ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Art. 27, primo comma, CCI: l’infelice “in” davanti a “amministrazione straordinaria”. Ci vorrà un intervento correttivo? (Brevi riflessioni sull’ ordinanza n. 19618 del 09/07/2021 della prima Sezione civile della corte di Cassazione)* di Paola Filippi
Sommario: 1. Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi? - 2. L’infelice “in” al posto di assoggettabilità - 3.Gli effetti della scelta interpretativa sull’efficienza della giustizia.
1.Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi?
L’ufficio competente a decidere sulla domanda di concordato preventivo è il tribunale nel cui circondario si trova il centro degli interessi principali della grande impresa in crisi, almeno così ha deciso la Prima Sezione con l’ ordinanza n. 19618 del 09/07/2021.
Il principio di diritto è che “ai sensi dell'art. 27, comma 1, d.lgs n. 14 del 2019 (Codice della crisi d'impresa), la competenza dell'ufficio sede della sezione specializzata in materia di imprese è riservata ai soli procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza delle imprese che siano già state ammesse all'amministrazione straordinaria”.
L’interpretazione dell’ “in” è stata risolta dunque nel senso che la competenza della sezione specializzata in materia di grandi imprese in crisi si radica solo dopo l’apertura dell’amministrazione straordinaria, mentre prima dell’apertura si applica la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 27.
2. L’infelice “in” al posto di “assoggettabilità”.
Nella motivazione dell’ordinanza si legge: “Il riferimento dell'art. 27 alle imprese "in" amministrazione straordinaria, in combinato con le regole desunte dall'art. 350, non consente esegesi diversa da questa letterale, convogliata, per la parte che qui interessa, dall'esistenza di una procedura già in atto.
Il senso specifico della previsione è nel chiarire che la richiamata (nuova) individuazione del tribunale competente in rapporto alla sede delle sezioni specializzate rileva non solo per l'accertamento dello stato di insolvenza ma anche per i procedimenti di regolazione della crisi (o dell'insolvenza) come definiti e disciplinati dal previgente titolo III della legge fall., e per le controversie che ne possano derivare se attinenti alle imprese ammesse all'amministrazione straordinaria.”
Tale interpretazione dell’infelice “in”, scelta dal collegio in quanto letterale, non spiega le ragioni della diversa interpretazione di quello stesso “in” con riferimento alla determinazione della competenza sulla domanda di apertura della procedura di ammissione straordinaria.
Anche in fase di domanda di apertura la grande impresa infatti non è ancora “in”.
La modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, CCI con riferimento all' articolo 3, comma 1, legge Prodi bis, e con riferimento all’art. 2, comma 1, legge Marzano -ove le parole «del luogo in cui ha la sede principale» sono sostituite con «competente ai sensi dell'articolo 27, comma 1, del codice della crisi e dell'insolvenza»- non avrebbe, d’altro canto, avuto senso se fosse rimasto competente il Tribunale della sede principale.
La disposizione di cui all’art. 27, primo comma, è ripetizione pedissequa della legge delega, che utilizzando quell’improprio “in” ha delegato la modifica della competenza, delega senza la quale il governo non avrebbe avuto il potere di intervenire.
Tutto questo per spiegare che, con riferimento all’apertura dell’amministrazione straordinaria, quell’in non poteva che significare “assoggettabilità” o “aventi i requisiti per essere ammesse a”.
Ma perché attribuire alla locuzione in amministrazione straordinaria un significato bivalente?
Se “in” significa “ammessa”, e certo non è “ammessa” l’impresa che chiede di esserlo, perché per la domanda di regolazione della crisi con la procedura di amministrazione straordinaria quell’in ha il significato di impresa avente i requisiti mentre nel caso di domanda di regolazione della crisi con la procedura di concordato preventivo quell’in va inteso in senso letterale?
Insomma perché darsi della stessa locuzione un’interpretazione diversa a secondo dei casi?
2.Gli effetti della scelta interpretativa sull’efficienza della giustizia.
La soluzione adotta dalla prima Sezione civile della corte di Cassazione rende tortuoso il percorso della regolazione della crisi delle grandi imprese.
La scelta di individuare un ufficio specializzato, come emerge dai lavori che hanno preceduto la formulazione dell’art. 27, comma 1- disposizione peraltro ritenuta di urgente applicazione tanto che è entrata in vigore il 30 marzo 2019- trova ragion d’essere nell’esigenza di affidare la regolazione della crisi di grandi dimensioni a uffici specializzati.
