ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Crisi ambientale e ruolo della giurisdizione. Un primo quadro d’insieme in occasione del “Global Health Summit” e della “Laudato si’ week”.
di Pasquale Fimiani
Si tiene oggi il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute) che ricade in una settimana significativa per la questione ambientale, sia per l’organizzazione della “Laudato si’ week” (dal 16 al 25 maggio), sia perché il 19 maggio la commissione affari costituzionali del Senato ha approvato l’inserimento dell’ambiente nell’art. 9 della Costituzione ed è entrata in vigore l’azione di classe, azionabile per i “diritti individuali omogenei” inclusi quindi anche quelli di matrice ambientale. Tali coincidenze e la concomitanza nella stessa settimana di due eventi di rilevanza mondiale su sicurezza sanitaria e tutela dell’ambiente danno il segno della rilevanza, anche globale, di questi temi e della consapevolezza che, per affrontarli, è necessario un impegno comune, al quale non è estranea la giurisdizione, considerata il ruolo fondamentale avuto nel progressivo definirsi della materia ambientale come sistema autonomo.
Sommario: 1. Giurisdizione ed ecologia integrale - 2. Capitale naturale in cerca di statuto - 3. L’economia circolare in attesa dell’avvio della responsabilità estesa del produttore - 4. Diritti fondamentali ed ambiente: verso un antropocentrismo ecologico?
1. Giurisdizione ed ecologia integrale
Si tiene oggi - in modalità virtuale - il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute), evento co-organizzato dall'Italia, durante l'anno della Presidenza di turno del G20, e dalla Commissione europea.
Come si evince dalla presentazione dell’incontro sul sito del Governo, il suo scopo è quello di condividere le esperienze maturate nel corso della pandemia ed elaborare e approvare una "dichiarazione di Roma”. I contenuti della dichiarazione potranno costituire un punto di riferimento per rafforzare i sistemi sanitari e potenziare la cooperazione multilaterale e le azioni congiunte per prevenire future crisi sanitarie mondiali in uno spirito di solidarietà (per un commento all’iniziativa si rinvia a Laurent ed altri, How to achieve a health renaissance, in socialeurope, 19 maggio 2021).
Il Summit ricade nella Settimana Laudato Si’ 2021 (dal 16 al 25 maggio), che rappresenta “il coronamento dell’Anno Speciale Laudato Si’ e la celebrazione del grande progresso che l’intera Chiesa ha compiuto sulla via della conversione ecologica” (presentazione dell’iniziativa in laudatosiweek.org, cui si rinvia per le varie attività, del pari svolte in modalità virtuale).
Anche a prescindere dalla questione dei rapporti tra inquinamento e pandemie, sulla quale la scienza non ha ancora fornito risposte definitive, sussiste una evidente connessione tra i temi trattati nei due eventi, in quanto il concetto di sicurezza sanitaria è compreso in quello più ampio ambito di benessere ambientale, il quale è inclusivo di tutte le condizioni che concorrono ad assicurare alla persona la salubrità dei luoghi in cui vive nell’equilibrato rapporto con il contesto naturale.
Equilibrio che, nel concetto di “ecologia integrale” alla base della Laudato Si’, riguarda ogni aspetto della vita, anche quelli sociali ed economici, che vanno organizzati in una prospettiva di interazione ed integrazione con le risorse naturali.
Prospettiva, del resto, ormai largamente condivisa, considerata la crescente gravità della crisi ambientale, che chiama ad una sfida globale e complessa istituzioni, pubbliche e private, nazionali e sovranazionali, cittadini, singoli ed associati (sulla necessità di un approccio globale si rinvia alle recenti acute considerazioni di Ferrajoli, Perché una costituzione della terra? Giappichelli, 2021 e di Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato, Il Mulino, 2021).
Proprio la necessità di realizzare un sistema in cui lo sviluppo sia effettivamente sostenibile pone la questione sul se e come la giurisdizione possa contribuirne a definirne regole e principi.Una domanda, questa, che si giustifica per il fondamentale contributo fornito nel tempo al progressivo definirsi della materia ambientale come sistema autonomo (su tale evoluzione sia consentito rinviare al Nostro, “L’ambiente tra diritto, economia e giurisdizione”, in Borsari, a cura di, Itinerari di diritto penale dell’economia, Cedam, 2018, ed ivi rif.).
Ruolo propulsivo svolto attraverso una funzione multiforme:
- ricognitiva della valenza anche ambientale di diritti (si pensi alla nota sentenza delle Sezioni Unite civili n. 5172/1979, che riconobbe il diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione come inclusivo del diritto alla salubrità dell'ambiente in cui la persona abita o lavora);
- compensativa del deficit di tutele specifiche ed anticipatoria di interventi legislativi (si pensi al ricorso al reato di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. – sia per accadimenti disastrosi a carattere violento e dirompente, cioè a “macroeventi” di immediata manifestazione esteriore che si verificano in un arco di tempo ristretto, sia per eventi, non visivamente ed immediatamente percepibili, che si realizzano in un periodo molto prolungato, sempre che, comunque, produttivi una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità – prodromico all’introduzione con la legge n. 68/2015 del delitto di disastro ambientale previsto dall’art. 452-quater c.p., ritenuto da Cass. pen., n. 13843/2020, in continuità normativa con la precedente fattispecie utilizzata in via di supplenza);
- regolatoria dei rapporti tra diritti fondamentali in tensione tra loro, quali quello della salute e dell’iniziativa economica (diritti ritenuti bilanciabili dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 85/2015 nella vicenda Ilva, ed in concreto bilanciati dalla giurisprudenza, specie amministrativa, combinando tra loro i principi di proporzione e precauzione; cfr. ex plurimis, Cons. Stato, n. 4545/2020).
Esula dalla verifica dell’ulteriore espansione di tale ruolo nella costruzione delle regole dell’ecologia integrale l’analisi dei profili meramente sanzionatori, in quanto riguardanti la fase patologica del sistema e non quella regolatoria e gestionale.
Così precisato il campo di questa sia pur breve riflessione (riservando a chi scrive e ad altri interessati successivi approfondimenti dei singoli temi che saranno di seguito brevemente illustrati), sembra utile incentrare questo primo sguardo d’insieme sui tre poli del sistema: i beni oggetto di tutela; l’impresa, quale fattore di danno o di pericolo per gli stessi; la persona quale fruitore dei primi e consumatore dei beni o servizi prodotti dalla seconda.
2. Capitale naturale in cerca di statuto
Per quanto riguarda il primo versante, è ampio il dibattito sul valore del c.d. “capitale naturale”, che identifica i beni naturali della terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) non soltanto come oggetto di tutela, ma anche in una diversa prospettiva, in quanto ne individua i c.d. servizi ecosistemici, quale valore essenziale per la vita umana, da preservare e garantire sotto il profilo qualitativo e quantitativo e suscettibili di monetizzazione.
Una prospettiva, questa, che passa per una rinnovata riflessione sul tema dei “beni comuni”, diffusamente affrontato verso la fine del passato decennio (per le questioni relative alle tematiche ambientali si rinvia a Nespor, Tragedie e commedie nel nuovo mondo dei beni comuni, in Riv. giur. amb., 2013, VI, 665) in cui, all’interno delle varie proposte sistematiche, le risorse naturali erano costantemente prese a riferimento quale contesto emblematico della necessità di superamento del tradizionale sistema normativo di catalogazione dei beni, impostato sul concetto di proprietà e sulla conseguente dicotomia pubblico-privato, per valorizzare, invece della appartenenza, la funzione collettiva e “metaindividuale” cui il bene assolve, a prescindere dal regime proprietario.
La stretta connessione tra il valore del c.d. “capitale naturale” ed il tema dei “beni comuni” fu colta dalle Sezioni Unite civili della Cassazione (n. 3665/2011), quando fu affermata la proprietà pubblica delle valli da pesca della laguna di Venezia, in quanto beni che per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultavano, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale - dovevano ritenersi "comuni", prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l'aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività.
La bocciatura di tale soluzione da parte della Corte Edu nel 2014 per violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Cedu, in quanto la società ricorrente era stata privata senza alcun indennizzo della valle da pesca che utilizzava e nel contempo riconosciuta debitrice nei confronti dello Stato di una indennità di occupazione senza titolo, se conferma le difficoltà di soluzioni giurisprudenziali nell’attuale regime normativo dei beni (tanto che il diritto all’indennizzo è stato successivamente riconosciuto da Cass. n. 10337/2016 ed altre di ugual tenore), non esclude ed anzi è compatibile con la soluzione di valorizzare e monetizzare i “servizi ecosistemici” offerti dal capitale naturale, a prescindere dal regime proprietario.
Il dibattito – giurisprudenziale e dottrinario – sul tema si è però sostanzialmente arrestato e l’unico passaggio di rilievo nella definizione del concetto di capitale naturale sembra potersi rinvenire nell’affermazione del principio secondo cui è meritevole di tutela anche il bene naturalistico creato dall’opera dell’uomo e non originario, come affermato riguardo alla nozione di bosco, per quanto concerne la tutela paesaggistica, accordata a prescindere dall'origine naturale o artificiale delle superfici alberate, con il solo limite di applicabilità per gli impianti arborei destinati in via esclusiva alla produzione del legno (Cass. pen., n. 30303/2014), nonché, in materia di reati venatori, riguardo alla fauna selvatica, qualità che non viene persa per il solo fatto che l'esemplare sia nato e cresciuto in allevamento, qualora venga accertato che la specie animale, seppur temporaneamente, viva nella zona allo stato selvatico (Cass. pen., n. 23085/2013).
3. L’economia circolare in attesa dell’avvio della responsabilità estesa del produttore
Sul versante dell’attività d’impresa, gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’affermazione del concetto di “economia circolare” che indica un modello economico sostitutivo di quello ereditato dalla rivoluzione industriale, improntato sul “prendi, produci, usa e getta”, caratterizzato per essere un sistema in cui i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile, mentre i rifiuti vengono ridotti al minimo e, comunque, riutilizzati e recuperati. Lo stesso principio ispira il forte incentivo alle energie rinnovabili (entrambi i temi sono alla base della istituzione del Ministero della transizione ecologica, con. d.l. n. 22/2021, conv. con modificazioni con legge n. 55/202 e della centralità dei temi green nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza - PNRR).
La realizzazione di tale risultati richiede “cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo” (comunicazione della Commissione “COM/2014/0398”, al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”).
Per tal via emerge, in modo sempre più evidente, la consapevolezza che il “mercato” non è solo la causa della crisi ecologica, in quanto tale da “gestire” o contenere” attraverso l’introduzione di limiti e strumenti di gestione (di command and control ovvero volontari – sui quali si rinvia a Clarich, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Diritto pubblico, 2007, I, 219; Salanitro, Tutela dell’ambiente e strumenti di diritto privato, in Rass. dir. civ., 2009, II, 471 e, per spunti di diritto comparato, a Pozzo, Green economy e leve normative, Giuffrè, 2013), ma può essere un fattore di rimedio per tale crisi nella misura in cui la tutela ambientale da limite per il profitto divenga anche una occasione per conseguirlo.
Mentre il profilo amministrativo tecnico-gestionale è stato esaminato in modo diffuso ed approfondito dalla giurisprudenza, specie penale, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda le posizioni soggettive ed i rapporti giuridici alla base del sistema, nonostante molteplici siano al riguardo le ricadute dell’affermazione dell’economia circolare. Si pensi:
a) alla valorizzazione del ruolo del produttore dei beni e della sua responsabilità “estesa” (artt. 178-bis e 178-ter T.U.A.) riguardante sia la fase di produzione ed immissione in commercio, sia quella accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l'utilizzo di tali prodotti e la successiva gestione dei rifiuti in relazione alla quale vanno instituiti sistemi di raccolta con oneri a loro carico (in tema cfr. in tema cfr. Amendola, La responsabilità estesa del produttore quale asse portante dell’economia circolare nella normativa comunitaria e nel d.lgs. n. 116/2020, in lexambiente, 12 febbraio 2021);
b) all’evoluzione del ruolo del consumatore, da acquirente di beni a fruitore di servizi, in una prospettiva, già avviatasi, di evidente integrazione tra la circular economy e la sharing economy”;
c) alla crescente importanza degli strumenti volontari, rispetto a quelli di “command and control”, con il passaggio da mero strumento alternativo di tutela dell’ambiente, nel contesto della economia tradizionale c.d. “lineare”, ad uno dei fondamenti essenziali dell’economia circolare;
d) alla conseguente generale impostazione della produzione dei beni e dei servizi e dei relativi rapporti secondo procedimenti e schemi di qualità certificata.
Il primo punto (responsabilità estesa del produttore) è centrale nell’attuazione del sistema dell’economia circolare, avviata a seguito del recepimento del pacchetto di direttive in materia con i decreti legislativi n.n. 116, 18, 119 e 121 del 2021 (in tema si rinvia a Muratori, Quattro decreti legislativi per l’attuazione delle direttive del “pacchetto Economia Circolare”, in Ambiente & Sviluppo, 2020, X, 743).
Mentre per quanto riguarda la responsabilità relativa alla fase di produzione e di commercializzazione la relativa disciplina non è ancora pienamente applicabile, l’obbligo di istituire sistemi di raccolta già esisteva prima della recente modifica (sia pure in relazione ad alcune categorie di rifiuti, mentre, a regime, l’obbligo riguarderà tutte le filiere).
È interessante analizzare le conclusioni alle quali la giurisprudenza è pervenuta in tema di giurisdizione sulla domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare ai consorzi obbligatori per la raccolta dei rifiuti.
Essi, infatti, sono imprese private e, pertanto, naturalmente orientate al profitto, ma si organizzano per assolvere una funzione di interesse pubblico, sulla base di uno schema in cui la legge indica i metodi e gli obiettivi, per rispettare i quali le imprese si attrezzano volontariamente, con organizzazioni di diritto privato.
La giurisprudenza ha confermato la natura ibrida di tali soggetti.
Pur affermando che la domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare al consorzio appartiene alla giurisdizione ordinaria – in quanto l'obbligo di aderirvi deriva direttamente dalla legge, la quale disciplina in modo completo i presupposti dell'appartenenza al consorzio ed i relativi obblighi (in particolare, quello di pagamento dei contributi), senza riservare all'autorità amministrativa alcun potere discrezionale nella scelta dei soggetti obbligati, sicché la controversia non ha ad oggetto direttamente il sindacato sulla legittimità di un provvedimento amministrativo – si è però riconosciuto che tali consorzi svolgono un'attività connotata dai caratteri tipici di un pubblico servizio, sia per il loro inserimento nell'organizzazione amministrativa, sia per l'esercizio di una serie di funzioni d'innegabile valenza autoritativa, o comunque di natura non meramente materiale o tecnica, nel quadro della difesa dell'ambiente (Cass. civ., sez. un. n. 3275/2006 e n. 16032/2010).
È stata quindi avallata una tecnica regolatrice che, attraverso la creazione di uno strumento economico, tutela indirettamente l’ambiente.
Da un lato, infatti, la qualifica come strumento di tutela giustifica l’imposizione normativa dell’obbligo di risultato e di adozione del metodo; l’istituzione dei sistemi collettivi, infatti, proprio in ragione di tale funzione strumentale, non costituisce il frutto di una decisione autonoma e volontaria, ma dipende dalla scelta del legislatore.
Dall’altro lato, però, la natura indiretta della tutela ambientale, propria degli strumenti dell’economia circolare e l’assenza, in quest’ultima, di una netta contrapposizione di interessi tra ambiente e impresa, giustificano la peculiarità di tale obbligazione, vincolata solo nell’an, ma non nel quomodo e disegnata, quindi, come una tipica obbligazione di scopo, rispetto alla quale, cioè, conta il risultato richiesto, mentre è indifferente la modalità con cui viene raggiunto.
