negli interessati.
Quindi un adempimento che finisce inutilmente col creare un nuovo onere, non irrilevante, su Procure che già oggi faticano ad emettere tempestivamente gli ordini di esecuzione, senza un reale vantaggio per alcuno.
Nulla, poi, dovrebbe essere previsto per i detenuti in espiazione dell’ergastolo, non essendo rispetto agli stessi ipotizzabile una riduzione di pena “virtuale”.
B) L’art.5 comma 2: La nuova liberazione anticipata
L’art. 5 comma 2 elimina l’obbligo di comunicazione delle liberazioni anticipate concesse d’ufficio. La previsione, volta a sgravare le Sorveglianze di un adempimento di cancelleria, pone due ordini di problemi. Anzitutto, non considera che in tal modo le Procure non sono poste in condizioni di conoscere il provvedimento concessorio e di esercitare tempestivamente la facoltà di reclamo, che non è stata abrogata. Ove confermata in questi termini, la disposizione presenta profili critici, anche di legittimità costituzionale. In secondo luogo, essa pare in insanabile contrasto con la previsione di cui al comma 4 del nuovo art. 69 bis O.P. a mente del quale: “Il provvedimento che concede o nega il riconoscimento del beneficio… è comunicato o notificato senza ritardo ai soggetti indicati nell’art. 127 del codice di procedura penale…”.
Si tratta di una evidente contraddizione che si auspica venga emendata in sede di conversione.
C) L’art. 5 commi 3 e ss.: la nuova procedura di Liberazione anticipata
La nuova disciplina della Liberazione anticipata presenta molteplici profili problematici sia sul piano tecnico giuridico, sia della semplificazione dell’accesso ai benefici che la riforma afferma di voler realizzare.
La disciplina antecedente alla riforma prevedeva una procedura che attivabile solo su istanza di parte fin dal maturare del primo semestre utile. Un meccanismo siffatto ha diversi vantaggi:
-per il detenuto, il quale ha modo di veder concretamente maturare le detrazioni di pena da scontare nel progredire del suo percorso detentivo e, nel contempo, di comprendere, in caso di rigetto, come deve modificare il suo comportamento se vuole accedere al beneficio.
La liberazione anticipata, infatti, non è finalizzata solo alla determinazione della pena finale da scontare in funzione della scarcerazione definitiva o della maturazione del quantum di pena per l’accesso a certi benefici ove richiesto, ma da un lato, come chiarito dalla Corte costituzionale, assolve anche alla finalità della rieducazione, dall’altra favorisce l’osservanza di comportamenti inframurari corretti; essa rassicura il detenuto perché gli fornisce una prospettiva concreta e periodicamente aggiornata rispetto al suo fine pena, e, in tal modo aiuta a stemperare le tensioni che la carcerazione produce; ciò che giova anche alla sicurezza ed alla qualità della vita all’interno degli istituti di pena.
- Per gli uffici la progressiva e tempestiva maturazione delle liberazioni anticipate, semplifica la loro gestione e assicura la determinazione di un fine pena certo, utile non solo ai fini di evitare ritardi nelle scarcerazioni, ma anche ai fini della decisione dell’istanza di misura alternativa o altri benefici premiali.
I problemi attuali della gestione delle Liberazioni anticipate sono legati al numero dei procedimenti pendenti, oggi elevatissimo, e alla dilatazione dei tempi dell’istruttoria quando il detenuto attende periodi lunghi per richiedere la Liberazione anticipata. Il cumulo dei semestri, infatti, complica molto e allunga l’istruttoria per la necessità di chiedere a tanti istituti di pena le relazioni comportamentali e gli atti relativi ai procedimenti disciplinari necessari per la decisione; questi atti non sono disponibili nelle banche dati accessibili al Magistrato, che ha a sua disposizione il solo elenco delle sanzioni disciplinari inflitte, ma devono essere richieste a ciascun carcere, perché ciascun istituto ha gli atti relativi ai periodi che il detenuto ha trascorso in esso, ma non anche quelli delle altre carceri.
Il problema attuale della gestione è però la conseguenza del numero ridotto dei Magistrati di Sorveglianza dovuto al sottodimensionamento degli organici e della cronica carenza di personale nei Tribunali e Uffici di Sorveglianza, costantemente scoperti e financo esclusi dalle risorse del P.n.r.r. per la Giustizia.
Il decreto legge innova profondamente l’impianto procedurale, prevedendo come ipotesi ordinaria la concessione della Liberazione anticipata ex officio, ma collegata a predeterminati snodi processuali (istanza di misura alternativa o di altro beneficio e scarcerazione definitiva), e su istanza di parte solo residualmente, in presenza di uno specifico interesse che il detenuto dovrà allegare ai fini dell’ammissibilità dell’istanza.
La prima ipotesi di concessione ex officio (medio tempore) è delineata al comma 1 del nuovo 69 bis O.P.) il quale prevede che, allorquando sia formulata richiesta di misura alternativa o di altro beneficio, il Magistrato accerta la sussistenza dei presupposti per la liberazione anticipata in relazione ad ogni semestre antecedente, ove rilevante.
In questo caso l’istanza può essere presentata solo a decorrere dal termine di novanta giorni antecedenti al maturare dei presupposti per l’accesso alla misura alternativa alla detenzione o altri benefici premiali, termine individuato applicando “virtualmente” le detrazioni di pena di cui il detenuto beneficerebbe ove gli venissero concesse le detrazioni di pena relative ai semestri di pena fino a quel momento espiata.
La seconda ipotesi di concessione ex officio (finale) è quella prevista al comma 2 del nuovo art. 69 bis O.P., il quale prevede che il Magistrato nei novanta giorni antecedenti al fine pena virtuale (ossia determinato considerando le possibili detrazioni in caso di concessione della liberazione anticipata relativa ai semestri non ancora valutati), accerta la sussistenza dei presupposti per la concessione della liberazione anticipata, e ciò all’evidenza in funzione di stabilire se sia maturato il tempo della scarcerazione definitiva.
La terza ipotesi (su istanza) è meramente residuale. L’interessato, infatti, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 69 bis O.P. potrà richiedere la concessione di L.A. solo quando vi abbia uno specifico interesse, diverso dai casi in cui il magistrato deve accertare la L.A. d’ufficio, pena l’inammissibilità.
In tal modo, tuttavia, collegando l’accertamento della Liberazione anticipata ad alcuni predeterminati momenti processuali, si crea proprio quell’effetto di cumulo di semestri da valutare che allunga e complica i tempi di istruttoria. Non potendo il detenuto formulare l’istanza se non in casi del tutto residuali e, peraltro, di difficile individuazione, ed essendo il Magistrato tenuto a fare l’accertamento solo in alcuni momenti processuali, questi, di regola, si troverà ad accertare la Liberazione anticipata in relazione a molti semestri e, quindi, la relativa istruttoria sarà di regola sempre complessa e richiederà tempi lunghi.
La circostanza che nell’ipotesi di accertamento medio tempore o incidentale, ossia connesso alla richiesta di misura alternativa o di un beneficio, incomba sul Direttore dell’istituto nel quale il detenuto richiedente è ristretto, l’onere di trasmettere gli atti istruttori, ciò non vale certo a sveltire l’istruttoria; il Direttore, infatti, ha le sole relazioni e gli atti disciplinari relativi ai periodi trascorsi dal detenuto nel suo istituto, ma non anche quelli relativi alla condotta inframuraria dei periodi trascorsi nelle altre carceri e, perciò, dovrà mandare la richiesta di informazione e trasmissione degli atti agli altri istituti e poi fornirli al Magistrato. E poiché il trasferimento del detenuto nel corso della sua carcerazione in diversi istituti è situazione assai frequente, ben si comprende come più numerosi sono i semestri da valutare, più si complica l’istruttoria e si allunga il tempo di definizione del procedimento.
E, analogamente, ciò accadrà quando il Magistrato dovrà procedere d’ufficio nel caso del comma 2 art. 69 bis O.P., ossia in funzione della scarcerazione definitiva, ovvero, quando deve decidere sull’ istanza dell’interessato nell’ipotesi residuale sopra delineata.
Ma v’è di più. La nuova disciplina delineata al comma 1 dell’art. 69 bis O.P. (medio tempore) non solo finisce col dilatare i tempi di istruttoria della Liberazione anticipata, ma incide, aggravandola, sull’istruttoria della misura alternativa o sulla concessione di un beneficio penitenziario. Tali procedimenti, infatti, prima della riforma erano del tutto autonomi dalla liberazione anticipata, in virtù del fatto che il detenuto poteva formulare periodicamente, parallelamente al progredire del suo percorso detentivo, la richiesta di concessione del beneficio, sicché il fine pena era generalmente aggiornato al dato effettivo risultante dalle detrazioni per le L.A. effettivamente concesse. E, in casi in cui al momento di valutazione di una misura alternativa o di un beneficio penitenziario vi fossero istanze di liberazione anticipata pendenti il cui esito fosse rilevante ai fini della determinazione del quantum di pena, nulla vietava all’interessato di segnalarlo all’ufficio ed a quest’ultimo di trattare l’istanza con priorità.
La riforma collega ora l’accertamento ex officio “medio tempore” alla istanza di misura alternativa o di beneficio; nel caso in cui la competenza sulla richiesta di misura alternativa sia del Tribunale di Sorveglianza, l’accertamento della L.A. resta tuttavia del magistrato; comunque si voglia costruire questa sequenza procedimentale (bifasica/incidentale/autonoma), vi sarà comunque la necessità di iscrivere un nuovo procedimento monocratico, all’ esaurimento del quale potrà essere decisa la misura alternativa. E poiché questo rappresenta la regola, tale sequenza “bifasica” sarà l’ipotesi più frequente, con conseguente ulteriore aggravio della procedura.
Problematica appare poi la nuova Liberazione anticipata in caso di procedure di misura alternativa di competenza del Magistrato di Sorveglianza, ossia in caso di esecuzione della pena presso il domicilio di cui alla legge n. 199/2010 per soggetti detenuti che debbano espiare pene inferiori ai diciotto mesi e in caso di richiesta di applicazione in via provvisoria della misura alternativa. Orbene, non è chiaro se in questi casi il Magistrato , investito della richiesta, debba preventivamente accertare la Liberazione anticipata rilevante; in caso affermativo, ci si troverebbe dinanzi ad una contraddizione del sistema, trattandosi di procedure nate per essere concesse con rapidità e, nel caso della provvisoria, sul presupposto dell’urgenza, situazioni entrambe non compatibili con l’ appesantimento e le lungaggini che possono scaturire dall’istruttoria per la valutazione della nuova Liberazione anticipata.
Si può, quindi, con ragione concludere che la nuova disciplina delineata al comma 1 dell’art. 69 bis O.P., ossia quella che interviene medio tempore, non solo finisce col dilatare i tempi di istruttoria della Liberazione anticipata, ma incide, aggravandola, sull’ istruttoria della misura alternativa o sulla concessione di un beneficio penitenziario, giacché la decisione sull’istanza di misura alternativa o su altro beneficio richiede il preventivo accertamento, ove rilevante, di una liberazione anticipata con una istruttoria ora di regola più complessa del passato, quando il fine pena era generalmente aggiornato al dato effettivo risultante dalle detrazioni per le L.A. effettivamente concesse.
V’è, inoltre, il rischio di accertamenti sulla Liberazione anticipata che si traducono in un inutile istruttoria della procedura per la concessione di misure alternative ed altri benefici, perché con la riforma, mancando il costante aggiornamento del fine pena “reale”, l’istanza potrà essere formulata anche da soggetti i quali, pur non avendo ancora raggiunto il quantum di pena effettiva, alleghino tuttavia che con gli sconti di pena della Liberazione anticipata avrebbero il requisito temporale : salvo poi scoprire ad esito di una laboriosa istruttoria che la Liberazione anticipata non può essere concessa per uno o più semestri e che l’istanza di misura alternativa o di altri benefici, alla cui istruttoria si è doverosamente dato corso, è inammissibile. Istruttorie inutili, quindi, che appesantiscono senza motivo i carichi di lavoro delle Sorveglianze.