Alle grandi dimensioni dell’impresa corrispondono grandi dimensioni della crisi e, di conseguenza, significativa complessità della procedura di regolazione.
La scelta della sezione specializzata, quale ufficio competente, dipende dalle dimensioni del debitore e non già dal tipo di procedura di regolazione, la cui complessità permane perché dipende dalle qualità del debitore .
Gli effetti della doppia competenza, determinata dall’interpretazione bivalente dell’in, vanno considerati anche alla luce dell’alta probabilità di trasmigrazione del fascicolo dal Tribunale sede del COMI alla sezione specializzata, in caso di conversione della procedura di concordato preventivo in amministrazione straordinaria. La conversione delle procedure, d’altro canto, non è affatto eventualità rara, anzi tutt’altro, come emerge dall’osservazione empirica, come si desume dal dettaglio della disciplina che regola la conservazione degli effetti nonché dall’elaborazione giurisprudenziale in tema di conversione delle procedure.
E’ senz’altro produttiva di effetti negativi sull’efficienza della giustizia e sulla ragionevole durata del processo l’evenienza che una procedura di siffatta complessità inizi presso un ufficio e finisca presso un altro ufficio. Lo stesso vale per l’ufficio di Procura.
La diseconomicità e lo spreco delle risorse che ne consegue si riverbera inevitabilmente sul debitore, sui creditori ovvero sulla gestione stessa della procedura di regolazione della crisi. Il trasferimento della competenza da un tribunale all’ altro è una delle maggiori cause di diseconomicità del sistema giustizia, di sperpero delle risorse, di allungamento dei processi ovvero di inefficienza della giurisdizione.
Senza considerare i possibili intrecci di competenza che si determinano in caso di ricorsi presentati presso il Tribunale specializzato quando presso il Tribunale circondariale penda la domanda di concordato [[1]].
Sotto questo profilo la soluzione adottata dalla prima Sezione civile non sembra coerente rispetto alla necessità di orientare le decisioni giudiziarie verso l’efficienza della quale, non foss’altro per gli impegni assunti con l’Europa, dovremmo costantemente tener conto.
Anche per questo sarebbe forse opportuno che sull’infelice “in” o sulla sua interpretazione si torni a riflettere, attingendo a canoni ermeneutici che tengano conto certamente del dato lessicale, inserendolo nel – e considerandolo il - più ampio contesto della disciplina di settore.
* il presente scritto segue a Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi?
[1] M. Farina La Cassazione e la competenza del Tribunale sede delle sezioni specializzate in materia di impresa ai sensi dell’art. 27, comma 1, del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. Una restrittiva interpretazione letterale che non convince in JUDICIUM, 2021, fasc. 23.
Sull’obbligo di rinvio pregiudiziale (nota a CGUE, Grande Sezione, sentenza 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana SpA in C-561/19)
di Giorgio Capra
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la recente sentenza Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana SpA, ha confermato le ipotesi – già delineate nella sentenza Cilfit – al ricorrere delle quali il giudice nazionale di ultima istanza, pur in presenza di una questione concernente l’applicazione del diritto eurounitario, è esonerato dall’obbligo di investire la Corte tramite lo strumento del rinvio pregiudiziale.
Il Consiglio di Stato, che nell’ambito del giudizio aveva già sollevato alcune questioni pregiudiziali su cui la Corte si era pronunciata con sentenza, alla luce di una ulteriore richiesta di rinvio pregiudiziale proveniente dalle parti appellanti, ha preliminarmente sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente questione: “[S]e, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
La Corte di Giustizia, ricordato che il rinvio pregiudiziale “costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati” e “mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantir[ne] la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia”, ha ribadito e sviluppato i criteri – già espressi nella sentenza Cilfit – al ricorrere dei quali l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario viene meno.
Si tratta dei casi di irrilevanza della questione, dell’acte éclairé, ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’acte clair, quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Con riguardo all’ultima ipotesi, la Corte di Giustizia ha, poi, richiamato la necessità di interpretare il diritto unionale secondo le caratteristiche ad esso proprie e tenendo in considerazione le particolari difficoltà interpretative che esso pone sotto il profilo delle divergenze linguistiche tra le varie versioni delle disposizioni e dell’autonomia delle sue nozioni, nonché il rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.
