ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. L’indipendenza della magistratura presuppone che sia possibile distinguere tra giustizia e potere. Pone quindi un problema culturale prima che istituzionale.
Infatti una cultura millenaria, che si fa risalire ai sofisti greci, sostiene che l’evocazione della giustizia è sempre solo una maschera retorica destinata a dissimulare l’esercizio del potere, perché tutti i rapporti umani sono in realtà solo e sempre rapporti di potere[1].
La riviviscenza di questa cultura sta oggi erodendo dal di dentro le istituzioni democratiche, perché si accetta così un solo campo di gioco, quello del potere esercitato anche per mezzo della forza.
Quando si afferma che il diritto internazionale non esiste o si discredita la Corte penale internazionale; quando si denuncia la politicizzazione dei magistrati in quanto impegnati a ostacolare l’attività di governo, si disconosce appunto la possibilità di distinguere tra giustizia e potere.
L’accusa di politicizzazione riduce la magistratura a potere senza giustizia.
Parlando della riforma costituzionale che in primavera sarà sottoposta a referendum confermativo, la Presidente del Consiglio dei ministri e altri autorevoli esponenti del Governo hanno affermato che occorre porre rimedio alle ricorrenti invasioni di campo della magistratura.
Secondo il sottosegretario Mantovano, in particolare, «oggi c’è il blocco delle espulsioni grazie a decisioni giudiziarie, c’è il blocco della sicurezza, della politica industriale che voglia raggiungere certi obiettivi, si pensi all’Ilva, grazie a decisioni giudiziarie. C’è un’invasione di campo che deve essere ricondotta».
Il discorso non riguarda dunque solo i giudici penali, che occorrerebbe separare dai pubblici ministeri, ma anche i giudici civili.
Peraltro, con l’abituale candore, il ministro Nordio riconosce che il fenomeno della presunta invasione di campo dei magistrati non è solo italiano, ma riguarda anche altri paesi; e poiché cita il giurista francese Garapon, finisce per ammettere che quel fenomeno riguarda anche paesi in cui le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate.
Il problema cui si intende porre rimedio non è dunque quello della unicità di carriera di pubblici ministeri e giudici italiani, ma quello dell’indipendenza della giurisdizione, che, con il crescente svuotamento del ruolo dei parlamenti, è rimasta la sola istituzione idonea a limitare il crescente potere degli esecutivi.
Nasce qui, e non solo in Italia, il conflitto tra Governo e Giurisdizione, che attiene così ai limiti dell’attività di governo e al ruolo della giurisdizione in uno Stato di diritto; al rapporto tra sovranità popolare e autorità di garanzia.
Questo spiega perché si interviene addirittura sulla Costituzione per separare carriere già di fatto separate nell’ordinamento giudiziario riformato da ultimo dalla ministra Cartabia.
A dispetto del titolo assegnatole, in realtà, i problemi della giustizia sono del tutto estranei alla riforma costituzionale oggi in discussione, come riconoscono del resto gli stessi proponenti. Infatti nessuno chiarisce cosa ci sia della vantata ispirazione liberale in una riforma intesa a delegittimare la giurisdizione. Mentre è pura invenzione propagandistica la sua necessaria derivazione dalla riforma del codice di procedura penale del 1988, posto che la separazione delle carriere si ritrova anche in sistemi processuali tuttora inquisitori, come quello francese, non solo in quelli inglese e americano, indicati quali modelli di processo accusatorio.
Il vero obiettivo sembra dunque essere proprio e solo il referendum sulla riforma costituzionale, che permetterà di trascinare la magistratura al giudizio del popolo, addebitandole inefficienze ed errori che con la separazione delle carriere non hanno nulla a che vedere. Ed è la riduzione della magistratura a mero potere senza giustizia che dovrebbe permettere al Governo di ricondurla all’ordine, sconfiggendola nelle urne referendarie.
Se l’operazione riuscirà, non saranno necessarie neppure ulteriori riforme costituzionali per contenere la giurisdizione. Una magistratura sconfitta dal popolo è una magistratura culturalmente sottomessa.
2. A una negazione della separazione tra giustizia e potere è destinato anche il sorteggio per la selezione dei componenti dei due Csm e della istituenda Corte di giustizia.
Nelle intenzioni dei riformatori il sorteggio è un rimedio contro la degenerazione delle correnti in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati, che da espressioni di autentico pluralismo culturale e professionale si sono ridotte a centri di potere clientelare.
Sennonché la degenerazione delle correnti deriva in realtà dall’involuzione corporativa dell’ANM, un tempo impegnata nella promozione e nella tutela di interessi collettivi, ora ridotta a piccolo sindacato di categoria. Da anni si assiste infatti a una sostanziale omogeneizzazione della dirigenza dei gruppi associativi su posizioni corporative, frequentemente in palese e piena incoerenza con le proclamazioni valoriali e programmatiche.
Affidare al sorteggio la selezione dei componenti dei due Csm e della Corte di giustizia aggraverebbe questa involuzione corporativa, perché il solo titolo di legittimazione dei selezionati rimarrebbe appunto quello dell’appartenenza alla corporazione, senza alcun riferimento alle diverse idee di giustizia che ne giustifichino l’elezione. Intatti rimarrebbero comunque gli spazi di gestione dei centri di potere clientelare, anche se la loro rappresentanza consiliare risulterebbe affidata al caso anziché al consenso, comunque conseguito.
Anche così si ridurrebbe la magistratura a minuscolo potere corporativo, facilmente gestibile dal potere esecutivo perché privo di qualsiasi riferimento collettivo a un’idea di giustizia.
3. La propaganda a sostegno della riforma costituzionale risulta dunque evidentemente segnata da una crescente ambiguità.
Nella sua versione originaria la separazione delle carriere dei magistrati veniva giustificata con la considerazione che il rapporto di colleganza con il pubblico ministero può pregiudicare la terzietà del giudice.
In realtà non è stato mai attendibilmente accertato quale incidenza statistica abbia il cosiddetto “appiattimento” del giudice sulle posizioni del pubblico ministero. Né con riferimento al deplorato correntismo è sostenibile che i modelli di comportamento rivelati dallo scandalo dell’Hotel Champagne siano comuni a tutti i magistrati, sebbene forse a molti di coloro che sono chiamati a rappresentarli.
Ma è indiscutibile che gli avvocati sono inevitabilmente testimoni quotidiani di arroganze, ignavie, comode subalternità, quale che ne sia la rilevanza statistica.
È comprensibile dunque che il foro risulti tuttora schierato in favore della riforma costituzionale.
Tuttavia la più recente evoluzione delle motivazioni addotte a sostegno di questa riforma dovrebbe determinare una modifica nel quadro del consenso.
Le ripetute denunce di invasioni di campo della giurisdizione, estranee come s’è detto alla programmata separazione delle carriere, rivela che sono in realtà in discussione i limiti dell’attività di governo e il ruolo della giurisdizione in uno Stato di diritto. Ed è plausibile che l’avvocatura continui a dichiararsi favorevole a un’operazione destinata a incidere così pesantemente sull’esercizio della professione forense?