Tali principi andranno verificati all’esito della piena attuazione del recepimento del pacchetto di direttive sull’economia circolare da parte del legislatore italiano che consentirà, sulla base delle soluzioni adottate circa i sistemi di accettazione dei prodotti restituiti e di raccolta e gestione dei rifiuti che restano dopo l'utilizzo di tali prodotti, la definizione della natura dei soggetti coinvolti e dei relativi rapporti giuridici.
4. Diritti fondamentali ed ambiente: verso un antropocentrismo ecologico?
Certamente più fermento si registra sul versante della prospettiva “ecologica” della tutela dei diritti fondamentali.
Lo scenario di fondo è quello della evidente sperequazione nel consumo delle risorse e nell’impatto delle attività umane sull’ambiente che caratterizza sia il rapporto tra paesi più o meno industrializzati, sia quello intergenerazionale.
Sperequazione che può sinteticamente ricondursi al concetto di “debito ambientale”, inclusivo – nella descritta duplice prospettiva – sia del consumo di risorse naturali in eccesso rispetto a quelle che si producono, sia della loro compromissione “qualitativa” in conseguenza delle attività di matrice antropica, fenomeni evidenziati con l’individuazione del c.d. “earth overshoot day” (si rinvia al documentato sito overshootday.org) che segna annualmente la data in cui l'umanità ha esaurito il suo “budget” ecologico, ovvero della c.d. “impronta ecologica” che rappresenta l’unità di misura della domanda di risorse naturali, cioè quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti.
In questo contesto, la stipula di accordi tra gli Stati recanti disposizioni “compensative” o di “riequilibrio” ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri (ad esempio l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, noto come Cop 21, prevede il versamento di 100 miliardi di dollari l'anno per i Paesi in via di sviluppo) o mere affermazioni di principio (si pensi alle molteplici dichiarazioni nelle Risoluzioni ONU, od all’enfasi dell’art. 3-quater del T.U.A., secondo cui “ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”, replicata dall’art. 144 in tema di tutela e uso delle risorse idriche) sono all’evidenza non appaganti rispetto alla dimensione del problema ed all’urgenza della sua soluzione.
Al deficit di equità nella fruizione dei c.d. servizi ecosistemici sono state date risposte differenziate dalla giurisprudenza.
Quanto alla Corte Edu, va subito precisato che nella Carta non è espressamente riconosciuto un diritto all’ambiente.
Tale mancanza, come rilevato nella opinione dissidente dei giudici Costa, Ress, Turmen, Zupancic e Sterner nella sentenza della Grande Camera dell’8 luglio 2003 nel caso Hatton ed altri contro Regno Unito, si spiega con il fatto che l’approvazione della Convenzione risale agli anni 50, quando non era ancora emersa nella coscienza collettiva la consapevolezza della necessità di proteggere i diritti ambientali dell’uomo. Una consapevolezza maturata nel tempo e che ha trovato poi riscontro nell’art. 37 della Carta europea dei diritti fondamentali (CDFUE), secondo cui “un livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.
Il riconoscimento del valore ambientale è però avvenuto mediante la sua progressiva emersione, da parte della giurisprudenza della Corte Edu, all’interno del sistema dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, in una duplice prospettiva: quale limite alla espansione del diritto di proprietà, ovvero come elemento caratterizzante i singoli diritti, quali, in particolare, quello al domicilio ed alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 e quello alla vita di cui all’art. 2 (per un quadro d’insieme sia consentito rinviare al Nostro, Inquinamento ambientale e diritti umani, in Questione Giustizia, numero speciale su “La Corte di Strasburgo”, aprile 2019).
La valenza ambientale dei diritti umani è stata affermata anche al di fuori della tutela della CEDU.
Sono infatti ormai numerose nel mondo le decisioni di Corti, nazionali ed internazionali, che riconoscono ai singoli il diritto di far valere verso gli Stati la pretesa ad un ambiente salubre ed all’adozione di misure volte a garantirlo (per un quadro generale si rinvia a Scalia, La giustizia climatica, in Federalismi, 7 aprile 2021).
In questo contesto, è significativo che la base giuridica su cui tale pretesa viene fondata è spesso rappresentata dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, quale atto ricognitivo da parte degli Stati, a prescindere dall’intervenuta ratifica, della pericolosità per l’ambiente e la salute di un aumento della temperatura terreste al di sopra dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e, quindi, della necessità di misure concrete di contenimento, la cui mancata attuazione viene ritenuta un vulnus per i consociati.
Rilevante – e prodromo di ulteriori sviluppi – è poi l’evoluzione giurisprudenziale sulla titolarità delle obbligazioni relative al cambiamento climatico.
In primo luogo, va registrato il crescente riferimento alle generazioni future quali meritevoli di tutela e titolari di posizioni giustiziabili (emblematica è la recente decisione del Tribunale costituzionale federale tedesco del 24 marzo 2021, che ha bocciato la legge sulla protezione del clima del 12 dicembre 2019, recante l’indicazione degli obiettivi nazionali di protezione del clima e i volumi annuali di emissione di gas serra ammessi fino al 2030, ritenendola “blanda” ed eccessivamente onerosa per le generazioni future; per un’analisi e riferimenti si rinvia a Bin, La Corte tedesca e il diritto al clima. Una rivoluzione? in lacostituzione.info, 30 aprile 2021, nonché a Bresciani, Giudici senza frontiere: prospettive del modello di tutela extraterritoriale dei diritti climatici, ed a Pignataro, Il dovere di protezione del clima e i diritti delle generazioni future in una storica decisione tedesca, entrambi in eublog.it, 17 maggio 2021).
Un’apertura potenzialmente “rivoluzionaria” per le implicazioni di carattere anche politico che il riconoscimento normativo del principio di equità generazionale potrebbe comportare (sulla difficile attuazione nel nostro ordinamento di tale principio si rinvia a Palombino, La tutela delle generazioni future nel dialogo tra legislatore e Corte costituzionale, in Federalismi, 5 agosto 2020). Un riconoscimento che sembra avvicinarsi, considerato che il 19 maggio la commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato l’inserimento nell’art. 9 della Costituzione del seguente periodo “La Repubblica tutela l'ambiente e l'ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni".
Parimenti rilevante è il riconoscimento della legittimazione ad agire anche di soggetti che non si trovano in stretto collegamento territoriale con il luogo in cui la condotta (commissiva od omissiva) viene posta in essere (collegamento che integra il tradizionale criterio della “vicinitas” quale condizione integrante l’interesse ad agire avverso provvedimenti, o condotte, lesivi di posizioni soggettive; cfr. Cass. civ., sez. un., n. 21740/2019 e Cons. Stato, 3247/2021).
La citata sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, pur rigettandolo nel merito, ha ammesso il ricorso di dieci persone residenti in Asia, la cui doglianza era che la mancata adozione di misure sufficienti per contrastare il cambiamento climatico da parte della Germania violasse i loro diritti costituzionali alla vita, all’integrità fisica ed alla proprietà. La Corte, ha respinto l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Bundestag e dal Governo Federale “affermando, da un lato, che non si può escludere a priori che i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione implichino in capo allo Stato un’obbligazione positiva di contribuire a proteggere tutte le persone – anche straniere e residenti in paesi esteri – dagli effetti negativi del cambiamento climatico (§101, §§175 ss.) e, dall’altro, che ai fini dell’ammissibilità di un Verfassungsbeschwerde non è necessario che il ricorrente chiarisca in quali termini la sua situazione soggettiva si differenzia da quella della generalità delle persone purché questi lamenti la violazione di un proprio diritto fondamentale“ (sintesi ad opera di Bresciani, Giudici senza frontiere …, cit., cui si rinvia per una più diffusa ricostruzione della sentenza sul punto).
Una decisione per qualche verso affine è quella del Consiglio di Stato italiano (n. 4775/2014) che ha riconosciuto la legittimazione di un Comune e di una ONG austriaci ad impugnare la valutazione d’impatto ambientale e l’approvazione del progetto per la realizzazione di un parco eolico sulla parte montana del Comune di Brennero, confinante con il predetto Comune austriaco.
Si sostiene che tali pronunce mettono in crisi il tradizionale criterio della vicinitas, tanto che alcuni ricorrono all’ossimoro di «vicinitas globale» (Scalia, La giustizia climatica, cit.).
In realtà, il criterio della vicinitas attiene alla legittimazione ad agire, costituendo un requisito sufficiente a radicare l'interesse a ricorrere avverso il fatto lesivo, ma non l’unico, ben potendo agire anche chi deduca di aver subito una lesione di diritti od interessi legittimi pur non trovandosi in stretto collegamento territoriale con il luogo in cui l’azione viene posta in essere. La questione, piuttosto è quella della configurabilità (e prova) di tale lesione (esempio: abbattimento dell’Amazzonia e danni lamentati da residenti in Stati europei) e la giurisdizione su siffatta domanda (da verificarsi sulla base delle Convenzioni internazionali e, in Europa, del Reg. CE 12 dicembre 2012, n. 1215/2012).
La valenza ecologia dei diritti umani trova infine un felice riscontro nella giurisprudenza che riconosce e tutela i c.d. migranti ambientali.
Tra le varie decisioni di alcune Corti nazionali sul tema (si rinvia a Scissa, Migrazioni ambientali tra immobilismo normativo e dinamismo giurisprudenziale: Un’analisi di tre recenti pronunce, in Questione giustizia, 17 maggio 2021) va segnalata una recente decisione della Cassazione civile (n. 5022/2021) secondo cui «ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, il concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", costituisce il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa. Detto limite va apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi espressamente inclusi - qualora se ne ravvisi in concreto l'esistenza in una determinata area geografica - i casi del disastro ambientale, definito dall'art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell'insostenibile sfruttamento delle risorse naturali».
Il riconoscimento che la compromissione del livello essenziale di vita dignitosa dell'individuo può dipendere anche da “condizioni di degrado sociale, ambientale o climatico, ovvero da contesti di insostenibile sfruttamento delle risorse naturali, che comportino un grave rischio per la sopravvivenza del singolo individuo” porta il tema dell’ambiente all’interno del nucleo rigido della dignità della persona, andando oltre l’aspetto di salubrità e sicurezza sanitaria che ne ha per lungo tempo connotato la comune accezione.
È quindi sul versante dei diritti fondamentali che si registra l’evoluzione forse più avanzata del percorso giurisprudenziale, con la progressiva costruzione di un “antropocentrismo a matrice ecologica” multiforme e caleidoscopico.
Una posizione soggettiva alla cui ulteriore definizione potrà contribuire l’esercizio, nella materia ambientale, dell’azione di classe prevista dalla legge n. 31/2019 ed anch’essa entrata in vigore questa settimana (il 19 maggio), considerato che il suo ambito di applicazione riguarda i “diritti individuali omogenei”, senza distinzione. Di qui «la possibilità di utilizzare un'azione collettiva per invocare la tutela del diritto ad un ambiente sano come diritto fondamentale dell'uomo, nei confronti degli "inquinatori" e delle istituzioni pubbliche che dovrebbero proteggere e garantire tale diritto» (Carrara, I nuovi fronti della class action, ne Il Sole 24Ore, 22 maggio 2019 che, a conferma dei rilievi svolti, prosegue: “L'altro filone di controversie, più simile alla tipologia classica di responsabilità del produttore, è quello legato alle emissioni non consentite di CO2, che potrebbe riguardare non solo le aziende automobilistiche, ma tutte le imprese che emettono emissioni sopra le soglie. Del resto, la climate change litigation ha preso piede in molte giurisdizioni”).
Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII (breve contributo al dibattito)
di Bruno Capponi e Andrea Panzarola
L’intenzione manifestata nella relazione illustrativa (che si legge in allegato al recente intervento di B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, in questa Rivista dal 18 maggio scorso) è quella «di semplificazione e di accelerazione … al fine di conseguire l’obiettivo di ridurre i tempi di durata del processo, razionalizzando il procedimento e adeguando le modalità di risposta della Corte alle diverse tipologie di contenzioso e agli esiti prefigurati». Ciò porta in automatico a pensare a scomposizione e ricomposizione di formule, nello sforzo di liberare, nella misura più ampia e indolore possibile, la Corte Suprema dal suo contenzioso.
L’art. 6-bis (Giudizio innanzi alla Corte di Cassazione) invita il legislatore delegato a prevedere «che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione». Dopo gli sbarramenti, non di rado formalistici, che si è visto e tuttora si vede opporre in nome del c.d. principio di autosufficienza, il ricorrente viene invitato a esporre sinteticamente le proprie ragioni: andrebbe tutto bene se non fosse che, nell’ormai sperimentato contesto di reciproca sfiducia creatosi nel tempo fra avvocati e Corte Suprema, testi esortativi del genere valgono quel che valgono, i problemi essendo seriamente affrontabili soltanto attraverso un ponderato esercizio dei propri poteri da parte della Corte. Va da sé che l’esperienza di alcuni anni sviluppatasi con il “diritto mite” dei Protocolli, innestato anch’esso sull’invito alla continenza espositiva da parte del ricorrente, non è stata all’evidenza ritenuta appagante. Di qui la scelta del legislatore delegante di porre le premesse perché ciò che era semplicemente raccomandato dal soft law possa essere d’ora innanzi normativamente prescritto (e, viene da supporre – e da temere…–, prescritto a pena di sanzione processuale).
Da un punto di vista generale sembra riproporsi la suggestione della riforma perenne e delle formule salvifiche. A prima vista, sembra si miri a una “semplificazione” del rito, nel senso dell’abrogazione di due distinte procedure per due distinte tipologie di camera di consiglio (oggi – per tacere dell’ipotesi specialissima che figura nell’art. 380-ter c.p.c. – abbiamo un rito per l’ipotesi della declaratoria di inammissibilità, manifesta infondatezza, manifesta fondatezza, da un lato, e un diverso rito per l’ipotesi della ordinaria decisione della causa, dall’altro lato). Idea buona in sé, se si considera l’inspiegabile differenza di termini per il deposito delle memorie che caratterizzano il sistema attuale, senonché la soppressione del procedimento disciplinato dall’art. 380-bis c.p.c. rivela subito la sua natura di espediente strettamente funzionale alla “soppressione della sezione prevista dall’art. 376 c.p.c.” con “spostamento della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici” (lett. b n. 1). In altri termini, finalità del legislatore delegante sembra essere la soppressione della c.d. “sesta sezione”, trionfalmente introdotta soltanto qualche anno fa quale meccanismo di accelerazione, razionalizzazione e semplificazione. Oggi si valuta evidentemente in modo negativo l’esperienza di una sezione stralcio, e si pensa in alternativa a disegnare un nuovo “procedimento accelerato rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati o infondati”. Si procede pertanto a costruire un nuovo pre-procedimento a fini di sbarramento.
Questo procedimento accelerato dovrebbe prevedere che dalla Corte venga una proposta di definizione del ricorso, “con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità [ecc.] ravvisata”; la proposta andrebbe comunicata agli avvocati delle parti che dovrebbero chiedere, entro venti giorni, la fissazione della camera di consiglio. In mancanza di richiesta, il ricorso si intenderebbe rinunciato, con conseguente pronuncia del decreto di estinzione, liquidazione delle spese (ma esonero dalla gabella del rinnovo del pagamento del contributo unificato), sicché si avrebbe una sorta di diritto premiale che dovrebbe facilitare la chiusura per mancata coltivazione del ricorso (“assenza del perdurante interesse”).
Da chi dovrebbe venire la proposta?