In ogni caso, la CGUE ha ribadito che, qualora ritenga di essere esonerato dall’obbligo di sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale, il giudice di ultima istanza debba motivare la propria decisione specificando quale ipotesi reputi sussistere.
La Corte ha poi precisato che l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale. Qualora, però, non ricorra alcuna delle succitate ipotesi, il giudice di ultima istanza è tenuto a sottoporre alla Corte di Giustizia ogni questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso. E questo obbligo non viene meno neanche nel caso in cui tale giudice abbia già sottoposto una questione pregiudiziale qualora, dopo la decisione della Corte, permangano questioni di interpretazione del diritto unionale la cui risoluzione è necessaria per dirimere la controversia.
La Corte di Giustizia ha, però, ricordato che il giudice di ultima istanza può astenersi dal rinvio pregiudiziale per ragioni di irricevibilità inerenti alla disciplina del procedimento dinanzi a tale giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale.
È significativo notare che, nelle proprie conclusioni del 15 aprile 2021, l’avvocato generale Bobek aveva auspicato un superamento dei criteri Cilfit e, più in generale, un ripensamento dello strumento del rinvio pregiudiziale, non nell’ottica della mera corretta applicazione del diritto unionale al caso concreto, ma in funzione nomofilattica.
Apertura coattiva di borse e consenso del contribuente in sede di verifica fiscale
“Nel caso di apertura di una valigetta reperita in sede di accesso, la mancata autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, può essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto. La mancata informazione al titolare del diritto della facoltà, di cui all’art. 12, comma 2, l. n. 212 del 2000, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria non è idonea, di per se stessa, in assenza di un’espressa previsione di legge in tal senso, a decretare l’invalidità del consenso prestato dal contribuente all’apertura della borsa ed a determinare quindi l’inutilizzabilità delle acquisizioni effettuate e la nullità dell’avviso di accertamento. La mancata informazione dell’art. 12 comma 2 costituisce una circostanza che potrà e dovrà essere valutata dal giudice del merito, insieme a tutti gli altri elementi probatori, al fine di verificare se nel caso concreto il contribuente abbia espresso un consenso effettivamente spontaneo"
Le conclusioni del sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia all’udienza del 12 ottobre 2021 davanti alle Sezioni Unite civili
La tentazione tirannica dei valori assoluti[1]
di Alessio Lo Giudice
Sommario: 1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica. – 2. La strada dei valori assoluti. – 3. Etica dei valori ed etica dei principi. – 4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione.
1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica
L’odierno e diffuso utilizzo del termine crisi nelle letture della (e sulla) pandemia acquista un significato preciso nella misura in cui lo associamo proprio alla necessità di assumere decisioni, politiche e giuridiche, in presenza di un conflitto tra principi fondamentali, talvolta rappresentati come espressione di veri e propri valori assoluti. Nella misura, cioè, in cui interpretiamo la nostra condizione come quella di un sistema sociale che, a più livelli, si è trovato, e si trova, sistematicamente di fronte alla necessità di giudicare e decidere con il tempo che stringe tra istanze configgenti e parimenti tutelate non solo dall’ordinamento giuridico ma anche dal tessuto valoriale ampiamente condiviso nel contesto socio-culturale di riferimento. È questa la situazione che hanno dovuto gestire i medici dei reparti di rianimazione quando, a corto di posti disponibili in terapia intensiva e a fronte di una serie di motivate richieste di ricovero, sono stati chiamati a giudicare chi meritava, più degli altri, di essere curato. Ma è analoga, al netto di tutte le differenze specifiche, la situazione che il decisore politico ha dovuto affrontare di fronte al dilagare dell’epidemia, prima di procedere alla chiusura delle attività sociali e produttive. Oggi, lo stesso decisore politico si trova ancora a decidere, con urgenza, tra alternative che comunque si escludono, quando è chiamato a procedere alla riapertura o alla richiusura delle attività a fronte dei risultati del contenimento del contagio; quando è chiamato a decidere sull’opportunità o meno di prevedere l’obbligo vaccinale; quando è chiamato ad adottare misure, come nel caso del Green pass, che comunque incidono sull’esercizio di alcuni diritti fondamentali. Per non parlare, poi, di tutte le ulteriori scelte quotidiane che molti hanno dovuto compiere in tale contesto, posti di fronte ad alternative quali quelle tra affetto e salute, o tra lavoro e salute. In altre parole, il conflitto tra principi, spesso riconfigurato quale espressione del conflitto tra valori assoluti, indica l’esperienza diffusa che, con una maggiore frequenza a livello istituzionale e socio-culturale, stiamo vivendo a causa della pandemia, sebbene rappresenti una situazione ricorrente nelle società tardo-moderne caratterizzate da un sempre crescente pluralismo etico[2].