Qui non si tratta più di contrapporsi all’involuzione corporativa dell’ANM o di pretendere un’effettiva terzietà del giudice nei confronti del pubblico ministero. Si tratta oggi di evitare che gli avvocati si trovino a discutere dinanzi a un giudice intimidito se non eterodiretto.
Occorrerebbe dunque una mobilitazione civile, distinta dalle campagne referendarie dei partiti e delle corporazioni, per preservare il “campo” della giustizia contro la dietrologia populistica che, proclamando di smascherare il potere, lo libera in realtà da qualsiasi limite istituzionale. Una mobilitazione che non si limiti a dire un indispensabile “NO” ma proponga anche soluzioni alternative per una giustizia più inclusiva ed efficiente.
[1] S. Neiman, La sinistra non è woke, Utet 2025. L’autrice sostiene che qualsiasi posizione di sinistra non possa prescindere da una separazione tra giustizia e potere, fondata sull’universalismo dei diritti, piuttosto che sul tribalismo delle appartenenze (nazioni, generi, corporazioni, etc.), e sulla possibilità di promuovere un possibile, non più ineluttabile, progresso dell’umanità.
In tema di riforma costituzionale su questa rivista:
La riforma costituzionale della magistratura. 10 domande e 10 risposte di Riccardo Ionta,
Il giudice che i cittadini hanno diritto di avere secondo Costituzione di Giuliano Scarselli,
Riforme e assetto costituzionale della magistratura di Giuseppe Santalucia,
In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri di Giuseppe Iannaccone,
L'unità della magistratura un interesse della collettività di Giovanni Salvi,
Confessioni di un civilista (separazione delle carriere e dintorni) di David Cerri,
Riforma costituzionale dell’ordinamento giurisdizionale: procedura e obiettivo di Giovanni Di Cosimo,
Indipendenza della magistratura e Stato costituzionale di diritto di Francesco Merloni,
Brevi note sull’Alta Corte disciplinare di Giuseppe Santalucia.
A poche settimane dal deposito della sentenza n. 142 del 31 luglio 2025, si è tenuta una tavola rotonda in conclusione del corso della SSM sulla cittadinanza cui hanno partecipato costituzionalisti, esponenti degli uffici legislativi del Governo, giudici civili e amministrativi, avvocati. Questo breve intervento ha natura di prima riflessione provvisoria, contributo ad un dibattito su una questione di grandissimo interesse che nei prossimi mesi tornerà davanti alla Consulta.
Sommario: 1. Una finzione giuridica – 2. La sentenza 142/2025: due condizionamenti – 3. La nozione costituzionale di cittadinanza – 4. Cosa ci dice la Consulta.
1. Una finzione giuridica
Sin dalle prime riflessioni sul quadro normativo in materia di cittadinanza, di cui la generalità delle sezioni specializzate è stata investita solo dal 22 giugno 2022[1], sono emersi dubbi sulla compatibilità con la Costituzione del principio dello ius sanguinis assoluto previsto dall’art. 1 L. 91/1992, privo di limiti e bilanciamenti. Non è questa la sede per ripercorrere gli argomenti esposti nelle ordinanze che hanno sollevato d’ufficio le questioni di illegittimità costituzionale[2]. Valga solo osservare come ciò che più colpisce sia una sorta di tributo al vincolo di sangue che, nella sua assolutezza, appare anacronistico: anche nel diritto di famiglia trova sempre più spazio una concezione fondata sui legami affettivi e sociali, che a certe condizioni possono valere giuridicamente più di meri vincoli genetici. Per la trasmissione della cittadinanza secondo la disciplina originaria dell’art. 1 della legge sulla cittadinanza basta invece una sola “goccia di sangue”, per quanto remota. Nei casi portati all’attenzione della Corte costituzionale vi erano giovani ricorrenti brasiliani che avevano un solo ascendente italiano, partito nella seconda metà del diciannovesimo secolo: risalendo di cinque o sei generazioni, gli altri 31 o 63 ascendenti erano tutti brasiliani, che verosimilmente non avevano mai avuto idea d’avere avuto un parente, un ascendente, italiano, non avevano mai avuto idea di poter essere cittadini italiani, forse non avrebbero neppure voluto essere italiani.
È stato sottolineato come una cittadinanza originaria fondata su un così tenue legame, sia in verità, «una pura finzione»[3]. In effetti, siamo di fronte ad un evidente scollamento fra regola giuridica e realtà sociale. Il dato giuridico che consente di riconoscere la persona come “italiana” non ha alcun effettivo riscontro nell’esperienza concreta della persona, né dei suoi diretti ascendenti. Vi è una divaricazione fra la regola formale, che consente di dichiarare la persona “italiana”, e la realtà di un cittadino straniero privo di qualsiasi legame, connessione, interesse rispetto al nostro paese. Il distacco dalla realtà raggiunge il parossismo con l’accertamento postumo di uno status strettamente personale di uomini e donne defunte che mai nella loro vita avevano immaginato, o voluto, essere italiane. Il diritto è personalissimo, ma l’accertamento prescinde completamente dalla volontà. Si tratta di un diritto sopito, che resta latente per secoli, salvo “resuscitare” in un lontano discendente. È un dato obiettivo che a fronte di un numero imponente di cittadini stranieri che hanno ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana in forza di tale regola estrema, solo un numero esiguo, del tutto irrisorio, vive nel nostro paese. Chi sostiene che i discendenti da un lontano antenato, dopo generazioni nutrirebbero un vero interesse per il nostro paese, sostenendo che almeno una parte nutra un sincero desiderio d’essere parte della comunità nazionale, non dovrebbe temere, allora, che il riconoscimento della cittadinanza sia condizionato a ulteriori verifiche in ordine all’effettività di tale legame col nostro paese, ad esempio richiedendo un soggiorno di uno o due anni prima di accedere al riconoscimento della cittadinanza.
La prof. Chiara Saraceno, nella bellissima relazione introduttiva a questo corso ha ricordato le indagini di questi ultimi anni che attestano come i bambini e gli adolescenti nati in Italia da genitori entrambi stranieri, manifestano, seppure non siano cittadini, un profondo sentimento che la professoressa ha definito di “italianità”. A prescindere dal comprensibile e legittimo legame affettivo con la patria dei propri genitori, chi è nato e ha vissuto sempre in Italia, si sente italiano. È questo sentimento di “italianità” che manca del tutto nelle vicende di cui ci stiamo occupando. La distorsione del sistema si palesa nella ricerca strumentale della cittadinanza italiana, non per stringere una relazione più intensa con il nostro Paese, ma per stabilirsi in altri paesi europei o per andare in vacanza negli Stati Uniti senza dover chiedere un visto.
Quando si registra uno scollamento così vistoso fra la realtà sociale e il dato giuridico, tanto che l’appartenenza formale alla comunità nazionale appare come una vera e propria finzione, occorre interrogarsi sulla tenuta della regola giuridica rispetto al principio di ragionevolezza. I diritti fondamentali sono una cosa seria perché ad essi sottendono interessi profondamente incisi nella nostra umanità. Se la cittadinanza si rivela priva di qualsiasi effettività, la regola giuridica non protegge alcun interesse fondamentale della persona, rischia di divenire un simulacro, una scatola vuota.