La seconda ipotesi di concessione ex officio (finale) presenta profili di grave criticità, specie alle luce delle condizioni in cui versano i Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza e desta grande preoccupazione in quanto il meccanismo messo in atto potrebbe addirittura favorire ritardate scarcerazioni.
Il comma 2 dell’art. 69 bis O.P. statuisce che entro novanta giorni dalla scadenza del fine pena “virtuale” (ossia quello figurato derivante dall’astratta detrazione dei periodi di liberazione anticipata non ancora valutati), il Magistrato deve valutare i presupposti per la concessione della Liberazione anticipata in relazione ai semestri non ancora valutati.
Si pone qui un problema analogo a quello posto dall’altra ipotesi di accertamento d’ufficio (medio tempore)di cui al comma 1 dell’art. 69 bis O.p., ossia che, essendo ora la Liberazione anticipata d’ufficio concentrata in due soli snodi processuali, si crea quell’effetto di cumulo dei semestri in valutazione che renderà difficilmente osservabile il termine dei novanta giorni per l’espletamento dell’attività istruttoria e la concessione in tempo utile ad evitare scarcerazioni fuori termine.
Ma soprattutto la norma ragiona come se il sistema informatico a disposizione del Magistrato fosse strutturato per tenere uno scadenziario che consenta di monitorare e aggiornare per ogni detenuto il suo fine pena virtuale: ciò che non è, sicché lo scadenziario andrebbe redatto attraverso un laboriosissimo calcolo manuale per ogni persona detenuta.
Si tratta di un adempimento che i Tribunali e gli Uffici di Sorveglianza non sono in grado di sostenere con le risorse attuali.
V’è poi il serissimo rischio di ritardi legati all’istruttoria, ritardi legati ad un’organizzazione dell’esecuzione penale che sconta una scarsissima informatizzazione (si pensi che i registri informatici a distanza di oltre un anno e mezzo dall’entrata in vigore della riforma Cartabia non sono aggiornati per l’annotazione delle pene sostitutive, non esiste fascicolo informatico e il processo è ancora tutto cartaceo) e carenze croniche di personale.
Il nuovo sistema costruisce un meccanismo farraginoso, che rischia di essere confusivo e di ingenerare incertezza su un punto su cui occorre certezza e che occorre costantemente monitorare: ossia l’effettivo ed aggiornato fine pena, in assenza del quale il rischio di ritardi nelle scarcerazioni è elevatissimo.
L’ ipotesi residuale, ossia su istanza di parte di cui al comma 3 dell’art. 69 bis O.P., sanziona a pena di inammissibilità la richiesta di concessione di Liberazione anticipata non motivata da uno specifico interesse. È difficile immaginare quale interesse diverso da quelli sottesi alla procedura ex officio possano configurarsi, sicché l’ipotesi è realmente residuale.
Nondimeno, è ragionevole prevedere che essa darà luogo a molte inammissibilità, perché i detenuti possono comunque presentare la richiesta di un beneficio, salvo poi vedersela dichiarare inammissibile.
Già oggi le ipotesi di inammissibilità rappresentano una parte non insignificante delle procedure iscritte e costituiscono un costo “secco” per tutto il sistema : per il detenuto che vede frustrata la sua aspettativa, per i Tribunali e gli uffici che devono comunque iscrivere, inviare per il parere al Procuratore generale, fare il decreto di inammissibilità e poi notificarlo alle parti; per le difese, alle quali in caso di ammissione al Patrocinio a spese dello Stato ove il procedimento si definisca con la declaratoria di inammissibilità non possono essere liquidati i compensi.
Il sistema delineato dalla riforma appare nel complesso fortemente peggiorativo del preesistente, non solo per gli uffici, come si è più sopra cercato di illustrare, ma anche per la persona detenuta.
Ed invero, chiunque abbia conoscenza del carcere, sa quanto sia importante per le persone detenute poter vedere la loro pena concretamente ed effettivamente ridursi per effetto del riconoscimento delle liberazioni anticipate in parallelo al progredire della loro detenzione.
Dà loro una prospettiva e alimenta una speranza di una vita futura fuori dal circuito penitenziario, aiuta a stemperare la tensione che l’ambiente carcerario inevitabilmente crea, favorisce l’adesione alla proposta rieducativa, inducendo a tenere un comportamento inframurario corretto e rispettoso delle persone e delle regole, pena la perdita del beneficio della decurtazione della pena.
Questo vale anche per coloro che devono scontare pene molto lunghe o addirittura l’ergastolo ed anzi, a maggior ragione, perché si tratta di detenuti che per molto tempo non possono adire ad altri benefici che non sia la liberazione anticipata.
Lo strumento della liberazione anticipata vigente prima del D.L.4.7.2024, ha assolto anche ad un’altra fondamentale funzione, ossia quella di contribuire al mantenimento dell’ordine e della sicurezza negli istituti di pena.
Il sistema delineato dalla riforma, ancorando la concessione del beneficio a determinati momenti processuali, priva le persone detenute della possibilità di conseguire la riduzione della pena cui possono ambire in concomitanza col maturare dei semestri, rinviando l’accertamento al maturare dei requisiti per accedere a misure alternative o a benefici, ovvero all’approssimarsi di un fine pena virtuale. E, accanto a ciò, si aumenta il rischio di incorrere in istanze inammissibili.
È facile prevedere che tutto ciò si tradurrà in un sentimento di diffusa frustrazione e di disillusione, che facilmente tracima nella tensione che alimenta la violenza dentro il carcere, della quale a farne le spese saranno gli stessi detenuti e le persone che in carcere lavorano, ad iniziare dagli operatori di Polizia penitenziaria.
Infine, è da segnalare che manca una disciplina transitoria e, stante la natura “mista” dell’istituto in parola, ciò genera (e in concreto sta già determinando) una grave incertezza sulle questioni di diritto intertemporale. Si tratta di una vistosa lacuna normativa che dovrà essere colmata in sede di conversione.
In conclusione, il sistema delineato dalla riforma, al netto dell’unico snellimento procedurale derivante dalla soppressione della previsione del parere obbligatorio del Pubblico ministero, appare sotto ogni aspetto peggiorativo del regime preesistente : penalizza i detenuti e su essi e sulla sicurezza nelle carceri rischia di avere un impatto molto negativo, dilata i tempi delle procedure istruttorie, onera gli uffici della necessità di adempimenti non sostenibili, non semplifica le procedure, non alleggerisce i carichi di lavoro delle Sorveglianze. E, soprattutto, aggrava esponenzialmente il rischio di ritardi nelle scarcerazioni.
In questo quadro, infine, appare davvero difficile che la nuova disciplina possa produrre l’effetto da tante parti auspicato di ridurre il tasso di sovraffollamento carcerario e v’è anzi il rischio che l’effetto finale prodotto dalla nuova disciplina sia quello di rendere più difficile la fuoriuscita dal circuito penitenziario.
C) L’art. 6: Interventi in materia di corrispondenza telefonica
È apprezzabile la previsione di una implementazione del numero dei colloqui telefonici e settimanali con l’equiparazione della relativa disciplina a quella di cui all’art. 37 D.P.R. n.230/2000. Tuttavia, a fronte della previsione dell’incremento, che sarà comunque futuro e condizionato all’adozione di un apposito regolamento, è indispensabile garantire l’effettività della previsione, la quale è tutt’altro che scontata, tenendo presente che già oggi la fruizione dei colloqui telefonici è penalizzata da una disciplina che impone un lavoro aggiuntivo al personale di Polizia penitenziaria per l’accompagnamento alle sale e la vigilanza; oggi la scarsità di personale rende sempre più difficile assicurare la fruizione dei colloqui telefonici nella misura prevista dalla disciplina vigente e costringe in molti casi a contenere la concessione dei colloqui aggiuntivi previsti dall’art. 39 comma 2 R.E..
Va poi segnalato che molti istituti hanno problemi di connessione e questo penalizza la concreta possibilità di svolgere i colloqui in modalità audiovisiva.
Occorrerebbe in questa materia adottare un deciso cambio di passo. La recente sentenza n.10/2024 della Corte Costituzionale, la quale ha riconosciuto come diritto fondamentale del detenuto quello all’affettività, fornisce una autorevole base per avviare una profonda rivisitazione del sistema dei colloqui, che consenta ai detenuti, con le debite esclusioni, di poter fruire di apparecchi telefonici nelle camere detentive, così da consentire di coltivare quotidianamente la relazione affettiva con i prossimi congiunti e umanizzare la carcerazione. Si tratta di esperienza già ampiamente e positivamente collaudate in altre realtà che, pure, non riservano ai loro detenuti un trattamento meno severo del nostro.
Tale soluzione porrebbe anche fine al traffico di telefonini all’interno del carcere, apparecchi detenuti abusivamente e non controllati e, questi sì, suscettibili di essere impiegati per traffici illeciti.
D) L’art. 8. Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti
La previsione di elenchi delle comunità terapeutiche e riabilitative per soggetti con dipendenze e soggetti affetti da patologie psichiatriche articolati in sezioni regionali ed il loro monitoraggio è previsione apprezzabile nella logica di una informazione aggiornata sulle risorse presenti sul territorio, come positiva è la previsione di strutture da destinare all’accoglienza di soggetti in condizione di indigenza.
Si tratta, però, di una previsione avente scarsa ricaduta pratica nella gestione dei detenuti tossicodipendenti e di quelli affetti da patologie psichiatriche, soggetti che costituiscono una parte cospicua della nostra popolazione carceraria.
I problemi che quotidianamente la Magistratura di Sorveglianza si trova ad affrontare, prima ancora della carenza delle strutture residenziali, è la mancanza di servizi all’interno del carcere, dal Ser.D al C.S.M., e la mancanza di rete tra la sanità penitenziaria ed il territorio, situazioni che rendono difficile e per alcuni detenuti impossibile la presa in carico, la strutturazione del PRTI ( programma riabilitativo terapeutico individualizzato) e la maturazione di adeguata compliance rispetto ad una offerta terapeutica che contempli l’inserimento comunitario.
Assenti in molte Regioni sono poi le A.T.S.M. - Articolazioni di tutela della salute mentale- destinate alla presa in carico di detenuti che manifestino in carcere gravi patologie psichiatriche ed all’osservazione psichiatrica, di talché i detenuti affetti da patologie psichiatriche anche quando in fase di acuzie, devono essere gestiti nelle sezioni ordinarie con un’offerta terapeutica che, quanto alla psichiatria, è sempre più scarsa, mentre pressoché assente è quella psicoterapeutica e socioassistenziale, le quali, invece, sono indispensabili per costruire dei percorsi di cura alternativi al carcere.
L’elenco delle strutture, pertanto, non risolve alcuno dei problemi esistenti e non servirà in concreto per favorire l’uscita dal circuito penitenziario di detenuti tossicodipendenti e affetti da patologie psichiatriche.
E) L’art. 7. L’esclusione dei detenuti in regime di 41 bis dai programmi di giustizia riparativa
Scarsamente comprensibile appare la ragione per la quale l’art. 7 del D.l. 92/2024 abbia inteso precludere ai soggetti ristretti in regime di cui all’art. 41 bis O.P. l’accesso ai programmi si giustizia riparativa; appare un divieto irragionevole, posto che si preclude una opportunità trattamentale che appare estremamente utile proprio per questa categoria di soggetti, per la cui rieducazione occorre fare un profondo lavoro di stimolo alla riflessione e all’introspezione per favorire processi di revisione critica, quali anche i programmi di giustizia riparativa possono favorire.
Per la sua irragionevolezza la norma presenta profili di criticità costituzionale, sicché è auspicabile che l’esclusione sia eliminata in sede di conversione
F) L’art. 10. La riforma in materia di procedure semplificate
La riforma è apprezzabile, realizzando per questo tipo di procedura l’auspicata semplificazione e snellimento.
Va comunque segnalato che queste procedure riguardano esclusivamente i condannati liberi e non i detenuti, sui quali quindi la novità introdotta non ha alcun effetto. La mancanza di norme di diritto transitorio porrà anche in questo caso problemi interpretativi, con il rischio di orientamenti difformi tra gli uffici.
Proposte di emendamenti e integrazioni
A) Sulla liberazione anticipata
1) L’idea di fondo della riforma, ossia di una liberazione anticipata concessa d’ufficio, appare senz’altro apprezzabile e andrebbe confermata, ma con alcuni importanti aggiustamenti della disciplina.