Ciò che la crisi pone in risalto, del resto, è l’urgenza della scelta in assenza di criteri generali certi, indiscutibili e stabili, nonostante l’esistenza di norme di vario rango, di linee guida, principi deontologici, pareri scientifici e tecnici. Scelte che implicano la necessità di optare tra alternative in ogni caso riconducibili a istanze profondamente umane, legate alla natura dell’uomo e agli interessi che storicamente prevalgono. Questa è la situazione dei medici di fronte al dilemma etico, alla scelta tragica da compiere nel triage. Bisogna seguire a tutti i costi il principio della parità di trattamento? Occorre seguire il criterio della maggiore probabilità di successo clinico, con l’annessa valutazione sul discutibile parametro dell’aspettativa di vita? O invece basterebbe attenersi al criterio cronologico: chi prima arriva viene curato fino ad esaurimento posti? Ma simile è anche la situazione che il decisore politico deve affrontare di fronte alla necessità di aprire o chiudere lo spazio sociale ed economico-produttivo. Lo è perché si tratta di bilanciare, in concreto, principi e interessi costituzionalmente protetti che, nel loro insieme, esprimono la trama complessa di una società. Mettere in discussione uno qualsiasi di questi principi, dalle libertà alla salute, dall’uguaglianza all’iniziativa economica, comporta comunque una ferita nel tessuto sociale con tempi di recupero assolutamente non prevedibili. Una ferita, soprattutto, che rischia di ampliarsi a dismisura, senza che sia possibile immaginare di rimarginarla, se il conflitto in questione assume sempre più le caratteristiche di una lotta tra valori assoluti che si mostrano resistenti di fronte a qualsiasi ipotesi di mediazione.
2. La strada dei valori assoluti
Ebbene, la strada dei valori, se questi ultimi, occorre precisare, vengono intesi come ideali e assoluti, rischia di condurre a conflitti sempre più irrisolvibili[3]. Per essere più precisi, tale strada equivale alla pretesa e alla prassi di ricorrere a valori assoluti nel momento in cui sorge il problema di giustificare o contestare, a diversi livelli, una decisione politica e giuridica. Intendo, in particolare, sostenere come siffatta forma di giustificazione, concepita come attuazione materiale di valori ritenuti assoluti, sia intrinsecamente conflittuale.
A prescindere dalla caratterizzazione morale di molti conflitti contemporanei, specie in epoca pandemica, può in proposito considerarsi anche un’analisi concettuale frutto di una tradizione consolidata. Ci sono certo riflessioni che puntano proprio a sottolineare la conflittualità strutturale della prassi politico-giuridica fondata sui valori assoluti. Ma è significativo potersi riferire anche agli studi di coloro che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX hanno fondato filosoficamente un’etica materiale dei valori. Si pensi a Max Scheler o a Nicolai Hartmann. In particolare, quest’ultimo individua nel tendenziale aspetto tirannico del valore un tratto tipico dei rapporti di opposizione tra i valori stessi: «Ogni valore – una volta che ha acquistato potere su di una persona – ha la tendenza di erigersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, ed invero alle spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono materialmente contrapposti»[4].
In realtà, come anticipato in precedenza, la conflittualità è una componente strutturale di un certo modo di intendere i valori. Se intesi come assoluti, tali cioè da ordinare in maniera onnicomprensiva e totalizzante una forma di vita, non possono che comportare l’esclusione di valori alternativi che si presentano come altrettanto assoluti. A questo proposito Carl Schmitt, ragionando proprio sulla tirannia dei valori indicata da Hartmann, afferma: «I valori per quanto alti e santi, come valori, valgono sempre e soltanto per qualcosa e per qualcuno»[5].