2. La sentenza 142/2025: due condizionamenti
Quando il tribunale di Bologna ha sollevato la questione, era condivisa la previsione che l’esito più probabile fosse una decisione di inammissibilità con un monito rivolto al Legislatore. È una tecnica decisoria che si limita ad accertare ma non a dichiarare l’incostituzionalità di una disposizione, cui la Consulta ci ha abituati nelle varie forme concepite negli anni, dalle tantissime sentenze monito alla novità introdotta con il caso Cappato del 2018, con il rinvio a udienza fissa. Inducevano a tale previsione non solo le difficoltà tecniche di individuazione di una soluzione a rime obbligate, divenute «adeguate» dal 2016, ma soprattutto la condivisibile prudenza manifestata dalla Corte costituzionale riguardo ai confini fra potere legislativo e controllo di costituzionalità. Dunque, una inammissibilità seguita da un monito[4].
La Corte, tuttavia, è giunta alla sentenza n. 142 del 31 luglio 2025 dopo alcuni inattesi sviluppi che, in vario modo, ne hanno condizionato l’esito. Come noto, il 28 marzo 2025 il legislatore è intervenuto con una disciplina che ha modificato profondamente la materia (D.L. 36/25, entrato in vigore il 29 marzo 2025 e convertito con modifiche il 23 maggio 2025 con L. 74/25)[5]. La Corte di Giustizia ha depositato il 29 aprile 2025 l’attesissima decisione sul caso Commissione v. Malta, ribaltando peraltro la soluzione suggerita nelle conclusioni dell’Avvocato generale[6]. Infine, il 25 giugno 2025, appena un giorno prima dell’udienza pubblica davanti alla Corte costituzionale, il Tribunale di Torino ha sollevato una nuova eccezione di illegittimità costituzionale, questa volta sulla nuova disciplina[7]. Si tratta di tre eventi del tutto imprevisti e imprevedibili al momento della proposizione delle quattro questioni di legittimità costituzionale, intervenuti nelle more della decisione della Consulta e che hanno contribuito a mutare radicalmente il quadro[8].
In particolare, due di queste novità hanno condizionato in modo oggettivo la decisione della Corte.
Come si è detto, il legislatore, che innanzi a tanti moniti, anche accorati, della Consulta, è apparso sovente refrattario, ostile o semplicemente distratto e inerte, questa volta, potremmo dire, ha avvertito il monito già prima della decisione della Corte. I tempi erano evidentemente maturi: nel paese si era acceso un intenso dibattito, non solo giuridico ma anche sulla stampa e nei mezzi di comunicazione, che ha messo in evidenza questo scollamento fra realtà e diritto e i conseguenti pericoli per la tenuta dello stesso sistema democratico, data la platea sterminata delle persone che possono rinvenire un cittadino italiano fra i loro tanti antenati. Il dibattito non ha ripercorso la tradizionale divisione fra conservatori e progressisti, fra destra e sinistra: ci è stato ricordato, anche in diversi interventi in questo corso[9], un clima di diffusa se non unanime consapevolezza della insostenibilità dello ius sanguinis assoluto e dell’urgenza di una riforma diretta ad assicurare un legame effettivo. L’attenzione della stampa e delle forze politiche, di governo e di opposizione si è centrata sullo scandalo dell’effetto distorsivo di un’antica regola giuridica, catturato nell’emblematica immagine delle pubblicità brasiliane che offrono la cittadinanza italiana a prezzi scontati per il black friday. È stata condivisa la preoccupazione per lo svuotamento della cittadinanza, il suo stravolgimento, il paradosso di una disposizione che non regolamenta la realtà ma è essa stessa artefice di una finzione. Dato l’intervento del Legislatore che ha reso impossibile l’applicazione della norma alle domande presentate dopo il 27 marzo 2025, la decisione della Consulta non poteva dunque che prendere le mosse dalla constatazione che l’oggetto dell’eccezione di incostituzionalità, e dunque del proprio giudizio, si era profondamente modificato, sino a snaturarsi: non si trattava più di verificare se fosse legittima una disposizione che consentiva a sessanta-ottanta milioni di stranieri di essere riconosciuti come cittadini italiani, ma se fosse illegittima una disposizione divenuta ormai applicabile a solo qualche centinaio di migliaia di persone.
Seconda particolarità della sentenza 142/2025 è che la nuova disciplina, intervenuta nel contempo, è stata già presa di mira da una nuova eccezione di illegittimità costituzionale presentata come si è detto dal Tribunale di Torino. Ne consegue che la Corte costituzionale, avendo verificato che ai giudizi a quibus si applica la disciplina precedente[10] e avendo escluso la possibilità di rimettere davanti a sé stessa la questione[11], si è mossa avvertendo la necessità di chiudere la questione di costituzionalità sul pregresso senza anticipare al contempo la valutazione che la stessa Corte dovrà operare presto sulle nuove norme.
Questi due elementi - non necessità di un monito; inopportunità d’anticipare valutazioni che potessero riverberare sul giudizio sulla nuova normativa - spiegano una certa laconicità della sentenza, che balza agli occhi già ad una prima lettura “a caldo”. Ciò nonostante, la decisione della Consulta contiene alcune indicazioni che appaiono di grande rilievo e suggeriscono alcuni punti fermi per ogni futura valutazione.
3. La nozione costituzionale di cittadinanza
Senza tentare qui un commento approfondito della sentenza 142/2025, alcuni passaggi della decisione appaiono notevoli e vanno sottolineati.
La Corte rileva al par. 11.2 dei Considerato in diritto, che, come si rileva in modo particolare dal richiamo ai «cittadini» in diverse disposizioni del Titolo IV, la cittadinanza è correlata, innanzitutto, alla partecipazione politica («la Costituzione associa la cittadinanza primariamente alla partecipazione politica e ai diritti politici»). A seguire, ancora al par. 11.2 dei Cons. in dir., la Corte enumera ulteriori elementi che appaiono indici di una partecipazione che non è limitata alla vita politica, ma più in generale alla vita sociale e civile del paese, evidenziando che la Costituzione «riferisce, poi, ai cittadini la titolarità di diritti e di doveri (fra i quali il dovere di difesa della Patria; quello di concorrere alle spese pubbliche e il dovere di fedeltà)»[12].
Nel medesimo par. 11.2 la Corte, pur rilevando che la Costituzione «non dà una definizione di popolo e si limita a delineare tratti della cittadinanza, immersi nella complessità del testo costituzionale», osserva che «la Costituzione richiama l’idea di cittadinanza quale appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche, ma, al contempo, disegna una comunità aperta al pluralismo e che tutela le minoranze».
Nello stesso par. 11.2, la Corte afferma che «le norme costituzionali evocano una correlazione fra cittadinanza e territorio dello Stato, in quanto luogo che riflette un comune humus culturale e la condivisione dei principi costituzionali».