A) Una prima ipotesi potrebbe essere quella di prevedere che in caso di regolare condotta inframuraria al maturare di uno o più semestri (auspicabilmente non oltre i due), il Direttore dell’istituto trasmetta al Magistrato di Sorveglianza la relazione comportamentale positiva (ossia che attesti l’assenza di condotte di rilievo disciplinare), a seguito della quale l’Ufficio giudiziario provvede con immediatezza concedendo il beneficio.
Si dovrebbe a questo punto riservare all’istanza di parte solo l’accertamento dei semestri non concessi, eventualmente collegando la proposizione della istanza all’indicazione di un interesse specifico; in questi casi il detenuto, che conosce i fatti di rilievo disciplinare che sono stati di ostacolo al riconoscimento del beneficio, valuterà l’opportunità di fare richiesta di L.A. anche per tali semestri; è probabile che in molti casi lo stesso detenuto rinunci, consapevole che il beneficio non sarà concesso a cagione del comportamento gravemente irregolare tenuto.
B) Una ipotesi alternativa potrebbe essere quella per cui, mantenendo fermo il regime ex officio previsto dalla riforma, si reintroduca la Liberazione anticipata su istanza di parte, senza preclusioni; il doppio regime consentirebbe di recuperare i vantaggi del sistema previgente (fine pena reale costantemente aggiornato grazie alle richieste di parte e semplificazione della procedura) e avrebbe in più la garanzia della sua applicazione quando, per i più diversi motivi, l’interessato, pur meritevole, non abbia richiesto l’applicazione del beneficio.
In tutti i casi, occorre essere consapevoli che qualunque sia la scelta in sede di conversione, in mancanza di implementazione del personale addetto alle liberazioni anticipate, l’arretrato già cospicuo si aggraverà, con tutte le conseguenze illustrate del rischio di scarcerazioni tardive.
Sarebbe sufficiente assegnare agli Uffici qualche unità aggiuntiva del personale di Polizia Penitenziaria, magari attingendo dal personale femminile del corpo che non può essere impiegato nelle sezioni maschili, per consentire agli uffici di abbattere l’arretrato e lavorare sul corrente.
In alternativa, occorrerebbe in via d’urgenza disporre l’obbligo di applicazione di personale dell’amministrazione giudiziaria da altri uffici i quali in questi anni si sono giovati, a differenza delle Sorveglianze, degli addetti all’Ufficio per il Processo.
2) Comunicazioni delle Liberazioni anticipate concesse
Occorre eliminare la contraddizione presente nel testo, prevedendo che anche le L.A. concesse ex officiovadano comunicate, specie alle Procure, ciò sia ai fini dell’eventuale reclamo, sia soprattutto, ai fini dell’aggiornamento del fine pena.
3) Disciplina transitoria
Manca del tutto una previsione sul regime intertemporale, la quale è, invece, indispensabile, pena il caos negli uffici e difformità di orientamenti tra gli uffici nell’interpretazione del regime applicabile, tenendo presente delle centinaia di migliaia di istanze tuttora pendenti.
4) Sulle strutture terapeutiche
È indispensabile prevedere l’obbligatoria costituzione dentro gli istituti penitenziari di adeguati presidi sanitari per i tossicodipendenti e i malati psichiatrici, quali il Ser.D e il C.S.M. con la previsione del necessario raccordo con il territorio, indispensabile per la costruzione di programmi terapeutico riabilitativi credibili e sostenibili dal detenuto.
5) Sul 41 bis O.P.
Occorrerebbe eliminare l’esclusione dei soggetti detenuti in regime di cui all’art. 41 bis O.P. dai programmi di giustizia riparativa, così evitando il rischio di recepire una norma di dubbia legittimità costituzionale.
Proposte integrative finalizzate a favorire l’alleggerimento del sovraffollamento carcerario
L’intervento riformatore sulla liberazione anticipata non avrà e non potrà favorire l’alleggerimento del sovraffollamento carcerario, ma, al contrario, potrebbe finire col rallentare la uscita dal circuito penitenziario anche da parte di chi abbia espiato la sua pena.
Un intervento semplice e che potrebbe introdursi in sede di conversione è quello che preveda l’elevazione del limite di pena entro il quale è possibile concedere la detenzione domiciliare ordinaria, portandolo dai due anni attuali ai quattro anni.
Ciò consentirebbe di ampliare la platea dei soggetti detenuti che potrebbero ambire alla misura alternativa alla detenzione, peraltro in una situazione di maggior sicurezza perché sottoposti a più stringenti limitazioni e controlli, ed ai quali potrebbe anche, nei casi necessari, applicare anche speciali modalità di controllo con il cosiddetto “braccialetto elettronico”.
La procedura per la concessione della detenzione domiciliare è, peraltro, più rapida e semplice di quella volta alla concessione dell’affidamento in prova, sicché un tale riforma potrebbe avere un effetto immediato sul sovraffollamento carcerario.
I dubbi di legittimità costituzionale di una tale soluzione non paiono fondati, maggiormente dopo l’entrata in vigore della nuova penalità introdotta con la riforma Cartabi.
Quest’ultima, infatti, ha previsto la possibilità, ad esito del giudizio, della concessione della detenzione domiciliare sostitutiva quando la pena irrogata sia inferiore ai quattro anni. Omologare il limite di pena anche per la corrispondete misura alternativa non solo servirebbe a restituire razionalità al sistema, ma lo renderebbe più equo consentendo a tutti quei soggetti che per la loro pericolosità sociale o per la mancanza di un valido programma non possono ambire alla misura alternativa, di adire alla più rigorosa misura alternativa della detenzione domiciliare, magari con la previsione di poter dopo la metà della pena espiata in D.D. fare istanza di misura alternativa.
Un meccanismo così congegnato consentirebbe anche un più penetrante monitoraggio del detenuto domiciliare e di testarne l’affidabilità in funzione dell’ammissione a misure più ampie secondo un criterio di gradualità o, viceversa, di constatarne l’inaffidabilità.
Gli interventi della Corte costituzionale sulla detenzione domiciliare non ostano ad una eventuale modifica normativa ove rivolta, come qui si propone, ad ampliare la platea degli aspiranti alla misura quale alternativa alla detenzione in carcere e ad una riscrittura della stessa nel nuovo quadro delineato dalla riforma Cartabia.
Immagine: Interior View of the Main Hall of Prison, East Side, which is 6 Stories High, and Contains 600 Cells, 1860/69. Albumen print, stereocard, no. 4318 from the series " Sing Sing Prison Views".
Sul rapporto tra magistratura e i social network si veda anche Limiti alla comunicazione social extraistituzionale del magistrato ordinario di Luigi Salvato e I magistrati nell’era dei social tra libertà di espressione ed esigenze d’imparzialità di Francesco Dal Canto.
Social network, libertà di espressione e lavoro[1]
di Patrizia Tullini
Sommario: 1. Premessa – 2. L’uso dei social network nel lavoro privato, il diritto di critica e la logica precauzionale. – 3. Social e lavoro pubblico: dal Codice di comportamento del dipendente pubblico alla Social media policy. – 4. La prospettiva deontologica per il lavoro pubblico non privatizzato.
1. Premessa.
La prospettiva del giurista del lavoro considera l’uso dei canali di comunicazione social da parte dei lavoratori e la circolazione delle informazioni tramite web alla luce dell’assetto normativo e della strumentazione giuridica che, sebbene in termini tutt’altro che sistematici e strutturati, ormai da tempo tenta d’individuare un punto di equilibrio e di mediazione tra i molteplici interessi in potenziale conflitto.
Il quadro normativo, infatti, deve fare i conti con un delicato bilanciamento fra diritti fondamentali e fra interessi meritevoli di tutela: si confrontano, da un lato, i diritti individuali alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, alla difesa della vita privata, alla tutela dell’identità personale e professionale; dall’altro lato, i diritti all’esplicazione della personalità e alla libera manifestazione del pensiero, incluso il diritto di critica, attraverso tutti i mezzi tecnologici disponibili. Al contempo, rilevano il potente diritto alla trasparenza e quello all’informazione (nel duplice versante dell’interesse a informare e ad essere informati), che trova nella rete Internet il proprio mezzo e il proprio fine ([2]). E, non da ultimo, i legittimi interessi delle organizzazioni pubbliche e private alla tutela del prestigio e della propria immagine, alla garanzia di riserbo da parte del dipendente sulle notizie apprese nell’ambiente lavorativo o per ragioni di servizio.
Questa complessa operazione di bilanciamento – che deve svolgersi «in ossequio al criterio di proporzionalità» (Considerando 4, GDPR) – si atteggia in forme e modi differenti nell’ambito del lavoro privato e in quello pubblico, nonché nell’area più articolata del lavoro pubblico c.d. non privatizzato (che forse è quella più vicina alla magistratura).
Dunque, sebbene l’habitat tecnologico risulti pressoché identico e l’uso di mezzi di comunicazione digitale presenti problematiche comuni nel mondo del lavoro, occorre tuttavia introdurre qualche essenziale distinguo.
2. L’uso dei social network nel lavoro privato, il diritto di critica e la logica precauzionale.
Nel settore privato, l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori sancisce il diritto alla libera manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro «nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge». Si ribadisce così la copertura costituzionale del diritto fondamentale di libertà, ma si stabiliscono anche dei limiti rintracciabili nella disciplina ordinaria.
E, fra questi ultimi, entra in gioco una norma codicistica (art. 2105 c.c.) che prevede l’obbligo di fedeltà derivante dalla condizione di subordinazione giuridica: un obbligo interpretato dalla giurisprudenza in termini abbastanza ampi, così da individuare alcune limitazioni rispetto all’esercizio del diritto di critica da parte del dipendente ([3]). Applicando i criteri giuridici già estrapolati dalla giurisprudenza penale in relazione alla critica giornalistica (spec. oggettività, continenza formale e sostanziale), s’intendono tutelare l’onore della persona del datore di lavoro, oltre che l’immagine e la reputazione commerciale dell’impresa.
Si tratta peraltro di limiti elaborati per i media tradizionali, mentre i social network rappresentano canali di comunicazione soggettiva, raramente oggettiva, se non addirittura di natura emotiva. La comunicazione digitale rimbalza e si ricondiziona con altri mezzi di circolazione delle informazioni in uno scambio reciproco, privo di un reale controllo. Il flusso continuo dei dati attraverso la pluralità dei canali web accresce in modo esponenziale la fruibilità pubblica delle informazioni e il rischio di una loro appropriazione da parte di altri, tenuto conto della difficoltà di verificare le operazioni di trattamento che si svolgono nello spazio della rete e di applicare i criteri di regolazione già fissati dal GDPR.
Ciò suggerisce di valorizzare soprattutto la logica precauzionale, che si esprime attraverso l’adozione di accorgimenti preventivi e di dispositivi tecnologici in grado d’impedire o ridurre l’acquisizione e l’utilizzo incontrollato delle informazioni immesse in rete (ad es., filtri e restrizioni all’accesso a pagine web personali). In forza d’un criterio di auto-responsabilità, il titolare delle informazioni può esprimere il proprio potere di autodeterminazione e manifestare liberamente le proprie opinioni consegnandole alla rete ma, al contempo, assume l’impegno di minimizzare il rischio della loro estrazione da parte di altri e di un utilizzo improprio o abusivo.
A questa logica di carattere precauzionale aderisce la giurisprudenza sovranazionale ([4]), nonché quella interna che ammette il diritto del lavoratore di esprimere di commenti ed espressioni critiche nei confronti del datore di lavoro purché siano applicate specifiche cautele per evitare la loro circolazione incontrollata (ad es., mailing list chiusa, newsgroup e chat riservate). In tal modo, si equipara la comunicazione telematica “chiusa” alla corrispondenza privata, che ha una piena tutela costituzionale (e penale).
In verità il carattere “chiuso” può circoscrivere o restringere la platea dei destinatari delle informazioni ma non riesce a privatizzare davvero il profilo social: tuttavia, in questa ipotesi, si ritiene operante una (sorta di) presunzione di riservatezza della comunicazione digitale. Si ritiene, cioè, che sussista un (implicito) interesse «contrario alla divulgazione anche colposa» dell’informazione o della critica, che consente di esonerare il lavoratore dalla propria responsabilità disciplinare escludendo l’elemento soggettivo della condotta ([5]).