Il testo non lo dice esplicitamente ma lo fa ben capire quando (al n. 1 lett. e) affida a un “giudice della Corte” (non già a un collegio) il compito di formulare “una proposta di definizione del ricorso”: si tratta evidentemente di un giudice singolo che funge da organo di smistamento, selezione e ammonizione. È vero che, attualmente, la sostanza della camera di consiglio della sesta sezione sta nell’affidamento delle sorti del giudizio di cassazione al consigliere proponente, ma l’articolato in commento … davvero rompe le righe perché introduce (o, se si preferisce, ufficializza) lo spoglio “solitario” del ricorso, e apre nuovi (un poco sinistri…) scenari di un rito sempre più sommario e sempre più caratterizzato dalla sua funzione di smistamento e respingimento che non esita a ricorrere alla forzosa complicità del ricorrente. Prevediamo la risposta a questo genere di critica: il rito non viola il giusto processo, permette il contraddittorio e si ringrazi che non si sia pensato ad adottare (come avviene, per es., nella procedura davanti alla Cedu) un respingimento monocratico senza motivazione e assolutamente incensurabile. Non c’è limite al peggio, diremo, ma intanto salutiamo la creazione di un argine fatto di tanti singoli giudicanti, di tanti fanti di trincea ognuno dei quali seriamente intento a verificare il lasciapassare del ricorrente. Più in generale, si può notare che la ratio è sempre quella di concentrare tutte le possibili energie sulla esigenza di pronunciare al più presto il maggior numero di rigetti, mentre logica vorrebbe si desse priorità agli accoglimenti; ma se la macchina è tutta protesa a produrre rigetti o induzioni a rinunciare, vi è il serio rischio che a finire in coda siano proprio i ricorsi fondati.
Le successive lettere f) e g) stanno a indicare che le energie della Corte si focalizzano ormai sulla esaltata funzione nomofilattica (con retrocessione, evidentemente, di tutto il resto). In verità però, quanto alla lett. f), la previsione che la Corte “proceda in udienza pubblica quando la questione di diritto è di particolare rilevanza”, non introduce una vera novità rispetto alla procedura attuale; la previsione non è molto significativa senza regole procedurali più precise (per ora sembra affiorare soltanto l’esigenza di regole volte a ottenere dal pubblico ministero una memoria scritta).
Altro è da dirsi per la lett. g): “introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto”. Il criterio direttivo prosegue specificando che la questione dev’essere esclusivamente di diritto (ma si poteva mai dubitare della non sottoponibilità di questioni di fatto in sede di legittimità?), nuova, non ancora affrontata dalla Corte e di particolare importanza. Inoltre, la questione deve presentare “gravi difficoltà interpretative” e inoltre essere “suscettibile di porsi in numerose controversie”. Carattere puramente interpretativo (e pregiudiziale) hanno oggi le pronunce – in materia di contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro – sul ricorso concesso contro le sentenze degli artt. 420-bis c.p.c. e 64 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ma la Corte Suprema opera sempre in virtù di un meccanismo impugnatorio, mentre qui il suo intervento ha carattere preventivo. Si ha così una sorta di rinvio pregiudiziale che pone la Cassazione nella posizione di giudice di pura interpretazione, esaltando al massimo la sua pretesa vocazione nomofilattica e ponendola su di un piano operativo simile a quello della Corte di Giustizia. Onde il giudice di merito, dovendo render tutela al soggetto che ne ha bisogno, può evitare la decisione aprendo un subprocedimento sulla novità della questione, sulla sua “verginità” in sede di cassazione, sulla gravità delle sue difficoltà interpretative e sulla sua attitudine a ripresentarsi in futuro (non casualmente ma) serialmente. Si può temere che venga così istituzionalizzata la sua deresponsabilizzazione.
E cosa farà la Cassazione se non ravviserà la presenza dei requisiti per la sua pronuncia? Affronterà il merito della questione o ne negherà la decidibilità in quella forma?
Il d.d.l. Zan e le sue implicazioni
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Letture confliggenti - 2. Il valore del corpo - 3. La portata simbolica ed educativa del d.d.l. Zan - 4. Le buone ragioni - 5. Dalla tutela delle persone alla teorizzazione dell’indifferenza sessuale - 6. Le linee guida per la scuola della Regione Lazio - 7. Uscire dalla logica degli slogan e delle etichette.
1. Letture confliggenti
Sul ddl Zan se ne sono dette di tutti i colori, trasformandolo – soprattutto per chi non ha avuto la pazienza di leggere il testo – in un oggetto misterioso. Lo si è esaltato come una elementare misura di civiltà, che ci mette finalmente al passo con gli altri Paesi europei; lo si è accusato di contenere una normativa superflua e soprattutto liberticida, che introduce la censura delle idee; ultimamente - con sorpresa generale, questa volta l’opposizione è venuta da ben 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica - lo si è rimesso in discussione perché non rispettoso della identità femminile.
A sostenere la prima interpretazione è tutta l’area che potremmo chiamare di “sinistra”, in particolare il Pd, che, col suo segretario, si è compattato a difesa del nuovo provvedimento. Oppositori acerrimi i partiti della “destra”, soprattutto la Lega, e la Conferenza Episcopale italiana, anche se il suo presidente, il card. Bassetti, proprio in questi giorni, in un veloce scambio di battute con i giornalisti, è sembrato voler correggere il tiro e – pur continuando a negare la necessità di una normativa specifica per l’omofobia - ha riconosciuto che il testo esprime in sé un’esigenza condivisibile e perciò non va affossato, ma modificato.
Sul carattere liberticida del ddl continua ad insistere Salvini, anche dopo l’introduzione di un emendamento, contenuto nell’art.4, dove si dice espressamente: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimento di opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a de-terminare il concreto pericolo del compi-mento di atti discriminatori o violenti».
L’aggiunta di questo riconoscimento esplicito del pluralismo non impedisce che circolino sul web panzane terroristiche, che danno per inevitabile, se il ddl Zan diventerà legge, l’arresto e la condanna di un prete che dal pulpito o durante il catechismo insegna la dottrina cattolica sul matrimonio.
Molto più seria e radicale è la critica che viene al testo dalle associazioni femministe. Il punto cruciale è la centralità, nel ddl, dell’identità di genere. «Per “identità di genere”», spiega il disegno di legge «si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».
2. Il valore del corpo
E’ questo sganciamento dell’identità di genere da quella biologica del sesso a costituire, secondo la critica delle femministe, un misconoscimento dell’identità delle donne. Nel documento in cui le 17 associazioni si dissociano dal ddl, leggiamo: «Si vuole che la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – venga fatta sparire. È la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del genere a cui si intende appartenere», rendendo insignificante il ruolo del sesso biologico ed esponendosi ad ogni sorta di confusione.
Si cita anche un caso concreto: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili. Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene quindi il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».
Si tratta, in realtà, di un problema che i critici delle concezioni centrate unilateralmente sul “genere” hanno da sempre sollevato e che risorge ogni volta che, dal doveroso rispetto per le persone omosessuali, si passa alla teorizzazione della perfetta equivalenza tra omosessualità e eterosessualità, demandando la scelta alla percezione soggettiva dell’individuo, senza alcun riferimento al dato biologico del sesso. I corpi, con la loro struttura biologica e morfologica, hanno un loro racconto che deve essere ascoltato e non può essere messo tra parentesi, affidandosi solo a una esperienza puramente psicologica come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».
3. La portata simbolica ed educativa del d.d.l. Zan
Al di là di queste diverse letture, il ddl Zan in sé comporta soltanto l’estensione ai comportamenti violenti «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità» le aggravanti che già il nostro ordinamento prevede per quelli che riguardano i reati «commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso» (artt. 604-bis e 604-ter del Codice penale).
Qualcuno si è chiesto con stupore come mai una innovazione così contenuta abbia trovato tanta resistenza e ancora stia accendendo in simile vespaio di polemiche. La risposta è che la vera posta in gioco, qui, non sono gli anni in più o in meno che un eventuale omofobo violento dovrebbe scontare, ma il carattere fortemente simbolico e pedagogico che la nuova legge avrà.
La legislazione di un Paese non mira solo a regolamentare singole situazioni, bensì a influenzare la mentalità e il costume, plasmando così il volto di una società e delle persone che vivono in essa. Le norme giuridiche, insomma, in quanto rendono lecito o illecito un certo comportamento, additandolo pubblicamente come espressione di un valore o di un dis-valore, hanno anche una funzione educativa. Aristotele non faceva che dar voce al buon senso quando scriveva che «i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini» (Etica Nicomachea, 1103 b).
Per questo, a quanti fanno notare che già nel nostro ordinamento è ampiamente assicurata una tutela dei diritti delle persone – inclusi, ovviamente, gli omosessuali - , e che questa nuova normativa è dunque superflua, i sostenitori del ddl Zan replicano che manca però una specifica menzione – con relativo aggravamento di pena – dei reati legati all’omofobia, che è presente nella legislazione di molti altri Paesi, e che qui è in gioco un problema di “civiltà”.
Non basta, insomma, che gli individui siano tutelati come persone: sono la loro «identità sessuale» e i loro «orientamenti sessuali» che devono esserlo, additandoli come valori riconosciuti dalla collettività e ormai indiscutibili.
Con una immediata, evidente ricaduta sull’immagine condivisa della famiglia, prima ancora che sul suo regime giuridico, a cominciare dal diritto morale, proprio di ogni coppia, di avere dei figli. Diritto che in Paesi “civili” comporta il ricorso alla pratica dell’ “utero in affitto” (nel nostro ancora esclusa dalla legge e mai menzionata dal ddl Zan), di per sé utilizzata anche da coppie etero, ma per ovvi motivi particolarmente appropriata a quelle gay.
Probabilmente, non saranno molti gli omofobi che si asterranno, in futuro, dai loro squallidi comportamenti persecutori, del resto già punibili a termini di Codice penale, perché intimoriti dalle aggravanti di pena previste dalla nuova legge. Ma da ora in poi l’omosessualità entrerà ufficialmente, a pieno diritto, nella sfera dei comportanti “normali”, anzi con il fascino che hanno le cose un tempo proibite e ora rivalutate.
4. Le buone ragioni
Alla luce di questo carattere simbolico, si può capire perché tanti caldeggino la definitiva approvazione del disegno di legge. La nostra storia passata e presente è piena di «pregiudizi, discriminazioni, violenze» nei confronti di gay, lesbiche, transessuali. Le persone omosessuali sono state – e spesso sono ancora - derise, umiliate, emarginate, a volte anche perseguitate. Le si è costrette a nascondersi, a mascherare la loro vera identità e a darle libera espressione solo nell’oscurità di ambienti ambigui e violenti, privati del diritto di avere una vita affettiva – non solo sessuale! – come tutti gli altri. E ancora oggi suscita scandalo in tanti la presa di posizione di papa Francesco, quando afferma che «gli omosessuali sono figli di Dio», esattamente come gli etero, portatori come loro dell’immagine di Dio impressa nei loro volti.
Si capisce allora che alla base del disegno di legge ci sia non solo e non tanto la volontà di combattere, assumendoli come reati, comportamenti spregevoli ancora tristemente riscontrabili nella cultura diffusa, ma soprattutto quella di rivendicare la dignità umana di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Sorprende che, da parte di tanti cattolici, che dovrebbero essere particolarmente sensibili al rispetto delle persone, quale che sia la loro condizione esistenziale, sia sfuggito questo aspetto, per concentrarsi solo sugli aspetti problematici e precludendosi così la possibilità di una diversa stesura, condivisa, del testo.
5. Dalla tutela delle persone alla teorizzazione dell’indifferenza sessuale
Resta il fatto che, così com’è, il ddl non si limita a difendere i diritti delle persone omosessuali, ma, proprio per il suo carattere simbolico e pedagogico, pone le basi per una educazione capillare alla cultura dell’indifferenza sessuale.
Se si guarda al ddl Zan sotto questo profilo, si può facilmente prevedere che i suoi effetti non si manifesteranno nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera educativa.
Acquista allora il suo pieno significato l’art. 6, che istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia - che sarà celebrata il 17 maggio – in cui saranno organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole».
Quale messaggio sarà proposto in questa occasione e in tutte le alte che indubbiamente, all’ombra di quella, si moltiplicheranno? È abbastanza ovvio. Che è una questione di “civiltà” riconoscere la perfetta equiparazione etica e giuridica tra omosessualità ed eterosessualità, con la consegente irrilevanza dell’essere biologicamente di sesso maschile o femminile. E poiché espressamente si è voluto che questo messaggio giungesse non solo agli studenti della scuola secondaria, maggiormente in grado di valutarlo criticamente, ma a quelli di ogni ordine e grado, fin dalle elementari, gli effetti, in termini di condizionamento, sono garantiti. Né sarà possibile sottrarre i propri figli più piccoli a questa campagna “civilizzatrice”, perché in Parlamento è stato espressamente respinto un emendamento che chiedeva fosse introdotta la condizione del consenso dei genitori.
6. Le linee guida per la scuola della Regione Lazio
Ma per questa deriva non c’è stato neanche bisogno di attendere l’approvazione formale del ddl Zan. Nelle linee guida appena diffuse dalla Regione Lazio per le scuole di ogni ordine e grado, col titolo «Strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere», si dice, nell’introduzione, che negli ultimi anni si è assistito al «superamento del concetto di “binarismo sessuale” che prevede l’esistenza di solo due generi (maschile e femminile), sostituito da quello di “spettro di genere” secondo il quale il genere si presenta in un’infinita varietà di forme, dimensioni e tonalità».
Il nuovo punto di riferimento sembra diventare l’identità di genere, definita nel testo come «sensazione di appartenere al genere maschile, femminile, entrambi o nessuno dei due». In base ad essa, si prevede la possibilità dell’«assegnazione di un’identità provvisoria, transitoria e non consolidabile» a chi non si ritrova a suo agio con la propria struttura maschile o femminile. Anche l’uso dei nomi e dei pronomi dovrà adeguarsi a questa scelta, permettendo allo studente «di sentirsi riconosciuto nella propria identità di genere». Una nota specificamente organizzativa è l’individuazione di bagni e spogliatoi non connotati per genere.
Regole per casi particolari o “piano inclinato” che faciliterà lo smarrimento della propria originaria identità maschile/femminile di ragazzini/e, in un momento delicatissimo del loro sviluppo? È inquietante l’esperienza del Regno Unito, all’avanguardia su questo fronte, dove, secondo dati ufficiali del sistema sanitario inglese, solo nel 2015, fra aprile e dicembre, 1.013 minorenni inglesi sono stati sottoposti a terapie per il “disordine dell’identità di genere”, trattamenti che vanno dalla consulenza psicologica fino al bombardamento ormonale per bloccare lo sviluppo del paziente in vista del cambiamento chirurgico del sesso. Cinque anni fa, nel 2009-2010, i minorenni trattati in questi modi erano 97.
Si spiega perché nel dicembre scorso l’alta Corte britannica abbia imposto uno stop a queste pratiche sempre meno controllabili, motivandolo con la considerazione che è «altamente improbabile» che un adolescente – specie al di sotto dei 16 anni – possa comprendere in maniera «appropriata» gli effetti a medio e lungo termine del cambio di genere e fornire a chi lo prende in cura per la transizione da un sesso all’altro un adeguato «consenso informato».
Una scuola dove si insinua il dubbio sistematico sulla identità sessuale non rischia di essere la migliore preparazione a questo tipo di derive?
7. Uscire dalla logica degli slogan e delle etichette
Il ddl Zan, ovviamente, non ha immediatamente a che fare con questi sviluppi, se non perché prevede esso stesso un intervento nelle scuole e, soprattutto, per il montare di un’onda di favore nei suoi confronti, entro cui si collocano le prese di posizione di Fedez e di altri personaggi dello spettacolo.
Forse se si facesse più attenzione alle critiche delle associazioni femministe ci si chiederebbe se davvero non si possa trovare un modo di tutelare le persone omosessuali, come è più che giusto fare, che non implichi la codificazione del concetto di «identità di genere», con ciò che essa comporta. Solo che per questo ora è tardi. Bisognava pensarci prima. Non è tardi però per aprire un dibattito in cui, invece di essere in primo piano, come ora, gli slogan e le etichette - “difensori della civiltà” vs. “reazionari e bigotti” - , si guardi alla complessità dei problemi, soprattutto per le loro conseguenze sulle nuove generazioni.