Da ultimo, ancora al par. 11.2, la Corte osserva che «compete a questa Corte accertare – al metro della non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali e a quei molteplici tratti, che – come sopra evidenziato – connotano la cittadinanza».
Pur con la prudenza imposta dalla necessità di non interferire con il futuro giudizio sulle nuove norme, che si prospetta già nei prossimi mesi, la Corte costituzionale si è spinta ad esprimere giudizi netti, specie alla luce del dibattito in corso. La cittadinanza definita e protetta dalla Costituzione presenta invero «molteplici tratti» che vanno così ricordati: è «partecipazione» e «appartenenza» ad una comunità che si fonda su «comuni radici culturali», su «comuni radici … linguistiche», un «comune humus culturale» e la «condivisione dei principi costituzionali», ed è, infine, correlata al «territorio dello Stato». La Corte enuncia, in buona sostanza, i tratti distintivi del necessario legame effettivo. Se il testo costituzionale non contiene una definizione di cittadinanza, dalla sua trama deve trarsi un legame effettivo fra cittadino e nazione, fondato su comuni radici linguistiche e culturali, sulla condivisione di un comune humus culturale, sulla condivisione dei principi costituzionali e su una connessione col territorio, i quali fondano quel nesso inscindibile fra cittadinanza e appartenenza e fra cittadinanza e partecipazione.
Non è un caso che subito dopo, al § 11.3 la Corte affermi che «quanto sopra rilevato trova corrispondenza nell’approccio che la Corte di giustizia ha adottato con riguardo ai vincoli imposti in materia di cittadinanza dal diritto dell’Unione europea», richiamando la decisione della CGUE del 29 aprile 2025, a ragione ritenuta storica in quanto sino ad allora la Corte di giustizia non era mai intervenuta ad affermare l’incompatibilità con i Trattati di una norma nazionale che riconosce lo status civitatis[13]. Si trattava, com’è noto, della legge che prevedeva la concessione della cittadinanza maltese, e dunque della cittadinanza europea, in cambio di pagamenti o investimenti effettuati nell’isola. La CGUE ha accertato la violazione dei Trattati rilevando che la normativa maltese è «assimilabile ad una commercializzazione della concessione della cittadinanza di uno Stato membro», fondando la propria decisione sulla violazione dei principi di solidarietà, reciproca fiducia e leale cooperazione ma evidentemente presupponendo il principio di effettività, posto che si può parlare di “commercializzazione” soltanto se vi è nell’acquirente una manifesta carenza di legami effettivi. Difatti, la richiesta di danaro in cambio della cittadinanza per chi ha un legame effettivo violerebbe verosimilmente i diritti del richiedente, ma non l’interesse pubblico europeo evocato dalla Corte di Giustizia in relazione ai vincoli imposti dal diritto dell’Unione in materia di cittadinanza.
Dato atto dei tratti propri della cittadinanza secondo la Costituzione, sarebbe senz’altro costituzionalmente illegittima una disciplina legislativa tesa a comprimere e sottrarre il diritto di cittadinanza a persone che appartengano alla comunità nazionale in ragione di legami effettivi fondati su radici linguistiche e culturali, su una connessione col territorio, che vogliano partecipare alla vita della comunità. La Costituzione garantisce tale cittadinanza quale diritto fondamentale della persona.
Per altro verso, la Corte ricorda al § 11.1 dei Cons. in dir. che «il legislatore god[e] di ampia discrezionalità nella disciplina dell’attribuzione della cittadinanza (sentenza n. 25 del 2025)» e rammenta al § 11.2 che «dinanzi al senso articolato e complesso dei riferimenti costituzionali alla cittadinanza, spetta, dunque, al legislatore, che vanta un margine di discrezionalità particolarmente ampio, individuare i presupposti per l’acquisizione dello status». Nondimeno, le norme dettate in materia, non diversamente da altri settori connotati da elevata discrezionalità, «non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità» (§ 11.), sicché «compete a questa Corte accertare – al metro della non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali e a quei molteplici tratti, che – come sopra evidenziato – connotano la cittadinanza» (11.2).
In buona sostanza: la Costituzione non disciplina i modi di acquisto, perdita e riacquisto della cittadinanza, sicché è demandato al Legislatore individuare le regole che consentano di assicurare la cittadinanza a chi presenti un legame effettivo fra cittadino e nazione, fondato su radici linguistiche e culturali e su una connessione col territorio, che costituiscono quel nesso inscindibile fra cittadinanza e appartenenza, fra cittadinanza e partecipazione. Il Legislatore è tenuto a delineare, con legge costituzionalmente necessaria, i contorni della cittadinanza prevista in Costituzione, indicandone in dettaglio i presupposti, ossia gli indici concreti che consentono di assumere che sussista quel legame effettivo che fonda le nozioni di appartenenza e partecipazione. Vi è, a tale riguardo, un margine di discrezionalità, posto che vi è una pluralità di scelte possibili, com’è attestato dalla grande varietà di sistemi rinvenibili da un esame di diritto comparato, che in vario modo mescolano i principi dello ius sanguinis, dello ius soli, per iure comunicatio, della naturalizzazione, ecc... I costituenti, molto opportunamente, hanno escluso che i modi di acquisto e perdita, che tracciano il perimetro della cittadinanza, dovessero essere stabiliti una volta per tutte in Costituzione, e ciò al fine di assicurare la necessaria flessibilità e l’indispensabile adeguamento al mutevole contesto storico e sociale. La trasformazione del nostro paese da paese di emigrazione a meta di migranti attesta l’opportunità di tale scelta, che consente oggi di adeguare il sistema della cittadinanza alle esigenze del nuovo contesto sociale. Sull’esercizio di tale potere normativo, che, come si è detto, è costituzionalmente necessario, vigila dunque la Consulta al fine di garantire che non sia comunque intaccato il nucleo essenziale della cittadinanza costituzionale, così chiaramente indicato dalla Consulta nei suoi tratti fondamentali. Oltre al necessario rispetto del nucleo costituzionale della cittadinanza esistono peraltro anche ulteriori principi costituzionali, come il principio di non discriminazione, che il legislatore ordinario è tenuto comunque a rispettare e in relazione ai quali la Corte ricorda d’essere già intervenuta in più occasioni[14].
Ciò detto, va pure osservato come non sia escluso che fuori da tale perimetro della cittadinanza indefettibilmente protetta dalla Costituzione, residui un ulteriore margine di discrezionalità legislativa. Il legislatore, oltre a delineare i contorni della cittadinanza prevista in Costituzione, verosimilmente può estenderne i limiti oltre i confini della cittadinanza costituzionalmente garantita, purché tale ampliamento non si ponga in contrasto con altri principi e vincoli costituzionali. Com’è ovvio, non tutto quello che non è protetto dalla Costituzione è, per ciò solo, vietato. Il legislatore può riconoscere diritti soggettivi non discendenti dalla Costituzione, purché tale riconoscimento non si ponga in contrasto con i limiti e i principi derivanti dalla stessa. Non è dunque escluso che la legge ordinaria ammetta la cittadinanza per persone che non presentano un vincolo effettivo, purché tale riconoscimento sia compatibile, non metta in crisi, ulteriori principi e vincoli costituzionali.