3. Social e lavoro pubblico: dal Codice di comportamento del dipendente pubblico alla Social media policy.
Se si considera l’ambito del lavoro pubblico, la questione appare ancora più complessa, tenuto conto che nell’operazione di bilanciamento fra posizioni giuridiche in conflitto entrano anche i principi costituzionali relativi all’attività della Pubblica Amministrazione (legalità, correttezza, imparzialità, buon andamento, cura dell’interesse generale) e, quanto al lavoro pubblico non privatizzato, si aggiungono altri valori fondamentali che riconoscono e tutelano la funzione o il ruolo istituzionale ricoperto (così, ad es., per la magistratura, per i professori universitari).
Un indizio di tale complessità si può forse ravvisare nel gioco di rinvii tra una pluralità di livelli normativi, ai quali è affidato il compito di definire in modo appropriato il punto di bilanciamento in considerazione delle peculiari caratteristiche delle organizzazioni pubbliche.
Nel settore pubblico privatizzato, il TU n. 165/2001 (cfr. art. 54, mod. ex d.l. n. 36/2022, conv. in l. n. 79/2022) ha previsto l’adozione di un Codice di comportamento del dipendente che sostanzialmente integra le previsioni del Codice disciplinare, con un (primo) rinvio all’autoregolamentazione delle singole Amministrazioni per la necessaria integrazione e per la tipizzazione di condotte specifiche (co. 5). Il Codice di comportamento deve obbligatoriamente contenere una sezione dedicata al «corretto utilizzo delle tecnologie informatiche e dei mezzi di informazione e social media … anche al fine di tutelare l’immagine della pubblica amministrazione» (co. 1-bis).
Di recente il regolamento di attuazione del TU n. 165/2001 che ha introdotto il “modello” del Codice di comportamento ha aggiunto alcune disposizioni relative all’impiego delle tecnologie digitali per fini istituzionali e all’uso dei canali web da parte del dipendente pubblico (cfr. artt. 11-bis e 11-ter, DpR n. 62/2013, mod. con DpR n. 81/2023). Si tratta di norme ispirate alla logica di tipo precauzionale e al dovere di riservatezza sulla funzione o sull’attività dell’ufficio, con l’intento principale di evitare che opinioni e giudizi personali possano essere attribuiti, o comunque riconducibili, all’amministrazione di appartenenza.
Ma è ovvio che il ruolo istituzionale del dipendente pubblico non si dismette con facilità, tramite una mera clausola di disclaimer posta in calce al messaggio veicolato dalla rete.
In verità, nel dettato regolamentare manca l’individuazione di misure o di cautele concrete e determinate, salva la previsione dell’obbligo di astenersi da espressioni diffuse via web che possano risultare potenzialmente lesive dell’immagine, del prestigio e del decoro dell’amministrazione. Per ovviare alla genericità, il DpR n. 62/2013 ha consentito, tramite un ulteriore rinvio ai singoli codici di comportamento degli enti pubblici, di adottare (in questo caso, in via facoltativa) una social media policy – sul modello del settore privato – per regolare l’interazione del dipendente con le differenti piattaforme digitali e definire le modalità d’uso non corrette (e sanzionabili).
Al riguardo, sono state dettate solo due linee-guida per l’integrazione dei codici di comportamento: individuare le condotte del dipendente pubblico che siano suscettibili di «danneggiare la reputazione delle amministrazioni» e graduare le stesse condotte «in base al livello gerarchico e di responsabilità del dipendente» (cfr. art. 11-ter, co. 4).
4. La prospettiva deontologica per il lavoro pubblico non privatizzato.
Sebbene le basi normative comuni possano suggerire identiche conclusioni per tutto il settore pubblico, resta al fondo una significativa differenza tra il Codice di comportamento del lavoratore alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e il Codice etico previsto per la magistratura (e per l’Avvocatura di Stato) (cfr. art. 54, co. 4, T.U. n. 165/2001).
Il lessico corrente è spesso generico e indifferenziato, come se i termini avessero il medesimo valore semantico: codice etico, deontologico, di condotta, di comportamento, social media policy. Vale la pena di sottolineare, invece, le caratteristiche di Codici che presentano una diversa natura giuridica: caratteristiche e differenze che risultano apprezzabili tanto sul piano dei contenuti quanto per le conseguenze che ne derivano nell’ipotesi di violazione o inosservanza delle rispettive previsioni.
Mentre il Codice di comportamento del dipendente pubblico introduce un elenco di “doveri” connessi al servizio o ai compiti che gli sono affidati ed è considerato, per legge, una «fonte di responsabilità disciplinare» (cfr. art. 54, co. 3, T.U. n. 165/2001), il Codice etico non è destinato ad integrare il versante disciplinare del rapporto di lavoro con l’Amministrazione, ma ne rimane distinto e separato.
Il Codice etico previsto per il lavoro pubblico non privatizzato rinvia, in modo diretto e immediato, ai principi costituzionali e alle regole fondamentali del vivere civile, che costituiscono il necessario riferimento valoriale per improntare i comportamenti nelle relazioni con l’ordinamento istituzionale, con i soggetti che con esso interagiscono (quelli che, con linguaggio privatistico, si chiamerebbero stakeholders) e, in generale, con i terzi con i quali si instaurano contatti fisici o virtuali.
Per sua natura e funzione, il Codice etico non può che essere formulato attraverso clausole e concetti generali (o quanto meno “aperti”), con contenuti determinati o comunque determinabili ma, in ogni caso, lungi dai requisiti di tipicità e tassatività (almeno relativa) che si richiede a una tassonomia di regole e divieti dai quali scaturisce la responsabilità disciplinare e un potere giuridico di tipo punitivo.
Del resto, se si considerano i contatti e le attività che si svolgono tramite il web, la pretesa di tipizzare in modo puntuale e imperativo le condotte eticamente sensibili avrebbe poco successo. La velocità dello sviluppo tecnologico e la continua evoluzione delle pratiche digitali sconsigliano di seguire questa via, al prezzo di un’eccessiva genericità oppure d’una rapida obsolescenza delle ipotesi e delle situazioni forzatamente tipizzate.
Ne consegue che le violazioni di un Codice etico dovrebbero essere valutate su un piano diverso da quello propriamente disciplinare, e pertanto accertate da un organismo di probiviri (o di garanti) anziché da un collegio di disciplina, con la possibilità di applicare misure di reazione giuridico-sociali che dovrebbero essere distinte dalle sanzioni disciplinari.
[1] Intervento alla Tavola Rotonda “I magistrati e i social”. Incontro di studio sul tema “La magistratura e i social network”, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma, 16-17 maggio 2024.
[2] Non è un caso che anche il diritto alla cancellazione del dato immesso nella rete sia assoggettato a bilanciamento con altri interessi. Secondo Cass., I sez. civ., 8 febbraio 2022, n. 3592, siccome la cancellazione del dato (inclusa la copia cache) incide sulla capacità del motore di ricerca di rispondere all’interrogazione dell’utente, «esige una ponderazione del diritto all’oblio dell’interessato con il diritto alla diffusione e all’acquisizione dell’informazione relativa al fatto nel suo complesso, attraverso parole chiave anche diverse dal nome della persona».
[3] Cfr., ad es., Cass. lav. 30866/2023; Cass. lav. 35922/ 2023; Cass. lav. 1379/2019.
[4] C. Edu, 15 juin 2021, Affaire Melike c. Turquie, riconosce che la rete rappresenta «un des principaux moyens d’exercice de la liberté d’expression», tuttavia i vantaggi di questo mezzo si accompagnano ad un certo numero di rischi: «est donc essentiel pour l’évaluation de l’influence potentielle d’une publication en ligne de déterminer son étendue et sa portée auprès du public».
[5] In tal senso cfr., ad es., Cass. lav. 10.9.2018, n. 21965; Cass. lav. 13.10.2021, n. 27939. Non è molto distante la posizione della C. Edu, 15 juin 2021, cit., che ha ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva postato like su alcune pagine web in quanto «une mention “J’aime” exprime seulement une sympathie à l’égard d’un contenu publié, et non une volonté active de sa diffusion».
Immagine: Paul Klee, Labyrinthian Park, acquerello e matita su carta, 1939, Zentrum Paul Klee, Bern, depositum from a private collection, Switzerland.
Foto: Amedeo Modigliani, 1914.
Venerdì 12 luglio 1884, alle ore 9, su di un grande tavolo di marmo nero nasceva a Livorno in via Roma 38, da Eugénie Garsin, Amedeo Clemente Modigliani. Esattamente 140 anni fa.
Foto: i genitori di Amedeo Modigliani, Eugenia (incinta di Amedeo) e Flaminio, Napoli, 1884.
Alle prime luci dell’alba dello stesso giorno, il padre di Amedeo, Flaminio Modigliani, strillando e svegliando bruscamente i propri figli, la giovane Margherita e i piccoli Giuseppe ed Emanuele, gli ordinava di raccogliere velocemente i beni più preziosi della famiglia per accatastarli immediatamente sul letto della madre. Anche i parenti venuti da Marsiglia, che alloggiavano al piano inferiore della casa furono coinvolti nel trambusto, Flaminio sapeva infatti che grazie ad una legge dell’epoca, non potevano essere sequestrati i beni sul letto di una partoriente.
Il piccolo Amedeo nasceva dunque lo stesso giorno in cui veniva notificato dagli ufficiali giudiziari il fallimento delle imprese di Flaminio Modigliani.
Foto: Modigliani a un anno e la sua tata.
Imprese in Sardegna, per lo più legno e carbone, che dopo un periodo di parziali successi, erano cadute sull’orlo del fallimento. Flaminio viveva quasi tutto l’anno in Sardegna, nella sua casa (ancora esistente) a Buggerru e si curava ben poco della famiglia; aveva sposato Eugénie senza particolare convinzione, interessato soprattutto ai rapporti commerciali che intratteneva per i suoi commerci con i Garsin di Marsiglia.
Amedeo iniziava la sua esistenza tra mille difficoltà: sequestri, debiti, delusioni e separazioni. Tutto era sulle spalle di Eugénie, i quattro figli, l’economia della casa, il lavoro e la ricostruzione di una nuova condizione e reputazione sociale. Otto giorni dopo la nascita, al piccolo Amedeo, come esigeva la tradizione ebraica, il mohel praticò la circoncisione. Amedeo entrò così a far parte della propria comunità nell’anno 5644 del calendario ebraico.
Furono anni difficili, ma Eugénie, grazie all’aiuto di alcuni amici, (Marco Alatri, Giuseppe Moro, padre Bettini), riuscì a fondare una piccola scuola privata. Ma l’aiuto più importante giunse dal professore Rodolfo Mondolfi, che sarà determinante nella vita di Eugénie e del piccolo Modigliani, soprattutto i figli del professore (Margherita e Umberto) saranno i primi compagni di Amedeo.
Nel suo famoso diario di famiglia Eugénie dice di Dedo (il vero soprannome di Modigliani) di soli due anni: “che ancora non è che un raggio di sole fatto bambino. Un po' viziato, un po' capriccioso, ma bellissimo”.
A soli cinque anni, il piccolo Amedeo sapeva già scrivere e leggere, aiutato dagli allievi della scuola della madre, ma soprattutto mostrò uno spiccato interesse per il disegno e la calligrafia, su alcuni suoi quaderni e taccuini appaiono degli scarabocchi che anticipano la sua predisposizione e i suoi esercizi nel simboleggiare facce e lettere della “M”.
Foto: Mobiletto Mondolfi.
Nell’estate del 1895 contrasse una pleurite. Eugénie così scrive nel suo diario: “Dedo ha avuto una pleurite molto grave e non mi sono ancora rimessa dalla paura. Il carattere del bambino non è ancora abbastanza formato perché possa dire adesso la mia opinione. I suoi modi sono quelli di un bimbo viziato che non manca d’intelligenza. Vedremo in seguito cosa c’è in questa crisalide. Forse un artista?”
