ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Magistratura onoraria e ufficio per il processo: spunti per un sistema
di Carlo Sabatini
La previsione nel PNRR di risorse dedicate alla giustizia deve servire a riavviare un servizio, che è garanzia essenziale di ogni società e che ha scontato protratte carenze di programmazione e di investimenti: si indicano possibili proiezioni “a sistema” delle nuove assunzioni, dell’Ufficio per il processo e di una nuova magistratura onoraria.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le risorse - 3. Il sistema giurisdizionale - 4. La nuova magistratura onoraria: 4.1 accesso dall’UPP - 5. Competenze, inquadramento, retribuzione, incompatibilità (cenni).
1. Premessa
La sfida della ripartenza e del corretto e utile impiego delle risorse derivate dal PNRR offre la possibilità di profondi interventi nella, e per la, giustizia: interventi che dovrebbero articolarsi attraverso molteplici piani di azione, non essendo pensabile – per la complessità del sistema e l’interazione necessaria di tutte le sue componenti – un approccio solo per singole questioni.
Proprio per potere svolgere interventi che siano inquadrati (o gradualmente inquadrabili) in un assetto complessivo, si ritiene che debbano essere attentamente meditate le scelte più immediate: ci si riferisce all’assetto della magistratura onoraria (che a sua volta comprende problematiche assai eterogenee tra di loro) e al contempo al lancio (o rilancio) dell’Ufficio per il processo, che il legislatore ha posto al centro del recentissimo D.L. 80/21.
2. Le risorse
Si ritiene quindi in primo luogo necessario un approccio complessivo che, nel ripensare la giurisdizione e i suoi attori, si occupi in generale della struttura in cui li inserisce. Cercando di non ripetere le consuete doglianze sulla carenza delle risorse, nel momento in cui queste vengono poste al centro dell’attenzione come motore di cambiamento, non può però non rimarcarsi che la pandemia ha fatto emergere carenze e arretratezze sistemiche, ha indicato come alcune funzioni possano essere meglio gestite a livello informatico (la digitalizzazione del fascicolo, la sua integrale gestione computerizzata; la possibilità del lavoro da casa, che consentirebbe un migliore utilizzo dei lavoratori in part time, con il conseguente necessario accesso ai registri anche da remoto; la definitiva scelta anche nel penale per canali telematici di notifiche e comunicazione).
È allora evidente come un nuovo modo di lavorare, una giustizia più rapida ed efficiente non possono che passare attraverso la riqualificazione del personale in servizio, nuove mirate assunzioni a tempo indeterminato, in realtà anche ulteriori rispetto alle 16500 assunzioni per l’UPP sulle quali si tornerà infra, per colmare in maniera stabile alcune carenze. In definitiva, si deve essere consapevoli che non si possono fare riforme a costo zero, e che gli investimenti devono essere proiettati nel tempo.
3. Il sistema giurisdizionale
Passando al piano più propriamente giurisdizionale, si ritiene di partire dalla attenta distinzione svolta su questa Rivista [1]: sono state individuate
- attività di tipo preparatorio (organizzazione dell’udienza, preparazione e riordino dei fascicoli, studio preliminare di tematiche giuridiche ecc.);
- attività di tipo giurisdizionale ma non definitorio di controversie e dunque endoprocedimentale
- attività di tipo giurisdizionale, dunque decisorie, in senso pieno.
Nel prevedere le 16500 assunzioni il D.L. 80/21 sembra in qualche modo tenere conto di questa tripartizione: prevedendo che i compiti dei neoassunti siano (come indica l’all. II al D.L.) lo “studio dei fascicoli (predisponendo, ad esempio, delle schede riassuntive per procedimento); supporto il giudice nel compimento della attività pratico/materiale o di facile esecuzione, come la verifica di completezza del fascicolo, l'accertamento della regolare costituzione delle parti (controllo notifiche, rispetto dei termini, individuazione dei difensori nominati ecc.), supporto per bozze di provvedimenti semplici, il controllo della pendenza di istanze o richieste o la loro gestione, organizzazione dei fascicoli, delle udienze e del ruolo, con segnalazione all'esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione; condivisione all'interno dell'ufficio per il processo di riflessioni su eventuali criticità, con proposte organizzative e informatiche per il loro superamento; approfondimento giurisprudenziale e dottrinale; ricostruzione del contesto normativo riferibile alle fattispecie proposte; supporto per indirizzi giurisprudenziali sezionali; supporto ai processi di digitalizzazione e innovazione organizzativa dell'ufficio e monitoraggio dei risultati; raccordo con il personale addetto alle cancellerie” sembra volersi così assicurare – con meccanismi di supporto dei magistrati che tanti Paesi già da tempo hanno istituito – certamente la funzione preparatoria (con sgravio anche di funzioni del personale amministrativo), arrivando per così dire anche alla ‘soglia’ di quella che abbiamo definito funzione endoprocedimentale.
Il quesito da porre, al quale proprio questo legislatore potrebbe dare risposta nella citata ottica della completezza del sistema, è se sia possibile completare il disegno ripensando anche le fasi più propriamente giurisdizionali, ripensando quindi a consistenza e distribuzione degli organici della magistratura togata e – soprattutto – offrendo finalmente certezze sul ruolo che viene chiamata a svolgere la magistratura onoraria. Va precisato qui che ci si riferirà essenzialmente all’assetto futuro di tale funzione, ma cercando di tenere conto dell’attuale situazione che vede in situazione di protratta precarietà migliaia di magistrati onorari, ai quali va data finalmente risposta adeguata.
4. La nuova magistratura onoraria: 4.1 accesso dall’UPP
Provando allora a ripensare anche il futuro sistema della magistratura onoraria, deve innanzitutto porsi la questione del come realizzare la selezione in entrata. Un’occasione formidabile è offerta dalle già citate 16500 nuove assunzioni: figure che – superata la fase in cui come detto vengono addette all’attività più propriamente preparatoria – ben potrebbero essere proiettate anche per il futuro, verso i ruoli appunto della magistratura onoraria di pace, giudicante e requirente.
Al termine del triennio in cui si è svolto questo mix di formazione/collaborazione, si potrebbe cioè pensare di trarre le nuove figure di magistrati onorari da questa platea, che appare sufficientemente ampia per operare al suo interno una selezione per le funzioni più propriamente giurisdizionali, endoprocessuali o anche decisorie, per un periodo unico (ad esempio un ulteriore triennio) non rinnovabile. Avremmo dunque magistrati onorari che sono “emanazione” dei Tribunali in cui hanno già prestato servizio come collaboratori: in base alla relazione fatta dal magistrato al quale viene delegata la responsabilità del singolo UPP, potrebbero esservi un giudizio di idoneità dei Consigli Giudiziari (in cui già siedono rappresentati dell’Avvocatura, così coinvolta in questa valutazione) e quindi la formazione di graduatorie (anche per probabili subentri in corso, trattandosi di persone che per età anagrafica sarebbero certamente interessate a soluzioni lavorative più stabili). Questa strada consentirebbe di disegnare nei prossimi anni una nuova magistratura onoraria, che si avvale di un triennio di specifica formazione, persone già verificate sul campo per doti tecniche e per indipendenza e serietà, alle quali si offre la possibilità di svolgere un’esperienza limitata nel tempo ma fortemente qualificante, coerente con il percorso fatto e “spendibile” nel mondo del lavoro (questo accade per esempio nei Paesi nordici).
Si ritiene che questo sistema si coniughi assai bene anche con una possibile normativa transitoria: perché l’entrata a regime dei nuovi GOP/VOP avverrebbe – tenendo conto dei tempi per il bando per l’assunzione delle nuove figure, del loro primo triennio di mero impiego nell’UPP e del tempo necessario alle prime valutazioni di idoneità per i ruoli onorari – in tempi non brevi, nei quali continuerebbero ad agire secondo modalità e competenze vigenti gli attuali GOT/VPO (per i quali d’altra parte l’inserimento nell’UPP con funzioni di mero ausilio comporterebbe una ingiustificata deminutio e soprattutto una perdita di competenze).
Al riguardo, sembra essenziale effettuare una ricognizione della composizione anagrafica delle attuali categorie di onorari, perché sia possibile assicurare a chi è già in servizio il compimento del proprio percorso per maturare l’accesso a trattamenti pensionistici e previdenziali e al contempo per realizzare un graduale subentro delle nuove figure, che non crei carenze nel sistema: potrebbe richiamarsi lo stesso meccanismo di sincronizzazione (già sperimentato per i concorsi in magistratura) tra selezione/inizio tirocinio/immissione nelle funzioni: dopo l’iniziale immissione dei primi 16500,00 ogni tre anni si potrebbe cioè varare un nuovo bando (da calibrare nei numeri in base a questa prima esperienza) per le nuove assunzione nell’UPP, e contemporaneamente varare nei singoli CCGG la procedura di valutazione dei componenti che chiedano di svolgere funzioni onorarie.
4.2. Una ipotesi di accesso concorrente e alternativa: il contratto
Si è consapevoli che tale meccanismo sottende la protratta “alimentazione” dell’UPP, con periodiche assunzioni di figure analoghe a quelle previste dal DL, magari in misura inferiore purchè ne sia assicurata la regolarità: si ritiene allora necessario accennare all’ipotesi in cui invece tale figura non trovi continuità, ovvero al caso in cui tale meccanismo di formazione/impiego all’interno degli uffici con successiva proiezione nella giurisdizione risultasse nel tempo insufficiente a garantire un apporto numericamente sufficiente di magistrati onorari.
Si potrebbe allora prevedere un canale di accesso diverso e concorrente di magistrati onorari, dunque non una esperienza posta all’inizio di un percorso professionale con una inevitabile fase di formazione/collaborazione ma una esperienza affidata – comunque su base negoziale, e a tempo determinato – a professionisti che hanno già svolto attività giudiziaria. Se si ha riguardo alla situazione attuale, tale meccanismo potrebbe appunto essere riservato al momento in cui avranno terminato la loro esperienza gli attuali magistrati onorari, che hanno seguito un percorso che forse era nato proprio con le caratteristiche di essere collaterale e compatibile con altra e stabile attività lavorativa, ma che certamente nel tempo si è snaturato e complicato, in ragione di mere e non ragionate proroghe e anche con la graduale emersione di diverse e non coordinate figure.
5. Competenze, inquadramento, retribuzione, incompatibilità (cenni)
Si è consapevoli della complessità della materia, sulla quale sono stati spesi studi approfonditi, che non si ha la pretesa di ripercorrere [2]. Si vuole qui solo rimarcare che – se la fase “preparatoria” della decisione è assicurata soprattutto dall’UPP – il magistrato onorario (comunque sia stato selezionato) dovrebbe essere addetto invece a svolgere sia funzioni endoprocedimentali sia la gestione diretta di controversie, da definire con criteri essenzialmente valoristici e con limitate competenze per materia, anche se in questa ottica di collaborazione all’intero Ufficio (e soprattutto se si ha riguardo alle realtà dei tribunali di minori dimensioni) potrebbe essere comunque prevista una possibilità di comporre collegi in casi predeterminati.
Sarebbe interessante al riguardo accentuarne la potestà conciliativa (ad esempio, affidare tutti i procedimenti nel penale suscettibili di messa alla prova), con possibili effetti deflattivi anche sui gradi successivi di giudizio (imbuto nel quale altrimenti continuerebbero a riversarsi tutte le decisioni di primo grado): provvedendo a robuste semplificazioni dei riti, e magari ampliando (per il penale) i casi di sola sanzione pecuniaria. Va infatti chiarito un punto: se il legislatore ritiene di assicurare ancora “copertura giurisdizionale” a una serie di controversie e infrazioni “minori”, oltre che alla nutrita serie di compiti anche di altra natura che gravano sui tribunali (funzioni amministrative e certificatorie; atti di stato civile; competenze elettorali) con i numeri attuali non può che prevederne una gestione molto più semplice, una giurisdizione di stampo marcatamente conciliativo, che salvaguardi solo i tratti essenziali del contraddittorio: anche nell’ottica di salvaguardare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (l’alternativa, assai pericolosa e poco compatibile con gli equilibri disegnati dalla nostra Costituzione, sembra quella di meccanismi di discrezionalità in base a direttive emanate dal Parlamento) potrebbe risultare assai più semplice e lineare introdurre meccanismi di giurisdizione realmente più agile e di prossimità.