Vi è, dunque, un nucleo essenziale della cittadinanza riconosciuto e protetto dalla Costituzione, fondato sul legame effettivo in conformità ai principi della appartenenza e della partecipazione alla comunità nazionale. Fuori da questo nucleo essenziale della “cittadinanza costituzionale” resta il margine di discrezionalità del legislatore, nel rispetto della Costituzione.
4. Cosa ci dice la Consulta
Elemento imprescindibile per intendere la decisione della Corte è, ovviamente, comprenderne e precisarne l’oggetto.
Come si è detto, è pacifico che la Corte non fosse chiamata a valutare la legittimità costituzionale delle norme applicabili alle domande presentate dopo il 28 marzo 2025. La Consulta aveva dunque sul tavolo quattro eccezioni di incostituzionalità che riguardavano una disposizione che è applicabile soltanto alle domande presentate prima di tale data. Per conseguenza, la Corte non era (più) chiamata a valutare se fosse compatibile con la Costituzione l’attribuzione della cittadinanza a 60-80 milioni di cittadini stranieri, atteso che la disposizione oggetto di dubbio di illegittimità regolava ormai soltanto le fattispecie oggetto delle circa settantamila domande già pendenti al 27 marzo 2025 avanti ai tribunali italiani, cui si aggiungono quelle presentate alle autorità amministrative, all’estero e in Italia. Non dispongo di dati certi, ma pur tenendo conto che molte cause hanno ad oggetto più richiedenti, non si arriva certamente a un milione di persone, verosimilmente molte meno.
Si tratta, dunque, di un numero relativamente circoscritto di persone. Soprattutto, si tratta di un numero determinato di persone.
Non va allora sottovalutato che nelle diverse eccezioni di incostituzionalità presentate dai tribunali italiani molte delle ragioni della ravvisata incostituzionalità erano fondate sul numero spropositato e in prospettiva senza limiti di cittadini esteri legittimati a richiedere l'accertamento della cittadinanza italiana in carenza di effettività di legami. Un ruolo di primo piano giocavano il numero esorbitante e l’indeterminatezza quantitativa della platea, che nelle parole della Corte costituzionale «andrebbero presumibilmente a superare il numero dei cittadini che risiedono in Italia»[15].
È pacifico che il complesso di persone che avevano già proposto una domanda prima del 27 marzo 2025 non rientri in quella nozione di appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche e che è collegata al territorio. La Corte ha evidenziato nella descrizione del fatto (§ 2 e 3 dei Ritenuto in fatto) che in tutti i procedimenti la presenza di un lontanissimo antenato, risalente al IXX secolo, configurava «l’unico presupposto» per l’accertamento dello status. Al § 12 del Cons in Dir. la Corte ha ricordato che «ciò di cui dubitano i giudici è che … in assenza di elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano in aggiunta allo ius sanguinis, il vincolo di filiazione possa risultare sufficiente alla funzione che è chiamato a svolgere quale fondamento della cittadinanza» (corsivo aggiunto). Non è dubitabile che la decisione prenda le mosse dalla considerazione che oggetto della decisione sia una disciplina applicabile a un numero, circoscritto e determinato, di persone che hanno allegato d’essere prive di collegamenti col nostro Paese, salvo il legame di sangue con un antenato.
La Corte osserva come tale questione possa essere definita secondo «un ventaglio quanto mai ampio di opzioni», rimesse alla discrezionalità del legislatore. La Corte afferma, in buona sostanza, che rientra nella discrezionalità del legislatore prevedere una cittadinanza -priva di qualsiasi legame con la comunità e con il territorio, com’è quella al suo vaglio-, conferita a un numero determinato e certo di persone, verosimilmente assai inferiore a un milione. Non ha affermato che a tali persone la cittadinanza è garantita dalla Costituzione. Ha detto il contrario: che siamo nel pieno della discrezionalità del legislatore.
Nel suo intervento, il Ministro Soliman -che quale vero artefice della riforma del marzo 2025 ha potuto raccontare vari aspetti di questa vicenda, comprese le motivazioni del governo e del legislatore, le scelte suggerite dagli uffici legislativi ed il clima durante i lavori parlamentari- ha ricordato che nel pensare ad una nuova disciplina della cittadinanza, a prescindere dalle diverse scelte riguardo al suo merito, il Governo ha vagliato, riguardo alle questioni di diritto intertemporale, tre opzioni. Sarebbe stato possibile applicare la nuova disciplina solo per le persone nate dopo il 28 marzo 2025; assegnare un termine di uno o due anni al fine di consentire nel contempo di presentare la domanda secondo la vecchia disciplina; applicare la nuova disciplina a tutte le domande presentate dopo la sua entrata in vigore. Il Ministro ha spiegato le ragioni, su cui qui non ritorno, che hanno indotto ad adottare la terza opzione, con decretazione d’urgenza. Può forse aggiungersi che la scelta, insolita, di intervenire subito, a fine marzo, senza attendere l’imminente decisione della Consulta, quando era già fissata l’udienza di fine giugno, è stata determinata verosimilmente dal pericolo di un diluvio di domande fra la sentenza, che forse avrebbe contenuto un monito, e la futura riforma legislativa.
Alla luce della decisione della Consulta, possiamo dire che il legislatore a rigore aveva, e ha tuttora, una quarta opzione: applicare una nuova disciplina anche alle domande già pendenti, in sede giurisdizionale e amministrativa. Dalla decisione della Corte possiamo trarre difatti la conclusione che nella regolamentazione delle vicende che sono state sottoposte al suo vaglio vi è un ampio margine di discrezionalità. La discrezionalità evidenziata dalla Consulta riguarda la regolamentazione dell’accertamento della cittadinanza per chi abbia già presentato la domanda prima del 27 marzo 2025. La Consulta si è interessata delle domande presentate precedentemente al 27 marzo 2025 e rispetto a queste ha affermato che vi è «un ventaglio quanto mai ampio di opzioni», rimesse alla discrezionalità del legislatore.
Abbiamo visto, inoltre, che chi non ha alcun legame effettivo con il nostro paese, che sia fondato su radici linguistiche e culturali e su una connessione col territorio, non è titolare di un diritto costituzionalmente garantito. Questo significa verosimilmente che, quantomeno sotto tale profilo, non è e non sarebbe stato illegittimo anche un intervento diretto ad escludere del tutto tale cittadinanza priva di legame genuino. Fatta salva ogni valutazione di tale disciplina sotto diversi profili di compatibilità con la carta costituzionale, la negazione della cittadinanza a persone prive di legame effettivo secondo i tratti delineati dalla Corte costituzionale rientra nella discrezionalità del legislatore, poiché non viola il nucleo costituzionale della cittadinanza. Se così è, allora forse possiamo trarre la conclusione che la decisione del Legislatore di creare uno spartiacque è, almeno sotto questo profilo, del tutto legittima, perché non incide su un diritto fondamentale privando, sottraendo, revocando un diritto costituzionale. Il Legislatore ha inciso su un simulacro di cittadinanza che, in quanto privo dei requisiti indicati dalla Corte Costituzionale (comunità, territorio, lingua, cultura, appartenenza, partecipazione, comuni radici…) non costituisce un diritto soggettivo protetto dalla Costituzione.