Crescendo, Amedeo stringe una forte amicizia con Umberto Mondolfi, i due ragazzi erano inseparabili, vissero esperienze comuni e firmarono la prima opera d’arte (1896/7), decorando un vecchio scaffale. Amedeo aveva solo 12 anni.
Per tutta la vita Modigliani ricorderà di dover gran parte della propria cultura alla frequentazione della famiglia Mondolfi. Umberto più avanti diventerà uno dei fondatori del partito socialista, diventando poi sindaco di Livorno dal 1920 al 1922.
Foto: il professor Rodolfo Mondolfi.
Da adolescente passeggiava su lungomare di Livorno, con il nonno Issac, parlando di filosofia e religione; a 13 anni Amedeo entra a far parte ufficialmente della comunità ebraica, dimostrando la sua preparazione nella conoscenza della tradizione ebraica. Più avanti nelle sue opere, ed in particolare sul dorso di alcuni suoi quadri si ritroveranno a volte caratteri e segni ebraici o segni cabalistici, frutto di preoccupazioni metafisiche che tormentavano l’anima dell’artista livornese.
Amedeo frequentava a Livorno il liceo Guerrazzi con risultati mediocri: arrivava a mala pena alla sufficienza. Eugenie è preoccupata ma non può non riscontrare la passione del figlio nel disegno, e dopo aver superato gli esami con il “Minian”, Amedeo iniziò un corso di disegno. Lui si vedeva già pittore.
Foto: Livorno 1896, Liceo Guerrazzi, Modigliani è il quarto da destra.
Foto: pagella di Amedeo Modigliani, anno scolastico 1897-98, Liceo Ginnasio Guerrazzi.
Nel 1898 finalmente, facendo grandi sacrifici, Amedeo inizia a frequentare l’atelier del pittore Guglielmo Micheli.
Eugénie confida al suo diario “Dedo ha rinunciato agli studi, ormai fa solo pittura, ma ne fa tutto il giorno e tutti i giorni con un ardore così grande che mi stupisce e m’incanta. Se non è questo il modo per riuscire, allora non c’è niente da fare. Il suo professore è molto contento di lui. Da parte mia, non ci capisco niente, ma mi sembra che per aver studiato solo tre o quattro mesi non dipinga troppo male e disegni veramente bene”.
Nella scuola di Micheli, Modigliani impara a disegnare e dipingere, per lo più opere dal vero (marine, alberi, cavalli, in genere nature morte), viene influenzato dalle correnti macchiaiole toscane di cui lo stesso Micheli faceva parte, essendo allievo di Giovanni Fattori, considerato uno degli esponenti di punta del movimento artistico.
Foto: Giovanni Fattori, la signora Micheli e Amedeo Modigliani, Livorno, 1898.
Modigliani frequenta con passione e dedizione la scuola, ma non nasconde la sua inquietudine artistica, che presto sfocerà in una identità pittorica assolutamente personale che all’epoca si presentava grezza e imprecisa. Inquietudini confessate in diverse lettere al suo amico intimo Oscar Ghiglia, anch’egli allievo della scuola insieme a Manlio Martinelli, Gino Romiti e Renato Natali. Anche loro amici del giovane Modigliani.
Ma la pleurite e la tosse non danno tregua ad Amedeo, oscilla tra stati febbrili e momentanee guarigioni, la sua condizione di salute lo limita, più avanti negli anni dovrà abbandonare la scultura, sua prima passione artistica: fisicamente non ce la faceva e non poteva respirare le polveri che producevano le sue opere.
Sarà la pittura la modalità prevalente per rappresentare la sua arte.
Foto: cartolina scritta alla sorella Margherita. Notare gli accenni di disegni sul frontespizio. Pompei, 1901.
Foto: cartolina scritta alla sorella Margherita. Pompei, 1901.
Ancora una volta sarà Eugénie ad occuparsi di Dedo e programma un viaggio con il figlio alla scoperta dell’arte italiana e dei luoghi caldi e salubri per la sua salute. Un viaggio per il corpo ma soprattutto per l’anima del giovane pittore. Capri, Napoli, Roma, Firenze, Venezia saranno alcune delle tappe che formeranno la conoscenza culturale e artistica di Modigliani.
In questi soggiorni Modigliani, per la prima volta, conoscerà l’arte delle grandi collezioni italiane, visiterà i più importanti musei, ammirerà le bellezze delle piazze e delle chiese: ne verrà fortemente impressionato e condizionato, ai limiti del turbamento. Incontrerà letterati, pittori, artisti e intellettuali che avranno un grande peso nella sua formazione. Un viaggio dalle indescrivibili emozioni, pieno di stimolazioni e riflessioni che porterà Modigliani a lasciare Livorno. La sua convinzione era profonda: la propria arte, il proprio immaginario, addirittura la sua vita doveva cambiare radicalmente . La scelta cadrà per la scuola del nudo di Venezia, ma da lì a poco Modigliani lascerà l’Italia.
Nel 1906 Modigliani, con pochi soldi offerti dal fratello, lascia Livorno, destinazione Parigi.
In poco tempo Amedeo si integra nella città francese, vive a Montparnasse in una piccola pensione, quartiere malfamato ma abitato e frequentato da artisti e visionari di tutto il mondo. A Parigi si respira un’aria effervescente, piena di stimolazioni e di occasioni. Lui, bello, elegante, colto e raffinato con i suoi vestiti di fustagno, la sciarpa rossa e il suo borsalino è immediatamente notato, e ben presto far amicizia con la migliore gioventù che proprio a Parigi trovava l’humus creativo e culturale che incoraggiava le più audaci e dissacranti esperienze in tutti i campi della conoscenza e delle relazioni umane, scatenando dibattiti accesi sui grandi temi dell’arte, della filosofia, della politica.
Sono gli anni in cui nell’arte nella letteratura e nella poesia nascono le correnti artistiche che hanno segnato tutto il Novecento e che sono tutt’ora celebrate e rappresentate: il cubismo, il futurismo, il surrealismo e il dadaismo, l’astrattismo, il geometrico, l’industriale. Correnti artistiche e culturali nate nel grembo di un periodo storico eccezionale (il primo ventennio del 900) in cui la scienza, la filosofia, la psicoanalisi e l’industria esprimevano la loro forza nelle aggregazioni sociali e politiche di milioni di persone affamate di futuro, spensieratezza e di bellezza.
Il "Café du Dôme”, al n° 109 del boulevard du Montparnasse è il ristorante /bistrot dove s’incontrano tutti, Modigliani sta lì con i suoi amici: Max Jacob, Apollinaire, Foujita, Cocteau.
Foto: Le Dôme, Boulevard du Montparnasse, Parigi, 1920.
Soutine, Chagall, Salmon, Utrillo, Paschen, Leger e Picasso, con cui tesserà una amicizia contrastata e naturalmente, Kiki, la regina di Montparnasse, la modella che tutti volevano, spregiudicata e sensuale, amante di grandi artisti, fotografi e romanzieri.
Foto: Kiki di Montparnasse.
Ma soprattutto a Parigi incontra Jeanne, sua musa ispiratrice, amante, moglie e infine madre della sua unica figlia.
Jeanne Hebutérne, giovane pittrice francese, non altissima, magra, dai grandi occhi a mandorla appariva riservata e malinconica, il suo sguardo era romantico e dolce.
Studiava all’accademia Colarossi, dove incontrò Amedeo durante i festeggiamenti del Capodanno del 1916. Lei stava preparando il concorso per l’ammissione all’Accademia delle Belle Arti. I colleghi di corso l’avevano nominata “Noix de Coco" (Noce di Cocco) a causa delle lunghe trecce castane che contrastavano il candore della pelle. Quella notte fu amore immediato e assoluto.
Jeanne condivide tutto: l’amore, la malattia, la pittura la povertà. Posa per il suo amato che gli dedica alcuni dei suoi quadri più famosi, lo assiste e lo perdona durante i frequenti deliri del pittore procurati e dalla febbre a dall’alcool; partorisce la sua unica figlia che prenderà il proprio nome, Jeanne e infine morirà suicida, gettandosi dalla finestra il giorno dopo della morte di Amedeo Modigliani (25 Gennaio1920). Con lei muore anche il bimbo di otto mesi che portava in grembo. Dovrà passare del tempo affinché, grazie all’impegno di alcuni amici della sfortunata coppia, si riuscì, dopo lunghe battaglie burocratiche e familiari (la famiglia originaria di Jeanne, cattolica osservante fu sempre contraria all’unione con Modigliani) ad unificare le tombe nel cimitero Père-Lachaise di Parigi, dove tutt’ora i due artisti giacciono.
Foto: lapide sulla tomba dI Jeanne e Amedeo al cimitero Père-Lachaise di Parigi.
Il cinema, la letteratura, la musica hanno reso omaggio a questa straordinaria storia d’amore, raccontando il sacrificio estremo di questa giovane donna che per amore contrastò la sua famiglia e le regole borghesi del tempo.
Nel 1907, Amedeo visita l’Esposizione Nazionale di Parigi, e viene catturato e impressionato e successivamente contaminato dalla presenza, per la prima volta in Europa dell’arte africana. La purezza delle linee, i colli allungati, la scelta dei materiali, l’intensità ancestrale dei manufatti colpiscono l’immaginario di Modigliani. Le opere, portate in Francia dai grandi viaggiatori risultarono straordinarie agli occhi degli europei e degli artisti che visitarono l’Esposizione: avevano un fascino antico e allo stesso tempo risultavano moderne e contemporanee.
Modigliani, così anche altri grandi artisti dell’epoca, uno tra tutti, Picasso, viene influenzato da questa forma espressiva, sincera e profonda e perfeziona il suo approccio creativo, in cui cultura, visione artistica, tecnica e radici sociali si fondono, generando un approccio originale all’arte, che rimarrà immutabile nel tempo. Tale influenza stilistica e culturale sarà visibile nelle sculture del maestro livornese.
Nelle sculture delle Cariatidi, Modigliani riesce a realizzare una sintesi culturale e artistica straordinaria: i riferimenti alla tradizione classica si intrecciano con la contaminazione africana, generando un’opera scultorea dalle linee definite, raggiungendo una purezza stilistica unica nel suo genere.
Foto: La Ruche, 1909, Amedeo Modigliani con la scultura in corso di realizzazione.
I volti allungati e precisi, i colli lunghi la scelta dei materiali poveri rendono visionaria l’opera e intellettualmente evoluta, paradossalmente internazionale. Sarà, forse per questa caratteristica che Modigliani viene riconosciuto e apprezzato dai popoli orientali: 100 anni fa lui scolpiva nelle sue Cariatidi gli occhi a mandorla.
Non c’è dubbio, tuttavia, Costantin Brancusi fu per Amedeo un maestro di scultura. Brancusi, esule anche lui a Parigi dalla Romania, fu influenzato dalla cultura e dall’arte africana e condivise con Modigliani una parte della sua esperienza artistica, I due artisti, sebbene Brancusi, più grande di Amedeo, furono legati da una passione artistica speciale, entrambi catturati dall’uso della pietra per le loro opere.
Ma Amedeo dovette per motivi respiratori abbandonare la scultura e divenne il pittore che conosciamo.
Paule Alexandre, suo amico e mentore l’ospitò per qualche tempo in una struttura che il Comune di Parigi aveva affittato a Paule (Al Delta), una sorta di casa in cui i diversi artisti potevano lavorare senza sostenerne i costi. Al Delta, Amedeo conosce Brancusi e altri importanti artisti; Paule fu vero amico e spesso sostenne Modigliani pagando di tasca propria gli affitti e i pranzi e le cene che consumava da Rosalie, osteria gestita da una italiana dove con poco molti artisti mangiavano.
Foto: trasloco dal 7 di rue du Delta di Place Dancourt. Sul carro Paul Alexandre. Parigi, 5 luglio 1913.
La sua arte prende corpo e identità.
In quegli anni in cui l’arte metteva in discussione sé stessa con l’affermazione del cubismo, del surrealismo, dell’astrattismo e con un approccio concettuale alla pittura sempre più marcato, Modigliani dipinge i volti legandosi alla tradizione rinascimentale italiana, che tanto ha condizionato e influenzato l’arte di tutto il mondo.