Riferimento classico, nel riflettere sull’ontologia del conflitto di valori, è l’idea della pluralità di valori come centri normativi avanzata da Max Weber, espressione del fallimento dei progetti di neutralizzazione etica che si sono susseguiti nella modernità. Il politeismo dei valori, così concepito, è più il riflesso dell’insufficienza regolativa e integrativa del modello di razionalità autoreferenziale, che il residuo dell’implosione di una precedente omogeneità culturale: «Gli antichi dèi, spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta»[6].
Una tale contesa è in realtà lo scontro tra posizioni comunque situate storicamente che pretendono di imporre concezioni del mondo assolutizzanti. Posizioni cioè che divinizzano il dato valoriale promuovendone la supremazia gerarchica che ne consegue. Da questo punto di vista, le riflessioni di Schmitt indicano quella che oggi potrebbe appunto essere definita la logica di chi incarna un’ingenua, quanto improbabile, concezione assoluta della libertà individuale: “Per la logica del valore deve sempre valere che per il valore supremo il prezzo più alto non è troppo alto, e deve essere pagato”[7].
Questo discorso trova un importante riscontro in un contesto filosoficamente distante da quello schmittiano. Jürgen Habermas, infatti, indicando nella mancata distinzione tra norme e valori un vizio metodologico, frutto dell’errata auto-interpretazione del proprio ruolo da parte della Corte Costituzionale tedesca, ha reiteratamente criticato la cosiddetta “giurisprudenza dei valori”. E ancora una volta sottolinea la conflittualità intrinseca rispetto a qualsiasi ordine di valori assoluti: “Valori differenti lottano per la prevalenza: nella misura in cui trovano riconoscimento intersoggettivo nell’ambito d’una cultura o d’una forma di vita, essi generano configurazioni flessibili e ricche di tensione”[8].
3. Etica dei valori ed etica dei principi
L’ispirazione per una prassi politico-giuridica valoriale in senso assoluto, e inevitabilmente conflittuale, nasce probabilmente dalla necessità di una legittimità sostanziale che rafforzi, o superi, il presunto debole fondamento del legalismo e del positivismo giuridico, nonostante la cornice del costituzionalismo del secondo novecento abbia condotto alla positivizzazione di una pluralità di valori attraverso principi normativi di chiara matrice morale. Secondo l’impostazione ispirata dall’etica dei valori di cui qui si sta discutendo, non basterebbe una teoria formale dei valori di stampo neokantiano. Sarebbe invece necessaria un’etica materiale che neutralizzi il pluralismo dei valori e dia vita a una filosofia dei valori assoluti, a una gerarchia di valori che quindi, in una certa misura, detti la forma e gli obiettivi delle decisioni politiche e giuridiche e delle corrispondenti contestazioni.
L’asserzione di un valore assoluto, se concepito come fondamento escludente che non ammette la possibilità di fondamenti “altri”, è però sostanzialmente un’asserzione negativa, legandosi alla simultanea affermazione di un disvalore. Secondo una tale visione, infatti, il valore vale nella misura in cui svaluta ciò che ad esso si contrappone, e che diviene quindi un non-valore o un valore negativo. A questo proposito basti pensare all’etica assiomatica di Scheler, in cui il rapporto con la negazione è costitutivo del valore stesso: “La non esistenza di un valore positivo è in sé un valore negativo; […] la non esistenza di un valore negativo è in sé un valore positivo”[9].
Di conseguenza, un agire politico o una prassi giurisdizionale che si autogiustifichino sulla base di un’etica materiale dei valori assoluti non potrebbe pretendere di colmare in questo modo la presunta carenza di legittimità sostanziale di decisioni guidate esclusivamente dalle norme di rango costituzionale. In realtà, l’aggressività di ogni decisione volta ad attuare un valore assoluto che esclude la legittimità di percezioni valoriali alternative è sintomo di parzialità: affermo il valore negando un non-valore. Ciò spesso equivale a dire: affermo una forma di vita negandone un’altra. Ma ciò che è buono per noi non è detto che sia buono per tutti. Occorrerebbe infatti chiedersi se l’universale, quale fondamento assoluto, divida o unisca, nel momento in cui se ne pretende la concretizzazione storica.