Le questioni aperte, a mio avviso, attengono invece ad altri, diversi, profili.
V’è da chiedersi, innanzitutto, se e in che misura sia consentito incidere su posizioni soggettive che, seppure non previste e protette dalla Costituzione, hanno costituito una aspettativa, sicché secondo un indirizzo è necessaria un’effettiva causa giustificatrice[16].
Vi è, inoltre, da chiedersi se il quomodo, le specifiche regole contenute nella nuova normativa, rispettino i parametri di ragionevolezza e di non discriminazione e se incidano, in qualche modo, su alcune posizioni soggettive che rientrano a pieno titolo nel nucleo della “cittadinanza costituzionale”. Non è invero escluso che la normativa volta a chiudere la porta ad una disciplina estranea alla nozione di cittadinanza delineata dalla Costituzione, abbia inciso anche su alcune specifiche posizioni che rientrano a pieno titolo nel diritto costituzionale alla cittadinanza[17]. Su questi indesiderati “effetti collaterali” della scelta del marzo 2025, è oggi indispensabile un’attenta riflessione, anche della giurisprudenza, la quale è tenuta ora a vagliare la tenuta del nuovo quadro legislativo.
Intervento alla tavola rotonda conclusiva del corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura a Napoli il 22-24 settembre 2025 dal titolo La cittadinanza e le cittadinanze. Spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo.
[1] Sino alla legge del 26 novembre 2021, n. 206, la competenza territoriale per le cause in materia di cittadinanza con resistente il Ministero degli Affari Esteri si radicava presso il Tribunale di Roma.
[2] Trib. Bologna, ord. 29 novembre 2024, su cui: G. Gallo, G. Spadaro, Sulla legittimità costituzionale dell’acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis, in IUS Famiglie, 13 gennaio 2025; F. Corvaja, Quando i nodi vengono al pettine. Il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis senza limiti, tra vincoli di diritto internazionale, condizionamenti europei e ordinamento costituzionale italiano, in Eurojus, 2025/01; C. Delli Carri, La cittadinanza dell’Unione europea come parametro interposto nella valutazione della legittimità costituzionale della legge n. 91/1992. Riflessioni a margine dell’ordinanza del Tribunale di Bologna n. 3080/2024 del 26 novembre 2024 e del recente d.l. n. 36/2025, in Eurojus, 2025/01. A questa hanno fatto seguito: Trib. Milano 3 marzo 2025, Trib. Firenze 7 marzo 2025 e Trib. Roma, 21 marzo 2025. Sulla decisione della Corte costituzionale n. 142 del 31 luglio 2025 ad oggi l’unico commento edito è U. Scotti, La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025, in Giustizia Insieme, 9 settembre 2025. In generale di recente un’approfondita analisi in B. Nascimbene, Cittadinanza: riflessioni sui problemi attuali di diritto internazionale e europeo, in Rivista di diritto internazionale privato e internazionale, 1/2025, p. 5
[3] Corvaja, cit. p. 398.
[4] Le sentenze monito rappresentano un’efficace e irrinunciabile modalità di intervento della Consulta. A volte la Corte esclude di poter pervenire all’adozione di una pronuncia di natura additiva in ragione dei molteplici rimedi ai vulnera accertati, sicché la dichiarazione di inammissibilità è preceduta da una implicita, spesso assai approfondita, valutazione di merito. Dunque, la valutazione di merito sembra precedere il giudizio di inammissibilità. La Corte, peraltro, ha superato in più occasioni quel giudizio di inammissibilità dopo qualche anno di inerzia del legislatore, procedendo senz’altro a decidere il merito; a volte la contraddizione si manifesta nella stessa prima decisione ove, dichiarata l’inammissibilità, la Corte costituzionale invita il legislatore a procedere preannunciando già che in caso contrario provvederà essa stessa a valutare il merito.
[5] Per una serrata critica al nuovo quadro normativo: M. Infusino, Cittadinanza italiana iure sanguinis: errori e criticità della nuova frontiera, in Rivista AIC, 3/2025, 2 giugno 2025; G. Bonato, Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana, in Judicium, 15 aprile 2025.
[6] CGUE, sent. 29 aprile 2025, C-181/23, Commissione C. Malta, su cui A.L. Valvo, La cittadinanza europea in una recente pronuncia della Corte di giustizia, in Questione Giustizia, 27 maggio 2025; M.C. Oristano, La cittadinanza europea alla luce del recente caso Commissione c. Malta: tra tutela dei principi sovranazionali e salvaguardia della sovranità statale, in ConsultaOnLine, 2025/I, 3 agosto 2025, p. 1218; C. Sanna, La cittadinanza Ue non è in vendita: la Corte UE dichiara incompatibili con il diritto UE i programmi di naturalizzazione per investimenti della Repubblica di Malta. Le implicazioni della
sentenza sul criterio dello ius sanguinis previsto dalla legislazione italiana, in Eurojus, 2025. V. anche M. Ferri, Il sindacato della corte di giustizia in materia di cittadinanza nazionale, in Rivista di Diritto Internazionale, 2024/011, p. 179.
[7] Trib. Torino, ord. 25 giugno 2025, R.G. 6648/2025 sollevata in un giudizio iscritto a ruolo il giorno prima dell’entrata in vigore del D.L. (posto che vi si legge che il ricorso è stato «depositato in data 28.3.2025», mentre il D.L. è stato pubblicato in GU il 29 marzo 2025), ma cui è applicabile la nuova normativa (posto che il nuovo art. 1 Legge cittadinanza prevede che le vecchie regole sono applicabili solo alle domande presentate «entro le 23:59, ora di Roma, della data del 27 marzo 2025»).
[8] Tale imprevedibilità è attestata dal deposito nel mese di marzo di ulteriori articolate e meditate eccezioni da parte di tre grandi tribunali, evidentemente del tutto ignari che di lì a pochissimi giorni il Governo avrebbe stravolto il quadro normativo.
[9] Così, la relazione introduttiva di U. Scotti, che anche nell’articolo pubblicato su Giustizia Insieme, rileva «un impatto fortemente divisivo, seppur in modo trasversale rispetto alle tradizionali contrapposizioni ideologico-politiche»; nello stesso senso l’intervento di Soliman.
[10] § 7. Cons. in Dir.: «Stante tale quadro normativo di riferimento, la nuova disciplina, al di là delle assonanze rispetto a quanto prospettato nelle ordinanze di rimessione, non si riverbera sulla rilevanza delle questioni sollevate dalle stesse. Tutte le controversie oggetto dei giudizi principali sono state, infatti, introdotte sulla base di domande giudiziali presentate prima del 27 marzo 2025, sicché – ai sensi dell’art. 3-bis, comma 1, lettera b), della legge n. 91 del 1992, introdotto con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 36 del 2025, come convertito – resta applicabile ai giudizi a quibus la pregressa disciplina, cui si riferiscono le odierne censure».