Pandemia, Stato e Regioni: quando la ‘materia’ non basta (nota a Corte Costituzionale n. 37/2021)
di Marcella Gola
Sommario: 1 L’emergenza come criterio autonomo di riparto delle competenze territoriali - 2. Emergenza e rischio: vecchie e nuove sfide per la gestione delle crisi - 3. Crisi sanitaria e unità economica - 4. Segue. Specificità del contesto e potere di decisione - 5. Considerazioni conclusive. Ampiezza degli interessi e sistema sanitario nazionale.
1. L’emergenza come criterio autonomo di riparto delle competenze territoriali
La pandemia da Sars – Covid 19 già per definizione evoca la distribuzione territoriale ampissima degli interessi che chiedono protezione, richiamando la necessità di concertarsi sull’efficacia delle misure adottate rispetto agli obiettivi identificati come reazione all’evento negativo sopravvenuto.
Efficienza ed economicità, come parametri di valutazione dell’agire pubblico, subiscono contingentemente un arretramento, rispetto all’efficacia, nella definizione di strumenti e decisioni straordinari da commisurare alle effettive esigenze di contenimento e cura della malattia.
La pandemia, termine attualmente usato per indicare l’emergenza sanitaria da Sars- Covid 19, è una denominazione dalla radice più antica di quella che indica la globalizzazione, fenomeno che da tempo ha rimesso in discussione la corrispondenza ideale tra i governi territoriali autonomi e gli interventi pubblici in ambito economico e sociale, basata prioritariamente sulla preferenza per la vicinanza dei primi al contesto sul quale i secondi incidono.
Questo criterio, espresso chiaramente in Costituzione con riferimento alla funzione amministrativa, ha fornito alle Regioni una sollecitazione ad affermare la propria competenza, anche legislativa, a fronte della situazione di crisi sanitaria e, di riflesso, economica, che si è verificata.
In generale, occorre infatti ricordare che la pandemia ha fatto un ingresso ‘a gamba tesa’ nel processo di differenziazione regionale, nel quale spiccava la richiesta di maggiori poteri in materia sanitaria.
Oltre alla rivendicazione della sfera di autonomia già riconosciuta a questi Enti, la spinta all’intervento ‘individuale’, cioè fuori sistema, si è basata anche sulla oggettiva diversificazione della distribuzione territoriale – specie in fase iniziale, nei primi mesi del 2020 – del virus, tale da motivare chiusure ed isolamento delle aree maggiormente colpite; il criterio della ‘colorazione’ ha concretizzato tale circostanza, dando anche visibilità alla valutazione del corrispondente rischio sottostante.
Alla condizione sanitaria, ritenuta in linea di principio riconducibile alla competenza concorrente in materia di ‘tutela della salute’ nonostante l’eccezionalità della sua consistenza ed estensione, si è presto affiancata la considerazione per l’impatto sociale di dette chiusure - estese cautelativamente all’intero territorio nazionale, pur con diverse gradazioni -, specie sull’economia, anch’essa entrata in crisi.
In questo contesto si colloca la l.r. Valle d’Aosta, 9 dicembre 2020, n. 11, recante ‘Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza’, oggetto d’impugnazione da parte del Governo, con la quale la Regione autonoma ha inteso intervenire sulle attività indicate, in particolare con attenzione al settore del turismo, attività centrale per lo sviluppo locale.
La finalità ‘multipla’ della legge – contenimento contagio tramite regolamentazione attività economiche – offre uno spunto di riflessione particolarmente interessante, anche per il futuro assetto dei rapporti tra Stato e Regioni.
L’occasione conseguente alla dichiarazione dello stato di crisi espressa dall’ONU che ha così sancito il ‘salto di qualità’ – in negativo, purtroppo, - dell’epidemia divenuta mondiale può servire, utilmente, a superare l’idea che il potere legislativo si distribuisca solo per materie, declinabili con contenuti predeterminati, condivisi e certi.
La sentenza della Corte si basa a prima lettura sull’applicazione del principio del riparto per materie, rinvenendo nella fattispecie la riserva statale che esclude la scelta alternativa voluta dalla Regione alla materia ‘profilassi internazionale’, ritenuta idonea ad assorbire tutta la complessità della emergenza che si è intesa contrastare coi provvedimenti statali disattesi dalla diversa determinazione del Consiglio regionale. Tale interpretazione, per inciso, vale ad escludere ogni potestà regolamentare in capo alle Regioni.
In realtà, le argomentazioni della Corte aprono la strada a più ampi scenari e riflettono un generale stato di insoddisfazione rispetto a soluzioni apparentemente rispettose di criteri formali ma non in linea con l’assetto complessivo dell’ordinamento giuridico attuale e dei livelli di competenza in cui questo è articolato.
Ferma restando la necessità di proporzionare le misure da adottare all’effettiva natura del caso – operazione non semplice, in buona parte condizionata da valutazioni tecnico scientifiche di cui la politica può offrire solo una sintesi, traducendole in iniziative concrete -, il dato che emerge nel caso considerato è infatti quello che assegna rilevanza determinante alla peculiarità della situazione, risultato di una combinazione di una pluralità di fattori e non riconducibile nel suo complesso al quadro ordinario e, potremmo dire, statico, che regola la distribuzione del potere.
L’emergenza riguarda infatti la situazione; non classifica il provvedimento adottato in quanto il legislatore non ne ha bisogno, essendo ampia la discrezionalità legislativa, condizionata dalla sua ragionevolezza variamente declinata, senza che sia ravvisabile la necessità di motivare l’esercizio di un potere con risultati derogatori rispetto al diritto vigente.
La Corte costituzionale segue questa impostazione quando esclude la pertinenza alla competenza statutaria delle norme impugnate, combinandole “alla luce delle finalità perseguite dal legislatore regionale e del fascio di compositi interessi coinvolti”: così al punto 5 del considerato in diritto della sent. n. 37 del 2021, aderendo alla prospettazione dello Stato in veste di ricorrente.
Eliminare il pericolo e diffondere sicurezza sono obiettivi propulsori del potere pubblico, validi ad intrecciarsi con ogni materia settoriale che deve pro quota cedere per garantire la conservazione dell’ordinamento giuridico, a partire da quello statale, sovrano e originario. Non trasversalità, non specialità ma straordinarietà ed emergenza determinano quindi il necessario assetto per un adeguato intervento unificato al livello più ampio dell’ordinamento. Nella recente dottrina, già prima della dichiarazione di pandemia, è stata ben evidenziata la necessità di affrontare l’emergenza con un nuovo approccio giuridico [1]
L’ordinamento giuridico contiene molti indizi in questo senso, prevedendo sempre clausole di apertura verso il contrasto dell’eccezionalità: nel diritto amministrativo è esemplare il caso delle ordinanze contingibili e urgenti, definite convenzionalmente ‘libere’. Per quello legislativo esiste lo strumento del decreto legge che sposta addirittura l’esercizio della funzione dal suo titolare, sacrificando in nome di straordinarietà, necessità e urgenza il fondamentale canone dell’azione del Parlamento, rappresentante della sovranità popolare.
Non si pone in discussione l’autonomia regionale, che anzi continua a rappresentare il livello organizzativo più adatto per collocare, tra gli altri, i servizi sanitari. La pandemia, si è già ricordato, si è manifestata mentre era in pieno svolgimento un processo evolutivo diretto proprio in questa direzione, interrotto appunto dal radicale cambiamento del contesto cui si rivolgeva e dall’emergenza riscontrata.
La stessa Corte, intervenendo sulla censurata scelta della Regione Valle d’Aosta, ha infatti ritenuto opportuno affermare espressamente “quanto fondamentale sia l’apporto dell’organizzazione sanitaria regionale, a mezzo della quale lo Stato stesso può perseguire i propri scopi”, ribadendo contestualmente che sia il legislatore statale “ titolato a prefigurare tutte le misure occorrenti”, da intendere “coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica” come si legge al punto 8 del considerato in diritto, sent. n. 37 del 2021 cit.
Ancor più concretamente, nella stessa sentenza, con riferimento all’art. 2 del d.l. n. 19 del 2020 e sul “percorso di leale collaborazione con il sistema regionale” ivi disposto, al punto 12 del considerato in diritto si reputa che quella adottata dal legislatore statale sia una “soluzione normativa consona sia all’ampiezza del fascio di competenze regionali raggiunte dalle misure di contrasto alla pandemia, sia alla circostanza obiettiva per la quale lo Stato, perlomeno ove non ricorra al potere sostitutivo previsto dall’art. 120 Cost., è tenuto a valersi della organizzazione sanitaria regionale, al fine di attuare le proprie misure profilattiche” (il corsivo è di chi scrive).
L’espressione adottata, si nota agevolmente, evoca quella di ‘avvalimento di uffici’ che il vecchio testo dell’art. 118 cost. proponeva come alternativa per lo svolgimento delle funzioni amministrative regionali, finalizzata più all’intento di evitare duplicazioni che a quello di rispettare l’autonomia degli enti locali sulla quale era destinata ad incidere. Difficile pensare alla casualità del termine scelto, che sottolinea piuttosto - e non senza problematicità - l’idea della chiamata non in sussidiarietà, ma all’unità del sistema a fronte della straordinarietà della situazione da affrontare.
Occorre in ogni caso riconoscere l’esigenza che l’ordinamento sappia adattarsi alla straordinarietà delle situazioni, non attraverso interventi speciali e in quanto tali non contemplati, ma ricorrendo a misure diversificate rispetto allo standard, previamente determinato in via generale ed astratta prefigurando un andamento ‘normale’ dei fenomeni che si intendono regolare.
Si tratta quindi di aprire la strada a strumenti adeguati alla situazione da affrontare, legittimi nei limiti – temporali, qualitativi e quantitativi - di quanto necessario a dare risposta e contrastare l’alterazione dell’assetto degli interessi delineato dalla legge. Non si tratta di distinguere per specialità un caso particolare dal genere cui è riconducibile, bensì di ripristinare l’ordine giuridico che è stato leso o è minacciato da eventi o circostanze eccezionali, con interventi mirati e proporzionati.
Il tema si sposta quindi sulla ricerca della titolarità non tanto dell’intervento in sé ma della definizione della sua giusta proporzione, da intendere integrato nel potere di agire.
In coerenza con questa affermazione, la Corte ricorda diverse fonti legislative che riconducono allo Stato la competenza di intervenire in caso di emergenza, anticipando il ricorso al principio di sussidiarietà in materia di igiene e sanità pubblica – tema principale della fattispecie -, e di polizia veterinaria. Ai sensi dell’art. 32, l. n. 833 del 1978, Regioni ed enti locali sono infatti legittimate ad adottare ordinanze contingibili e urgenti, a condizione che “l’efficacia di tali atti possa essere garantita da questo livello di governo, posto che compete invece al Ministro della salute provvedere quando sia necessario disciplinare l’emergenza” (sent. n. 37 del 2021 cit.) tramite l’adozione di provvedimenti “con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o parte di esso comprendente più Regioni”, facendo altresì salvi, nelle stesse circostanze, “i poteri degli organi dello Stato preposti in base alle leggi vigenti alla tutela dell’ordine pubblico” (art. 32 cit., confermato anche dall’art. 117 del d.lgs. n. 112 del 1998 contestualmente ricordato). Nel brano estratto dalla sentenza richiamata si intende evidenziare – con il corsivo di chi scrive - l’uso dell’espressione “disciplinare l’emergenza”, riconosciuta perciò ‘materia’ (meglio: legittimazione) autonoma, oggetto del potere pubblico in discussione.
Il Giudice delle legge, a sottolineare l’affermazione che “il legislatore non abbia inteso riferirsi all’ovvio limite territoriale di tutti gli atti assunti in sede decentrata, ma, piuttosto, alla natura della crisi sanitaria da risolvere” (punto 8 del considerato in diritto) richiama anche il t.u.e.l,, d.lgs. n. 267 del 2000, il cui art. 50, comma 5, limita il potere sindacale di ordinanza alle emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, sancendo il passaggio di competenza agli altri livelli di governo territoriale in base alla dimensione dell’emergenza da affrontare.
Ultima citazione è quella alla quale si deve una delimitazione legislativa dell’emergenza, costruendo appositamente un Servizio nazionale per fronteggiarla.
Secondo il d.lgs. n. 1 del 2018, Codice della protezione civile, ragionando a contrario, l’emergenza è ciò che l’organizzazione ivi istituita deve superare con la propria azione, consistente “nell’attuazione coordinata delle misure volte a rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita e di lavoro, per ripristinare i servizi essenziali e per ridurre il rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, oltre che alla ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture pubbliche e private danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni culturali e dal patrimonio edilizio e all'avvio dell'attuazione delle conseguenti prime misure per fronteggiarli”: così recita l’art. 2, comma 7, d.lgs. n. 1 cit. Ripristino e conservazione della ‘normalità’, quindi, si contrappongono alla straordinarietà della situazione che si vuole contrastare, qualificata appunto come emergenziale.
Ai sensi del codice, ricorda la Corte, “è l’eventuale concentrazione della crisi su di una porzione specifica del territorio ad imporre il coinvolgimento delle autonomie quando, pur a fronte di simile localizzazione, l’emergenza assuma ugualmente “rilievo nazionale”, a causa della inadeguata «capacità di risposta operativa di Regioni ed enti locali» (sentenza n. 327 del 2003; in seguito, sulla necessità di acquisizione dell’intesa in tali casi, sentenza n. 246 del 2019)”: così il punto 8.1 del considerato in diritto, richiamando i precedenti indicati.
2. Emergenza e rischio: vecchie e nuove sfide per la gestione delle crisi
Spostata l’attenzione sulla crisi da fronteggiare, il punto è quello dell’attribuzione della gestione del rischio, e prima ancora delle decisioni da assumere sul rischio, le cui scelte non possono che essere accentrate o, se si preferisce, unificate, per esprimere al massimo la loro forza.
La competizione richiesta dalla fattispecie, in ragione della sua complessità, deve infatti concernere principalmente gli strumenti - modulabili in base alla specificità della situazione -, e non i soggetti [2]: le caratteristiche proprie del caso sul quale si deve intervenire, specie per il profilo dimensionale – ma non solo questo, in linea di principio – determinano già di per sé la riconducibilità al livello territoriale che possa adottare misure adeguate, per visione d’insieme, capacità tecnica, dotazione strumentale.
Lo stesso SSN combina bene i due sistemi, quello della regionalizzazione, ben corrispondente all’aziendalizzazione per la gestione ‘ordinaria’ – classificazione utilizzata non certo con l’intento di sminuirne la portata -, attenta al profilo produttivo e gestionale, e quello dell’uniformità di livelli prestazionali – i c.d. LEA, di competenza statale, non solo in considerazione della parità dei diritti che si intendono garantire ai cittadini, ma anche per razionalizzare e rafforzare l’intervento pubblico nel suo complesso.
La pandemia richiede una strategia prima delle prestazioni puntuali, e questa deve competere a un centro che dialoghi con le realtà territoriali e ne assuma al contempo la responsabilità – intesa prima di tutto come potere – delle scelte di indirizzo unitario.
Si tratta tra l’altro di decisioni che rispondono al fine ultimo della tutela della salute, a partire dall’evitare il diffondersi del pericolo connesso alla circolazione del virus, ma incidono anche su più settori funzionali, diversi da quello sanitario. Il fine della tutela della salute è in altri termini mediato da interventi strumentali che incidono direttamente su altri ambiti.
La legge regionale valdostana impugnata dal Governo, come già ricordato, ha infatti ad oggetto misure di contenimento della diffusione del virus nelle attività economiche e sociali del territorio. La normativa censurata, metodologicamente, consentiva tra l’altro una serie di attività economiche, purché nel rispetto di protocolli di sicurezza, discostandosi dalle più restrittive misure nazionali a vantaggio dell’impresa locale.