Pur se eventualmente svolto su norme processuali diverse, indefettibili appaiono l’approdo al ruolo onorario unico (la distinzione GOT-GdP-VPO-Giudici aggregati in Corte di appello ecc. è stata foriera di trattamenti anche economici ingiustificatamente difformi) e l’unitarietà di gestione in capo al Presidente del Tribunale e al Procuratore della Repubblica (compito delegabile a uno o più magistrati dell’Ufficio): per assicurare comunque il coordinamento tra le varie figure espresse da quell’Ufficio, per responsabilizzare i capi degli uffici giudiziari nell’attività di selezione e formazione dei componenti onorari e al contempo per consentire loro di modularne i compiti secondo le specifiche necessità di quell’Ufficio. Si potrebbero così valorizzare le parti di DOG e Progetti organizzativi che concernono l’impiego dei magistrati onorari, perché competerebbe al dirigente dell’ufficio, in base all’organico a disposizione, calibrarne l’uso e indicando alcuni obiettivi, ai quali potrebbe anche legarsi una parte della retribuzione. Se è certamente necessario evitare ogni forma di cottimo, la scelta ad esempio – in base alle manifestate disponibilità individuali – se svolgere il proprio servizio su una o più giornate di impegno (indubbiamente con un limite massimo, determinato per legge, proprio in ragione della temporaneità della prestazione), e il come modulare tale impegno (con prevalenza dell’una o dell’altra delle funzioni che sono state indicate in premessa), potrebbero far parte del “contratto” che il dirigente e il magistrato onorario potrebbero stipulare, avendo riguardo anche al tipo di attività professionale che lo stesso svolge e intende proseguire, dunque inserendo anche le incompatibilità come elementi del contratto che viene ad essere stipulato
Non appare inutile, in conclusione, ritornare sui temi più generali, per rimarcare che l’inserimento di nuove figure, il tendenziale assorbimento nei Tribunali di tutti gli uffici giudiziari, l’auspicabile razionalizzazione degli organici e delle dotazioni strutturali, l’incremento del lavoro a distanza riportano alla indefettibilità di progetti di lunga portata e quindi di investimenti: che appaiono però fruttiferi, ove si consideri che una razionalizzazione delle strutture comporterà rilevanti risparmi di spesa e – soprattutto – che una giustizia indipendente ed efficiente, in grado di svolgere al meglio la sua funzione di garanzia di controllo, è ormai riconosciuta come uno dei principali motori della crescita di ogni società, perché i diritti riconosciuti e attuati sono certamente una ricchezza collettiva.
[1] Pasquale Serrao d’Aquino Lo “stress test” dello statuto unico del magistrato onorario (d.lgs. 116/2017) tra progetti di controriforma, compatibilità con i principi costituzionali e tutela eurounitaria del lavoratore contro l’abuso della reiterazione dei contratti a termine - Giustizia Insieme
[2] Ci si limita a richiamare nel suo insieme il Forum che questa Rivista ha dedicato al tema La riforma della magistratura onoraria: forum - Giustizia Insieme
Considerazioni sulla riforma prevista dagli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII: l’istituzione di un «provvedimento sommario e provvisorio con efficacia esecutiva» di Caterina Silvestri
Sommario: 1. Il quadro di riferimento delle riforme in corso - 2. Il «provvedimento sommario e provvisorio con efficacia esecutiva»: profili di riflessione.
1. Il quadro di riferimento delle riforme in corso
La riforma della giustizia civile delineata nel d.d.l. n. 1662/S/XVIII presentato al Senato il 9 gennaio 2020, per la verità di modesta prospettiva, è quanto l’attuale compagine istituzionale si è trovata a disposizione per rispondere al soverchio impegno previsto nel più ampio quadro di interventi che l’Ue chiede al nostro Paese con il programma di sostegno finanziario Next Generation EU [[1]].
La risposta dell’Italia, contenuta nel «Piano nazionale di ripresa e resilienza.#nextgenerationitalia», si snoda ridondante attraverso i risaputi limiti che da anni affliggono il funzionamento del sistema, cioè i tempi eccessivamente lunghi, e l’orizzonte di una riconquista della fiducia sia dei cittadini, sia degli osservatori e degli investitori internazionali.
Esso pone al primo posto un’impegnativa serie di riforme, tra le quali spicca quella della pubblica amministrazione e della giustizia nel suo complesso, anche ordinamentale, e una serie di missioni altrettanto ambiziose che investono molti settori: Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo (missione 1), Rivoluzione verde e transizione ecologica (missione 2), Infrastrutture per una mobilità sostenibile (missione 3), Istruzione e ricerca (missione 4), Inclusione e coesione (missione 5), Salute (missione 6) [[2]].
Con riferimento al processo civile è il Piano stesso a prevedere che il metodo destinato a governare le innovazioni sia quello dello «intervento “selettivo” » espressamente diretto a «ovviare alle aree più disfunzionali» [[3]]. Detta previsione annuncia, dunque, di per sé sola, il sopravvenire di un’azione più di riparazione che di innovazione, di limitato impatto e di rimaneggiamento del vecchio, dalla quale difficilmente potrà realisticamente provenire l’effetto sperato di alleggerimento e velocizzazione della risposta giudiziale alla richiesta di tutela. Il metodo seguito dal Piano è già stato criticato da Elena D’Alessandro con rilievi del tutto condivisibili: esso è più teso a dire ciò che non vuole, piuttosto di ciò che vuole, non muove da un’analisi empirica e statistica, nemmeno si sporge oltre confine a guardare come gli altri Paesi europei hanno affrontato i problemi analoghi ai nostri, con attenzione sia a specifici istituti, sia all’approccio complessivo al problema dell’efficienza della giustizia [[4]].
L’originario d.d.l. n. 1662 ha dovuto essere irrobustito in tempi rapidissimi, inconciliabili con l’opportunità di un rinnovamento profondo e organico che l’occasione finanziaria in gioco avrebbe consentito. Gli emendamenti proposti [[5]] si sono mantenuti fedeli alla scelta dell’intervento selettivo indicata dal Piano: essi conservano invariato l’impianto dell’attuale processo ordinario, introducono un ulteriore irrigidimento del rito e degli oneri a carico delle parti prevedendo, tra gli altri, la necessità di formulare a pena di decadenza la richiesta dei mezzi istruttori sin dall’atto introduttivo [[6]], ed enfatizzando la politica del «respingimento» [[7]], in un eterno ritorno dell’uguale [[8]].
2. Il «provvedimento sommario e provvisorio con efficacia esecutiva»: profili di riflessione
In questo quadro di conservazione e aggiustamento dell’esistente, una delle novità di maggior rilievo risiede nella previsione dell’istituzione di un «provvedimento sommario e provvisorio, con efficacia esecutiva» [[9]]. La formula, tuttavia, promette di più di quanto non sia effettivamente indicato nell’articolato.
L’art. 3, punto c-decies, dell’emendamento AS 1662, prevede «che, nel corso del giudizio di primo grado, nelle controversie di competenza del tribunale che hanno ad oggetto diritti disponibili: 1) il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate». Solo l’ordinanza di accoglimento sarebbe reclamabile ex art. 669-terdecies c.p.c., non destinata ad acquistare l’autorità di cosa giudicata di cui all’art. 2909 c.c., né efficace in altri processi. L’accoglimento del reclamo condurrebbe alla prosecuzione del giudizio dinanzi a un giudice diverso rispetto a quello che ha reso il provvedimento riformato.
La previsione in questione fa il paio con quella del successivo punto c-undecies, la quale prevede di affidare al giudice, «all’esito della prima udienza di comparizione delle parti e trattazione della causa» e su istanza di parte, il potere di pronunciare una «ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta» sia «quando questa è manifestamente infondata», sia «se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dall’art. 163, terzo comma, numero 3 (…), ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) del predetto terzo comma». Anche questa ordinanza, che assimila il trattamento processuale del rigetto per motivi di merito e per motivi di rito della domanda e perciò destinata a sostituire il rilievo della nullità della citazione disciplinato dall’art. 164, quarto comma, c.p.c., avrebbe analoga disciplina di quella di accoglimento. Si tratta di provvedimenti delicatissimi, che meritano approfondimento e su cui mi limito a fare alcune considerazioni, certamente parziali.
L’emissione del provvedimento di accoglimento è modellata sulla tecnica della condanna con riserva delle difese del convenuto, come precisa la Relazione illustrativa che pure l’accosta al référé provision francese o al summary judgement inglese. L’associazione non è particolarmente felice, atteso che né il primo né il secondo presentano un impianto anche lontanamente equiparabile alla condanna con riserva. Il rilievo non è di secondo momento, atteso che il modello organizzato dall’emendamento in questione altera, rispetto ai modelli stranieri evocati, il rapporto che in quelli intercorre tra la struttura processuale e il tipo di rimedio, modificandone conseguentemente la funzionalità. Il référé provision [[10]] non è fondato sulla disarticolazione tra fatti costitutivi ed eccezioni, perché la tipizzazione dei fatti non è utilizzata in Francia quale criterio per la distribuzione degli oneri processuali tra le parti [[11]]; in esso il giudice compie una valutazione d’insieme della lite, condotta sulla ricorrenza della «percepibilità» di una situazione di «manifesta» fondatezza, infondatezza, o illiceità afferente al contenzioso, tanto da essere definito il giudice dell’evidente e dell’incontestabile; inoltre, deve rammentarsi che il référé è, soprattutto, un procedimento. Esso è autonomo rispetto al processo ordinario, deformalizzato e trova il suo più vicino parente nel nostro sistema, nel processo cautelare. Il summary judgment, dal canto suo, è essenzialmente basato sulla natura non contestata dei fatti rilevanti, anch’essi privi di una tipizzazione analoga a quella rinvenibile nell’art. 2697 c.c. Alla luce di queste diversità, che riflettono un approccio al processo meno formale e meno dogmatico, è difficile pensare a questi istituti anche solo come fonti di ispirazione per il provvedimento oggetto dell’emendamento di cui all’art. 3, c-decies.
Meglio, allora, trattare la condanna con riserva quale espressione tradizionale del nostro sistema. La tecnica in questione, come noto, conosce applicazioni che si esprimono al meglio, sia pure entro diverse strutture processuali, nella convalida di sfratto e nel procedimento ingiuntivo, le quali hanno quale comune caratteristica la «tipicità» dell’ambito di applicazione. Qualche dubbio può sorgere sulla idoneità alla generalizzazione di questa modalità di sommarizzazione e sulla sua capacità di rispondere al bisogno di misure endoprocessuali [[12]] sentita da tempo (e già frustrata dalla deludente performance delle ordinanze di cui agli artt. 186-bis-ter-quater, c.p.c.). Bisogno, per la verità, che non si esaurisce in un provvedimento di accoglimento o di rigetto, ma che è ampio tanto quanto le variabili esigenze di tutela che ciascuna fattispecie può presentare: misure di attesa [[13]] e/o di conservazione e/o di anticipazione di tutto o parte della domanda, che il giudice potrebbe adottare su istanza di parte con una semplice ordinanza provvisoria, revocabile e modificabile, reclamabile, in grado anche di rispondere a esigenze di tipo propriamente cautelare, senza attivare il relativo sub procedimento, come accade adesso per le misure di questa natura richieste a processo pendente. La previsione c-decies interpreta l’esigenza di accelerazione della tutela endoprocessuale in maniera riduttiva, costringendola a un aut aut tra accoglimento o rigetto, forzando il primo entro il rigido schema della condanna con riserva.
Perché non cogliere questa occasione riformatrice per dotare anche il nostro sistema processuale di uno strumento più duttile, che possa condurre all’emissione di provvedimenti il cui contenuto risponda alle specifiche esigenze della lite pendente, proprio come avviene nel processo civile francese, tanto spesso evocato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, in cui il giudice del merito può ordinare tutte le misure di cui la lite manifesti di avere bisogno, compresi i provvedimenti ordinabili con l’autonomo procedimento di référé.
La previsione del c-undecies desta, a sua volta, qualche preoccupazione sotto perlomeno un paio di profili. Il primo di questi riguarda l’utilizzo dell’ordinanza di rigetto a fronte di un vizio procedimentale, per il quale non v’è più possibilità di rinnovazione, ma solo di reclamo, in un’ottica che Capponi ha efficacemente definito di respingimento. Si tratta di un irrigidimento formale, temibilmente destinato a ingombrare i ruoli anziché ad alleggerirli proprio per il necessario impiego del reclamo che, ove confermato, costringerebbe la parte a riproporre la domanda dopo l’inutile, lungo e costoso esperimento delle vie giudiziali, sfociato in una pronuncia di puro rito (danni forse recuperabili attivando la responsabilità professionale dell’avvocato?). Dalla previsione così come formulata nell’emendamento, il processo esce ridotto nelle sue aspirazioni di essere utile strumento di tutela, mirante a un provvedimento di merito e che a tal fine organizza al suo interno meccanismi di rinnovazione che consentano il recupero di eventuali errori formali, giacché il processo non può assumere l’infallibilità degli umani che ne sono protagonisti.
Il secondo fronte di perplessità della previsione c-undecies concerne l’ordinanza di rigetto per manifesta infondatezza e tocca questioni di adeguatezza costituzionale, ma anche di carattere tecnico, che qui mi limito ad accennare. Sul piano costituzionale, v’è da chiedersi se possa considerarsi coerente con la previsione dell’art. 24 Cost., e per certi versanti anche con l’art. 3 Cost, una norma come quella in discorso che, in sostanza, si traduce nella necessità di provare il fumus della fondatezza della domanda giudiziale per accedere alla tutela ordinaria; necessità che, per certe liti, si annuncia particolarmente impegnativa, tanto da poter frustrare la pratica accessibilità al giudice come, per esempio, nei contenziosi complessi sul piano fattuale o caratterizzati da asimmetrie informative. Sul versante tecnico, la previsione si riferisce esclusivamente alla domanda di parte attrice (tanto che disciplina anche i vizi dell’edictio actionis), ma tace del tutto sui problemi connessi alla presenza di una domanda riconvenzionale, a partire dall’applicabilità alla stessa del rigetto per manifesta infondatezza.