[11] La Corte costituzionale osserva che (§ 7.) «non sussistono, dunque, i presupposti per restituire gli atti ai rimettenti» e (§ 8.) «parimenti, non ricorrono le condizioni in presenza delle quali questa Corte può rimettere dinanzi a sé stessa questioni di legittimità costituzionale», osservando che «La nuova disciplina non deve essere applicata nel giudizio costituzionale (ordinanza n. 73 del 1965 e, da ultimo, ordinanza n. 35 del 2024), né sussiste un «rapporto di presupposizione» fra la stessa e quella dedotta dal giudice a quo, tale per cui l’intervento solo su quest’ultima non consentirebbe comunque di rimuovere il vulnus (ordinanze n. 94 del 2022 e n. 18 del 2021). Parimenti, non si rinvengono i presupposti della particolare urgenza (ordinanza n. 73 del 1965) o l’esigenza di evitare che “la Corte – che è il solo organo competente a decidere delle questioni di costituzionalità delle leggi – sia tenuta ad applicare leggi incostituzionali” (ordinanza n. 22 del 1960 e, da ultimo, ordinanza n. 35 del 2024)».
[12] La Corte costituzionale opportunamente non dimentica peraltro neppure in questa occasione di rammentare che i diritti fondamentali e i doveri fondamentali di solidarietà sono riferiti alla persona anche a prescindere dalla sua cittadinanza: «tale attribuzione di diritti e di doveri si colloca, nondimeno, nel contesto di una fonte – la Costituzione –, i cui principi fondamentali garantiscono a ciascuna persona i diritti inviolabili e lo stesso principio di eguaglianza (già sentenza n. 120 del 1967 e, negli stessi termini, da ultimo sentenza n. 53 del 2024) e le cui norme riferiscono taluni doveri di solidarietà anche a non cittadini (si consideri il dovere di concorrere alle spese pubbliche, che già il testo costituzionale, all’art. 53 Cost., ascrive a “tutti”, o la facoltà di prestare il servizio civile nazionale, che questa Corte ha esteso agli stranieri, qualificando la prestazione del richiamato servizio «come adempimento di un dovere di solidarietà [e] come un’opportunità di integrazione e di formazione alla cittadinanza», in tal senso, sentenza n. 119 del 2015)».
[13] CGUE, sent. 29 aprile 2025, C-181/23, Commissione C. Malta, cit.; prima della decisione Delli Carri, cit. p. 385 e 387, rilevava che «di certo, una pronuncia della Corte di giustizia concordante con le posizioni assunte dalla Commissione avrebbe un effetto rivoluzionario sull’attuale assetto dell’Unione europea», osservando che «l’attesa pronuncia della Corte di giustizia nel caso Commissione v. Malta potrebbe incidere in maniera significativa sul tema oggi in esame di fronte alla Corte costituzionale, avallando l’azione del Governo italiano nel caso in cui il giudice di Lussemburgo ritenesse di poter valutare la conformità tra il diritto dell’Unione europea e le leggi nazionali in materia di cittadinanza alla luce del criterio del genuine link»,.
[14] § 11.1 dei Cons. in dir.: «la giurisprudenza costituzionale ha escluso che un criterio fondativo della cittadinanza possa essere connotato in termini discriminatori (così la già citata sentenza n. 30 del 1983, che ha ravvisato una violazione dell’art. 3 Cost., nella disciplina che prevedeva «l’acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre», senza contemplare il medesimo acquisto a titolo originario anche in caso di cittadinanza italiana della madre). Di seguito, questa Corte ha ritenuto manifestamente irragionevoli e sproporzionate, nel loro applicarsi a persone affette da infermità o da menomazione di natura fisica o psichica, norme attributive della cittadinanza che richiedevano la dimostrazione di conoscenze o il compimento di atti nei loro confronti non esigibili (sentenze n. 25 del 2025 e n. 258 del 2017). E ancora, ha dichiarato costituzionalmente illegittima una norma che irragionevolmente includeva, nel novero delle cause ostative al riconoscimento della cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del procedimento (sentenza n. 195 del 2022).
[15] §. 4.1.1. dei Ritenuto in fatto: «il Tribunale di Bologna e quello di Firenze illustrano diffusamente la peculiarità della situazione italiana caratterizzata, specie nel secolo trascorso, da un massiccio fenomeno migratorio in uscita. Evocando varie fonti, rilevano come fra il 1870 e il 1970 circa 27 milioni di cittadini italiani avrebbero lasciato il Paese e di questi circa la metà non vi avrebbe più fatto ritorno. I loro discendenti andrebbero presumibilmente a superare il numero dei cittadini che risiedono in Italia»; § 4.1.2.: «A dispetto di simile contesto, l’ordinamento italiano sarebbe fra i pochi a non aver posto limiti al riconoscimento della cittadinanza per discendenza o iure sanguinis».
[16] Il tema, vastissimo e con specifiche curvature nella materia de qua, esula dal limitato oggetto di questo intervento; valga rammentare Corte costituzionale, sent. n. 155/1990 per cui «l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi) e, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.), rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini»; per un recentissimo quadro aggiornato: S. Mabellini, Il Giudice costituzionale “assolve” il legislatore retrospettivo che cancella le “iniquità” del passato…e assesta un nuovo colpo al legittimo affidamento, in ConsultaOnLine, 25 maggio 2025, p 235.
[17] C. Balzan, Il caso. Figli di italiani ma cittadini stranieri: c'è un problema con lo ius sanguinis, su Avvenire,13 giugno 2025, osserva che «il decreto di maggio ha creato situazioni anomale: come quella degli emigrati con due nazionalità o quella degli stranieri che hanno bambini che non hanno due i anni continuativi di residenza». Un’analisi approfondita è stata offerta da G. Perin nel suo intervento a questo corso dal titolo Fuori dall’aula di udienza. I minori nati all’estero e la nuova legge sulla cittadinanza, le cui slides sono reperibili sul sito della SSM, dove ha efficacemente illustrato le ricadute sulle «vittime indirette» della riforma.
A questo link si può consultare la sentenza in oggetto.
Su questa rivista, si veda anche La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025 di Umberto Scotti.
Nel 2003 Colin Crouch pubblicava Postdemocrazia in cui teorizzava la crisi della nostra democrazia rappresentativa tradizionale delineandone mutazione e deriva verso sistemi solo formalmente democratici.
Sosteneva Crouch che il crescente disinteresse dei cittadini per la cosa pubblica, la spettacolarizzazione della competizione elettorale e della politica in generale, il controllo di lobbies all’interno dei Parlamenti e il peso crescente delle tecniche di persuasione, hanno fatto sì che le democrazie siano profondamente mutate pur conservando tutti gli elementi formali tipici di quel tipo di sistema.
Ma sosteneva altresì che le democrazie hanno anticorpi sufficienti a difenderle.