Le sue opere rappresentano le figure umane, prevalentemente il femmineo, diventando nel tempo uno dei maggiori interpreti della pittura erotica, già espressa da Tiziano, da Giorgione, da Goya e da Manet e successivamente da tanti altri: Modigliani interpreta il femmineo in modo intenso e intimo, dipinge le sue donne con la testa reclinata, all’interno di una prospettiva piatta e in molte circostanze con gli occhi chiusi o opachi, i colori sono intensi e carichi, le pennellate spesse e materiche.
La figura femminile viene esaltata e sublimata, nell’esprimere la sua potenza sensuale e psicologica nel rapporto empatico con l’osservatore. I nudi di Modigliani sono tra le opere più costose e ricercate a livello internazionale. Il suo rapporto con il mondo femminile fu eccezionale e profondo, una relazione psicologica in cui l’arte del pittore livornese riesce a cogliere l’essenza umana della donna ritratta e la rappresenta in tutta la sua forza interiore: “quando conoscerò la tua anima dipingerò i tuoi occhi”.
Le sue opere ritraggono persone semplici, modelle, intellettuali, amici e donne e uomini benestanti: tutti interpretati con uno stile inconfondibile in cui la figura è colta nel suo atteggiamento intimo e privato. I quadri non sono grandi e spesso le tele sono usate riproducendo pentimenti di opere cancellate e ricoperte dal bianco di titanio (pigmento che già dai primi anni del ‘900 gli artisti usavano per far riflettere meglio i colori); i quadri più grandi (116cm) sono dedicati ai nudi. Modigliani non si poteva premettere tele di grandi dimensioni, né di altissima qualità, anche i colori venivano annacquati e diluiti, ciononostante il rosso usato nei suoi quadri è diventato nel tempo un elemento di riconoscibilità, tanto da essere definito “rosso Modigliani”.
La sua vita fu difficile, piena di stenti e sacrifici. La sua arte non trovava acquirenti, né collezionisti: non vendeva! Era povero e spesso disperato, oscillando tra attacchi di tosse e ubriacature.
Foto: Paul Guillaume all'interno dell'atelier da lui affittato per Amedeo Modigliani in rue Ravignan, Montparnasse 1915.
Zborowski e Guillaume, rispettivamente suo collezionista e gallerista cercarono di spingere il giovane artista italiano nel mercato francese ed europeo, ma i risultati furono modesti. Negli anni soprattutto Zborowski diventò uno dei maggiori collezionisti di opere di Modigliani al mondo, accumulando un notevole patrimonio economico e finanziario. Durante la guerra Guillaume e Modigliani sono a Nizza in cerca di compratori e riescono a concludere qualche piccolo affare.
Foto: Leopold Zborowski nell'appartamento di rue Joseph Bara a Parigi.
Beatrice Hastings, giornalista e critica d’arte inglese riuscì a portare Modigliani a Londra, ma l’accoglienza fu tiepida. Beatrice fu amante di Amedeo, i due si amarono intensamente, ma il loro rapporto risultò malato e inquinato dai continui scontri e litigi. Ciononostante, Beatrice lo aiutò ad inserirsi nella intellighenzia parigina e nei salotti culturali dell’epoca.
Foto: Beatrice Hastings ripresa da Man Ray.
Modigliani non riuscì mai, in vita, a realizzare una propria mostra personale, né a pubblicare un suo catalogo. L’unica sua mostra parigina fu chiusa dalla gendarmeria dopo soltanto qualche ora dalla sua inaugurazione: il manifesto della mostra ritraeva una donna nuda e fu considerato uno scandalo al pudore. Il biglietto d’invito presentava un nudo in piedi con la dicitura “Mostra di pittura e disegni di Modigliani dal 3 al 30 dicembre 1917”. La mostra si sarebbe svolta nella nota galleria di Berthe Weill, al 50 di rue Taitbout, organizzata dal mercante d’arte Zborowski. Ci fu confusione e trambusto, molti curiosi attratti dalla locandina si accalcarono davanti alla galleria, ma per Modigliani fu tragedia.
Foto: Amedeo Modigliani, locandina della prima esposizione di Modigliani, 1917 Parigi.
Oggi le opere di Modigliani sono esposte nei più grandi e famosi musei del mondo, la loro quotazione di mercato è impressionante. Modigliani si colloca tra gli artisti più cari a livello internazionale; una delle sue opere di nudo è stata recentemente battuta all’asta da Christie’s di New York a 170 milioni di dollari. Amedeo ha prodotto circa 337 opere conosciute (catalogo Ceroni), la maggior parte di esse sono di proprietà di ebrei americani, l’Italia detiene, compresi alcuni privati soltanto 24 opere e tutt’ora non è riuscita, attraverso le diverse istituzioni culturali pubbliche, a determinare una oggettiva procedura di autenticazione delle opere del maestro livornese, né a certificare le numerose opere rinvenute a vario titolo dopo la sua morte. Tale lacuna ha di fatto permesso, in assenza di una fondazione familiare, il moltiplicarsi di certificazioni, prodotte da diversi critici d’arte italiani e stranieri, non sempre attendibili, ma corrispondenti ad un mercato speculativo alla ricerca di grandi affari, data l’importanza, ormai oggettiva della pittura di Modigliani.
Le opere di Modigliani sono purtroppo tormentate dai falsi. Dai famosi scandali delle teste dell’84 sino alle recenti dispute, ancora non risolte, sulle opere esposte a Palazzo Ducale di Genova nel 2017. In realtà, oggi, è quasi impossibile organizzare una mostra di opere autentiche di Modigliani: sono necessari milioni di euro e anni di lavoro e accordi diplomatici complessi tra musei di tutto il mondo. La tecnologia può supplire a questa mancanza, non è ovviamente la stessa cosa di essere di fronte ad un capolavoro, che peraltro è sempre visitabile nei luoghi deputati, ma il virtuale, l’immersivo l’uso della luce le proiezioni e le loro spettacolarizzazioni oggettivamente svolgono un ruolo, in cui l’esperienza diventa la cifra comunicativa di un rinnovato e contemporaneo sistema di fruizione dell’arte riprodotta, rendendo l’evento divulgativo e aperto a tutti. D’altronde fu proprio il filosofo Walter Benjamin che sin dal 1932, nel suo famoso trattato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità” teorizzò quanto già da molti anni sta accadendo attraverso il rapporto tra arte e tecnologia. Oggi addirittura la pittura digitale è diventata un fenomeno, che sta interessando la critica dell’arte, il collezionismo, il mercato.
Modigliani muore il 24 gennaio 1920, povero e solo, il giorno dopo Jeanne, sua moglie, già madre, si getta dal quarto piano uccidendosi.
In questi mesi in diversi Paesi si celebreranno i 140 dalla nascita di Modigliani, Parigi gli dedicherà una grande mostra. Per l’Italia al momento non è previsto nulla.
Noi dell’Istituto Amedeo Modigliani, associazione no profit, impegnata da oltre 20 anni nella divulgazione della vita e delle opere di Modigliani, abbiamo organizzato una mostra esperienziale dal titolo “MODIGLIANI L’ARTISTA ITALIANO”, che è stata inaugurata il 12 luglio all’interno dello spettacolare ex Mercato Storico di Siracusa, esattamente dopo 140 anni dalla sua nascita.
Modigliani è stato descritto in tanti modi: maledetto, principe, trasgressivo, è stato simbolo e icona della stagione bohémien in cui migliaia di artisti e intellettuali provenienti da più parti del mondo si sono raccolti a Parigi che per alcuni anni è stata la culla dell’intellighenzia mondiale. Tutto poi finì con la Prima guerra mondiale.
Tanti hanno cercato di definire l’arte di Modigliani, tanti hanno cercato d’inserire questo grande artista in una corrente o movimento artistico e culturale ma lui rimarrà sempre UN ARTISTA SENZA MAESTRI, UN MAESTRO SENZA ALLIEVI.
In tema di decreto legge 92 del 4 luglio 2024 “Carcere Sicuro” si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024.
Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Una premessa sul contesto di gravissime criticità in cui versano gli istituti penitenziari - 2. Le nuove assunzioni di personale, una buona notizia - 3. Le novità in tema di liberazione anticipata: criticità e rischi - 4. L’incremento nel numero delle telefonate dei detenuti: un problema di fonti - 5. Il punto e virgola nel 41-bis e la giustizia riparativa - 6. L’albo delle strutture residenziali e le difficoltà di reinserimento sociale. - 7. La semplificazione del “rito semplificato” ex art. 678 co. 1-ter ord. penit.
1. Una premessa sul contesto di gravissime criticità in cui versano gli istituti penitenziari.
Il 4 luglio 2024 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 92, varato dal Governo e comunicato con il nome di “Carcere sicuro”, in vigore dal 5 luglio 2024. Si legge nei “ritenuti” che precedono l’articolato che, tra l’altro, è stata considerata la straordinaria necessità ed urgenza, essenziali per giustificare l’uso dello strumento prescelto, in interventi relativi all’incremento del personale che opera negli istituti penitenziari, volti ad un loro miglior funzionamento, e in disposizioni della legge penitenziaria con finalità di razionalizzazione di alcuni benefici e regole di trattamento e di semplificazione delle procedure di concessione.
In effetti all’interno del decreto-legge si leggono anche disposizioni di tipo diverso, in materia di giustizia civile e penale, che esulano dal perimetro penitenziario e che non saranno considerate nel breve commento che segue.
Il mondo penitenziario affronta da tempo una condizione di crisi strutturale che, più volte segnalata anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con gravi condanne nei confronti del nostro Paese, ha visto nel tempo susseguirsi tentativi di riforme, con esiti parziali rispetto agli obbiettivi immaginati, ed interventi più o meno emergenziali, volti a tamponare, soltanto a tratti, le condizioni di sovraffollamento grave delle strutture.
Dall’inizio dell’anno si è inoltre registrato un numero elevatissimo di suicidi tra le persone detenute, indice di un malessere diffuso che, pur nella necessità di differenziare le situazioni personali, tutte diverse, lascia chi si occupa di carcere di fronte ad un senso di condiviso scoramento.
Agli occhi del magistrato di sorveglianza, che entra periodicamente in carcere e parla con gli operatori penitenziari e con tante persone detenute, appaiono infinite necessità e tante possibili strade per migliorare la quotidianità penitenziaria. Più di ogni altra prospettiva tecnica, sembra però urgente intervenire per ridurre la distanza tra interno ed esterno, tra i detenuti e le famiglie sui territori, e per instaurare un rinnovato patto di fiducia tra persone in esecuzione penale e istituzioni, che ritrovi nell’art. 27 co. 3 Cost. il faro cui guardare, pur nelle difficoltà quotidiane.
Se infatti prevale un sentimento di resa, rispetto a condizioni di invivibilità cui si sa che nessuno metterà mano, se prevale l’idea che le risposte delle istituzioni tarderanno ad arrivare e saranno di tipo burocratico, se i contatti con gli operatori si fanno mera occasione per mettere in ordine moduli, il carcere diviene uno spazio oscuro e opprimente, dove l’aria è irrespirabile e non si è più in grado di discernere con lucidità se vi sono strade sicure per sopravvivergli.
In questa temperie il decreto-legge è stato lungamente atteso, richiesto da più parti e accompagnato da una significativa attenzione mediatica, quanto meno in rapporto al consueto generale disinteresse che si riscontra quando si parla del mondo del carcere. Presentato da alcuni mezzi di comunicazione come un tentativo di risposta a quei drammatici problemi che sopra si enunciavano, si offre al lettore come un intervento normativo decisamente diverso, che risponde ad alcune necessità del carcere, ma che non sembra poter incidere sulla situazione gravissima in cui il mondo penitenziario si trova, o almeno non poterlo fare in tempi rapidi, come la stagione estiva, tra le più crudeli dell’anno dal punto di vista intramurario, consiglierebbe.
2. Le nuove assunzioni di personale, una buona notizia.
I primi 4 articoli del decreto-legge sono dedicati alla previsione di incrementi significativi nelle assunzioni nel Corpo di Polizia penitenziaria, nonché tra i dirigenti penitenziari, ed ancora prevedono lo scorrimento di graduatorie per vice commissario e vice ispettore di Polizia penitenziaria, con la medesima finalità, e dettano disposizioni in materia di formazione degli agenti.