È auspicabile il ripensamento di questi profili e l’articolazione di una modalità accelerativa esperibile sia all’interno del processo ordinario sia autonomamente a esso, deformalizzata, atipica, provvisoria, reclamabile.
[[1]] Disponibile all’indirizzo https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/recovery-coronavirus/recovery-and-resilience-facility_it.
[[2]] Il piano è disponibile all’indirizzo https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf.
[[3]] Così si legge a pag. 57 del Piano nazionale, cit., alla nota precedente.
[[4]] E. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo, in questa Rivista, consultabile al link: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1758-la-riforma-della-giustizia-civile-secondo-il-piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-e-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-riflessioni-sul-metodo-di-elena-d-alessandro.
[[5]] Gli emendamenti al disegno di legge AS 1662 e la Relazione Illustrativa degli stessi, sono leggibili in calce al saggio di B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, in questa Rivista, consultabile al seguente link: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1736-prime-note-sul-maxi-emendamento-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-di-bruno-capponi.
[[6]] Così, in particolare, G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in questa Rivista, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1747-osservazioni-al-maxi-emendamento-1662-s-xviii-di-riforma-del-processo-civile.
[[7]] Così B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, cit., p. 5, cui appartiene l’espressione virgolettata: con essa l’A. si riferisce alla prevista abrogazione dell’art. 164, comma 4, c.p.c., e alla pronuncia di un’ordinanza provvisoria di rigetto della domanda senza possibilità per la parte attrice di rinnovare l’atto introduttivo; analoga affermazione può farsi con riferimento al giudizio di appello, per il quale è previsto un irrigidimento dei filtri di inammissibilità.
[[8]] Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, cit., p. 4, osserva come il maxi emendamento giochi «la carta del principio di eventualità indiscriminato». Sull’accoglimento del modello processuale dell’eventualità la dottrina si interrogò, come noto, già al momento delle riforme del processo civile di cui alla l. n. 353 del 1990; tra questi anche P.F. Luiso, Principio di eventualità e principio della trattazione orale, in Scritti in onore di Fazzalari, II, Milano, 1993, p. 207, presidente della Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, consultabile al link ink https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?facetNode_1=0_10&contentId=COS334499&previsiousPage=mg_1_36.
[[9]] Questa l’espressione utilizzata dalla proposta della Commissione Luiso, cit., p. 33, ripresa pedissequamente dalla Relazione Illustrativa agli emendamenti al disegno di legge AS 1662.
[[10]] Non più all’art. 809 del Code de procédure civile come si legge nella Relazione illustrativa del maxi emendamento, cit., ma all’art. 835, c.p.c., a seguito della riforma introdotta con i decreti attuativi della loi n. 2019-222 de programmation 2018-2022.
[[11]] Esiste in Francia la sola teorizzazione del fatto generatore del diritto in Motulsky, la quale, tuttavia, non trova applicazione pratica nel processo; su questi aspetti mi permetto di richiamare C. Silvestri, Il fatto e la domanda in giudizio. Profili ricostruttivi, Napoli, 2020, p. 105 ss.
[[12]] Dubbi che già esprimeva A. Proto Pisani, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, p. 342, il quale con riferimento alla prospettiva de iure condendo di prevedere un sistema in grado di evitare l’abuso del diritto di difesa da parte del convenuto, riteneva «Sconsigliabile il ricorso alla tecnica della condanna con riserva delle eccezioni» auspicando anche un riesame delle ipotesi già presenti nel c.p.c.; sul tema significativa anche l’analisi di G. Scarselli, La condanna con riserva, Milano, 1989, p. 75 ss. Si ricorderà, tuttavia, che lo stesso Proto Pisani, Per un nuovo codice di procedura civile, in Foro it., 2009, V, c. 31, prevedeva all’art. 2.28 la «Ordinanza di condanna con riserva» che attribuiva al giudice, su istanza di parte, di emettere «ordinanza di condanna all’adempimento della prestazione richiesta» quando i fatti costitutivi fossero incontestati o pienamente provati. Essa, tuttavia, si inseriva in un contesto molto più ricco di provvedimenti acceleratori, rispetto a quelli previsti dal nostro attuale c.p.c., e anche in una più ricca articolabilità del rito a seconda delle necessità della lite (artt. 2.19 e ss.).
[[13]] Con questa espressione mi riferisco a provvedimenti quali, per esempio, la nomina di un amministratore provvisorio, di un tutore, di un custode.
Ripudio islamico: riflessioni - anche extravagantes - a proposito di vulnerabilità
di Maria Giovanna Ruo
Sommario:1. Donne ripudiate: soggetti vulnerabili e violazione dei diritti fondamentali. - 2.Il caso concreto. - 3.L’iter argomentativo della Suprema Corte-Cass.n. 16804 del 7 agosto 2020 - 4.Corte di giustizia e ripudio. - 5.Ripudio e contrarietà all’ordine pubblico. - 6.Islam, matrimonio, ripudio, diritti delle minoranze, inconciliabilità di sistemi. - 7. I cd. “divorzi d’argento”: vulnerabilità delle donne anziane divorziate e necessità di tutela rafforzata.
1. Donne ripudiate: soggetti vulnerabili e violazione dei diritti fondamentali.
Talaq…talaq…talaq: con questa formula sacramentale, scandita per tre volte (o in alcuni ordinamenti anche una sola volta), in molti Paesi islamici il marito, esercitando il diritto potestativo che gli viene attribuito dalla sharia, può sciogliere il matrimonio dalla moglie; questa non sono non può opporsi ma, secondo leggi e tradizioni di alcuni tra tali Paesi, può anche non esserne consapevole, potendo avvenire il tutto senza che lei ne sia nemmeno informata.
Le formule possono variare ma, contenendo espressamente il termine talàq (o simili), esprimono la chiara volontà del marito di porre fine al matrimonio che, secondo ordinamenti sharaitici, comporta l’autorità maritale sulla sposa. Si tratta quindi di atto unilaterale di volontà del marito che può delegare a terzi -e persino alla moglie nel contratto matrimoniale, concedendole che sia lei stessa autoripudiarsi- a porre fine al matrimonio. Ma nulla di simile per la donna, cui non è riconosciuto analogo diritto.
L’autorità giudiziaria -quando interviene (e si tratta per lo più di tribunali religiosi)- si limita a prendere atto, a omologare, prescindendo dalla vocatio della moglie soggetto vulnerabile alle mercè della volontà del marito cui non è nemmeno riconosciuta alcuna possibilità di tutelarsi e difendersi.
Quale rilevanza ed efficacia tali atti e provvedimenti possono avere nel nostro ordinamento i cui cardini sono i principi di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, contraddittorio e diritti di difesa?
La Suprema Corte è tornata sulla questione con la sentenza n. 16804 del 7 agosto 2020 che conclude l’iter giurisprudenziale ormai consolidato da anni, affermandone infatti inefficacia e irrilevanza, in ragione alla loro contrarietà all’ordine pubblico per violazione di principi costituzionali e di diritti fondamentali della persona sia sul piano sostanziale sia su quello processuale.
2.Il caso concreto.
La vicenda esistenziale e processuale alla base del provvedimento di riferimento riguarda due cittadini, entrambi italiani e giordani, la cui unione era stata celebrata con rito sharaitico nel loro paese di provenienza. Il marito era poi comparso dinanzi al giudice del Tribunale religioso di Nablus occidentale, perchè venisse “registrato il divorzio di primo grado” dalla moglie. Tale domanda di divorzio consisteva nella registrazione, assente la moglie, di una domanda formulata dal marito alla presenza di due testimoni; veniva quindi emessa sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio, con l’avvertimento che, decorso il periodo legale in difetto di decisione del marito di “risposare” la donna (ovvero di riunirsi a lei con nuovo contratto di matrimonio), il divorzio sarebbe divenuto definitivo. Successivamente la moglie, informata dell’ “istanza di divorzio di primo grado” del coniuge, si era presentata accompagnata dalla madre; le era stata personalmente comunicata la richiesta del marito. Decorsi tre mesi, il divorzio “senza presenza o accettazione della moglie”, era divenuto definitivo, a seguito di pronuncia, del medesimo Tribunale sharaitico ed era stato rilasciato al marito il nulla osta al nuovo matrimonio.
Il provvedimento non definitivo, con il quale il Tribunale di Nablus aveva pronunciato lo scioglimento del matrimonio, era stato poi trascritto nei Registri di Stato Civile di Roma su richiesta dell’uomo. La moglie aveva quindi adito la Corte di Appello capitolina per ottenere la cancellazione della trascrizione del provvedimento dai registri dello stato civile, a motivo delle sue non definitività e contrarietà all’ordine pubblico e del contrasto del ripudio islamico con i principi della nostra Carta costituzionale. La Corte d’Appello aveva accolto il ricorso, ordinando all’Ufficiale di Stato civile di cancellare la trascrizione della sentenza. Il marito aveva quindi presentato ricorso per Cassazione per 4 motivi, esaminati congiuntamente dalla Suprema Corte in quanto connessi. Erano state presentate conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott.ssa Luisa De Renzis, che aveva chiesto il rigetto del ricorso. La Suprema Corte, dopo aver disposto approfondimenti circa la normativa palestinese applicabile, ha rigettato il ricorso.
3.L’iter argomentativo della Suprema Corte-Cass.n. 16804 del 7 agosto 2020-.
La Cassazione, nell’esaminare congiuntamente i quattro motivi di ricorso in quanto connessi, ricostruisce l’istituto del “ripudio”, sottolineando come anche negli stati in cui è stato proceduralizzato -perdendo il suo carattere meramente negoziale- tuttavia l’Autorità che interviene ha funzioni di omologazione, talvolta decisorie, ma comunque “limitate a recepire la volontà unilaterale del marito” con l’emanazione di un provvedimento che incorpora il ripudio con funzioni di omologa e presa d’atto. Esamina le norme interne rilevanti (artt. 64 e 65 l. 218/1995 e art. 18 D.P.R. 396/2000) ai fini del riconoscimento di efficacia nel nostro ordinamento di provvedimenti stranieri. Ricostruisce la giurisprudenza interna ed europea in materie di riconoscimento di provvedimenti stranieri di scioglimento del matrimonio.
Il riconoscimento dei provvedimenti stranieri è infatti regolato dagli artt. 64 e sgg. della l. 218/1995. Per i provvedimenti stranieri in materia personale e familiare, occorre l’annotazione in pubblici registri in Italia. L’autorità preposta “dovrà operare un giudizio, ancorché non tecnicamente delibativo, di riconoscibilità a fini attuativi”: dovrà, cioè, verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla L. n. 218 del 1995 cit., artt. 64 e 65. Per le sentenze (art. 64: non contrarietà all’ordine pubblico e dei diritti di difesa); per gli altri provvedimenti in materia personale o familiare (art. 65: anche che assunti dalle autorità dello Stato la cui legge sia quella richiamata dalle norme di conflitto: Cass. 17463/201), assume altresì rilievo il D.P.R. 396/2000, art. 18 secondo cui “gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”. Se l’Ufficiale di stato civile rifiuta la trascrizione, l’interessato “deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile… presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”. Nella fattispecie, peraltro, l’Ufficiale di stato civile aveva invece proceduto all’annotazione della sentenza non definitiva di divorzio, non ravvisando contrarietà all’ordine pubblico.
Necessaria quindi la verifica della compatibilità del provvedimento straniero di cui viene richiesta la trascrizione con l’ordine pubblico: a tale fine -secondo la Suprema Corte- è richiesta una “valutazione ampia, comprensiva non solo dei principi fondamentali della Costituzione e dei principi sovranazionali ma anche delle leggi ordinarie e delle norme codicistiche”. Tale operazione ermeneutica che, necessariamente procedendo dal caso singolo, deve però approdare ad un inquadramento sistematico, per consentire un ordine di priorità nell’equo bilanciamento dei valori in gioco (Cass., SS.UU., sent. n. 12193/2019).
4.Corte di giustizia e ripudio.