La Consulta ha ritenuto che la legge valdostana abbia invaso la competenza esclusiva statale in materia diprofilassi internazionale, con pregiudizio dell’interesse pubblico e ai diritti delle persone (art. 117 c. 2 lett. q) Cost.).
Per quanto già evidenziato in precedenza, la decisione è pienamente condivisibile per quanto concerne la necessità di un indirizzo unitario a fronte dell’emergenza così estesa, e ciò anche sotto il profilo pratico della certezza del diritto e della credibilità delle istituzioni, caratteristiche già di per sé messe in discussione da scelte non sempre lineari e comprensibili, che di certo non avrebbero sopportato l’ulteriore difficoltà dovuta a ‘zonizzazioni’ anche ravvicinate non rispondenti a criteri univoci.
Il problema è che, in generale, l’enfasi dell’affermazione dell’autonomia territoriale come soluzione risolutiva rispetto a un sistema inefficiente da superare rischia di assegnare allo Stato un ruolo di mero interprete e coordinatore di altri ‘centri’. Questi ultimi, sempre più destinati a esprimersi con decisioni autonome, portano a dimenticare che lo Stato ha una propria soggettività, legata a fini complessi ed espressione della sovranità che lo caratterizza, anche sul piano internazionale. Anche la tendenza alla negoziazione - pur in linea di principio garanzia di maggiore efficacia -, che permea la gran parte delle decisioni statali, come conseguenza di questa tendenziale parificazione tra livelli territoriali diversi, finisce per diventare occasione di ‘annacquamento’ delle responsabilità, depotenziando il ruolo di decisore anche quando l’attribuzione del potere è chiaramente ritenuta da Costituente e legislatore di dimensione sovra regionale.
Si avverte piuttosto la mancanza di una dimensione ancora superiore per la gestione della crisi: a livello mondiale si è visto come profili tecnici e politici confliggano, a livello europeo non si è raggiunta compitamente una politica comune e si è scontata la lontananza dei cittadini verso le istituzioni europee, che non esprimono quell’autorevolezza che può rassicurare gli utenti dei servizi sanitari nazionali.
Questo quadro giustifica la spinta sussidiaria delle Regioni, questa volta non mosse tanto da una competizione - anche perché gli attori in partenza più ‘forti’, dotati dei requisiti per aspirare alla differenziazione costituzionale, sono stati i più colpiti – ma dalla volontà di colmare un vuoto avvertito, anticipando le in-decisioni statali, senza a loro volta riuscire a fornire risposte proporzionate alla crisi affrontata.
3. Crisi sanitaria e unità economica.
Spostata, come si è proposto all’inizio di queste note, l’attenzione dal conflitto tra soggetti dell’ordinamento, ne risente anche quella sugli strumenti adeguati allo scopo che si persegue. Non serve quindi, si ribadisce, la ricerca di inesistenti ‘poteri speciali’ ma di misure proporzionate all’eccezionalità della situazione.
Nel descrivere l’ordinamento sanitario, non circoscrivendo l’analisi all’emergenza dichiarata relativamente al contagio da Covid-19, come ricordato la migliore dottrina ha già avuto modo di evidenziare la rilevanza assunta dal fattore ‘rischio’, collegato sia alla società contemporanea che ne è caratterizzata, sia alla condizione di incertezza che ad esso si collega, risolvibile solo attraverso un’adeguata procedimentalizzazione delle decisioni [3].
Lo spazio riservato al diritto amministrativo in ambito sanitario è quindi destinato ad aumentare, dando un rilievo sostanziale all’emergenza che non sempre trova nella scienza e nella tecnica medico sanitaria tutte le conoscenze valide a guidare le risposte in un’unica, incontrovertibile, direzione.
In questa prospettiva occorre però svolgere un’ulteriore riflessione.
Per meglio classificare gli interventi originati dall’emergenza sanitaria da Covid -19 occorre infatti distinguere tra norme dirette alla limitazione del contagio e quelle rivolte al ripristino - ristoro economico: il contrasto della pandemia soddisfa l’interesse sanitario, ma la ricaduta economica della pandemia muove strumenti di natura diversa da quelli riconducibili al potere sanitario quando nei provvedimenti di emergenza l’oggetto è l’attività economica e il suo sostegno.
Poco rileva infatti che la crisi sia determinata da catastrofi naturali, inefficienze del mercato, insufficienza energetica, emergenze sanitarie.
Le norme contingibili rivolte a regolare scuola, ristorazione, trasporti, esercizi commerciali, impianti sportivi ecc. incidono sul modo di erogazione dei relativi servizi, pubblici e privati, fino a imporre chiusure di alcune attività, inibite per la motivazione che la loro continuazione può favorire il diffondersi del contagio, in quanto occasione di aggregazioni.
Tra queste misure molte incidono direttamente sull’attività economica da esse considerata, o comunque producono un impatto importante sull’occupazione del settore di afferenza, con ripercussioni sul lavoro di intere categorie addette alle varie aree.
Questa situazione è riscontrabile nella l.r. Valle d’Aosta censurata dalla Corte costituzionale, disciplina la cui produzione di effetti è stata per la prima volta giudicata dalla Corte meritevole di utilizzo del potere cautelare ad essa assegnato dall’ordinamento ex art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ‘Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale’, rendendo perciò ancora più interessante l’interpretazione data alla fattispecie dal Giudice delle leggi [4]
L’ordinanza della Corte del 14 gennaio 2021, n. 4 si basa sul presupposto che “la legge regionale impugnata disciplina la gestione regionale dell’emergenza epidemiologica indotta dalla diffusione del virus Covid-19”, riconducendo quindi tutta la legge di cui si dispone la sospensione all’ambito sanitario, pur nello sesso contesto evidenziando che” con tale legge regionale la Regione ha, tra l’altro, selezionato attività sociali ed economiche il cui svolgimento è consentito, nel rispetto dei protocolli di sicurezza, anche in deroga a quanto contrariamente stabilito dalla normativa statale, recante misure di contrasto alla pandemia da Covid-19”.
Nello specifico, la legge regionale di cui si sono sospesi gli effetti è stata ricondotta alle materie della profilassi internazionale (art. 117, secondo comma, lettera q, cost.), di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, cost.), oltre che a principi fondamentali della materia tutela della salute. Nella decisione del conflitto, tuttavia, come sopra anticipato la Corte decide di concentrarsi sull’appartenenza delle misure alla materia della profilassi internazionale, idonea a riassorbire ogni possibile interferenza e trasversalità in grado di aprire la strada a future rivendicazioni regionali, con un procedimento interpretativo analogo a quello che in ambito amministrativo consente di individuare l’interesse prevalente, e con esso l’amministrazione cui ne compete la cura.
Già in sede cautelare al Corte ha censurato il fatto che “l’intera legge regionale impugnata avrebbe … dato luogo ad un meccanismo autonomo ed alternativo di gestione dell’emergenza sanitaria, ‘cristallizzando con legge’ una situazione che la normativa statale consente alle Regioni di gestire ‘esclusivamente in via amministrativa’ ”, e “che tale assetto corrisponderebbe alla necessità di una gestione unitaria della crisi, di carattere internazionale, anche in ragione della allocazione delle funzioni amministrative, da parte del legislatore statale, secondo il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.), e a seguito di una “parziale attrazione allo Stato”: così si legge nella motivazione che accompagna l’ordine di sospensione degli effetti della legge valdostana.
Di certo il fattore tempo, che caratterizza l’emergenza, offre di per sé una rilevante giustificazione all’utilizzo della sospensiva, dato “che le modalità di diffusione del virus Covid-19 rendono qualunque aggravamento del rischio, anche su base locale, idoneo a compromettere, in modo irreparabile, la salute delle persone e l’interesse pubblico ad una gestione unitaria a livello nazionale della pandemia, peraltro non preclusiva di diversificazioni regionali nel quadro di una leale collaborazione”. La tempestività delle misure da adottare, tuttavia, varrà anche ai fini di calibrare la ricordata cooperazione tra livelli territoriali, che ne sarà corrispondentemente condizionata: si torna così ad evidenziare la necessità che la decisione, per quanto auspicabilmente condivisa, debba comunque trovare una definizione unitaria.
Per inciso, si osserva che la stessa Corte, nella sentenza qui richiamata, ricorda che il principio di leale collaborazione “ non è applicabile alle procedure legislative, ove non imposto direttamente dalll Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 233 del 2019)” , mentre questo principio è stato ora inserito nella l. n. 241 del 1990, tra i principi dell’azione amministrativa [5] : si adatta quindi alla fase gestionale e non a quella decisionale presupposta, di definizione dei fini e allocazione dei poteri necessari a conseguirli.
Il rischio torna quindi ad assumere una rilevanza autonoma, anche indipendente dall’ambito materiale nel quale emerge, per definire un intervento ad esso contrapposto, proporzionato al contesto sul quale deve produrre gli effetti voluti. Al quadro già delineato si aggiunga, incidentalmente, che la profilassi richiama un’attività propria della scienza medica, il cui contenuto non può essere rigidamente predeterminato dalla legge, in ciò tornado ad evidenziare la rilevanza della fattispecie concreta cui si intende dare risposta.
Del resto, anche dall’interpretazione data dalla Corte emerge la preoccupazione che l’invasione della competenza esclusiva statale possa recare “pregiudizio dell’interesse pubblico e ai diritti delle persone”, ritenuto grave e irreparabile in sede cautelare.
L’aggancio alla profilassi internazionale consente alla Corte di sancire la «uniformità anche nell’attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale», richiamandosi a proprie precedenti pronunce (Corte Cost., sentenze nn. 5 del 2018; 270 del 2016, 173 del 2014, 406 del 2005 e 12 del 2004).
Sin dall’istituzione del SSN la profilassi internazionale è riservata alla competenza statale, con chiara volontà di centralizzazione, così come la generale profilassi di malattie infettive e diffusive per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché le epidemie e le epizoozie: cfr artt. 6, comma 1, lett. a e b, e 7 della l. n. 833 del 1978. Il successivo art. 7 prevede la mera delega alle Regioni delle funzioni amministrative relative alla seconda categoria di interventi sopra citata (art. 6, lett. b cit.), perciò di livello diverso da quello internazionale partitamente enunciato, cui la pandemia deve essere ascritta. La struttura del sistema sanitario, quindi, garantisce l’unicità del centro di imputazione per questi interventi, destinati a non essere suscettibili di frammentazione.
Per questa strada la Corte trova una soluzione forte per bloccare le possibili fughe ‘in ordine sparso’ da parte delle Regioni, quando finalizzate a vanificare il livello di garanzia adottato sull’intero territorio nazionale.
Altre considerazioni, tuttavia, possono portare ad analogo risultato, fornendo un utile contributo per future occasioni in cui sia posta in discussione l’attribuzione della competenza a fronte di situazioni che presentino un’analoga connotazione di straordinarietà ed emergenza.
L’obiettivo costituzionale dell’unità economica [6] giustifica l’individuazione di una competenza riequilibratrice di titolarità statale, destinata a integrare il ‘normale esercizio’ delle funzioni distribuite in base all’autonomia territoriale, incidendo – temporaneamente e proporzionalmente - sugli ambiti materiali in grado di condizionarne il conseguimento.
Una conferma di questa lettura si rinviene nell’art. 119 cost., comma 5, in cui si sancisce il potere statale di intervento straordinario “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
Considerata la finalità garantistica della disposizione, se ne può trarre un principio interpretativo di base che, quanto all’impatto sull’economia e sui diritti della persona, costituisce una base solida per giustificare la riconducibilità allo Stato di ‘interventi speciali’, non necessariamente di solo contenuto finanziario, come richiesto dall’emergenza determinata dalla pandemia da Sars – Covid 19. La straordinarietà della situazione non altera in modo permanente l’assetto delle competenze, anzi per quanto possibile confermato a garanzia della continuità delle funzioni pubbliche ‘ordinarie’, compatibili con la gestione dell’emergenza sanitaria che, già di fatto, le condiziona.
Così come la corretta determinazione dei ‘LEA’ contemplata nell’art. 117, comma 2 lett. m) Cost. non si deve esaurire nella definizione del finanziamento necessario a garantirli, con lo stesso criterio argomentativo si può ritenere che il sostegno finanziario dei medesimi interventi contemplato dall’art. 119 cit. non esaurisca l’ambito della sfera riservata allo Stato.
L’unità economica richiamata dalla Costituzione è così più sistematicamente da intendere riferita non al solo piano della finanza pubblica – specie a sostegno del potere di controllo esterno ad essa ricondotto: cfr., ad esempio, l’uso dello stesso parametro in Corte cost., 6 marzo 2014, n. 39 – ma, ben più ampiamente, la sua affermazione travalica il rapporto tra livelli territoriali, coinvolgendo necessariamente l’insieme delle realtà economiche che determinano la ricchezza del Paese, rafforzando la possibilità di centralizzazione, alla bisogna, sulla base di un ragionamento analogo a quello sottostante la tutela della concorrenza, anch’essa riservata allo Stato ex art. 117, comma 2, lett. e).
Questo orientamento è tanto più valido per gli interventi del prossimo futuro, pianificati fino al 2026 sulla base del Piano nazionale di ripresa e resilienza, c.d. recovery plan: rafforzato dalla circostanza che le risorse di cui si dispone l’utilizzo sono di provenienza europea. Il primo comma aggiunto all’art. 97 cost dalla l. cost. n. 1 del 2012 diventa perciò principio guida per l’azione amministrativa di attuazione del piano: “le P.a., in coerenza con l’ordinamento dell’UE, assicurano l’equilibrio dei bilanci la sostenibilità del debito pubblico”, disposizione dalla quale emerge con evidenza la necessità della visione unitaria e sistematica degli interventi previsti, sempre senza incidere sull’autonomia organizzativa dei soggetti coinvolti, a uniformità di risultato garantita.
4. Segue. Specificità del contesto e potere di decisione.
Un altro precedente interessante per la lettura proposta, che combina misure straordinarie a tutela della salute con il connesso profilo economico, è quello affrontato dalla Corte con sentenza 13 gennaio 2004, n. 12, decisione che vede i contendenti ancora una volta parti inverse rispetto alla controversia decisa con la sent. n. 37 del 2021.
La fattispecie giudicata, anch’essa riferibile alla materia profilassi internazionale, volta al contrasto della pandemia determinata dalla così detta ‘mucca pazza’, ha infatti portato la Corte a sottolineare che “l’attribuzione a livello centrale di funzioni amministrative, quali la predisposizione di interventi per la protezione dall’influenza e la gestione di un apposito ‘fondo per l’emergenza ‘blue tongue’, trova giustificazione in esigenze di carattere unitario e, specificamente, nel principio di adeguatezza. Il coordinamento degli interventi economici e sanitari si rende infatti necessario proprio tenendo conto della diffusività della malattia, che travalica i confini territoriali delle Regioni e addirittura degli Stati” (corsivo aggiunto).
Il richiamo all’adeguatezza, pur sancito dall’art. 118 cost. con riferimento al riparto della distribuzione della funzione amministrativa, condiziona il suo presupposto legislativo che deve garantire il risultato perseguito, e perciò a sua volta trovare allocazione là dove questo obiettivo unitario sia disponibile.
In linea generale, occorre inoltre considerare che la pandemia non consente di individuare un modello di ‘bacino ottimale’ per adeguare gli interventi necessari per un efficace contrasto alla sua diffusione.
L’organizzazione territoriale non può che avvenire sulla base di una differenziazione riferita alla variazione delle situazioni (sanitarie, nella specie) localmente rilevate, delineando una graduazione delle misure che comunque richiede omogeneità in corrispondenza delle tipologie di zone classificate in base a parametri univoci, tecnicamente definiti.
Punto centrale della questione, a parere di chi scrive e come già esposto, è quello che ruota attorno alla considerazione del rischio, diffuso in corrispondenza con la pandemia, e alla sua riconduzione ad unità.