Chi frequenta gli istituti penitenziari sa bene quanto gravi siano le scoperture di personale di Polizia penitenziaria e quanto di frequente si impongano turni di lavoro davvero estenuanti e sacrifici personali che vanno ben al di là dell’ordinario, soprattutto in contesti in cui sovraffollamento e condizioni degradate delle strutture saturano di tensione la quotidianità penitenziaria. Dunque sembrano una buona notizia questi incrementi che, tuttavia, non riguardano, almeno in questa sede, anche altre figure professionali gravemente carenti, eppure insostituibili. Ci si riferisce agli operatori giuridico – pedagogici, ma anche agli psicologi e ai mediatori culturali. Figure queste che, ove maggiormente presenti, potrebbero contribuire in modo sensibile al miglior vivere all’interno delle strutture, a beneficio dell’intera comunità penitenziaria.
Allo stesso modo, dove l’art. 4 prevede, per comprensibili esigenze di accelerazione nell’arrivo sul campo dei nuovi agenti, una riduzione della durata della formazione fino ad un minimo portato a soli tre mesi, si comprende bene la finalità, ma ciò rischia di pregiudicare una fase delicatissima in cui si formano lavoratori cui si consegna un’opera fondamentale come quella della gestione della quotidianità delle persone detenute e l’incontro con i loro bisogni. Molte volte si è ben detto come la formazione della Polizia penitenziaria sia un momento cruciale, ma ciò non può che accadere in un tempo congruo, sol che si sia davvero consapevoli che non sono tanto i numeri a fare la differenza in un servizio, soprattutto impegnativo e umanissimo, come quello di cui parliamo, ma la preparazione umana e professionale di chi lo rende.
3. Le novità in tema di liberazione anticipata: criticità e rischi.
Una particolare centralità hanno gli interventi in materia di liberazione anticipata contenuti nell’art. 5 del decreto-legge. In questi mesi si erano evocati, proprio al fine di ridurre il problema del sovraffollamento, provvedimenti normativi volti ad incrementare il numero di giorni concedibili per ogni semestre di pena espiata, passandoli dagli attuali quarantacinque a sessanta, o addirittura a settantacinque. Nulla di tutto ciò è considerato nel decreto-legge che, piuttosto, interviene modificando le modalità e le tempistiche per l’ottenimento del beneficio, con dichiarati scopi di semplificazione e di maggior chiarezza nei confronti dei destinatari. Sotto questo profilo una sommaria lettura del complesso intervento non sembra consentire univoci pronostici di successo né rispetto al primo, né rispetto al secondo degli obbiettivi che ci si prefiggeva.
Nell’art. 656 cod. proc. pen. si introduce, in un nuovo co. 10-bis, la previsione che impone al pubblico ministero, al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione, di completarlo con uno specchietto, ad uso del condannato, nel quale sia già quantificata semestre per semestre la riduzione di pena che potrà essergli riconosciuta, in funzione della partecipazione al trattamento eventualmente dimostrata. Nulla dunque viene automaticamente concesso al condannato, ma gli si consente di prefigurarsi gli effetti positivi di una sua condotta improntata al rispetto delle regole e alla cooperazione al trattamento. In effetti, chi frequenta il carcere sa che questo genere di calcolo è tra le prime rassicuranti operazioni che ogni condannato fa per sé. Indubbiamente utile è però che ciò possa leggersi in modo tecnico, ma è evidente come il nuovo testo imponga un onere molto serio alle Procure della Repubblica, anche in considerazione della necessità di rivedere il computo al sopravvenire abituale di provvedimenti di cumulo, che tengano conto di frammenti eventuali di presofferto, o al riconoscimento di periodi di fungibilità. La disposizione, per altro, non dice se questo specchietto promemoria debba essere redatto anche per tutti gli ordini di esecuzione già emessi, in assenza di una norma di diritto intertemporale. Certamente ciò dovrà accadere, comunque, almeno alla prima modifica degli stessi, per qualsiasi ragione.
Ciò che cambia più sensibilmente è però che si passerà da un regime di concessione della liberazione anticipata sostanzialmente a istanza di parte, ad una residualità di tale opzione, in favore di una concessione d’ufficio che dovrebbe avvenire, da parte del magistrato di sorveglianza, o in corrispondenza di una istanza di misura alternativa o di altro beneficio penitenziario, o in prossimità del fine pena. Soltanto in questi momenti il magistrato di sorveglianza dovrà valutare se effettivamente nei semestri maturati sino a quel punto l’interessato abbia partecipato all’opera rieducativa condotta nei suoi confronti, cristallizzando l’accoglimento, o il rigetto, in relazione a uno o più semestri, sempre salvo il reclamo al Tribunale di sorveglianza. Sino a quel punto il condannato non avrà dunque alcuna certezza che il fine pena sperato si stia avvicinando effettivamente. Permane in una condizione di attesa, e di fatto perde quella relazione periodica con il magistrato di sorveglianza, che gli consente di vedersi riconosciuto che sta camminando su una buona strada intramuraria.
Residua la possibilità di chiedere la valutazione al magistrato di sorveglianza, anche a prescindere dai momenti indicati, ma con l’obbligo di illustrare l’interesse particolare ad ottenere la liberazione anticipata, a pena di inammissibilità. Nella Relazione accompagnatoria per i lavori del Senato si fa a questo proposito l’esempio dello scorporo del cumulo, rispetto al quale aver interamente espiato le quote di pena legate a reati di 4-bis, anche mediante la concessa liberazione anticipata, comporta conseguenze che legittimerebbero la richiesta dell’interessato. In effetti nella legge penitenziaria sono previsti effetti importanti, anche in materia di colloqui visivi e telefonici, e non solo di accesso ai benefici penitenziari, in relazione alle diverse tipologie di reato in espiazione, con conseguente interesse del condannato ad ottenere al più presto la decisione da parte del magistrato di sorveglianza.
Tanto nel caso di valutazione officiosa legata all’accesso alle misure alternative, quanto in quella collegata al fine pena, è prevista una finestra di novanta giorni antecedenti al momento in cui matura la quota di pena o la data del fine pena (al netto degli sconti di pena, ove meritati) in cui davanti al magistrato di sorveglianza si incardina la procedura per la valutazione della liberazione anticipata. Si tratta di uno spazio assai breve, in cui al di là dei vari possibili intoppi istruttori, è probabile che una decisione intervenga a ridosso della data sperata, o più probabilmente dopo.
Rispetto alle misure alternative, comunque, l’avvenuta concessione anche tempestiva non potrà significare certezza della fissazione di una udienza dinanzi al Tribunale di sorveglianza nelle stesse tempistiche, poiché ordinariamente quegli uffici sono specialmente gravati, e trascorreranno molti mesi in più prima di poter trattare in udienza l’istanza. Nel caso del fine pena, invece, si porrà il problema sia di un provvedimento che giunge più lentamente del previsto, e costringe dunque il condannato a permanere in carcere più del dovuto, sia di un accoglimento soltanto parziale da parte del magistrato di sorveglianza, che quindi legittimamente stabilizza un fine pena più lungo. In questo caso le tempistiche di un eventuale reclamo dinanzi al Tribunale di sorveglianza, anche in caso di successivo accoglimento, con ragionevole certezza potranno consumare un tempo molto lungo e tradursi, nuovamente, in un prolungamento non dovuto del fine pena.
Nel nuovo meccanismo immaginato, in sostanza, l’individuazione di momenti particolari in cui concentrare le valutazioni officiose sulla liberazione anticipata, sembra avere almeno due effetti deteriori per l’utenza. Il primo è di ordine pratico, potendo determinarsi con maggior facilità ritardi di definizione che incidano in concreto sulle posizioni giuridiche dei condannati. Il secondo è nella sostanziale vanificazione dell’effetto psicologico di rafforzamento dei propositi che le periodiche valutazioni positive hanno sin qui prodotto sulle persone detenute, quale sprone ad una condotta partecipativa. Con la nuova disciplina, per molti anni, chi ha pene lunghe, potrebbe non vedere più provvedimenti concessivi, anche a fronte di condotte partecipative. Sembra poca cosa, ma in carcere tutto il poco è essenziale.
È d’altra parte un po’ come se, in un percorso scolastico, si omettessero pagelle quadrimestrali e di fine anno per un quinquennio, chiedendo agli studenti di attendere l’esame finale, al cui esito tutto è rimesso. Non gli si consente così di comprendere bene cosa si vuole da loro e di correggere effettivamente i loro comportamenti, in vista di successive, più favorevoli valutazioni.
Può immaginarsi che, comunque, le istanze degli interessati e dei difensori resteranno copiose, soprattutto nell’approssimarsi di momenti esiziali per la vita del condannato, e in vista del fine pena, e che si svilupperà un contenzioso non facile sul confine dell’interesse dello stesso ad ottenere comunque una valutazione. In definitiva, quindi, non è detto che l’intervento normativo si traduca, anche per questa ragione, in una riduzione del carico di lavoro degli uffici di sorveglianza. Certamente residua poi la possibilità di interpretare la nozione di interesse, indicata dalla norma, in senso largo, considerandola integrata già dal vantaggio di aver ottenuto una risposta certa da parte del magistrato di sorveglianza. Si tratta probabilmente di una soluzione consentita dalla disposizione, con l’effetto di ridurre però al minimo l’impatto del novum normativo.
Permane, comunque, un rilevante contrasto tra il nuovo art. 54 co. 2 e il 69 bis co. 4. Il primo indica come necessaria la comunicazione al pm dell’esecuzione soltanto dei provvedimenti di mancata concessione o di revoca del beneficio, mentre il secondo non manca di indicare la necessità di comunicare al pm, ai fini dell’impugnazione, il provvedimento di concessione del beneficio. In effetti non appare ragionevole che il provvedimento concessivo non sia comunicato al pm dell’esecuzione, poiché la nuova legge non prevede alcun automatismo positivo e il nuovo art. 656 co. 10-bis espressamente subordina la riduzione della pena al riconoscimento della meritevolezza del beneficio. In sostanza il pm dell’esecuzione dovrebbe sempre essere notiziato, al fine di aggiornare il fine pena effettivo del condannato. In mancanza di una riforma del punto in sede di conversione, si corre il rischio di accrescere le incertezze, e di indurre il pm ad una stasi non legittima oppure a procedere, erroneamente, considerando un fine pena più breve di quello che il magistrato di sorveglianza ha effettivamente ritenuto, all’esito della valutazione sulla partecipazione al trattamento del condannato.
Manca nel nuovo testo ogni riferimento di diritto intertemporale. La liberazione anticipata è considerata dalla legge penitenziaria tra le misure alternative alla detenzione. Sembra derivarne perciò l’applicabilità del principio di cui alla sent. Corte Cost. 32/2020 per le previsioni che incidano negativamente sui requisiti di accesso. Nel caso che ci occupa sembra potersi dire che la riduzione dei momenti di accesso, con i rischi sopra paventati, configurino un deterioramento delle posizioni degli interessati. Può dunque ipotizzarsi che i procedimenti già pendenti possano giungere secondo la vecchia normativa a definizione.
Un effetto immediato, poiché di natura meramente processuale, potrà invece subito trovare applicazione, ed è quello della scomparsa del parere preventivo al pm di cui al vecchio art. 69-bis co. 2. Si tratta di una indubbia semplificazione, che contribuisce positivamente a ridurre l’aggravio sugli uffici di sorveglianza e anche sulle Procure, cui spetta comunque la facoltà di impugnazione del provvedimento non condiviso.
Dalla modifica dell’art. 69-bis sul punto deriva la scomparsa del parere del pm anche in sede di valutazione sull’esecuzione domiciliare dell’ultima parte della pena detentiva. Si tratta di un effetto forse non considerato, visto che l’art. 1 co. 5 della Legge 199/2010 avrebbe dovuto essere opportunamente modificato, eliminando un riferimento oggi rimasto privo di significato ad un termine più breve di attesa del parere del pm (non quindici, ma soltanto cinque giorni).