Ricostruita la propria giurisprudenza in materia di riconoscimento di provvedimenti stranieri di divorzio, e rilevato come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si sia ancora pronunciata in materia relativamente alla parità di condizioni tra i coniugi nel divorzio, la Cassazione si sofferma su Corte di Giustizia, 20 dicembre 2017, resa nel procedimento Soha Sahyouni contro Raja Mamisch. La questione riguardava una coppia di cittadini con doppia cittadinanza sia siriana che tedesca, i quali avevano contratto matrimonio islamico in Siria. Il marito aveva ottenuto da un tribunale sharaitico provvedimento dichiarativo dello scioglimento del matrimonio, in forza della sua dichiarazione unilaterale di divorzio e ne richiedeva il riconoscimento nell’ordinamento tedesco. In quel caso la moglie aveva anche sottoscritto un documento che attestava l’avvenuto adempimento nei suoi confronti degli obblighi del marito dipendenti dal contratto di matrimonio e dalla dichiarazione di ripudio, quasi accettandolo implicitamente. Il riconoscimento degli effetti civili della pronunzia di divorzio siriana era stato concesso dal Tribunale competente di Monaco di Baviera. I giudici d’appello hanno ritenuto di proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine, anzitutto, all’applicazione del Regolamento n. 1259/2010 anche al c.d. divorzio privato, pronunciato dinanzi ad un tribunale religioso sulla base della Sharia. In caso di risposta affermativa alla prima questione e quindi di ritenuta applicazione del regolamento (Reg. n. 1259/2010), si sarebbero poste ulteriori questioni: a) se occorra fondarsi in astratto su un confronto dal quale risulti che la legge applicabile a norma dell’art. 8 riconosce il diritto di accedere al divorzio anche all’altro coniuge, ma lo subordina – in ragione del sesso di tale coniuge – a condizioni procedurali e sostanziali diverse da quelle valevoli per l’accesso al divorzio del primo coniuge, oppure b) se l’applicabilità della disposizione sia subordinata alla condizione che l’applicazione della legge straniera astrattamente discriminatoria sia anche nel singolo caso – in concreto – discriminatoria; c) in caso di risposta affermativa alla seconda alternativa della seconda questione, se il consenso al divorzio prestato dal coniuge discriminato – anche mediante la sua accettazione di prestazioni compensative – costituisca già un motivo per disapplicare la disposizione sopra citata”. La Corte di giustizia aveva escluso l’applicabilità dei citati Regolamenti europei a provvedimenti di Tribunali religiosi, pur essendo le loro pronunce riconosciute dall’ordinamento dello Stato in cui operano, cosicché le questioni subordinate non avevano ricevuto risposta. Tuttavia la Suprema Corte richiama sulle stesse le conclusioni dell’Avvocato generale, il quale aveva rilevato come sia sufficiente ad impedire l’applicabilità della legge straniera negli ordinamenti europei la violazione astratta del principio di non discriminazione e che nemmeno l’accettazione dell’indennità connessa al ripudio da parte della donna discriminata abbia valore ai fini di tale applicabilità, in quanto il principio di non discriminazione deve intendersi sottratto alla libera disponibilità delle parti (in ragione di ciò l’Avvocato generale aveva concluso nel senso dell’irrilevanza, sull’applicabilità del divieto di cui all’art. 10 del Regolamento, della circostanza che il coniuge discriminato avesse accettato l’indennità).
5.Ripudio e contrarietà all’ordine pubblico.
In concreto, nel caso in esame alla Suprema Corte di Cassazione rileva come, anche se era stata prevista nel territorio giordano-palestinese una legge più garantista (legge n. 3 del 2011 che avrebbe rinnovato l’istituto con un sostanziale riequilibrio delle posizioni dei coniugi all’interno del procedimento ma che non era formalmente entrata in vigore), non era però stata applicata al caso concreto cui, viceversa, era stata applicata la normativa di cui alle leggi n. 31 del 1959, n. 61 del 1976, prive di garanzie per la donna ripudiata.
Nella fattispecie la domanda di divorzio del marito era stata accolta dal Tribunale shariatico o sharaitico, sulla base della semplice presa d’atto della di lui volontà; la pronuncia era divenuta definitiva successivamente alla notifica del provvedimento alla moglie e decorso del termine di legge. Si tratta quindi -secondo la Cassazione- di un atto di autonomia privata autenticato o certificato dall’autorità religiosa competente, la cui contrarietà all’ordine pubblico internazionale è evidente, sia sotto il profilo sostanziale (sperequazione delle posizioni dei due coniugi con evidente sbilanciamento in sfavore della donna, oggetto del ripudio e non facoltizzata all’esercizio di diritto equivalente; assenza di valutazione della cessazione della comunione materiale e spirituale) e processuale (assenza di contraddittorio e di diritti di difesa).
In rapida successione, la Cassazione è tornata a occuparsi di “ripudio” questa volta -per analoghi motivi- accogliendo invece il ricorso di un uomo in un caso di divorzio iraniano, cassando la sentenza della Corte di appello di Bari e rinviando alla stessa in diversa composizione. Anche nel caso di cui si occupa la Suprema Corte nella sentenza 17170 del 14 agosto 2020, la Corte di appello baresina aveva ordinato la cancellazione della sentenza del tribunale iraniano, ma la Cassazione censura il provvedimento sotto il profilo motivazionale, espressamente richiamando la propria giurisprudenza in materia di ordine pubblico internazionale e affermando che il giudice della delibazione, nel riconoscere le sentenze nell’ordinamento interno, deve verificare se siano stati soddisfatti “i principi sostanziali dell’ordinamento relativi anche al procedimento anche relativi al procedimento formativo della decisione” e quindi se nel procedimento dinnanzi al giudice straniero siano stati rispettati i diritti della difesa. La Corte di appello di Bari si era limitata ad affermare che il divorzio iraniano per il suo carattere unilaterale e arbitrario non si discosta dal ripudio, senza espresso riferimento agli effetti dell’atto nell’ordinamento interno individuando correttamente il limite dell’ordine pubblico che, nell’attuale fase storico-sociale “si identifica nel complesso dei valori discendenti dalla Costituzione e dalle fonti internazionali e sovranazionali dettati a tutela dei diritti fondamentali per il modo in cui essi si attuano attraverso il diritto vivente…” Cass., 19599/2016). Insomma non è la non coincidenza degli istituti stranieri con quelli italiani che costituisce il limite dell’ordine pubblico internazionale ma il conflitto con i valori fondanti.
6.Islam, matrimonio, ripudio, diritti delle minoranze, inconciliabilità di sistemi.
I gruppi di mussulmani che si stanziano in Italia hanno una forte identità culturale e religiosa e, come ricorda M. E. Ruggiano (Il ripudio della moglie voluto dalla Sharia e la contrarietà al diritto italiano, in Familia) citando a sua volta M. Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, 2006, “L’Islam rappresenta una cultura, un assetto di potere, una ideologia ampia e articolata e per questo definita «una concezione della vita, del mondo, della società, della natura, dell’uomo e di Dio olistica e onnicomprensiva» ma è anche una religione che contiene regole sia di tipo spirituale che temporale e che, grazie a queste ultime, ha elaborato, nel tempo, un ordinamento giuridico”.
Il diritto matrimoniale islamico si fonda su principi inconciliabili con il nostro sistema che sono all’origine del problema del ripudio. Per il diritto islamico, pur nelle sue diversificazioni che dipendono da una serie di fattori storici e sociali, il matrimonio trae origine da un contratto bilaterale nel quale però diritti e doveri sono sbilanciati o, meglio, nella prospettiva di tale cultura, hanno un equilibrio particolare, alieno dalla prospettiva della nostra sensibilità giuridica. Con tale contratto il marito acquisisce infatti diritti sulla persona della moglie (godimento sessuale e autorità maritale) mentre la moglie godrà dei donativi obnuziali obbligatori e del soddisfacimento dei bisogni materiali. Tale disuguaglianza di posizioni si estrinseca quindi anche e proprio nel ripudio, in cui il marito può porre fine al vincolo coniugale con una semplice dichiarazione verbale, nonostante il Corano veda con sfavore il ripudio (Maometto lo definisce “la cosa più odiosa al cospetto di Dio”). Vi è da ricordare che tale istituto islamico, anche nei sistemi sharaitici, non è l’unico istituto in ragione del quale il matrimonio possa venir meno: oltre ai casi di nullità, vi sono anche divorzio giudiziale e divorzio per mutuo consenso.
All’interno delle comunità mussulmane vi è la forte consapevolezza della propria identità, da custodire gelosamente, anche quando tale identità confligge con l’assetto culturale del Paese ospitante. Chi ha avuto la possibilità di incontrare dal proprio tavolo di lavoro difensivo (ottimo punto di osservazione) tali fenomeni, ha constatato una duplice tensione nelle donne mussulmane: il desiderio di integrazione e di “occidentalizzazione” nella parità dei diritti, accanto al desiderio di forte affermazione della propria identità religiosa, giuridica, culturale. Si verifica nella realtà esistenziale delle donne mussulmane migrate in Italia -e soprattutto nelle cd. “seconde generazioni” nate in Italia e vissute nel nostro Paese accanto a coetanei con (identità religiosa ormai estremamente “sfumata” ma) forte senso dei propri diritti e consapevolezza della propria libertà personale- da una parte quasi la necessità di differenziazione nella proclamazione della propria identità religiosa e culturale, dall’altra altrettanta necessità di omologazione nel godimento dei diritti fondamentali.
Tutto ciò porta a interrogarsi, con l’incremento dei fenomeni migratori, sui temi dell’identità etnica, culturale e religiosa, anche avendo presente il fatto che i mussulmani possono essere definiti minoranza vulnerabile in Italia. Da una parte i valori irrinunciabili della nostra società democratica. Dall’altra i diritti all’identità etnica, culturale e religiosa di migranti che si stanziano in un Paese dalle tradizioni e dall’attualità culturale divaricante rispetto alle loro.
Nel Rapporto di monitoraggio della protezione minoranze nell’Unione Europea, realizzato da >span class="spelle">Eumap e presentato nel nostro Paese d’intesa con “A Buon Diritto. Associazione per le libertà” si legge che in Italia i musulmani – circa 700mila persone - vivono “difficoltà quotidiane nel cammino dell’integrazione… il fatto che sul piano giuridico e normativo l’Italia si trovi in buona posizione verso l’applicazione della Direttiva Ue sulla parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica non basta”, nota il Rapporto Osi curato dal professor Silvio Ferrari, precisando che “la legislazione in vigore non viene applicata in maniera soddisfacente per molte ragioni: tra esse, il fatto che le sue norme sono poco conosciute sia dalle comunità di immigrati che dai diversi apparati e funzionari dell’amministrazione. Inoltre, l’assenza di una Intesa – ovvero di un accordo formale tra Stato e comunità islamiche - rende assai difficile la piena espressione della propria identità religiosa”. Non è inoltre da sottovalutare il fatto che secondo una scuola di pensiero -se non dominante tuttavia statisticamente rilevante- gli immigrati (quelli musulmani, in particolare) rappresentino una minaccia per l’identità nazionale; siano responsabili – nel loro insieme - di un deterioramento della sicurezza pubblica; non siano integrabili nella società italiana” (http://www.edscuola.it/archivio/handicap/mussulmani_in_italia.htm). Recenti tragici eventi hanno riportato in emersione radicali differenze strutturalmente inconciliabili con l’attuale assetto valoriale della nostra società: l’uccisione di giovani donne da parte delle loro famiglie integraliste islamiche punite per aver rifiutato il matrimonio precoce e combinato (peraltro espressamente vietato anche dalla Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne -detta Convenzione di Istanbul- adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 come pratica di violenza di genere).
Afferma però sempre il citato rapporto che “L’insufficiente conoscenza della straordinaria diversità delle comunità musulmane presenti nel Paese fa sì che la maggioranza della popolazione italiana non distingua, quando parla di Islam, tra i diversi gruppi musulmani”. Peraltro, comportamenti violenti e inaccettabili hanno come conseguenza la crescente “islamofobia” che a sua volta può contribuire a produrre il risultato, non voluto ma comunque negativo, di rafforzare l’identità musulmana attorno a un sentimento condiviso di vulnerabilità, esclusione e incomprensione da parte della società di accoglienza accentuando fenomeni di fanatismo.
Vi è da sottolineare che proprio il pensiero laico porta a distinguere tra fede e fanatismo e integralismo religioso e che è sempre da tenere presente che l’omologazione tra questi due piani è mistificante e foriera di lacerazioni pregiudizievoli per la società civile e democratica. Fenomeni di fanatismo (come la caccia alle streghe, per parlare di questioni che investono da vicino la storia dei Paesi europei) non qualificano l’identità religiosa, ma ne costituiscono deviazioni patologiche.
Tutto ciò -ovviamente- non assorbe e tantomeno annulla il fatto che il ripudio per la sua intrinseca natura sia inconciliabile con il nostro sistema giuridico perché violativo di suoi valori fondanti e che provvedimenti discriminatori e violativi di diritti fondamentali della donna ripudiata -soggetto vulnerabile calpestato nella sua dignità e identità, privata del suo status senza nemmeno aver diritto ad essere informata di quanto sta avvenendo- non possano trovare ingresso nel nostro sistema, ma suscita riflessione sulle possibili modalità di integrazione e convivenza tra persone e sistemi: il confine tra ciò che è accettabile e ciò che invece fa parte dei principi non negoziabili e le modalità di tradurre tutto ciò in una società e una cultura non escludenti ma accoglienti, terreno necessario per una pacifica convivenza.