Si tratta di un tema ricorrente nel recente periodo, e che finisce per condurre, in sostanza, al fondamento del potere di assumere decisioni e dell’assunzione della relativa responsabilità. Proprio l’ambito degli interventi pubblici in materia di sanità rappresenta il contesto in cui tale fattore si avverte con particolare evidenza: sin dalle prime leggi di unificazione, la l. 20 marzo 1865, n. 2248 allegato C dedicato alla sanità pubblica, tracciava infatti le prime disposizioni per l’amministrazione della salute contemplando le misure per gli interventi emergenziali volti a fronteggiare il rischio sanitario [7]
Ciò è tanto più importante in quanto il fine della tutela della salute – che risponde chiaramente a livelli uniformi quanto alle prestazioni definite essenziali – si intreccia, e spesso si attua, attraverso interventi che incidono direttamente sulla vita della società. Si considerino in particolare la circolazione personale e l’iniziativa economica, principali ambiti sui quali incidono le misure di restrizione che mirano al contenimento del contagio. Entrambe sancite in Costituzione, pur con le differenze dovute anche alla collocazione delle due norme - artt. 16 e 41 -, che rispettivamente le sanciscono, tanto la libertà di circolazione, tanto quella economica nascono già con limitazioni interne, dirette infatti alla garanzia di sicurezza che il loro esercizio non deve contrastare.
Quella stessa sicurezza che, richiamata dal ‘nuovo’ testo dell’art. 120 cost., pone espressamente tra le ragioni che legittimano l’intervento sostitutivo del Governo sugli organi delle autonomie territoriali che non ne abbiano assicurato la garanzia. Lo Stato, quindi, è garante della sicurezza pubblica, cui, a legittimazione dello stesso potere sostitutivo, sempre nel testo dell’art. 120 Cost. comma 2 si aggiungono incolumità pubblica, “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e locali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”, oltre al rispetto di trattati e norme internazionali e ‘comunitarie’. La vicenda determinata dal contagio da Sars-Covid 19 è perfettamente riconducibile a questo quadro sostanziale, riferito a ipotesi in cui la competenza dei governi locali sia in linea di principio riconosciuta dall’ordinamento, condizione qui esclusa dalla Corte.
L’art. 120, in definitiva, modifica radicalmente il criterio di soluzione dei conflitti tra Stato e Regioni, ‘depoliticizzandolo’ rispetto al precedente coinvolgimento risolutivo del Parlamento, ma in sostanza si può ritenere che la norma vigente declini coi parametri indicati quello che nel vecchio testo dell’art. 127 era espresso dal ‘contrasto di interessi’.
Il richiamo implicito all’interesse nazionale, in definitiva, resta sempre valido, in una versione profondamente rivisitata e compatibile con il disegno autonomistico vigente[8]. La situazione straordinaria che l’ordinamento sta affrontando offre quindi nuovi spunti di interpretazione destinati a ridefinire i ruoli dei diversi livelli territoriali oltre l’emergenza.
5. Considerazioni conclusive. Ampiezza degli interessi e sistema sanitario nazionale.
Infine, un’interessante annotazione.
A volte il tempo, e i numeri, sono davvero sorprendenti: esattamente trenta anni fa, nel 1991, una sentenza con lo stesso numero di quella attualmente in discussione, affrontava una vicenda ben distinta rispetto a quella attuale ma con rilevanti similitudini, concernente un conflitto a parti inverse, cioè nella fattispecie Province autonome e Regione Lombardia contro lo Stato.
La pronuncia del 31 gennaio 1991, n. 37, riguarda anch’essa un intervento in ambito sanitario, e precisamente la lotta contro l'AIDS.
Nel caso si trattava dell’impugnazione di alcuni articoli della l. 5 giugno 1990 n. 135, atto con il quale si è prevista l'attuazione di numerosi interventi finalizzati “allo scopo di contrastare la diffusione dell'infezione da HIV mediante le attività di prevenzione e di assicurare idonea assistenza alle persone affette da tale patologia” (art. 1 comma 1), l. n. 135 cit. Si è trattato, tra l’altro, di sindacare la legittimità costituzionale di norme che sanciscono la competenza dello Stato a sostituirsi agli enti territoriali inattivi e la definizione di un programma di interventi da attuare sulla base di un piano ministeriale.
La Corte costituzionale, nel dichiarare la non fondatezza delle eccezioni allora sottopostele, ha espresso alcune considerazioni che, con un’operazione di ‘taglia – incolla’, potrebbero essere riportate a soluzione del caso attuale, anche a prescindere dalla intervenuta revisione costituzionale del Titolo V e del nuovo assetto delle competenze e dei rapporti tra Stato e autonomie.
Si afferma infatti nel punto 3 del considerato in diritto: “Prima di prendere in esame le specifiche questioni proposte, occorre, in una prospettiva di carattere generale e complessiva, osservare che la legge impugnata si presenta effettivamente, come risulta anche dai lavori preparatori, come intesa a dare una prima risposta seria e non frammentaria all'eccezionale situazione di emergenza sociale determinata dalla allarmante diffusione dell'infezione da HIV, patologia nuova e gravissima in espansione a livello non solo nazionale, ma mondiale, e ciò tenendo conto anche delle numerose iniziative esistenti in campo internazionale: si può ben dire dunque che tale legge vuole perseguire un interesse non frazionabile, ma concernente l'intera collettività nazionale e che richiede, per essere soddisfatto, misure e interventi di dimensioni corrispondenti. Inoltre, si tratta di un interesse che si presenta come particolarmente stringente e imperativo, essendo connesso alla indilazionabile necessità di contrastare, con mezzi adeguati, gli effetti eccezionali di un fenomeno morboso devastante, nell'intento di fornire uno standard minimo irrinunciabile di garanzia, in condizioni di eguaglianza in tutto il territorio della Repubblica, ad un valore, la salute, che, protetto dalla Costituzione come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32), è stato costantemente riconosciuto come primario da questa Corte sia per la sua inerenza alla persona umana sia per la sua valenza di diritto sociale, caratterizzante la forma di stato sociale disegnata dalla Costituzione (v. spec., tra le tante, le sentt. nn. 455 del 1990; 324 del 1989; 1011 del 1988; 294 e 177 del 1986). Il perseguimento di un interesse siffatto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, giustifica in principio la compressione da parte del legislatore statale di ogni tipo di competenza regionale o provinciale, e ciò anche con interventi di dettaglio, purché si tratti di misure necessarie e proporzionate rispetto alla realizzazione dell'interesse medesimo (v. spec., sentt. nn. 177 e 217 del 1988; 399 e 459 del 1989; 21 del 1991). Naturalmente, ciò non implica necessariamente che le provvidenze regionali o provinciali debbano essere comunque escluse, ma, al contrario, consente che esse siano fatte salve ove siano compatibili con le modalità e gli scopi dell'intervento nazionale e possano essere adeguatamente coordinate e utilizzate al medesimo fine” [9]: il corsivo è di chi scrive.
Molte e varie cose nel contesto sono cambiate rispetto a quello vigente al tempo della richiamata pronuncia, sia in conseguenza della dichiarazione della pandemia, sia in considerazione del nuovo assetto organizzativo che ha coinvolto i livelli territoriali competenti - dalla istituzione dell’UE alla revisione costituzionale e relative norme attuative -, senza considerare le riforme di settore che hanno toccato il SSN.
Quello che resta fermo, tuttavia, è il principio dell’unità della Repubblica che, per la prima volta in stato di assedio da parte di un nemico quanto mai potente e insidioso, deve saper garantire salute, benessere e sicurezza all’intera Nazione.
L’impressione che si ricava dalla lettura delle vicende che hanno attraversato in questi anni l’analisi sul SSN è che l’attenzione degli attori e degli interpreti sia stata concentrata su alcuni profili, di indubbia rilevanza– distinzione tra politica e amministrazione, personale, finanziamento tra i primi, nonché estensione delle competenze regionali – lasciando un po’ sullo sfondo il ruolo da riservare allo Stato.
L’esigenza di riconsiderare prioritariamente le attribuzioni statali, e non necessariamente in prospettiva relazionale con gli altri enti territoriali coinvolti nel SSN, pare emergere proprio in questo periodo, non per la straordinarietà della situazione da affrontare in sé ma perché la carenza di coordinamento da un lato e ancor più l’assenza di un centro decisionale unitario, con funzioni di guida del sistema per quella parte che, in ragione dell’unità di identificazione, non può essere frazionabile. Certo, in pratica il ragionamento richiesto può sembrare analogo, solo in ordine rovesciato rispetto a quanto svolto per costruire il quadro regionale: il fatto stesso che si sia proceduto ad una revisione costituzionale quale quella che ha riguardato il Titolo V dimostra il contrario, cioè la non indifferenza del punto di prospettiva assunto, e della conseguente individuazione di chi svolga un ruolo residuale rispetto ad altri. In questo senso però si è riproposto lo stesso modello incentrato unicamente sul criterio della competenza per materia, ritenendo che l’ampiamento – apparente – della gamma spettante ‘di norma’ alle Regioni, abbia disegnato un modello di Repubblica diverso da quello originario. Analogo ragionamento, questa volta senza il ricorso alla elencazione di materie, si può fare considerando l’impostazione alla base dell’abbandono del principio del parallelismo che orientava le funzioni amministrative nel previgente modello, ora superato dai criteri della sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione che paiono più adatti a regolare l’esercizio concreto della funzione stessa piuttosto che la sua titolarità, di cui si accetta la variabilità geometrica. Un’indicazione in questo senso, si ritiene, trova sostegno nella lettura della relazione annuale del Presidente della Corte Costituzionale relativa al 2020, in cui si afferma che “La peculiarità di un servizio sanitario nazionale ma a gestione regionale richiede un esercizio forte, da parte dello Stato, del potere di coordinamento e di correzione delle inefficienze regionali: un esercizio inadeguato di questo potere non solo comporta rischi di disomogeneità ma può ledere gli stessi livelli essenziali delle prestazioni, sul cui rispetto, anche nel 2020, la Corte si è più volte soffermata”
Quello appena riportato è uno dei passaggi della Relazione del Presidente Giancarlo Coraggio sull'attività della Corte costituzionale nel 2020 [10] La relazione richiamata fa espresso riferimento al caso considerato in questo breve studio, rilevando che “questo problema di fondo si è riproposto nel contesto attuale, pure caratterizzato dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di profilassi internazionale, competenza che avrebbe dovuto garantire quell'unitarietà di azione e di disciplina che la dimensione nazionale dell'emergenza imponeva e tutt'ora impone”. È quindi il ruolo dello Stato nel suo complesso a essere considerato, presupposto necessario per delineare correttamente il rapporto con le Regioni, nel pieno rispetto dell’autonomia a esse riconosciuta, non essendo sufficiente un’interpretazione basata sulla ricerca dei confini della materia, anche quando essa consenta di escludere spazi al legislatore regionale come ritenuto nella fattispecie qui richiamata.
L’ipotesi più probabile è quella secondo al quale la complessità della società contemporanea, cui deve corrispondere un ordinamento giuridico adeguato, non consente più, almeno nella totalità dei casi, la definizione di ambiti di intervento che, per quanto ridisegnati, non si allontanano dal modello originario delle competenze per ‘fette di torta’, nonostante i tentativi di ricondurre a rete il quadro complessivo.
L’alternativa non è semplice, e passa scontatamente attraverso una semplificazione del quadro legislativo – che rischia invece l’aggravamento col doppio livello di competenze -, un rafforzamento degli atti che delineano gli obiettivi da perseguire in un ambito temporale ragionevole e finanziamenti proporzionati, la definizione di modelli coordinati e appositamente strutturati per far fronte a crisi e agire direttamente sul rischio, una collaborazione sia tra livelli territoriali sia tra pubblico e privato che renda chiare e predefinite le reciproche responsabilità. Molto altro resta all’autonomia di tutti i soggetti coinvolti nella gestione della tutela della salute: si pensi all’autonomia organizzativa e a quella negoziale delle strutture, che comprende anche la considerazione delle aspettative dei destinatari del servizio, il cui grado di soddisfazione deve restare il principale parametro di valutazione nelle decisioni che condizionano il funzionamento del Servizio sanitario nazionale.
[1] V. ampliamente gli studi raccolti in AA. VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, a cura di L. Giani, M. D’Orsogna, A. Police, Napoli, 2018 e bibliografia ivi citata; v. anche L. D’Andrea, Brevi considerazioni sui limiti dei poteri emergenziali nel sistema costituzionale, in AA. VV., Gli atti normativi del governo tra Corte costituzionale e giudici, Atti del Convegno annuale 2011 dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, a cura di M. Cartabia, E. Lamarque, P. Tanzarella, Torino, 2011, p. 305 ss.
[2] V. le interessanti considerazioni di M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in www.cortisupremeesalute.it, evidenziando la tendenziale abdicazione del legislatore statale ad assumere il ruolo decisorio che gli compete
[3] V. ampiamente R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2020, passim, spec. pp. 13 e ss., pp. 324 e ss., e bibliografia ivi citata, specie in riferimento al concetto di “società del rischio”.
[4] V. il commento di E. Lamarque, Sospensione cautelare di legge regionale da parte della Corte costituzionale. Nota a Corte cost. 14 gennaio 2021 n. 4, in Giustizia insieme, 2021.
[5] Ai sensi dell’art. 1, comma 2 bis della l. n. 241 cit, introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera 0a), l. n. 120 del 2020, “I rapporti tar cittadini e P.a., sono improntati ai principi di collaborazione e buona fede”. Non è in dubbio che la norma in questione valga a escludere la responsabilità decisionale della P.a. agente, parificandola al destinatario della stessa: si tratta evidentemente di indicare e incentivare una modalità di azione che non incide sull’assetto delle competenze ad esercitare funzioni pubbliche.
[6] V. sul tema M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, in AA. VV., Costituzionalismo e Costituzione nella vicenda unitaria italiana, Annuario AIC 2011, Napoli, 2014, 3 ss.
[7] Sul tema v. M. P. CHITI, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, in Annuario AIPDA 2005, Il diritto amministrativo dell’emergenza, Giuffré, Milano, 2006, 142 e in Riv.it. dir. pubbl. com., 2006, 1, 1 ss.; R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, cit.
Per una definizione del ‘rischio sanitario’ in una prospettiva differenziata si veda il sito della protezione civile, ove si legge:” Il rischio sanitario è sempre conseguente ad altri rischi o calamità, tanto da esser definito come un rischio di secondo grado. Il fattore rischio sanitario si può considerare come una variabile qualitativa che esprime la potenzialità che un elemento esterno possa causare un danno alla salute della popolazione. La probabilità che questo possa accadere dà la misura del rischio, cioè dell’effetto che potrebbe causare. Questo tipo di rischio può essere: - antropico, se provocato dalle attività umane come incidenti industriali, attività industriali e agricole, trasporti, rifiuti; - naturale, se provocato da eventi naturali come terremoti, vulcani, frane, alluvioni, maremoti, tempeste di sabbia. Le variabili antropiche che comportano un rischio sanitario possono incidere sulla salute umana provocando danni o effetti sia temporanei, sia permanenti. Queste variabili possono essere di natura: biologica come batteri, virus, pollini, ogm; chimica come amianto, benzene, metalli pesanti, diossine; fisica come radiazioni UV, radiazioni ionizzanti, rumori, temperature troppo basse o troppo alte. Le variabili naturali rientrano invece in tutte le tipologie di calamità naturali come terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, frane, alluvioni o altri fenomeni, sempre di tipo naturale”: tratto dahttp://www.protezionecivile.gov.it/attivita-rischi/rischio-sanitario/descrizione.
Con un rinvio generale alla ormai copiosa letteratura sul più ampio tema del principio di precauzione, ai fini del presente studio per la dottrina si rinvia anche, ampiamente, ad A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006; F.De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, 2005, in cui l’Autore rileva sin dall’inizio del suo studio come la precauzione “s’iscrive in una logica nettamente diversa da quella della prevenzione: quella dell’amministrazione di rischio”: op cit., p. 25.