Proprio a partire da questo interrogativo si comprende la differenza tra l’etica dei valori assoluti e l’etica dei principi. Sebbene, infatti, entrambe le impostazioni possano avere per oggetto i medesimi beni (libertà, sicurezza, salute, vita etc.), i presupposti filosofici e gli esiti deliberativi sono prevalentemente antitetici. Ciò si comprende se si tiene a mente la natura tendenzialmente tirannica dei valori assoluti, per come è stata descritta nelle pagine precedenti. Non a caso, Gustavo Zagrebelsky riconfigura l’idea di valore come valore-fine: «Il valore, nel senso che qui interessa, è un bene finale, fine a se stesso, che sta innanzi a noi come una meta che chiede di essere perseguita attraverso attività teleologicamente orientate»[10]. Ciò comporta che l’etica derivante da una tale concezione dei valori sia un’etica dei fini. L’obiettivo etico è l’attuazione materiale del valore a prescindere dai mezzi o dalla procedura seguiti. Il criterio di legittimità della decisione assunta è la sua efficienza rispetto alla concretizzazione del valore in oggetto. Perde quindi di rilevanza la valutazione sul mezzo utilizzato e, di conseguenza, la possibile compresenza di altri valori confliggenti: «Tra l’inizio e la fine dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé qualsiasi azione che possa essere messa in rapporto di strumentalità efficiente rispetto al valore stesso»[11]. Siamo quindi di fronte non ad un’etica deontologica bensì ad un’etica del risultato.
L’etica dei principi, al contrario, ha una natura intrinsecamente deontologica, quindi normativa, e quindi giuridica. I principi, infatti, nella chiara distinzione proposta da Zagrebelsky, sono beni iniziali che, in quanto espressione di valori non assoluti, pretendono di realizzarsi attraverso mezzi determinati, coerenti con la natura del principio stesso: «L’agire “per principi” è intrinsecamente regolato e delimitato dal principio medesimo e dalle sue implicazioni: ex principiis derivationes»[12]. Si tratta dunque di un’etica dei mezzi e, conseguentemente, dei doveri. Ciò che conta è la strada seguita, ispirata dal principio e coerente con le implicazioni normative comprese nel principio stesso. Ebbene, proprio perché non regolata dall’efficienza e dal risultato, l’etica dei principi è, a differenza di quella materiale dei valori assoluti, non solo compatibile con i fondamenti teorico-istituzionali dello Stato di diritto, ma anche costitutiva della prassi giuridica nell’ambito di contesti sociali che tutelano il pluralismo etico e culturale. L’etica materiale dei valori assoluti, infatti, data la prospettiva dogmatica e gerarchica che la ispira, non ammette la logica del bilanciamento bensì quella della sopraffazione o contrapposizione irriducibile. Al contrario, l’etica dei principi, in quanto fondata su istanze valoriali che sono volte non all’efficienza e alla potenza del risultato ma a determinare la coerenza delle azioni ispirate dai principi stessi, senza che sia postulata una gerarchia statica tra di essi, contempla e alimenta la compresenza di più valori e il necessario bilanciamento tra principi quando alcuni di essi sono rilevanti rispetto alla situazione concreta oggetto di valutazione. Si comprende dunque quanto possa essere benefico un agire etico-giuridico fondato sui principi nei frangenti, come è quello attuale, di crisi emergenziale, e quanto, al contrario, possa essere deleterio, un agire per valori materiali ritenuti assoluti inevitabilmente volto a generare conflitti laceranti.
4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione
L’etica dei principi pare dunque non solo più coerente, rispetto all’etica materiale dei valori assoluti, con l’impianto istituzionale dello Stato di diritto democratico di matrice costituzionale, ma anche più confacente alle esigenze che si pongono in una situazione di emergenza come è quella causata dalla pandemia da Covid-19. In realtà, la portata della questione si estende al fondamento da dare alla regolazione sociale. A una prima possibilità, che come si è visto comporta un’attuazione immediata e diretta di valori assoluti, può opporsi un’alternativa strategica, ispirata dall’etica dei principi, e fondata sull’applicazione di norme che regolino la coesistenza di prospettive morali differenti, tanto fondamentali quanto legittime, predeterminando proceduralmente anche il percorso da seguire nel processo di deliberazione. La prescrizione normativa, seguendo questa strategia, si configura concettualmente come rivolta a tutti. Allora, come sostiene Habermas, si tratta ancora una volta di apprezzare la differenza, nell’ottica della regolazione, tra un agire deontologico (guidato da norme) e uno teleologico (guidato da valori): «La domanda “che devo fare?” […] avrà nei due casi formulazioni e risposte diverse. Alla luce delle norme si può decidere cosa sia doveroso fare, nell’orizzonte dei valori cosa sia raccomandabile»[13].