7. I cd. “divorzi d’argento”: vulnerabilità delle donne anziane divorziate e necessità di tutela rafforzata
A chi scrive è capitato anche di domandarsi se talvolta nella nostra stessa società, per una singolare eterogenesi dei fini, attraverso percorsi giuridici completamente diversi, non si verifichino fenomeni che, nella sensibilità delle fragili protagoniste, sono vissute come omologhe al ripudio. Mi riferisco ai cd. “divorzi d’argento” e cioè a quel fenomeno di separazioni e divorzi in età molto matura, oltre i 60 anni, in crescente diffusione, dovuto all’allungarsi dell’età media e quindi del prolungarsi della vita di coppia oltre i precedenti traguardi pluriennali. Il nido vuoto (la fuoriuscita dei figli dalla vita familiare) acuisce il senso di disagio interno alla coppia coniugale, la perdita di senso e può, sempre con maggiore frequenza, portare i protagonisti maschili a rivolgersi al di fuori cercando nuove compagnie, più giovani, attraenti, stimolanti. Molte donne subiscono così il trauma di un divorzio nella terza e talvolta quarta età vissuto come vero e proprio abbandono, avvertito esistenzialmente come ripudio, senza rimedio, dopo una vita di affidamento nella storia di coppia.
Certo si è ben consapevoli che si tratta di fenomeni assolutamente non assimilabili al ripudio sul piano giuridico: la donna ultrasessantenne ha diritti sostanziali e processuali identici a quelli dell’uomo. Libera di ricostruirsi una vita esattamente come lui. Il tutto avviene in esito a un processo in cui entrambi hanno pari diritti di difesa e possono contraddire, eccepire, articolare, chiedere, argomentare; un universo giuridico e umano sideralmente distante da quello del ripudio. Tuttavia è nozione consolidata che il principio di uguaglianza non si traduca in pari opportunità se queste sono previste solo astrattamente e, di fatto, le condizioni di base siano così tanto diverse da renderne la previsione astratta inattuabile nel concreto: in questi casi nella sostanza il riconoscimento di pari diritti si tradurrebbe in una vuota formalità. E nel concreto la natura è discriminatoria: le donne ultrasessantenni divorziate per iniziativa e scelta dell’ex marito, il cui libero esercizio è principio che non tollera opposizione e limiti, non hanno le sue stesse opportunità di ricostruirsi un’esistenza affettiva e, avendo fatto affidamento sull’unione coniugale in una prospettiva durevole per tutta la vita, si ritrovano sole e reiette negli anni difficili dell’anzianità, della fragilità, della solitudine.
Una prospettiva da tenere presente nella riforma dell’assegno divorzile, laddove la durata del matrimonio e dell’età degli ex coniugi nei cd. “divorzi d’argento” dovrebbero essere elementi necessariamente considerati e valorizzati in quella “terza via” per l’assegno divorzile di cui parlava Mirzia Bianca nel suo saggio in questa stessa rivista qualche settimana fa (Giustizia insieme, 14 maggio 2021).
Paradossi giurisprudenziali
di Aniello Nappi
La parte civile costituita in un processo penale per infortunio sul lavoro propone appello contro la sentenza del tribunale che ha assolto per insussistenza del fatto l’imprenditore imputato.
La corte d’appello riconosce alla testimonianza della persona offesa l’attendibilità negata dal tribunale; e condanna l’imputato ai soli effetti civili, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Ricorre per cassazione l’imputato e deduce violazione dell’ art. 603, comma 3 bis c.p.p., lamentando che il giudice di appello abbia ribaltato la decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa valutazione di attendibilità della deposizione testimoniale della persona offesa, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Del giudizio di legittimità vengono investite le Sezioni unite penali, perché, indiscussa l’applicabilità dell’art. 603, comma 3 bis c.p.p. anche nel caso di appello ai soli effetti civili, è controverso se il conseguente annullamento della decisione assunta senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale debba essere disposto con rinvio al giudice penale, a norma dell’art. 623 c.p.p., o al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p.
Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il rinvio va disposto al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p. in ogni caso in cui non sia più in discussione la responsabilità penale dell’imputato.
Secondo altro orientamento giurisprudenziale invece il rinvio va disposto al giudice penale a norma dell’art. 623 c.p.p. anche quando sia in discussione la responsabilità solo civile dell’imputato, che va accertata nel rispetto delle norme che regolano il giusto processo penale.
Dopo una puntuale ricostruzione della giurisprudenza e delle sue implicazioni, le Sezioni unite hanno ritenuto fondato il primo orientamento.
Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, Cremonini, depositata il 4 giugno 2021, ha infatti enunciato il seguente principio di diritto: «in caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello». E ha altresì precisato che dinanzi al giudice del rinvio vanno applicate le norme del codice di procedura civile.
Sennonché questa giurisprudenza è palesemente paradossale, laddove impone alla Corte di cassazione di annullare la decisione d’appello per la violazione di una norma che non dovrà essere osservata nel giudizio di rinvio. Non v’è infatti alcuna utilità né alcuna logica nel censurare la violazione di una norma che non si pretende poi di vedere osservata.
E’ in questi paradossi che si smarrisce il senso della amministrazione della giustizia nel nostro paese.
Tuttavia non è neppure ragionevole l’orientamento giurisprudenziale opposto, laddove pretende di trattenere davanti al giudice penale una controversia che ha ormai connotazioni esclusivamente civilistiche. Non è discutibile infatti che la "ratio" dell’art. 622 c.p.p. sia appunto quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.
All’origine di questa impasse interpretativa non può dunque esservi che un “errore”: vale a dire l’affermazione che «il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio» (Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489).
Come si è già rilevato in questa rivista ( C. Citterio Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?), in realtà, l’art. 603, comma 3 bis c.p.p. prevede espressamente che solo «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». L’affermazione di Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489, come quella conforme di Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, Patalano, m. 269787, precede l’inserimento nell’art. 603 c.p.p. del comma 3 bis (che si applica a decorrere dal 3 agosto 2017). Ed è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva solo in ragione dell’affermazione che «il disposto dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., nel disciplinare il caso di riforma della decisione di primo grado su appello del pubblico ministero, non esclude la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nel caso di ribaltamento di tale decisione ai soli effetti civili» (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2019, Caprara, m. 275167, Cass., sez. V, 4 aprile 2019, Clemente, m. 276933, Cass., sez. V, 15 aprile 2019, Gatto, m. 277000).
Sennonché qui non si tratta di stabilire se la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia possibile anche in caso di appello ai soli fini civili. Si tratta invece di stabilire se la rinnovazione possa essere considerata obbligatoria, in mancanza di qualsiasi base normativa di un tale obbligo.
E’ vero che viene qui «in rilievo la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto nel procedimento penale, dove i meccanismi e le regole di formazione della prova non conoscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica» (Cass., sez. V, 18 febbraio 2020, Menna, m. 279255). Ma questo argomento vale quando l’accertamento delle due responsabilità sia contestuale; non quando sia in discussione solo la responsabilità civile.
Le sezioni unite ricordano anche che è controverso se la sentenza di annullamento ex art. 622 c.p.p. abbia effetti vincolanti nel giudizio civile di rinvio, come afferma la giurisprudenza penale (Cass., sez. IV, 17 gennaio 2019, Borsi, m. 275266, Cass., sez. IV, 16 novembre 2018, De Santis, m. 274831), o non ne abbia, come afferma la giurisprudenza civile, per cui il giudice civile «applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più proba-bile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio» (Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 15859, m. 654290, Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16916, m. 654433).
Sembrerebbe tuttavia ragionevole che, ferma l’efficacia vincolante della sentenza di cassazione, il rito debba essere quello del processo civile, ma i parametri di responsabilità debbano essere quelli del codice penale, considerato che non sono diversi da quelli del codice civile.
Secondo la giurisprudenza civile, infatti, anche ai fini della responsabilità civile la causalità va definita in termini condizionalitici. Sicché «un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo» (Cass., sez. I, 30 aprile 2010, n. 10607, m. 612764). Si è così riconosciuto che anche ai fini della «responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p.», secondo la teoria della condicio sine qua non (Cass., sez. I, 8 luglio 2010, n. 16123, m. 613967).
Ciò nondimeno questa stessa giurisprudenza ammette una «diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo pe-nale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dub-bio"»(Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, m. 600899.).
Tuttavia, come s'è ben chiarito in dottrina, quando si discute di responsabilità, occorre accertare sempre tre fatti: il fatto causante, il fatto causato e la legge di copertura, il criterio di inferenza e di giudizio che permette di affermare che fu proprio il supposto fatto causante a produrre il fatto dannoso, l'evento indesiderato(M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.).
Sicché la sentenza penale di annullamento con rinvio a norma dell’art. 622 c.p.p. non potrà ovviamente vincolare il giudice civile per le modalità di accertamento di questi fatti, ma potrà certamente vincolarlo quanto alla nozione di causalità.
Tornando a ripensare al dissent nei giudizi di costituzionalità (spunti offerti da un libro recente)*
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza - 2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta - 3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta - 4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale.
1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza
Desidero far precedere la succinta riflessione che mi accingo a svolgere da una confessione ad alta voce.
Rileggendo il libro di B. Caravita[1] che ci dà oggi modo di tornare a confrontarci sulla spinosa questione relativa alla eventuale introduzione del dissent nei giudizi davanti alla Corte costituzionale[2], ho provato una sensazione strana, già per vero avvertita in altre occasioni, come quella di un bambino che spia dal buco di una serratura e scopre un mondo che gli era rimasto dapprima nascosto. A volte, infatti, sono proprio le “microquestioni” – se così posso chiamarle – ad aprire gli occhi su quelle di maggior rilievo, ad oggi irrisolte ovvero risolte ma in modo non del tutto appagante, sì da non fugare alcuni dubbi che lasciano l’amaro in bocca anche a chi vede affermata la tesi nella quale si riconosce.
La sostituzione del giudice relatore per la redazione della decisione è una di queste.
Ad una prima (ma, appunto, erronea) impressione, la questione parrebbe presentarsi assai circoscritta quanto all’ambito materiale sul quale si situa e rende manifesta, come pure per ciò che concerne gli effetti di ordine istituzionale che possono discenderne; è, però, una questione sullo sfondo della quale stanno formidabili interrogativi ai quali la teoria costituzionale ad oggi non è riuscita a dare persuasive risposte.
In fondo, parrebbe esserne avvertita anche la dottrina che ha animatamente discusso (e seguita a discutere) al proprio interno in merito allo strumento o agli strumenti di normazione da mettere in campo al fine della introduzione del dissent, in ispecie quella parte di essa che caldeggia il ricorso alla legge costituzionale: a sottolineare, appunto, come possa risultarne modificata – e lascio, per il momento, insoluto il quesito se in meglio o in peggio – la posizione della Corte nel sistema, con immediati riflessi sulle relazioni che la stessa intrattiene con gli altri operatori istituzionali.
Tornerò sul punto, di non secondario rilievo, tra non molto.
Il libro del quale siamo oggi chiamati a discutere, nondimeno, per un verso, ripropone interrogativi antichi e, per un altro verso, ne pone di nuovi, col fatto stesso del modo con cui lo studio è stato metodicamente impostato e portato quindi ai suoi naturali e conseguenti svolgimenti.
Come ho già rilevato in altra occasione, si tratta di un autentico opus primum, per il taglio sperimentale che lo connota, essendosi fatto luogo ad un’accurata ricognizione di tutti i casi di sostituzione registratisi negli ultimi trent’anni, alla illustrazione dei loro connotati più salienti, alla loro sistemazione.
Gli esiti dello studio condotto sono di particolare interesse sotto più aspetti.
In primo luogo, pur presentandosi il fenomeno della sostituzione non particolarmente frequente, ugualmente è forse improprio definirlo – come molte volte si è fatto (e si fa) – “raro” o, addirittura, “rarissimo”[3]. I quasi novanta casi scrutinati da C. costituiscono, infatti, pur sempre un campionario idoneo a dare indicazioni di non poco significato. Inoltre (e vengo al secondo aspetto), si tratta di casi che vanno via via crescendo. Basti solo pensare che nel solo 2020 se ne sono avuti cinque, quasi cioè la metà di quelli registratisi nei sei anni immediatamente precedenti (dodici dal 2015 al 2019)[4].
Il punto induce ad una prima riflessione, aprendosi peraltro a valutazione di vario segno, da un canto ponendosi quale indice esteriore attendibile di viepiù frequenti dissensi e vere e proprie spaccature in seno al collegio, non soltanto – si badi – su questioni di particolare rilievo, coinvolgenti – come suol dirsi – la “coscienza” dei giudici, ma anche su altre di minor peso. Lo stesso C., nel tirare le fila del discorso svolto, fa notare – a mia opinione, giustamente – come talune sostituzioni risultino francamente inspiegabili (85); è pur vero, però, che gli arcana imperii, proprio perché tali, restano il più delle volte impenetrabili e sfuggenti ad ogni tentativo, per accurato che sia, di decifrazione.
La crescita del trend potrebbe anche significare una marcata (e, appunto, vistosa) insofferenza di questo o quel giudice a restare nell’ombra, imprigionato dalla segretezza del voto.
D’altronde, è risaputo che la questione del dissent, che peraltro – come si sa – ciclicamente riaffiora per poi seguitare, con andamento carsico, a restare sommersa, è tornata a riproporsi dopo che un autorevole membro del collegio non ha taciuto il proprio disagio dovuto alla mancata previsione dell’istituto, denunziandolo pubblicamente[5].