[8] Tema amplissimo, eccedente le presenti note: v. le riflessioni di B. Caravita di Toritto, In tema di ‘interesse nazionale’ e riforme istituzionali, inFederalismi, Editoriale n. 6/2003, che analizza la posizione della Corte costituzionale all’entrata in vigore della revisione costituzionale.
[9] Il corsivo è di chi scrive. La Corte, in conclusione del punto in diritto qui citato, afferma inoltre che “Tutto ciò premesso, si deve riconoscere che la legge impugnata effettivamente incide nei diversi settori che le Province autonome e la Regione Lombardia rispettivamente rivendicano come attribuiti a vario titolo alla propria competenza, non potendo accedersi — dati i molteplici aspetti della normativa in esame — alla tesi dell'Avvocatura dello Stato che vorrebbe ricomprenderne l'oggetto nell'angusto e inappropriato ambito delle « epidemie », peraltro sottratto alle sole Regioni ordinarie (art. 6 comma 1 lett. b), l. n. 833 del 1978), ma non, come risulta dalle relative norme di attuazione statutaria, alle Province autonome. Tuttavia, tale riconoscimento non può per sé solo indurre a concludere per l'illegittimità delle norme impugnate, dovendo ancora verificarsi, secondo i ricordati criteri di giudizio, se le singole misure adottate siano tali, nel loro contenuto e modalità di realizzazione, da collegarsi o meno effettivamente e ragionevolmente con le esigenze unitarie sopra descritte”. Come detto, il giudizio della Corte si è espresso nel senso della non fondatezza delle eccezioni rilevate dalle ricorrenti. Anche in questo caso le considerazioni svolte in quella fattispecie presentano una significativa adattabilità con il problema giuridico affrontato tre decenni dopo.
[10] Citazione tratta dalla Relazione tenuta il 13 maggio 2021, consultabile in https://www.cortecostituzionale.it/jsp/consulta/composizione/paginePresidente/relazione_annuale.do.
Si nota come il brano riportato sia anche quello selezionato sul sito della Corte come abstract, ritenuto quindi particolarmente rappresentativo per testimoniare l’attività annuale del Giudice delle leggi.
L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi *
di Vladimiro Zagrebelsky
1. L’Unione Europea si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini. Questo indica l’art. 2 del Trattato sull’Unione europea, nel testo derivante dal Trattato di Lisbona (2007), frutto della evoluzione del processo di unificazione europea e della crescente attenzione ai principi democratici e ai diritti fondamentali[1]. È naturale che gli stessi principi vincolino, non solo gli Stati membri, ma anche le istituzioni dell’Unione; espressamente l’art. 6 TUE stabilisce che l’Unione riconosce diritti, libertà e principi della Carta dei diritti fondamentali, il cui Preambolo richiama anche lo Stato di diritto.
Dall’art. 4 poi si ricava che l’Unione e gli Stati membri in virtù del principio di leale cooperazione si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati e che gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Si tratta di un principio di cruciale importanza, come ha rilevato la Corte di giustizia[2]: “Il diritto dell’Unione poggia, …, sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua. È proprio in tale contesto che spetta agli Stati membri, segnatamente, in virtù del principio di leale cooperazione enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma, TUE, garantire, nei loro rispettivi territori, l’applicazione e il rispetto del diritto dell’Unione e adottare, a tal fine, ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione…”.
La reciproca fiducia tra gli Stati membri è alla base del buon funzionamento delle istituzioni dell’Unione. Manifestazioni particolarmente significative ne sono la cooperazione giudiziaria, il riconoscimento dei provvedimenti giudiziari, il mandato di arresto europeo MAE.
Tali principi non indicano soltanto i tratti fondamentali della convivenza degli Stati membri in seno all’Unione, ma anche le condizioni di ammissione all’Unione degli Stati candidati (art. 49 TUE). Si può ritenere che siano non solo condizione di ammissione, ma anche condizione di permanenza. Di ciò è espressione l’art. 7 TUE, che prevede la possibilità (e la procedura) di raccomandazioni o di sospensione di diritti quando sia constatato l’evidente rischio di violazione grave dei valori dell’art. 2 o di violazione grave e persistente di essi da parte di uno Stato membro. Nel primo caso il Consiglio europeo delibera con la maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, nel secondo caso delibera alla unanimità.
2. Non estranea alla crescente esplicitazione dell’importanza dei principi democratici e dei diritti fondamentali nel quadro costituzionale[3] dell’Unione è stata la serie di allargamenti, che hanno portato da 6 a 28 (ora 27 con l’uscita del Regno Unito) gli Stati membri, aumentandone così la eterogeneità e richiedendo quindi opportune cautele per prevenire rischi di disgregazione. L’insistenza sulla preminenza dello Stato di diritto ne è conseguenza. Di essa nel 1993, in vista della possibile adesione degli Stati dell’Europa centrale e orientale che venivano liberandosi dal crollato sistema sovietico, gli Stati membri fecero menzione, come condizione di ammissione, nel testo noto come “criteri di Copenaghen”. Questo orientamento è stato poi rafforzato dagli Stati membri con deliberazioni del 1995. Successivamente, le conclusioni del Consiglio europeo del 5 dicembre 2011 hanno tra l’altro insistito, nell’ipotesi di successive adesioni, sulla necessità di riforme nel campo del “potere giudiziario e diritti fondamentali” e della “giustizia, libertà, sicurezza”. È del 2020 l’adozione di una nuova metodologia nelle trattative con nuovi Stati candidati, che ancora rafforza l’importanza dello Stato di diritto, giustizia, libertà, diritti fondamentali e istituzioni democratiche.
Si può allora affermare che l’Unione europea ha progressivamente sviluppato una importante politica di promozione dello Stato di diritto, con enunciazioni generali, messa in opera di meccanismi di sviluppo e controllo, di analisi dei problemi connessi[4] ed anche di collaborazione con altre istituzioni specializzate nel campo, come il Consiglio d’Europa[5] e la sua Commissione di Venezia[6].
3. La forma di stato che va sotto il nome di Stato di diritto ha alle spalle eventi storici diversi: dalla Rivoluzione inglese (1688-89) alla Rivoluzione americana (1776), dalla Rivoluzione francese (1789) alle Rivoluzioni europee del 1848 e poi lo sviluppo dello Stato costituzionale di diritto. Il risultato ha contenuti che possono ritenersi acquisiti, anche se i loro contorni possono apparire non definiti. Si tratta infatti di una nozione storica e politica, che può assumere caratteri diversi, più o meno marcati.
Si può riconoscere la qualità di Stato di diritto quando i poteri pubblici siano soggetti alla legge e siano previste ed efficaci la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo (diritti civili, politici, sociali) e delle libertà fondamentali, nonché la indipendenza dei giudici (strumentale rispetto alla garanzia dei diritti). Nel corso del tempo, la libertà di stampa ha acquisito una importanza centrale e riconosciuta, come condizione del controllo sulla correttezza della azione dei poteri pubblici (e privati).
Il nesso tra organizzazione dei poteri dello Stato e garanzia dei diritti è risalente nella evoluzione della nozione di Stato di diritto. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’agosto 1789 si leggono formule sintetiche e straordinariamente fertili di conseguenze:
“Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” (art.2) e “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione” (art.16).
Nel corso del tempo gli sviluppi saranno enormi, a partire da quelli che derivano dalla crisi dell’assoluto potere della legge, e dal riconoscimento della potenza delle Costituzioni e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali dei diritti. Una potenza derivante dai loro contenuti, prima ancora che dal loro rango formale, con la conseguente superiorità dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulle leggi positive nazionali. Frutto questo dell’emergere dell’attenzione a non ridurre la garanzia della legge ad un vuoto fatto formale, suscettibile d’esser riempito di ogni contenuto, fosse pure aberrante.
La garanzia della legge, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani si specifica nelle sue qualità di conoscibilità e prevedibilità, per escludere la sorpresa e l’arbitrio e si accompagna all’esigenza che nei suoi contenuti sia conforme o compatibile con i diritti fondamentali. Donde il limite che ne deriva al potere dell’autorità pubblica, rispetto alle libertà degli individui.
Fondamentale resta comunque la Dichiarazione del 1789 rispetto alla nozione di Stato di diritto, perché mette insieme le due condizioni, funzionali l’una all’altra, e indica lo scopo ultimo delle società.
La qualità di Stato di diritto da riconoscere o negare ad uno Stato specifico in un particolare momento storico riguarda il complesso delle norme e delle prassi che lo caratterizzano. Così persino la separazione dei poteri assume caratteri (e compromissioni e limiti) diversi nei vari Stati, tanto che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani le riconosce crescente importanza, ma afferma che, piuttosto che la corrispondenza del sistema statale ad una specifica dottrina costituzionale, ciò che conta è l’indipendenza del giudice[7]. In vista della tutela dei diritti è infatti quest’ultima ciò che è richiesto (art. 6 Convenzione europea dei diritti umani).
Il giudizio sulla corrispondenza di uno specifico sistema statale ai requisiti dello Stato di diritto ha carattere complessivo piuttosto che derivare dalla considerazione singolare di questa o quella delle sue condizioni.
4. In varie occasioni diverse istituzioni dell’Unione e del Consiglio d’Europa hanno elaborato analitiche definizioni di ciò che deve intendersi per Stato di diritto nel quadro europeo. Ed hanno anche cercato di indicare i segni utili ad un giudizio di violazione dei principi dello Stato di diritto.
Così la Commissione di Venezia, con un rapporto del 2011, ha fornito una definizione di Stato di diritto, con l’ambizione di trovare una nozione compatibile con il principio di “preminenza del diritto” (menzionata nel Preambolo della versione francese della Convenzione europea dei diritti umani) e il “Rule of Law” (nella versione inglese) ed anche con il Rechtsstaat tedesco. Gli elementi indicati sono: la legalità (che suppone procedure legislative trasparenti e democratiche), la certezza del diritto e l’esclusione dell’arbitrio, l’accesso alla giustizia davanti a giudici indipendenti e imparziali, il rispetto dei diritti umani, la non discriminazione e l’eguaglianza davanti alla legge.
Più recentemente, una definizione di Stato di diritto non sostanzialmente diversa è esposta nel Regolamento 2020/2092 del 16 dicembre 2020 del Parlamento e del Consiglio relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell'Unione (art.2), ove si dichiara che “in esso rientrano i principi di legalità, in base alla quale il processo legislativo deve essere trasparente, responsabile, democratico e pluralistico; certezza del diritto; divieto di arbitrarietà del potere esecutivo; tutela giurisdizionale effettiva, compreso l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, anche per quanto riguarda i diritti fondamentali; separazione dei poteri; non-discriminazione e uguaglianza di fronte alla legge. Lo Stato di diritto è da intendersi alla luce degli altri valori e principi dell’Unione sanciti nell’articolo 2 TUE”.
Ai fini dello stesso Regolamento (art. 3) “possono essere indicativi di violazioni dei principi dello Stato di diritto: a) le minacce all'indipendenza della magistratura; b) l'omessa prevenzione, rettifica o sanzione delle decisioni arbitrarie o illegittime assunte da autorità pubbliche, incluse le autorità di contrasto, la mancata assegnazione di risorse finanziarie e umane a scapito del loro corretto funzionamento o il fatto di non garantire l'assenza di conflitti di interesse; c) la limitazione della disponibilità e dell'efficacia dei mezzi di ricorso, per esempio attraverso norme procedurali restrittive e la mancata esecuzione delle sentenze o la limitazione dell'efficacia delle indagini, delle azioni penali o delle sanzioni per violazioni del diritto”. Il successivo art. 4 specifica poi le condizioni per l’adozione delle misure sanzionatorie per la violazione dello Stato di diritto.
E la fondamentale importanza dei principi dello Stato di diritto nel quadro dell’Unione europea, è ribadita nei Considerando del citato Regolamento, ove si riprendono le affermazioni già riportate della sentenza Achmea della Corte di giustizia, aggiungendo che le leggi e le prassi degli Stati membri dovrebbero continuare a rispettare i valori comuni sui quali l'Unione si fonda e che “Sebbene non esista una gerarchia tra i valori dell'Unione, il rispetto dello Stato di diritto è essenziale per la tutela degli altri valori fondamentali su cui si fonda l'Unione, quali la libertà, la democrazia, l'uguaglianza e il rispetto dei diritti umani. Il rispetto dello Stato di diritto è intrinsecamente connesso al rispetto della democrazia e dei diritti fondamentali. L'uno non può esistere senza gli altri, e viceversa”.
Alla luce di tali affermazioni sarebbe difficile credere che una efficace protezione delle regole dello Stato di diritto, nell’ambito dell’Unione e degli Stati membri, sia finalizzata ai soli rapporti finanziari tra l’una e gli altri, di cui il citato Regolamento si occupa.
5. L’accesso al giudice e l’indipendenza dei giudici nella applicazione della legge sono elemento fondamentale dello Stato di diritto. Essi sono strumentali rispetto alla garanzia dei diritti e della libertà fondamentali.
La Corte di giustizia dell’Unione ha elaborato importanti principi che sottolineano l’importanza della indipendenza dei giudici e dell’efficacia dei ricorsi giudiziari nel quadro dello Stato di diritto che deve essere proprio degli Stati membri dell’Unione. E gli Stati membri sono obbligati a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione (art. 19/1 TUE), anche in adesione ai principi e valori espressi all’art. 2 TUE. “Le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole, relative in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti” [8].
E nei Considerando del citato Regolamento si legge che l’indipendenza dei giudici “presuppone in particolare che, sia a norma delle disposizioni pertinenti quanto nella pratica, l'organo giurisdizionale interessato possa svolgere le sue funzioni giurisdizionali in piena autonomia, senza vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcun altro organo e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, restando pertanto al riparo da interventi o pressioni dall'esterno tali da compromettere l'indipendenza di giudizio dei suoi membri e da influenzare le loro decisioni. Le garanzie di indipendenza e di imparzialità richiedono l'esistenza di disposizioni, specialmente per quanto riguarda la composizione dell'organo nonché la nomina, la durata delle funzioni, le cause di ricusazione e revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all'impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti”.
Da parte sua la Corte europea dei diritti umani ha più volte affermato che la indipendenza del giudice di cui all’art. 6 della Convenzione dipende dal modo di designazione e la durata del mandato, l’esistenza di protezioni contro pressioni esterne ed anche l’apparenza di indipendenza[9].
Si può allora concludere che, con specificazioni e integrazioni, tutte le fonti indicano come cuore dello Stato di diritto, la indipendenza dei giudici, essenziale in funzione della garanzia dei diritti. Cioè quanto proclamava già la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
6. Da tempo i principi dello Stato di diritto e il rispetto dei diritti e libertà fondamentali propri delle democrazie sono contestati e negati in alcuni Stati membri, con atti e dichiarazioni/rivendicazioni politiche (gravi, anche se si sa che ampie sono le aree di opinione pubblica dissenzienti, europeiste, democratiche). Se il primo ministro ungherese ha qualificato il suo sistema come quello di una “democrazia illiberale”, altrove fatti concludenti hanno indicato che la “democrazia” viene intesa solamente come il regime che si fonda sulle elezioni e sul potere della maggioranza. Ciò che, come emerge dalle pur non strettamente definite nozioni di Stato di diritto, ne mostra il contrasto e l’incompatibilità. Della maggioranza e del suo potere, infatti, si apprezza certo il valore, ma anche se ne teme la forza, quando sia intollerante e irrispettosa “dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze” (art. 2 TUE). La gravità della situazione, per la coesione dell’Unione e per la stessa sua ragion d’essere come qualcosa di più e meglio del solo Mercato Comune, deriva inoltre dalla messa in discussione dei principi dello Stato di diritto e, ancor più, della “pretesa” delle istituzioni dell’Unione di sindacarne le manifestazioni nei singoli Stati membri: messa in discussione che non appare soltanto in atti di governo e dichiarazioni formali in alcuni Stati membri, ma in misura più o meno larga è condivisa da parti delle opinioni pubbliche in molti o in tutti gli Stati membri. Base ideologica ne è il c.d. sovranismo, cioè il nazionalismo risorgente, nelle sue varie manifestazioni, anche di nazionalismo giudiziario o legale che vuol trovare fondamento nel rispetto della “identità nazionale” degli Stati membri (art. 4/2 TUE) e che finisce con il contraddire il progetto di “creazione di una unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa” (art. 1 TUE). Segno inequivoco della deriva contraria allo Stato di diritto è il contrasto e l’indebolimento dei contro-poteri, sia esso il potere giudiziario, sia la libertà e pluralismo della stampa.