Sulla base di queste premesse si possono pensare diversi modelli regolativi interni al paradigma dell’applicazione di norme. Due, in particolare, meritano attenzione in quanto pretendono, nel primo caso, di neutralizzare il dato valoriale, con tutti gli effetti controfattuali che ne conseguono, nel secondo caso, invece, di mutarne semplicemente l’auto-percezione.
Seguendo anzitutto la visione proceduralista, per uscire dal conflitto tra valori assoluti sarebbe necessario porre l’attenzione su elementi comunicativi e procedurali in grado di stabilire le condizioni di possibilità per una cooperazione tra forme di vita diverse. Ciò, allo stesso tempo, rispettando il progetto etico di ogni forma di vita nella misura in cui soddisfi i requisiti procedurali di comunicabilità che la convivenza tra differenti universi morali impone. A quest’esito giunge, ad esempio, la critica di Habermas alla filosofia dei valori: «Le etiche dei beni e le etiche dei valori isolano dei particolari contenuti normativi: ma le loro premesse normative – in una società moderna caratterizzata dal “pluralismo degli idoli” (Weber) – sono in realtà troppo “forti” per servire da base a decisioni universalmente vincolanti. Solo teorie morali e giuridiche impostate in senso procedurale possono promettere un procedimento imparziale per la fondazione e il confronto critico di principi diversi»[14].
Ma una tale impostazione riposa su una fiducia incondizionata negli effetti conciliativi di un dialogo proceduralmente regolato. Come se la prassi deliberativa, in sé, possa neutralizzare il conflitto di valori. In realtà, si tratta in questo caso di affidarsi ad assunti non dimostrati, e in una certa misura indimostrabili. Come la presunzione stessa della capacità innata degli individui di farsi guidare da un agire comunicativo regolato da una procedura. O come la credenza nell’attitudine degli individui a “mettersi nei panni degli altri” in virtù della semplice comunicazione reciproca.
Occorrerebbe allora individuare un’altra strada, attraverso cui pensare la regolazione sociale come applicazione di norme e decisioni. Potrebbe essere, a ben vedere, quella che in questa sede si propone di associare al concetto di mediazione. Non la mediazione garantita da una procedura, e neanche quella prodotta da una politica fondata sul mero calcolo delle convenienze. Mi riferisco invece alla mediazione tra portatori di valori che, se da una parte interpretano i propri valori come riferimenti identitari indispensabili, dall’altra non escludono la legittima capacità dei diversi soggetti di riconoscersi in valori fondamentali alternativi.
Un valore fondamentale, in sé, nella misura in cui venga inteso come dato assolutizzante, non può essere oggetto di mediazione; è concettualmente immediato. Richiedendo attuazione ad ogni costo, si impone. Al contrario, un valore che possiamo definire complementare a priori (nel senso che è in attesa di ricevere e fornire complemento senza essere il fondamento assoluto di un ordine ideale onnicomprensivo) è sostanzialmente un punto di vista degno del più alto riconoscimento. Dichiara la sua natura non assoluta e si mostra quindi disponibile alla mediazione. La complementarità di un valore, in questo senso, da una parte ne garantisce la rilevanza politica e giuridica quale punto di vista che esprime una forma di vita, dall’altra ne esclude l’aggressività quale centro onnicomprensivo di regolazione.
Non si tratta però di affidarsi agli effetti misteriosamente conciliativi di un dialogo potenziale tra portatori di punti di vista reciprocamente riconosciuti. Occorre invece riflettere sulla strutturale relazionalità dei valori: per cui ogni valore “vale” proprio in quanto strutturalmente in relazione – qualsiasi tipo di relazione, come abbiamo visto – con altri valori. Nella misura in cui il portatore del punto di vista acquista la consapevolezza della non esclusività della propria posizione, si profila l’esigenza di una visione panoramica dei contesti oggetto di regolazione. Cioè di una visione che cerchi di tener conto di tutti i punti di vista, in quanto di pari rango, poiché riconosciuti in un quadro metaetico condiviso[15].