Sta di fatto che in seno alla Corte parrebbe oggi riscontrarsi un fermento di cui, ancora fino a pochi anni addietro, non v’era traccia, perlomeno non traspariva all’esterno con la stessa evidenza di oggi; un supplemento di riflessione sul punto, nel quadro di una complessiva riconsiderazione delle più salienti esperienze e tendenze concernenti l’organo e il ruolo che mostra di voler esercitare nel tempo presente, sarebbe, dunque, di particolare interesse[6], come pure lo è interrogarsi sul perché i giudici sempre più di frequente avvertano il bisogno di avere una visibilità che fino ad ieri non manifestavano.
Qui, com’è chiaro, il discorso si lega a doppio filo a quella “apertura alla società civile” – com’è usualmente chiamata –, alla quale si è fatto luogo nel tempo a noi più vicino, nella varietà delle forme e degli effetti che le è propria, sulla quale mi limiterò qui a svolgere solo una rapida notazione, rimandando ad altri luoghi di riflessione scientifica nei quali se n’è detto con maggiore estensione. Un’apertura che, poi, per la sua parte, avvalora una generale tendenza alla emersione, a volte in modo particolarmente vigoroso e vistoso, dell’“anima” politica rispetto a quella giurisdizionale[7], con conseguente alterazione dell’equilibrio, per vero strutturalmente precario, nel quale esse, secondo modello, sarebbero tenute a stare, segnando in modo originale i complessivi sviluppi delle esperienze processuali maturate presso la Consulta e marcandone dunque le differenze rispetto ad analoghe esperienze venute alla luce presso organi giurisdizionali diversi.
Se ne dirà meglio a breve. Per il momento, è interessante notare come il dato numerico non insignificante di casi di sostituzione che risulta dall’indagine condotta da C. dia conferma del fatto che non tutti i casi stessi possono essere assunti ad indice di un dissenso tale da non consentire al relatore di far luogo alla stesura della decisione. A parte i due casi, del tutto peculiari, avutisi al tempo della elezione di Mattarella quale Presidente della Repubblica[8], il numero delle sostituzioni e la varietà dei casi in cui se n’è avuto riscontro testimoniano che, in aggiunta all’ipotesi del dissenso, anche altre ragioni potrebbero avere determinato la messa in atto della misura in parola.
Tutto ciò, al tirar delle somme, rende evidente la inadeguatezza della sostituzione ut sic a dar voce al dissenso.
Il giudizio che ne dà C. è tranciante. La qualifica una “forma dimezzata di dissenting opinion … insoddisfacente, inefficiente, autoreferenziale, fonte di nessuna chiarezza e, soprattutto, di nessun avanzamento delle conoscenze e della discussione” (86)[9].
Forse, come è stato di recente osservato da una sensibile dottrina[10], più che di un dissent vero e proprio, sarebbe giusto discorrere – perlomeno in relazione ad alcuni casi[11] – di una sorta di “obiezione di coscienza” del singolo giudice, che peraltro non può esternare le ragioni che la sostengono, se non in sede scientifica[12], sempre che – mi permetto di aggiungere – sia davvero provato che il dissenso sia la causa della sostituzione, cosa altamente probabile ma appunto non del tutto sicura[13].
Il relatore, nondimeno, si trova pur sempre in una posizione più vantaggiosa rispetto a quella in cui stanno gli altri componenti il collegio, i quali non dispongono di alcun mezzo, se non appunto quello scientifico, per illustrare le ragioni dell’orientamento adottato in occasione della trattazione della singola controversia. La qual cosa poi, per vero, qualche problema lo pone in ordine alla parità di condizioni in cui, secondo modello, stanno tutti i componenti il collegio[14]. Né vale, ovviamente, obiettare che, a turno, ciascun giudice potrà regolarsi allo stesso modo, dal momento che ciò che solo conta è il riconoscimento, che si ha a beneficio unicamente del relatore e non pure degli altri giudici rimasti in minoranza, di poter in qualche modo far conoscere il proprio dissenso, seppur nella forma – come si è veduto – complessivamente inappagante di cui qui si discorre.
2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta
Lo studio della sostituzione – tiene a precisare C., 96 – non intende portare argomenti né a favore né contro l’introduzione del dissent; si tratta, nondimeno, di una neutralità apparente, per una duplice ragione. In primo luogo, per il fatto che – si chiarisce senza mezzi termini, 95 – “non si può rimanere in mezzo al guado”; e, siccome non è pensabile che possa farsi a meno della sostituzione, se ne ha che o dovrebbero cambiarsi le regole in merito alla sottoscrizione delle decisioni (magari tornando all’antico della sottoscrizione da parte di tutti i giudici ovvero facendo comunque a meno di menzionare l’autore della redazione) oppure non rimarrebbe appunto che andare avanti e far luogo alla previsione del dissent (che pure – come si sa – potrebbe aversi in varie forme e con parimenti varia intensità di effetti). E, tra i due corni dell’alternativa, è sicuro che C. si senta maggiormente attratto dal secondo piuttosto che dal primo[15].
In secondo luogo, l’intero impianto dello studio in parola spinge – a me pare – verso quest’ultimo esito, secondo quanto è peraltro ora avvalorato dalle puntuali risposte date da C. al forum della Rivista del Gruppo di Pisa, già richiamato.
Ne dà sicura conferma il rilievo della contraddizione che, a suo avviso, sarebbe insita nell’apertura della Corte verso l’esterno, sopra già accennata, allo stesso tempo in cui “rimane – malamente – chiusa all’interno”: una soluzione, dunque, giudicata “ormai difficilmente accettabile” (87).
Quest’ultimo rilievo, tuttavia, non mi persuade del tutto, pur convenendo – come dicevo – a riguardo del fatto che la crescita dei casi di sostituzione s’inscriva in un quadro complessivo segnato da una studiata, crescente visibilità, speciale attenzione nei riguardi della pubblica opinione e, soprattutto, da una marcata sottolineatura dei tratti di “politicità” dei giudizi emessi dalla Consulta.
Ancora di recente, peraltro, anche altri studiosi si sono dichiarati dell’idea che sarebbe “una forzatura collocare il tema della possibile introduzione del dissent entro la tendenza della Corte ad ‘aprirsi alla società’…”[16].
Dal mio canto, mi permetto di aggiungere una duplice notazione al riguardo.
La prima è che si dà qui per scontato che “l’apertura della Corte alla società civile” – come si è soliti chiamarla – sia, in ogni sua forma ed aspetto, cosa buona e giusta, dandosi dunque per dimostrato ciò che invece richiede di esserlo. Sarei piuttosto tentato di riprendere l’antico e saggio aforisma secondo cui errare humanum est, perseverare diabolicum…
E, invero, mi sfugge – come ho già osservato altrove – la ratio delle visite alle carceri o alle scuole che, in realtà, somigliano molto da presso (ed anzi, a conti fatti, in tutto coincidono) con pratiche cui fanno di frequente luogo esponenti politici al fine di catturare e mantenere il consenso di cui hanno costante e disperato bisogno. Francamente, fatico a vedere (e, anzi, non vedo affatto) cosa aggiungano o tolgano le visite in parola a ciò che è necessario per la risoluzione delle questioni portate alla cognizione della Corte, tanto più che quest’ultima – come tutti sanno – dispone di poteri istruttori di cui ha fatto (e fa) uso alla bisogna.
Il vero è che le esperienze in parola s’inscrivono in un quadro complessivo che vede oggi fortemente sovraesposta l’immagine della Corte e che la stessa accredita sempre di più come somigliante e talora persino indistinguibile rispetto a quella dei decisori politici. Ne danno una eloquente e, a mia opinione, preoccupante testimonianza il sostanziale accantonamento del limite del rispetto della discrezionalità del legislatore[17], per un verso, e, per un altro verso, la invenzione di tecniche decisorie inusuali e viepiù particolarmente incisive, quale quella inaugurata in Cappato e, ancora da ultimo, messa in campo nella vicenda dell’ergastolo ostativo.
A conti fatti, la Corte indirizza al legislatore ed agli operatori tutti, così come alla pubblica opinione, il messaggio di essere pronta a fare in tutto e per tutto le veci del legislatore stesso, in tal modo incoraggiando peraltro i giudici a prospettare questioni volte persino al sostanziale rifacimento di una disciplina data, in buona sostanza senza ormai più limite di sorta.
La cosa – come si è tentato di argomentare altrove – è particolarmente inquietante, assistendosi alla messa da canto del principio della separazione dei poteri, con grave pregiudizio per l’idea stessa di Costituzione, quale mirabilmente scolpita nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789.
Ora, occorre chiedersi quali utilizzi del dissent potrebbero farsi in un contesto che – piaccia o no (ed a me non piace per nulla) – risulta caratterizzato dalla sostanziale fungibilità dei ruoli istituzionali. È chiaro, infatti, che, ammettendosi in tesi la eventualità che la Corte possa porre (così come in casi sempre più frequenti pone) mano al rifacimento di discipline positive in difetto dell’intervento regolatore del legislatore, se ne ha che, per un verso, potrebbero essere viepiù sollecitati i giudici a chiedere alla Corte di farvi luogo, nel mentre (e per un altro verso) potrebbe risultare ancora più acceso e politicamente connotato il confronto in seno al collegio, testimoniato proprio dalle opinioni minoritarie, esse pure dunque venute a formazione in numero crescente.
Insomma, temo che possa assistersi all’impianto di una spirale perversa: il dissent presentandosi in non pochi casi a tinte forti, politicamente colorate, e concorrendo per la sua parte ad innalzare ulteriormente il tasso di “politicità” che è di già vistoso nelle più recenti esperienze di giustizia costituzionale e quest’ultimo, poi, ulteriormente agevolando la crescita del secondo.
Il timore è, poi, che il dissent sia strumentalmente ed innaturalmente piegato allo scopo di catturare e preservare il consenso di larghi strati della pubblica opinione nei riguardi della Corte e del suo operato. Non a caso, d’altronde, ancora da ultimo una sensibile dottrina[18] si è espressa nel senso che, nella presente congiuntura storica, è proprio a mezzo dell’apertura alla società civile, cui si è fatta sopra parola, che la Corte in significativa misura riesce a centrare l’obiettivo di “rilegittimarsi” senza sosta.
Qui, però, il discorso si fa davvero spinoso e tocca – come dicevo già all’inizio della mia riflessione – micidiali questioni di ordine teorico, peraltro gravide di implicazioni di ordine istituzionale di non poco momento.
Senza che – com’è chiaro – se ne possa qui dire con il dovuto approfondimento, tengo solo a precisare che, secondo modello (perlomeno per come ai miei occhi appare), non sono i rapporti diretti con la pubblica opinione o il “consenso sociale”, al quale fa appello la dottrina da ultimo richiamata, a porsi quale fonte di “legittimazione” della Corte e dei suoi giudizi[19], per la elementare ragione che la fonte in parola non è (o non dovrebbe essere) la stessa di quella cui attingono i decisori politici e che, anzi, da quest’ultima va (o dovrebbe andare…) tenuta costantemente distinta. Non viene dal basso, insomma, ma dall’alto (dalla Costituzione, dai valori fondamentali in essa positivizzati e dai principi e dalle regole che vi danno voce) la fonte di legittimazione dell’operato del giudice costituzionale[20].
La seconda notazione che mi preme qui fare è che si intravedono somiglianze tra esperienze che, a mio modo di vedere, sono impropriamente accostate. Le visite suddette o le altre specie di apertura alla società civile sono, infatti, cosa ben diversa rispetto a ciò che può potenzialmente servire ovvero nuocere al giudizio ed ai suoi esiti, se è vero, com’è vero, che i verdetti del giudice costituzionale hanno unicamente bisogno di essere ben fatti, dotati di salde premesse che quindi richiedono di essere portate ai loro lineari e conseguenti svolgimenti. Nulla di più e nulla di meno, dunque.
Ebbene, si fa notare dai fautori della previsione del dissent che la parte motiva delle pronunzie emesse dalla Consulta ne avrebbe un sicuro guadagno, in fatto di linearità e di coerenza, laddove al presente lo sforzo prodotto di dare comunque un qualche rilievo anche alle posizioni assunte dai giudici rimasti in minoranza si traduce sovente in un appesantimento e in un fattore di scollamento interno alla motivazione che dunque risulta, in casi non infrequenti, penalizzata per qualità[21]. Allo stesso tempo, si rileva da parte di molti che le opinioni minoritarie si presterebbero a favorire il revirement giurisprudenziale (cosa che però – si faccia caso – di per sé non è detto che sia sempre un bene…)[22].
Ad ogni buon conto, è di tutta evidenza la circostanza per cui la mancanza del dissent non ha di certo ostacolato i mutamenti, anche radicali, della giurisprudenza non soltanto su questioni di merito ma persino per taluni profili istituzionali anche di centrale rilievo[23].
Per il primo aspetto, poi, occorre distinguere due casi diversi, per disagevole che invero ciò in non pochi casi si dimostri essere. Un conto è infatti la contraddizione interna che si riscontra talvolta nelle pronunzie del tribunale costituzionale ed un’altra cosa invece la elasticità strutturale della decisione e la sua apertura ad ulteriori sviluppi giurisprudenziali, che è cosa di per sé non negativa ed anzi foriera di non pochi benefici.