7. L’Unione mostra difficoltà per ora insuperabili a contrastare la deriva in atto contro le esigenze proprie dello Stato di diritto. Per lungo tempo gli organi dell’Unione ha scelto la via dialogante con le autorità di alcuni Stati, in particolare di Ungheria e Polonia, con raccomandazioni e richieste di chiarimenti. E solo nel dicembre 2017 la Commissione ha lanciato la procedura dell’art. 7/1 TUE nei confronti della Polonia, invitando il Consiglio a constatare il rischio chiaro di violazione grave dello Stato di diritto. E il Parlamento ha deciso lo stesso passo nei confronti della Ungheria nel settembre 2018. Ma nell’un caso come nell’altro non si è avuta alcuna decisione da parte del Consiglio. Si può aggiungere che sorgono problemi riguardanti lo Stato di diritto anche in altri Stati membri (Bulgaria, Malta, Romania, Slovacchia), anche se forse non così importanti come in Ungheria e Polonia. In ogni caso solo in questi ultimi due Paesi la procedura dell’art. 7 Tue ha preso inizio. In più la Commissione ha investito la Corte di giustizia, la quale ha più volte constato mancanze riguardanti il diritto della Unione. Senza peraltro rilevanti conseguenze.
Lo strumento dell’art. 7 TUE si è dimostrato inefficace. Anche a supporre l’esistenza di una volontà politica da parte degli Stati membri, la condizione di unanimità della decisione ne impedisce l’uso. Polonia e Ungheria infatti hanno espresso il loro reciproco appoggio, così escludendo che il meccanismo possa giungere alla conclusione della sua fase due. Ma almeno la fase uno, che non richiede unanimità, avrebbe potuto essere portata a termine. Ma manca la volontà politica da parte degli Stati membri nel Consiglio europeo e si delinea così un contrasto grave tra le istituzioni dell’Unione. Per uscirne, da tempo si sono sviluppate discussioni e proposte dirette a legare l’erogazione dei fondi dell’Unione agli Stati all’osservanza dei principi fondatori dell’Unione e in particolare dello Stato di diritto. Si tratterebbe di un potente mezzo di pressione, indipendentemente dal meccanismo previsto dall’art. 7 TUE.
8. Recentemente in occasione dell’adozione dell’innovativo strumento del Next Generation EU, il già citato Regolamento n. 2020/2092, che porta nel titolo la menzione della introduzione di un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione, ha introdotto la possibilità di restrizioni in ordine alla erogazione dei finanziamenti da parte dell’Unione. Esse sono considerate qualora siano accertate violazioni dei principi dello Stato di diritto in uno Stato membro, che compromettono o rischiano seriamente di compromettere in modo sufficientemente diretto la sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o la tutela degli interessi finanziari dell'Unione. Tra gli indici della violazione dei principi dello Stato di diritto è indicata la carenza di un effettivo controllo giurisdizionale, da parte di organi giurisdizionali indipendenti, nonché le azioni od omissioni compiute dalle autorità competenti per l’esecuzione del bilancio dell’Unione e per la prevenzione e repressione delle frodi.
Il Regolamento n. 2020/2092 al suo articolo 6, definisce la procedura di accertamento delle violazioni che giustificano le misure. Responsabile di tale procedura è la Commissione in vista della decisione da parte del Consiglio europeo a maggioranza qualificata.
Come è noto la reazione dei governi polacco e ungherese alla approvazione del Regolamento da parte del Parlamento è stata la minaccia di veto alla approvazione da parte del Consiglio europeo del Regolamento stesso e del bilancio pluriennale dell’Unione.
Sotto la guida della presidenza tedesca, il Consiglio europeo il 10-11 dicembre 2020 ha adottato un testo di Conclusioni che ha convinto quei governi a rinunciare alla loro opposizione.
Di che si tratta? Come sono stati rassicurati quei governi che sono oggetto di ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti umani e di procedure alla Corte di giustizia della Unione? Quale la “soluzione” trovata? Essa si traduce in sintesi in un rinvio nel tempo dell’operatività del meccanismo di condizionalità, in una restrizione dell’area di rilevanza dei principi dello Stato di diritto e in un restringimento dei casi in cui la loro violazione può implicare conseguenze.
Rispetto al testo inizialmente approvato dal Parlamento, le Conclusioni del Consiglio europeo sono intervenute aggiungendo e modificando: aggiungono l’intenzione attribuita alla Commissione di adottare linee guida sulle modalità con cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare la propria valutazione. Tali linee guida saranno elaborate in stretta consultazione con gli Stati membri. Viene previsto un ruolo della Corte di giustizia: qualora venga introdotto un ricorso per l’annullamento del Regolamento, le linee guida saranno messe a punto successivamente alla sentenza della Corte di giustizia, in modo da incorporarvi eventuali elementi pertinenti derivanti dalla sentenza. Viene precisato che le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all'impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o sugli interessi finanziari dell'Unione; il nesso di causalità tra tali violazioni e le conseguenze negative per gli interessi finanziari dell'Unione dovrà essere sufficientemente diretto e debitamente accertato. E viene espressamente dichiarato che la semplice constatazione di una violazione dello Stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo: il Regolamento non riguarda carenze generalizzate.
È dunque ben chiarito che le uniche violazioni dello Stato di diritto capaci di produrre conseguenze quanto ai finanziamenti dell’Unione agli Stati membri saranno quelle che direttamente incidono sugli interessi finanziari dell’Unione. Fuori di essi, anche se assumessero carattere generalizzato, il nuovo meccanismo non opererebbe. Gli effetti delle conclusioni del Consiglio sui tempi (che potenzialmente si allungano di molto), modi e limiti del nuovo meccanismo, hanno convinto i governi polacco e ungherese a superare le loro preoccupazioni in ordine alla reazione che l’Unione avrebbe potuto avere nei confronti dei tratti di “democrazia illiberale” che ne caratterizzano la recente legislazione.
L’intervento del Consiglio europeo ha trovato negativa reazione da parte del Parlamento, che con una Risoluzione del 25 marzo 2021 ha richiamato e sollecitato la Commissione ad esercitare tutti i suoi poteri per il caso di violazione dei principi dello Stato di diritto e ha preannunciato il proprio intervento avanti la Corte di giustizia nelle cause C-156/21 e C-157/21 relative ai ricorsi contro il Regolamento nel frattempo introdotti da Ungheria e Polonia. Nel meccanismo, fino alla decisione della Corte di giustizia, la Commissione non può approvare le sue linee guida e quindi la procedura di eventuali sanzioni resta bloccata. Il Parlamento chiede alla Corte la procedura accelerata.
Nei loro ricorsi Ungheria e Polonia contestano la competenza degli organi dell’Unione rispetto ai Trattati per la introduzione del meccanismo di condizionalità legato allo Stato di diritto. L’insidiosità di tale motivo di ricorso deriva da quanto ora si dirà.
9. In una procedura nei confronti della Polonia riguardanti modifiche alle norme di ordinamento giudiziario capaci di incidere sulla indipendenza dei giudici[10], a fronte della contestazione della sua competenza da parte del governo polacco convenuto, la Corte di giustizia ha ritenuto la propria competenza, poiché “sebbene l’organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza di questi ultimi, ciò non toglie che, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri siano tenuti a rispettare gli obblighi per essi derivanti dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE”. I giudici nazionali applicano il diritto dell’Unione e pertanto “la Corte ha dichiarato che il requisito di indipendenza dei giudici impone, in particolare, che le regole relative al regime disciplinare di coloro che svolgono una funzione giurisdizionale offrano le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio di utilizzo di un regime siffatto come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie…”.
La decisione della Corte di giustizia è di particolare rilevanza, poiché attraverso l’affermazione della propria competenza in materia di organizzazione della magistratura negli Stati membri, afferma corrispondentemente che tale materia rientra nell’ambito delle competenze dell’Unione. Essa è conforme alla giurisprudenza della Corte, come già ricordata. La si cita ora perché espressa in controversie relative alla Polonia, che ora sulla incompetenza fonda il suo ricorso relativo al Regolamento 2092/2020.
La determinazione dell’area delle competenze trasferite dagli Stati membri all’Unione è stata oggetto recentemente di una rilevante vicenda giurisprudenziale. Il riferimento è alla sentenza della Corte costituzionale tedesca[11] del 5 maggio 2020, che ha affermato che le attività della Banca Centrale Europea oggetto dei ricorsi eccedevano le competenze dell’Unione, non ostante la contraria affermazione della Corte di giustizia[12], richiesta di esprimersi sul punto da ricorsi pregiudiziali proposti dalla stessa Corte nazionale.
La Corte costituzionale tedesca ha ritenuto che il controllo eseguito dalla Corte di giustizia sulla attività della BCE non fosse stato adeguato; che la Corte di giustizia avesse agito ultra vires oltre le competenze attribuite dai Trattati; che la decisione della Corte di giustizia fosse incomprensibile e arbitraria e quindi non vincolante.
Non è qui il luogo per sviluppare il rilievo della estrema gravità di simile argomentare che si traduce nella contestazione del pilastro della costruzione europea rappresentato dal ruolo assegnato alla Corte di giustizia dagli articoli 19/1 TUE e 267 TFUE nell’assicurare uniformità e coerenza della normativa dell’Unione. Ciò che però qui rileva è la suscettibilità della posizione della Corte costituzionale tedesca a divenire esempio, che potrebbe essere seguito da Corti o governi in ordine alla valutazione in sede nazionale di ciò che rientra o ciò che fuoriesce dalle competenze che gli Stati membri hanno trasferito all’Unione, anche in difformità dal giudizio della Corte di giustizia.
Come si è detto sopra, in una causa riguardante la indipendenza dei giudici -elemento costitutivo dello Stato di diritto- la Polonia ha negato che il tema rientrasse tra le competenze dell’Unione e della Corte di giustizia. La Corte ha affermato il contrario.
Commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca i due viceministri della giustizia polacchi ne hanno preso atto con soddisfazione, poiché da essa si trae conferma che ove gli organi dell’Unione oltrepassino i confini delle loro attribuzioni intervengono gli organi costituzionali nazionali[13]. Analogamente si sono pronunciati esponenti governativi ungheresi. E ora la incompetenza dell’Unione rispetto alla introduzione del meccanismo della condizionalità con il Regolamento n. 2020/2092 è eccepita da Ungheria e Polonia: adesso davanti alla Corte e poi, dopo la sentenza della Corte, con il rifiuto di darvi riconoscimento?
I principi dello Stato di diritto, invece che terreno e condizione della convivenza e della reciproca fiducia tra gli Stati membri, stanno diventando materia di scontro e disgregazione.
* Relazione svolta all’incontro di studio della Fondazione Lelio e Lisli Basso Dalla Carta dei diritti fondamentali alla riforma democratica e sociale dell’Unione Europea, 20 aprile 2021.
[1] V. Preambolo del Trattato di Maastricht (1992) e poi Preambolo e artt. 2 e 7 TUE come derivanti dal Trattato di Lisbona (2007).
[2] Corte di Giustizia, Repubblica Slovacca c. Achmea (C-284/, 16 marzo 2018).
[3] Così definiti i Trattati dalla Corte di giustizia in Parti écologiste Les Verts c. Parlamento europeo (294/83, 23 aprile 1986).
[4] Anche con la istituzione di un organismo consultivo come l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Regolamento del Consiglio (CE) 168/2007 del 15 febbraio 2007).
[5] Consiglio europeo 13 luglio 2020, che stabilisce le priorità per il periodo 2020-2022.
[6] Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto.
[7] Stafford c. Regno Unito, 28 maggio 2002, § 78; Kleyn c. Paesi Bassi, 6 maggio 2003, § 193; Sacilor Lormines c. Francia, 9 novembre 2006, § 59.
[8] Si fa rinvio, anche per la giurisprudenza precedente, a Corte di giustizia, Repubblika (C-896/19, 20 aprile 2021) che ha considerato sia l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sia l’art. 19/1 TUE.
[9] Luka c. Romania, 21 luglio 2009 e recentemente, in particolare per il requisito della previsione per legge, Gudmundur Andri Astradsson c. Islanda, 1° dicembre 2020.
[10] Nell’ordinanza 8 aprile 2020 resa nella causa C‑791/19 R, avente ad oggetto la domanda di provvedimenti provvisori ai sensi dell’articolo 279 TFUE e dell’articolo 160/2, del regolamento di procedura della Corte, §§ 29-36. Successivamente v. anche la sentenza nella causa C‑824/18 (A. B. e altri c. Krajova Rada Sadownictwa) del 2 marzo 2021, che ha tra l’altro affermato che il primato del diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare le modifiche di cui trattasi, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare, di conseguenza, ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di tali modifiche. V. anche C-585/18 (A.K. c. Krajova Rada Sadownictwa) del 19 novembre 2019 e, da ultimo, relativamente alla Romania C‑83/19, C‑127/19, C‑195/19, C‑291/19, C‑355/19 e C‑397/19 (Asociaţia Forumul Judecătorilor din România e altri c. Inspecţia Judiciară e altri) del 18 maggio 2021.
[11] Corte costituzionale federale tedesca, Secondo Senato, sentenza del 5 maggio 2020, 2 BvR 859/15, 2 BvR 1651/15, 2 BvR 2006/15, 2 BvR 980/16, espressione di una giurisprudenza inaugurata con la sentenza Maastricht del 1993.
[12] Corte giust. 16 giugno 2015, causa C-62/14, Gauweiler; Corte giust. 11 dicembre 2018, causa C-493/17, Heinrich Weiss.
[13] Varsavia, 6 maggio 2020 09:31 - (Agenzia Nova) - Laddove gli organi dell'Unione europea oltrepassano le loro attribuzioni, là intervengono gli organi costituzionali nazionali e le sentenze della Corte di Giustizia Ue perdono la loro legittimazione democratica. È quanto ha detto il viceministro della Giustizia polacco, Marcin Warchol, commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca sull'acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea (Bce). "È una dimostrazione per tutti coloro che ci intimano di inginocchiarci davanti alle sentenze della Corte di giustizia dell'Ue. Diciamo chiaramente che l'identità costituzionale di ciascuno degli Stati membri è garantita, anche nei trattati", ha affermato Warchol. "La Germania difende la propria sovranità. La Corte costituzionale tedesca ha detto che l'Ue può tanto quanto i paesi membri le concedono", ha detto l'altro viceministro della Giustizia, Sebastian Kaleta.
Dalla Commissione è stato emesso il seguente commento: “In linea generale, si ricorda che, in base a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, una sentenza pronunciata in via pregiudiziale da questa Corte vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia dinanzi ad esso pendente. Per garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, solo la Corte di giustizia, istituita a tal fine dagli Stati membri, è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione. Eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere infatti l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto. Al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione. Solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata”.
Polonia e Ungheria (e anche la Repubblica Ceca) hanno in passato protestato nei procedimenti di infrazione promossi dalla Commissione, affermando di non essere tenuti ad ottemperare alle decisioni di ricollocazione di richiedenti asilo o protezione internazionale.
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