La mediazione quindi non sorge come scelta etica, ma come esigenza regolativa fondata su una reinterpretazione della prospettiva da cui si agisce e del modo di autorappresentare la propria posizione. Se tanto le norme quanto le decisioni giudiziarie e gli atteggiamenti individuali fossero il prodotto di un tale capovolgimento prospettico, allora potrebbe delinearsi una via di uscita al conflitto di valori ritenuti assoluti che non riposi sulla presunzione neutralizzante, e in realtà concettualmente viziata, della mera prospettiva proceduralista.
[1] Si segnala che questo testo è destinato altresì alla pubblicazione in un volume collettaneo in corso di stampa presso Edizioni Scientifiche Italiane, dal titolo I diritti fondamentali al tempo della pandemia, curato da C. Ingratoci, A. Madera e F. Pellegrino.
[2] Sulla accresciuta rilevanza giuridica di tali conflitti cfr., tra gli altri, V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Giappichelli, Torino 2017; D. Canale, Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale, Laterza, Roma-Bari 2017.
[3] A questo risultato non giungono invece quelle solide, quanto condivisibili, concezioni del diritto assiologicamente orientate in senso realistico. A tal proposito, nella eminente concezione di Angelo Falzea, il diritto viene inteso come realtà assiologica attraverso una lettura critica delle anguste visioni formalistiche ed astratte del fenomeno giuridico. La scienza giuridica, secondo tale concezione, deve quindi fondarsi sulla realtà fattuale complessa, sulle combinazioni valoriali che pragmaticamente si realizzano in contesti pluralisti, proprio attaverso la prassi sociale che si consolida grazie all’emergere degli interessi e all’esperienza dei valori che così si affermano. Il diritto è quindi concepito come un sistema di valori associati ai fatti. La norma stessa consente di associare un valore ai fatti che contempla. In particolare, è nell’effetto giuridico che è possible rinvenire il valore attribuito al fatto. Ma l’esperienza dei valori, in quanto prodotto della pratica sociale, è antitetica all’assolutizzazione idealistica dei valori stessi in chiave metafisica, trascendente, o comunque fondamentalisticamente dogmatica. L’esperienza dei valori coincide con una realtà assiologica, e non con un’idealità assoluta e irrelata. Essa, dunque, comprende lo spazio della convivenza sociale assiologicamente determinata in senso plurale e in grado di mediare tra interessi confliggenti (Cfr., in particolare, A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Parte I: Il concetto di diritto, VI edizione ampliata, Giuffrè, Milano 2008, pp. 259-502. Si veda, inoltre, per una fondamentale riflessione sul rapporto tra l’etica sociale e i bisogni materiali della vita umana, l’opera di R. De Stefano, Per un’etica sociale della cultura, I, Le basi filosofiche dell’umanismo moderno, Giuffrè, Milano 1954).
[4] N. Hartmann, Etica. Assiologia dei costumi, trad. it., Guida editori, Napoli 1970, p. 408.
[5] C. Schmitt, “La tirannia dei valori”, trad. it., Rassegna di diritto pubblico, n. 1, 1970, p. 19.
[6] M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. it., Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 30. Per un’interpretazione in senso analogo dell’idea weberiana del politeismo dei valori, si veda G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 379 ss.
[7] C. Schmitt, “La tirannia dei valori” cit., p. 25.
[8] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 304.
[9] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1996, p. 48.
[10] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna 2008, p. 206.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 208.
[13] J. Habermas, Fatti e norme cit., p. 304.
[14] J. Habermas, Morale, diritto, politica, trad. it., Einaudi, Torino 1992, p. 30.
[15] All’affermazione dell’immanenza giuridica di una tavola assiologica condivisa, chiaramente coerente con il pluralismo valoriale tutelato dalle cornici costituzionali del secondo Novecento, possono ricondursi, tra le altre, le riflessioni di G. Silvestri, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino 2005, e di A. Ruggeri, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Giuffrè, Milano 1977; Id., Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Giappichelli, Torino 2009.
SCRITTI IN ONORE DI ANTONIO RUGGERI
Giustizia Insieme segnala la presentazione degli “Scritti in onore di Antonio Ruggeri”, che si terrà mercoledì 20 ottobre alle ore 15:30 presso l'Aula Magna Rettorato dell'Università di Messina e che potrà essere seguita simultaneamente via Teams.
Per poter partecipare in via telematica all'evento sarà sufficiente cliccare sull'icona di Microsoft Teams presente in fondo alla locandina.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