Il vero è che i fautori della introduzione del dissent tendono ad accreditare l’idea che, grazie ad esso, si centrerebbe l’obiettivo di avere – per dirla con un’attenta studiosa[24] – “motivazioni chiare, semplici, comprensibili, accessibili”, quasi che si dia un rapporto di diretta e necessaria conseguenzialità tra l’una e l’altra cosa. Ciò che, però, a mia opinione, non è affatto provato, l’esperienza piuttosto testimoniando che possono aversi buone o cattive motivazioni, ora le une ed ora le altre, indipendentemente dalla esistenza dell’istituto e dal fatto che, laddove esista, se ne faccia o no utilizzo.
3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta
Si diceva poc’anzi che, a giudizio di C., occorre comunque uscire dal “guado” o, diciamo pure, dall’ambiguità. Il punto è che, purtroppo, ammesso pure che si abbiano le idee chiare sulla meta, non è affatto sicuro quale sia la via da battere per raggiungerla.
Se n’è avuta, ancora da ultimo, conferma dal forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa, sopra già più volte richiamato, nel corso del quale, per un verso, non sono mancate le espressioni di perplessità in merito alla opportunità di far luogo al dissent senza indugio e, per un altro verso, anche da parte di coloro che vi si sono dichiarati favorevoli si sono avute indicazioni non poco divergenti in merito allo strumento positivo bisognoso di essere messo in campo allo scopo[25].
Ancora una volta, così come era già accaduto in passato[26], il ventaglio è stato dispiegato a tutto campo, prospettandosi la necessità allo scopo ora della legge costituzionale ed ora di quella comune ovvero ammettendosi la sufficienza della disciplina per via di autonormazione prodotta dalla stessa Corte e, magari, della innovazione ope juris prudentiae[27].
Il problema sul piano teorico c’è e sarebbe un grave errore, frutto di autentica miopia, non ammetterne la esistenza; e, tuttavia, come ho fatto notare di recente in altro luogo[28], forse praticamente va ridimensionato. È mia impressione, infatti, che qualunque sia lo strumento utilizzato è improbabile che se ne abbia la contestazione o, peggio, la rimozione in sede giurisdizionale.
Pressoché certo è quest’esito ove si faccia luogo all’adozione di una legge costituzionale (soluzione da me patrocinata già da molti anni[29] e che seguito a ritenere la più rigorosa, a motivo delle implicazioni di ordine istituzionale che possono aversi per effetto della novità in parola). Non si conoscono, infatti, casi di caducazione di leggi costituzionali, al di fuori della peculiare vicenda dello statuto siciliano, peraltro venuto alla luce – come si sa – ancora prima della Carta costituzionale e con questa oggettivamente in molte sue parti non compatibile. Non che ciò non si ritenga astrattamente possibile, alla luce della nota teoria dei limiti alle innovazioni venute alla luce con le procedure di cui all’art. 138; e, tuttavia, la Corte è comprensibilmente restia a far luogo all’annullamento di leggi di forma costituzionale (e, prima ancora, lo sono coloro che potrebbero chiederlo), specie poi laddove dovessero venire a formazione con i più larghi consensi in seno alle assemblee elettive e, forse più ancora, laddove confermate dal voto popolare. Si preferisce, piuttosto, far luogo – come si sa – ad aggiustamenti, anche corposi, per via interpretativa, secondo quanto è stato testimoniato per tabulas dai continui rifacimenti ai quali è andato soggetto il Titolo V e, in genere, l’intera Carta costituzionale, anche nella sua originaria versione, che non è riuscita a sottrarsi alle corpose modifiche tacite alle quali è andata soggetta[30].
Discorso solo in parte diverso parrebbe doversi fare con riguardo alle leggi comuni; e, tuttavia, anche per esse l’ipotesi della caducazione da parte della Corte che si senta lesa o invasa nella propria sfera di competenze dall’atto legislativo, nell’assunto che la introduzione del dissent debba aver luogo per mano della Corte stessa, appare ugualmente alquanto remota, se non pure scartabile a priori.
Molto più realistica è, invece, l’ipotesi che la novità in parola (se proprio ha da venire alla luce…), si abbia per iniziativa della Consulta, in sede di autonormazione ovvero per via giurisprudenziale. Ed anche in questo caso, mi parrebbe assai improbabile che lo stesso giudice costituzionale, eventualmente adito[31], possa tornare sui propri passi, delegittimando a conti fatti se stessa.
Recenti esperienze, alle quali si è poc’anzi fatto cenno, che hanno visto la Corte occupare il campo un tempo dalla stessa ritenuto esclusivamente coltivabile dal legislatore, danno sicura conferma del fatto che le Camere tendono ad assistere inerti all’iperattivismo che connota le più recenti tendenze della giustizia costituzionale. E, francamente, non si vede perché qui le cose dovrebbero andare diversamente, tanto più che la novità di cui ora si discorre si ritiene – a torto – che attenga esclusivamente alle dinamiche del processo costituzionale, restando improduttiva di sostanziali effetti a carico di altri operatori istituzionali (e, segnatamente, di quelli preposti alla direzione politica).
Di contro, proprio la novità stessa potrebbe essere ritenuta vantaggiosa per questi ultimi, dal momento che renderebbe palesi le fratture interne alla Corte e potrebbe pertanto essere sfruttata in ambiente politico secondo occasionali convenienze.
4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale
Quest’ultima notazione, unitamente alla consapevolezza che realisticamente – come si diceva – il dissent può nutrire la speranza di venire alla luce unicamente per iniziativa della Corte, deve indurre ad una seria e disincantata riflessione finale che ora si passa a svolgere con la massima rapidità, avendo avuto già modo di dirne ancora di recente altrove[32].
Ebbene, C. è pienamente avvertito delle conseguenze che, nel bene e nel male, potrebbero aversi a far luogo alla novità in discorso. Affida il suo pensiero ad una serie di puntuali interrogativi formulati nelle considerazioni finali del suo studio, lasciandoli accortamente in sospeso. Ad es., sul versante dei rapporti tra la Corte costituzionale e le Corti europee e le altre massime autorità giurisdizionali di diritto interno, richiama la discussa ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del settembre 2020, interrogandosi su cosa sarebbe potuto accadere per il caso che la decisione stessa fosse stata fatta oggetto di una o più opinioni dissenzienti (95).
Convengo, ovviamente, sul rilievo della questione; mi chiedo, però, spostando il tiro al piano dei rapporti tra la Corte e gli organi statali d’indirizzo politico, quali scenari potrebbero delinearsi in presenza di opinioni dissenzienti coinvolgenti decisioni della Consulta su leggi elettorali o su altre discipline “scottanti” e gravide di implicazioni per le dinamiche riguardanti la forma di governo e la stessa forma di Stato[33].
Dicevo all’inizio della succinta riflessione che volge ormai alla fine che il dissent mi ricorda il buco della serratura da cui è possibile vedere quanto prima era rimasto nascosto.
Ora, è sicuro che dell’osservazione del contesto complessivo del tempo presente non possa farsi a meno, essendo necessario interrogarsi sugli effetti di sistema che potrebbero conseguire all’introduzione della novità di cui si è oggi nuovamente discorso[34], specie laddove il contesto stesso si presenti gravato da plurimi focolai di tensione istituzionale, veri e propri conflitti (a volte anche assai aspri), porzioni del campo in cui si svolgono le dinamiche istituzionali ad oggi avvolte da una fitta nebbia che impedisce di vedere con chiarezza come le dinamiche stesse prendono forma e quale ne sia l’orientamento e il fine.
Ebbene, in un quadro siffatto consiglierei molta cautela prima di far luogo ad una innovazione, quale quella di cui si è discorso, sicuramente produttiva di non pochi benefici ma anche – in relazione al nostro assetto politico-istituzionale – suscettibile di mostrarsi foriera di svantaggi e di far correre rischi da cui potrebbero scaturire effetti che non si saprebbe poi come circoscrivere nella loro portata, se non pure eliminare del tutto[35].
Viviamo un tempo difficile e, per molti aspetti, sofferto, e non solo per la pandemia che ad oggi ci affligge ed inquieta.
Contrariamente alle rassicuranti e, talora, persino ireniche raffigurazioni che, per comprensibili motivi, autorevoli operatori istituzionali (a partire dal Capo dello Stato) danno del quadro politico-istituzionale e del futuro che l’attende, seguito a ritenere la nostra democrazia fragile, per quanto siano ormai trascorsi tre quarti di secolo dalla nascita della Repubblica; una democrazia al proprio interno ancora non del tutto pacificata e nella quale operano forze politiche dalla irrefrenabile vocazione populista e, in alcune loro espressioni, nazionaliste ad oltranza e venate di autoritarismo[36]; una democrazia in seno alla quale si registra un calo vistoso di fiducia nei riguardi degli operatori di giustizia che hanno – ahimè – perduto una parte consistente della credibilità di cui, ancora fino a poco tempo addietro, godevano[37], senza peraltro che sia chiaro come possa tentarsene il pur parziale recupero; una democrazia, infine, che – come ha segnalato la più avvertita dottrina[38] –, allo stesso tempo in cui rende testimonianza di una grave crisi della rappresentanza[39], ci consegna un’immagine del corpo sociale afflitto al proprio interno dalla medesima crisi, il cui tessuto connettivo appare essere ormai vistosamente sfilacciato e problematicamente ricucibile[40].
Non è, di certo, piacevole restare nel “guado”, per riprende ancora una volta l’efficace metafora di C.; attenzione, però, a non spingersi troppo al largo nel mare procelloso, col rischio di non avere poi la forza per tornare indietro e guadagnare la riva[41].
Torniamo, dunque, a discuterne in tempi migliori, se avremo la fortuna di vederli[42].
* Intervento al webinar di presentazione del libro di B. Caravita, Ai margini della dissenting opinio. Lo “strano caso” della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, per iniziativa dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria e di Federalismi, 8 giugno 2021, alla cui data lo scritto è aggiornato.
[1] … che d’ora innanzi, per ragioni di speditezza, richiamerò con la sola lettera iniziale dell’autore; avverto, inoltre, che farò riferimento alle pagine dello scritto con la sola indicazione del loro numero data nel testo.
[2] La questione – come si sa – è da tempo dibattuta: dopo i noti studi di L. Luatti, Profili costituzionali del voto particolare. L’esperienza del tribunale costituzionale spagnolo, Giuffrè, Milano 1995; S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1998; L. Scaffardi, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, in St. parl. pol. cost., 124/1999, 55 ss., e A. Di Martino, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo, Jovene, Napoli 2016, l’istituto è stato, ancora di recente, fatto oggetto di animate discussioni che – come qui pure per taluni aspetti di vedrà – hanno dato conferma della perdurante esistenza di opinioni reciprocamente distanti e, in relazione a taluni profili anche di cruciale rilievo, frontalmente contrapposte: v., dunque, tra i molti altri, K. Kelemen, Judicial Dissent in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London 2018; E. Ferioli, Dissenso e dialogo nella giustizia costituzionale, Wolters Kluwer - Cedam, Milano 2018; A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. cap. IV, e, della stessa, ora, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», in Riv. Guppo di Pisa, 1/2021, 29 aprile 2021, 360 ss.; AA.VV., The Dissenting Opinion. Selected Essays, a cura di N. Zanon - G. Ragone, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2019; D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, in Quad. cost., 1/2020, 91 ss.; C. Nicolini Coen, Unità e pluralità: il fenomeno delle opinioni separate in una Corte costituzionale, in Pol. dir., 3/2020, 465 ss.; A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, in Giur. cost., 5/2020, 2571 ss. Infine, i contributi al forum dal titolo Sull’introduzione dell’opinione dissenziente nel giudizio di costituzionalità, organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa ed ospitato dal fasc. 1/2021, 17 maggio 2021, 383 ss.; D. Camoni, Due importanti lezioni europee per l’introduzione dell’opinione dissenziente nella Corte costituzionale italiana, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 3/2021, 1° giugno 2021, 59 ss., e, se si vuole, anche il mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, in questa Rivista, 28 gennaio 2021.
[3] Così, E. Rossi, Relatore, redattore e collegio nel processo costituzionale, in AA.VV., L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, a cura di P. Costanzo, Giappichelli, Torino 1996, 349, richiamato anche da C., 2, in nt. 2.
[4] È pur vero però che alla data di svolgimento del nostro incontro non si è registrato nell’anno in corso neppure un caso di sostituzione; e sarà interessante verificare se si avvererà la previsione fatta da B. Caravita nell’intervento conclusivo dell’incontro stesso, secondo cui potrebbe, prima o poi, accadere che un giudice sostituito per la redazione chieda che sia pubblicata contestualmente alla decisione la sua opinione separata.
[5] Il riferimento – com’è chiaro – è all’intervista resa da N. Zanon ad A. Fabozzi, ed apparsa ne Il Manifesto del 29 dicembre 2020, il cui titolo parla da solo (Zanon: “È tempo che la Corte faccia conoscere l’opinione dissenziente”). Lo stesso giudice ha poi ulteriormente ribadito il proprio orientamento in un’altra intervista resa a V. Alberta, dal titolo Corte costituzionale e dissenting opinion: fine di un tabù?, per conto de L’Asterisco, trasmessa in streaming e visibile su Youtube, il 5 gennaio 2021.