Il decreto-legge infine prevede in sei mesi modifiche del regolamento di esecuzione volte a uniformare profili procedimentali contenuti in quel testo, indicando inoltre l’onere a carico delle direzioni degli istituti penitenziari di comunicazione agli uffici di sorveglianza degli elementi necessari alla valutazione, nei momenti topici sopra indicati. Resta da chiedersi cosa accada però già da oggi e sino a queste modifiche, non essendo in condizione gli uffici di sorveglianza di provvedere da soli a monitorare l’approssimarsi del fine pena (virtuale) dei condannati.
Il regolamento di esecuzione, datato al 2000, ha da tempo bisogno di ampi rimaneggiamenti. La Commissione Ruotolo per l’innovazione del sistema penitenziario ne aveva ipotizzato, nel 2021, una ampia revisione. L’occasione potrebbe essere proficua per immaginare di riprendere in mano quei lavori.
Il complesso quadro di modifiche in materia di liberazione anticipata non sembra dunque esente da criticità. Si tratta, d’altra parte, di uno strumento cruciale per lo sviluppo di percorsi trattamentali prudenti e orientati alla risocializzazione. Rispetto ai ritardi cui la magistratura di sorveglianza va incontro per l’enorme mole di lavoro che grava sui suoi uffici, potrebbe darsi una più sicura soluzione in un robusto incremento degli organici, soprattutto amministrativi, che sarebbe in grado di consentire un disbrigo migliore degli affari e di rispondere, in questo modo, più efficacemente alla domanda di risposte individualizzate, che proviene dal mondo penitenziario.
4. L’incremento nel numero delle telefonate dei detenuti: un problema di fonti.
L’art. 6 del decreto-legge richiama ancora una volta una modifica necessaria del regolamento di esecuzione, concedendo sei mesi per provvedere, al fine di ampliare il numero delle conversazioni telefoniche autorizzabili (art. 39 reg. es.), parificandole nel numero ai colloqui visivi autorizzabili (art. 37 reg. es.). Fino all’adozione delle modifiche, si consente alle direzioni di autorizzare le telefonate oltre i limiti di legge.
Secondo questo testo, dunque, il numero di telefonate per i detenuti per reati diversi dall’art. 4-bis ord. penit. cui si applichi il regime ostativo del comma 1, potranno fruire di sei telefonate al mese, e gli altri detenuti di quattro telefonate al mese.
In realtà, nel tempo del COVID telefonate e videocolloqui sono state incrementate con disposizioni emergenziali in numero di gran lunga superiore. Una soluzione che ha contribuito certamente ad alleviare, almeno in parte, il senso di profondo isolamento emotivo che sempre accompagna la detenzione, ma che si era fatto insopportabile in quei tempi drammatici.
Con l’art. 2-quinquies della legge 70/2020, di conversione in legge dei decreti-legge 28 e 29, si è però introdotta una disciplina non legata al COVID, che aumenta significativamente il numero di colloqui telefonici e lo fa direttamente con il testo di normazione primaria, seppur incidendo sull’art. 39 del regolamento di esecuzione, di fatto nobilitando la fonte. Si dispone dunque la cessazione di efficacia dell’art. 39 co. 3 reg. es., prevedendo che la corrispondenza telefonica per i detenuti non per reati di cui all’art. 4-bis, possa essere persino quotidiana se si svolge con figli minori o con familiari ricoverati in ospedale. Quanto ai detenuti per reati di cui all’art. 4-bis co. 1 l’autorizzazione ai colloqui telefonici viene portata a non più di uno a settimana. Con la sent. 85/2024 la Corte ha per altro modificato in senso ampliativo la disposizione, prevedendo che il limite dei colloqui non si applichi per i detenuti per reati di cui all’art. 4-bis co. 1 per i quali non si applichi neppure il divieto dei benefici ivi previsto (ad esempio i collaboratori ex art. 58-ter ord. penit.).
La previsione del decreto-legge appare quindi specialmente problematica. Sembrerebbe determinare una modifica di fatto peggiorativa, riducendo, invece che ampliando, il numero dei colloqui telefonici per tutte le categorie di condannati, essendo forse mancato un adeguato coordinamento con la previsione contenuta nell’art. 2-quinquies della legge 70/2020. Ad esempio si ritornerebbe a quattro telefonate mensili (anche nei mesi che hanno cinque settimane), invece di cinque nel massimo, per i condannati per reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. cui si applichi il divieto di benefici. D’altra parte, però, la scelta operata in quel testo normativo, di intervenire con legge primaria sulla materia, sembra imporre comunque la disciplina più favorevole, contenuta in un testo di legge primaria, anche quando si dovesse modificare il regolamento. Si tratta di un altro profilo, dunque, in cui appare importante immaginare un ripensamento in sede di conversione in legge, che eviti incertezze applicative.
La previsione di un incremento del numero di colloqui telefonici in termini piuttosto modesti non è comunque destinata a risolversi in un sensibile mutamento nella qualità dei contatti dei detenuti con i familiari all’esterno. Il decreto-legge avrebbe potuto essere invece il giusto strumento per incidere in modo significativo sul tema dell’affettività dei ristretti, così importante in funzione di contrasto al rischio suicidiario e di propulsione risocializzante. Si trattava dell’occasione per prendere atto delle conseguenze della pronuncia 10/2024, con la quale la Consulta ha riconosciuto il diritto delle persone detenute a intrattenere anche colloqui intimi con il proprio partner, se non vi sono individualizzate ragioni di sicurezza che li sconsiglino. In quella sede la Corte Costituzionale, ormai sei mesi or sono, chiariva come fosse rimessa all’amministrazione penitenziaria e alla magistratura di sorveglianza l’ordinata esecuzione di quanto statuito, dunque da subito. Così sino ad ora non è invece avvenuto. Indicava tuttavia come la via legislativa continuasse a costituire quella privilegiata per disciplinare in modo coerente la materia. Nulla sul punto si dice nel decreto-legge che, invece, avrebbe potuto costruire la sede più adeguata per un intervento necessario e urgente, come certamente è quello imposto dall’obbligo di dar seguito ad un preciso insegnamento del Giudice delle Leggi.
5. Il punto e virgola nel 41-bis e la giustizia riparativa.
Nell’art. 7 del decreto-legge sono contenuti due interventi in materia di regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis ord. penit. Il primo è funzionale al secondo. Al co. 2-quater lett. f, in fine, è sostituito al segno di interpunzione: “.” il “;”. Ciò accade perché si introduce la previsione di una ulteriore lettera. Si tratta della f-bis. Per la verità non è ben chiaro perché, nel drafting normativo, si sia prescelta questa denominazione, a fronte di molte altre lettere ancora disponibili. Sta di fatto che l’intervento sulla lettera f si limita al punto e virgola, ma in realtà la disposizione è stata negli ultimi anni oggetto di due interventi della Corte Costituzionale, che avrebbero imposto al legislatore una modifica della norma volta a renderla anche formalmente conforme a quanto previsto dalla Consulta.
Con la sent. 186/2018, infatti, il Giudice delle Leggi ha dichiarato incostituzionale la lett. f nella parte in cui prevede il divieto di cucinare cibi, e con la sent. 97/2020 nella parte in cui non limita il divieto di scambiare oggetti ai soli appartenenti a gruppi di socialità diversi. L’intervento odierno manca quindi un’occasione in effetti obbligata per correggere la disposizione censurata così vastamente dalla Corte Costituzionale.
Con la lettera f-bis, al catalogo delle limitazioni imposte al detenuto in regime differenziato si aggiunge il divieto di accesso ai programmi di giustizia riparativa. Nella Relazione di accompagnamento si sottolinea come la speciale pericolosità sociale dei detenuti sottoposti al regime impedisca di fatto una decisione in termini positivi da parte dell’a.g. al momento in cui le è richiesto di valutare se vi sia un pericolo concreto per i partecipanti al programma. Al di là di ogni considerazione più ampia sulla vocazione universalistica del paradigma della giustizia riparativa e sulla sussistenza di un sistema di pesi e contrappesi già idonei a consentire alle parti di valutare adeguatamente se accedere al programma, mette conto qui sottolineare soltanto come la Corte Costituzionale abbia più volte ribadito che intanto una limitazione contenuta nel disposto dell’art. 41-bis ord. penit. è compatibile con i principi costituzionali, in quanto sia finalizzata, in modo congruo e proporzionato, a prevenire rischi per la sicurezza, risolvendosi altrimenti in una mera vessazione. Nel caso di specie una preclusione assoluta, che non consente un vaglio caso per caso, altrimenti previsto, sembra presentare criticità costituzionali che meritano una indagine assai più approfondita di quanto possibile con queste prime riflessioni, anche tenuto conto del fatto che da un provvedimento amministrativo (un decreto del Ministro della giustizia) si fanno derivare anche le, pur limitate, conseguenze nel processo, che derivano dall’esito riparativo eventualmente raggiunto.
6. L’albo delle strutture residenziali e le difficoltà di reinserimento sociale.
Un impatto positivo può derivare dalla previsione contenuta nell’art. 8 del decreto-legge della creazione di un elenco di strutture accreditate presso le quali possano essere concesse misure alternative a chi non dispone di un idoneo domicilio. È però rimandata ad un successivo regolamento, da emanarsi in sei mesi, la disciplina che presiederà alla formazione e all’aggiornamento dell’elenco, ed è dunque a quel testo che in concreto converrà riferirsi per comprendere la portata della disposizione e per vagliarne possibili criticità. Nel tempo del COVID19 si sperimentarono accordi volti a organizzare progetti di accoglienza indirizzati a detenuti con fine pena brevissimo (entro sei mesi), che hanno avuto buon esito, quando però l’accoglienza e il momento dell’invio sono stati curati adeguatamente, perché le persone detenute con maggior disagio sociale sono spesso proprio quelle anche prive di un domicilio, e la loro presa in carico deve perciò avvenire in modo specialmente attento e responsabile, da parte di strutture con regole di ingaggio precise e capaci in concreto di operare con persone in condizioni di disagio.
7. La semplificazione del “rito semplificato” ex art. 678 co. 1-ter ord. penit. È necessario scorrere il testo del decreto-legge sino all’art. 10 co. 2, per scorgervi una decisa, seppur circoscritta, semplificazione procedurale in materia di concessione di misure alternative alla detenzione. Con il d.lgs. 123/2018 fu infatti introdotto uno speciale rito semplificato che consentiva ad un magistrato delegato dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di concedere in via provvisoria una misura alternativa a condannati liberi sospesi in attesa di esecuzione di pene detentive non superiori ai diciotto mesi. L’ esecutività restava sospesa sino alla concessione in via definitiva da parte del Tribunale, che però avveniva senza udienza, oppure sino alla valutazione della eventuale opposizione, proposta dalla parte non soddisfatta dalla misura prescelta. Il provvedimento provvisorio poteva essere infatti soltanto positivo. Il decreto-legge, opportunamente, elimina la conferma, di fatto meramente duplicativa, da parte del Tribunale di sorveglianza, ove manchi l’opposizione. Decorsi i termini per quest’ultima, dunque, l’ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza diviene subito esecutiva.
In effetti la formula adoperata dal testo aggiunge che, in caso di opposizione, il Tribunale può confermare l’ordinanza o revocarla. Deve ritenersi, pur nell’ermetismo dell’espressione, che possa comunque intendersi che, come ora, in quella sede il Tribunale possa non soltanto revocare in senso proprio, determinando la carcerazione, ma anche revocare concedendo altra misura alternativa ritenuta più adeguata. Anche in questo caso, tuttavia, un chiarimento eviterebbe possibili dubbi.
Il testo non prevede disposizioni transitorie neppure in questa materia, e può quindi porsi la questione dell’applicabilità della nuova disciplina alle ordinanze provvisorie in attesa di conferma. Il principio del tempus regit actum, certamente qui applicabile, in presenza per altro di una stabilizzazione di effetti favorevoli, sembra far propendere per la positiva. In termini operativi, però, le ordinanze provvisorie sono normalmente complete di avvisi circa la non immediata esecutività e la necessità di attendere un provvedimento confermativo. Dovrà quindi immaginarsi, comunque, una qualche comunicazione, alle parti e alle agenzie interessate (Uepe e Forze dell’ordine), con non indifferenti aggravi di cancelleria.
Immagine: M.C. Escher, Belvedere, litografia, 1958.
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