[6] Spinge, d’altronde, in questa direzione proprio lo studio su cui oggi siamo chiamati a confrontarci.
[7] Su ciò il dibattito è in corso da tempo, infittendosi ed animandosi peraltro in particolare misura proprio negli anni a noi più vicini [indicazioni in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.), e, dello stesso, ora, Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in Federalsimi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, 170 ss.; A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. Infine, se si vuole, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 16 aprile 2021, 456 ss.
[8] … che, peraltro, non possono neppure annoverarsi con sicurezza quali eccezioni alla regola del dissenso, non potendosi stabilire se Mattarella si sia, o no, trovato in minoranza in occasione dell’adozione delle decisioni in parola.
[9] Il concetto è ribadito nell’intervento svolto da C. al forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa sull’istituto, che può vedersi nel fasc. 1/2021, 419. Di “una ‘via italiana’ criptica e soft” di dissent si discorre in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 69; similmente, ora, E. Malfatti - S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2021, 83 s.
[10] A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2574.
[11] Come C. argomenta efficacemente, non pochi sono tuttavia i casi in cui è del tutto improprio evocare la “coscienza” a giustificazione della sostituzione.
[12] Ovviamente, è fuori discussione che il giudice costituzionale, al pari di ogni altro operatore, disponga di pienezza di libertà di ricerca scientifica. Per problematico che tuttavia sia, in alcune circostanze, tenerne distinte le sue genuine e peculiari espressioni da altre invece ad esse non riportabili in modo appropriato, va ugualmente avvertito che chi è chiamato a compiti di particolare delicatezza e rilievo, qual è appunto il giudice costituzionale, va incontro a limiti di correttezza istituzionale e, forse, riferibili pure al dovere di fedeltà alla Repubblica, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, che gli impongono il mantenimento del riserbo in relazione alle modalità di esercizio del munus del quale è titolare. Ne dà sicura conferma, d’altronde, proprio la mancata previsione del dissent che proietta la sua immagine anche fuori della Consulta, richiedendo l’adozione di comportamenti con esso conseguenti.
[13] Giudico questa precisazione meritevole di essere tenuta costantemente presente, dal momento che ogni discorso che si va qui pure facendo con riguardo al rapporto tra sostituzione e dissent resta pur sempre sottoposto alla condizione che l’una sia dovuta all’altro, senza che però se ne possa avere la prova se non nel caso di esternazione resa dallo stesso giudice relatore.
[14] Non c’è, tuttavia, rimedio, a tener ferma la possibilità della sostituzione, di cui comunque in alcuni casi non può farsi a meno, senza tornare all’antico della sottoscrizione di ogni decisione da parte di tutti i giudici (sul punto, anche a breve).
[15] Troviamo infatti scritto che “i benefici, soprattutto per ciò che attiene alla autorevolezza della Corte, che si ricaverebbero da una meditata introduzione della possibilità di esprimere motivatamente una opinione diversa potrebbero essere superiori agli svantaggi provocati da una situazione in cui vi è la contemporanea assenza della dissenting opinion e presenza di una forma incontrollata, dimidiata e autoreferenziale di dissenso” (97).
[16] Così, M. Ruotolo, Intervento al forum cit., 443.
[17] Il punto è di cruciale rilievo e merita un’attenzione ancora maggiore di quella pure fin qui dedicatavi, specie se si considera la vera e propria escalation alla quale si è assistito nel tempo a noi più vicino e che, per vero, parrebbe non conoscere limite di sorta alla sua crescente affermazione [riferimenti al limite in parola ed alle oscillazioni alle quali è andato soggetto fino a pervenire, di recente, al suo sostanziale superamento, possono, tra gli altri, aversi da A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss.; T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.; D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, 101 ss.; F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115; M.T. Stile, Discrezionalità legislativa e giurisdizionale nei processi evolutivi del costituzionalismo, Editoriale Scientifica, Napoli 2020; A. Matteoni, Legittimità, tenuta logica e valori in gioco nelle “decisioni di incostituzionalità prospettata”: verso un giudizio costituzionale di ottemperanza?, in ConsultaOnLine (www.giurcost.org), 2/2021, 3 maggio 2021, 348 ss., spec. 371 ss. Infine, volendo, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, cit., spec. 473 ss., e L. Pesole, La Corte costituzionale oggi, tra apertura e interventismo giurisprudenziale, in Federalismi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, spec. 242 ss.].
[18] D. Tega, Intervento al forum, cit., 444.
[19] Le plurime ed annose questioni che si pongono al piano dei rapporti tra Corte e pubblica opinione sono fatte da tempo oggetto di parimenti plurimi e discordi punti di vista (tra gli altri, v. M. Fiorillo, Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura - M. Carducci - R. G. Rodio, Giappichelli, Torino 2005, 90 ss., e A. Rauti, che ne ha discorso in più luoghi di riflessione scientifica, tra i quali “Il tuo nome soltanto m’è nemico...”. “Linguaggio” e “convenzioni” nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, ESI, Napoli 2006, 581 ss.; più di recente, v. D. Chinni, La comunicazione della Corte costituzionale: risvolti giuridici e legittimazione politica, in Dir. soc., 2/2018, 255 ss., e, nella stessa Rivista, A. Sperti, Corte costituzionale e opinione pubblica, 4/2019, 735 ss. Da una prospettiva di ordine generale, v., poi, con riguardo alle esternazioni dei pubblici poteri, A.I. Arena, L’esternazione del pubblico potere, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. 171 ss.
[20] Su ciò, richiamo qui, per tutti, solo gli studi di A. Spadaro, in ispecie il suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994.
[21] Della motivazione delle decisioni della Corte, per ciò che è e per come dovrebbe essere, si discute – come si sa – da tempo (indicazioni, per tutti, in AA.VV., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giuffrè, Milano 1994, e A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996; utili spunti a finalità teorico-ricostruttiva sono, inoltre, offerti da D. Galliani, I criceti e la ruota che gira. Il senso costituzionale dell’obbligo di motivazione, in Scritti per Roberto Bin, a cura di C. Bergonzini - A. Cossiri - G. Di Cosimo - A. Guazzarotti - C. Mainardis, Giappichelli, Torino 2019, 684 ss., nonché, in prospettiva comparata, da G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Giappichelli, Torino 2020). Sta di fatto, però, che ogni tentativo volto a correggerne alcune espressioni, perlomeno nei casi in cui si presentino maggiormente devianti dal modello che si suppone debba per esse valere, si infrange nella pratica contro il muro eretto a “copertura” delle pronunzie della Consulta dall’art. 137, ult. c., Cost. Un efficace rimedio agli scostamenti in parola è, a mio modo di vedere, costituito, sullo specifico terreno sul quale maturano le esperienze processuali relativi alla tutela dei diritti fondamentali, dal c.d. “dialogo” tra le Corti (termine, nondimeno, improprio, che richiederebbe non poche precisazioni la cui esposizione però – com’è evidente – non può qui aversi), in ispecie laddove si intrattenga con le Corti europee quali interpreti e garanti esse pure di documenti materialmente (o, come preferisce dire la Consulta, tipicamente) costituzionali, le Carte dei diritti.
[22] Confesso di non disporre di alcuni elementi di conoscenza che sarebbero ai nostri fini preziosi; non sarei, tuttavia, così sicuro che, nei Paesi che conoscono il dissent, si assista a più frequenti mutamenti d’indirizzo rispetto a quelli che non lo hanno sperimentato. Il vero, poi, è che i mutamenti stessi dovrebbero rinvenire giustificazione in dati oggettivi, e segnatamente in una diversa “situazione normativa” sulla quale la Corte sia chiamata a pronunziarsi e che appunto solleciti (e, anzi, imponga) l’aggiustamento, ora più ed ora meno corposo, di un precedente orientamento (della “situazione normativa” quale oggetto dei giudizi di costituzionalità discorrono A. Ruggeri e A. Spadaro, di recente e riassuntivamente nei Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 101 ss.).
[23] Un solo esempio per tutti: le tecniche di risoluzione delle antinomie tra il diritto (ieri comunitario ed oggi) eurounitario e il diritto interno.
[24] V. Marcenò, Intervento al forum, cit., 438.
[25] V., in particolare, le risposte alla seconda domanda.
[26] … ad es., in occasione del Seminario su L’opinione dissenziente, svoltosi presso la Consulta nel novembre del 1993, i cui Atti, curati da A. Anzon, sono venuti alla luce per i tipi della Giuffrè nel 1995.
[27] … senza, peraltro, trascurare la eventualità del cumulo degli strumenti, pure giudicato possibile: in particolare, ad avviso di G. Repetto, Intervento al forum, cit., 428, l’introduzione dell’istituto per mano della Corte, in sede normativa ovvero per via di prassi, non farebbe da ostacolo alla successiva disciplina legislativa. Non è tuttavia precisato il modo con cui gli strumenti stessi dovrebbero concorrere alla messa a punto dell’istituto, in ispecie se la normativa apprestata dalla legge possa – e, se sì, fino a che punto – prendere il posto di quella eventualmente data per via di autonormazione.
[28] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit., spec. in nt. 12.
[29] … sin dal mio Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità: problemi di tecnica della normazione, Intervento al Seminario su L’opinione dissenziente, cit., 89 ss., e già in Pol. dir., 1994, 299 ss.
[30] … modifiche peraltro estese agli stessi principi fondamentali, con la conseguenza che ciò che si considera impedito al legislatore di revisione costituzionale non lo è, di fatto, al massimo garante della legalità costituzionale. Ciò che equivale – come vado dicendo da tempo – a far di quest’ultimo un autentico potere costituente permanente.
[31] … ad es., dalle Camere in sede di conflitto di attribuzione, sub specie di conflitto da menomazione.
[32] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit.
[33] Riprendo sul punto una preoccupata notazione già svolta nel mio scritto per ultimo cit.
[34] A questa indicazione di metodo si attiene anche altra dottrina, pervenendo tuttavia ad esiti teorico-ricostruttivi assai discosti da quelli ai quali io sono già approdato altrove e che qui pure confermo. Cfr., ad es., al mio punto di vista quello di recente manifestato da G. Repetto, Intervento, cit., 399 ss., il quale, dopo aver avvertito che l’istituto del dissent “risente del momento storico e delle coordinate storico-politiche sulla posizione della Corte nel sistema”, conclude nel senso che gli argomenti favorevoli alla sua introduzione risultino prevalenti su quelli di segno opposto. Contraria si è, invece, dichiarata A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2580 s.
[35] Similmente, nella manualistica, G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Il Mulino, Bologna 2018, 43 ss., e, se si vuole, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 79 s.
[36] Ammoniscono, da varie angolazioni e con pari varietà di esiti teorico-ricostruttivi, del rischio della sempre temibile degenerazione autoritaria dell’ordinamento i contributi di AA.VV., Crisi dello Stato e involuzione dei processi democratici, a cura di C. Panzera - A. Rauti - C. Salazar - A. Spadaro, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, e, più di recente, M. Calamo Specchia, Un prisma costituzionale, la protezione della Costituzione: dalla democrazia “militante” all’autodifesa costituzionale, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 1/2021, 91 ss.
[37] Lo scandalo Palamara è forse la punta più appariscente del fenomeno che ha però origini risalenti e ramificazioni profonde e varietà di espressioni ad oggi, a mia opinione, non sufficientemente esplorate in ogni loro aspetto.
[38] V., part., M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss., e, dello stesso, La massima concentrazione del minimo potere. Governo e attività di governo nelle democrazie contemporanee, in Teoria pol., 2015, 113 ss., spec. 128.
[39] Della condizione svilita in cui versa la rappresentanza politica si discorre nel mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[40] Ho trovato particolarmente lucida ed istruttiva la cruda diagnosi fatta nel libello di un’accreditata dottrina romanistica (A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020), venuto alla luce in tempi recente, nel quale si rileva come le radici della crisi si rinvengano, prima ancora che nelle istituzioni, nel profondo del corpo sociale. Ed è perciò che – come ho ritenuto di dover osservare altrove – tagliare le erbacce in superficie lasciando però nel terreno le loro radici non soltanto risulti improduttivo ma rischi piuttosto di rafforzarle ancora di più.
[41] Non si trascuri, infine, un punto, con specifico riguardo al caso che l’avvento del dissent si abbia – come dietro prospettato – per mano della stessa Corte; ed è che, laddove i fatti dovessero poi indurre ad un ripensamento della novità dapprima introdotta, si faticherebbe non poco a tornare indietro, per la elementare ragione che, una volta inventata e messa a punto una certa tecnica decisoria che fa dilatare i margini di manovra di cui il giudice costituzionale dispone, quest’ultimo è comprensibilmente restio a restringerli, privandosi di uno strumento già sperimentato. Come si sa, infatti, la tendenza è per il crescente arricchimento e affinamento delle tecniche decisorie, non già per il loro impoverimento ad opera della stessa Corte. Con ogni probabilità, è ingenuo ritenere che il caso nostro possa fare eccezione alla regola.
[42] Lo stesso invito figura già nel titolo di una recente riflessione dedicata al tema da A. Fusco, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», cit., 360 ss.
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