Oggi, a più di 15 anni di distanza, gli eventi hanno ulteriormente modificato il quadro post-democratico: la crisi economica del 2008, la crisi dell’Unione Europea, la crescita e l’affermazione dei partiti populisti e della destra xenofoba, l’utilizzo politico della rete e dei social , che all’inizio, invece, promettevano l’allargamento del dibattito politico
Partendo dal presupposto che la democrazia americana è stata sempre considerata, a torto o a ragione, o comunque si è sempre autoproclamata custode della libertà e dell’ordine costituzionale, guardare a ciò che sta accadendo in quel Paese può servire a controllare lo stato di salute della nostra democrazia, per verificare se si tratta semplicemente di un esperimento populista che segue il percorso quasi obbligato della post democrazia o se anche noi ci stiamo avviando a rifare lo Stato a immagine e somiglianza di chi governa.
I movimenti democratici nati dalla ribellione ai sistemi monarchici e alle autocrazie del passato hanno improntato di sé le istituzioni politiche, le forme di governo le leggi e la vita politica di alcuni Stati. Lì dove hanno attecchito hanno creato cioè la democrazia come struttura politica.
Alexis de Tocqueville[1] analizzando la democrazia rappresentativa repubblicana e i motivi per i quali essa aveva potuto attecchire tanto bene negli Stati Uniti mentre era fallita in numerosi altri paesi, metteva in guardia riflettendo sul futuro della democrazia americana, dai potenziali pericoli ”per” la democrazia e “della” democrazia.
Scriveva Tocqueville infatti che la democrazia ha una tendenza a degenerare in ciò che egli descrive come dispotismo addolcito, che non è una tirannia materiale, che ha come obiettivo i corpi, ma una tirannia più subdola che si esercita sul pensiero.
Quella che descrive come la “tirannia della maggioranza”, una sorta di supremazia assoluta degli eletti, non consiste necessariamente in una limitazione della libertà fisica o nel fatto che la maggioranza imponga a coloro che non ne fanno parte di sottostare al proprio volere; ma anche nel fatto che essa tende a dominare l'opinione pubblica polarizzando la società verso un pensiero unico, creando una “società a una dimensione”[2] che tende a censurare azioni e opinioni delle posizioni diverse.
Nel delineare possibili antidoti per affrontare la tirannia della maggioranza Tocqueville indica lo spirito “legistico” inteso come contrappeso alla politica dell’esecutivo nel quale include gli organismi legiferanti, i giudici, che sarebbero dotati della massima integrità di giudizio in quanto non necessitano di mutare la loro opinione per inseguire il consenso, ed infine l'associazionismo in quanto capace di aggregare persone attorno ad un'idea ed attaccare così l'impero morale del mainstream: potere legislativo, il potere giudiziario e la società civile.
Nonostante Tocqeville parli in un tempo lontano, il nucleo centrale che egli individua come fulcro di quella democrazia che descrive, il rule of law, ossia il principio del governo della legge in senso ampio e con esso il principio dei pesi e contrappesi, non era mai stato , finora, messo in discussione negli Stati Uniti.
O almeno mai in una maniera così massiva e si potrebbe dire sfrontata come sta accadendo in questo momento.
Non era mai stata messa in discussione la legge fondamentale ovvero la costituzione che ha governato fin dalla nascita i rapporti tra poteri dello Stato e in particolare tra il Congresso e il presidente.
Né era mai stato messo in discussione il potere giurisdizionale cui spetta di far rispettare le leggi, rafforzato dopo la sentenza Marbury e Madison del 1803[3]che ha attribuito alla Corte Suprema degli Stati Uniti, tra gli altri, il potere di dichiarare l'incostituzionalità delle leggi del Congresso nonché dei regolamenti e degli atti dell'esecutivo.
Si tratta del sistema dei cosiddetti checks and balances da sempre celebrato come un modello di democrazia capace di garantire che sia il popolo tramite il Congresso e le sue leggi a governare e non il presidente che viene limitato dalle leggi e dalla costituzione.
Che l’attuale presidenza USA fosse allergica ai limiti provenienti dal sistema di pesi e contrappesi costituzionalmente previsto e che volesse ergersi al di sopra della legge esautorando le prerogative del Congresso era già risultato evidente in precedenza, durante il primo mandato.
Ma nel corso di questo secondo, però, e anzi fin dal suo avvio, l'attacco alle fondamenta dell'equilibrio costituzionale previsto dai padri fondatori è stato pesantissimo e senza esclusione di colpi e ha immediatamente portato all'ordine del giorno il tema della crisi costituzionale e delle sue difficili soluzioni.
Ad oggi non si contano più gli ordini esecutivi emanati dal presidente con i quali egli ha fatto uso di un potere proprio del Congresso, potere che teoricamente avrebbe potuto rivendicare solo in via eccezionale ed in casi particolari, e quindi posti in essere evocando emergenze di ogni tipo al fine di giustificare la sua attività di legislatore.
L’attacco al Congresso, oltre che dall’uso del potere di legiferare in materia di dazi, è evidenziato dall’emanazione di ordini esecutivi che hanno toccato migliaia di milioni di dollari allocati dal Congresso per spese sociali , ordini esecutivi con cui ancora una volta l'esecutivo si è posto al di sopra del Congresso.
Così è avvenuto per il blocco dei fondi attribuiti dal Congresso agli aiuti internazionali.
Sono noti poi gli ordini esecutivi che hanno alimentato i piani di “volontarie” dimissioni di dipendenti nell’ambito del cosiddetto programma “Fork in the Road” di Musk[4]; e anche i massicci licenziamenti di migliaia di impiegati federali che hanno determinato lo svuotamento o addirittura l'eliminazione di agenzie federali indipendenti e persino di interi dipartimenti (tra gli altri quello della pubblica istruzione!).
A tutte queste iniziative e in risposta a quasi tutte le mosse dell'attuale amministrazione hanno fatto seguito centinaia di azioni giudiziarie che in molti casi hanno dato luogo a decisioni delle Corti di giustizia volte ad arginarle: dallo sblocco degli aiuti destinati al sociale a quello ( almeno parziale) dei fondi già destinati agli aiuti internazionali.
“Il blocco dei fondi destinati al sociale scardina la base e la distinzione di ruoli che la costituzione stabilisce per ciascun potere dello Stato”: questa la dichiarazione fatta da un giudice federale[5] quando per la seconda volta ha imposto lo sblocco del denaro destinato agli aiuti sociali , ordine che l’amministrazione non ha rispettato così come già aveva fatto per quello di un altro giudice federale[6] che aveva scongelato almeno una parte dei fondi attribuiti dal Congresso agli aiuti internazionali e per il provvedimento emesso da un altro giudice federale[7] che ha dichiarato illegale il blocco dei finanziamenti ad Harvard deciso come diretta ritorsione per la gestione delle proteste e del ritenuto “antisemitismo” in quella università.
È nota la vicenda dell’ordine imposto dall’amministrazione da un giudice federale del Distretto di Colombia[8] di non far partire gli aerei con i migranti non preventivamente sottoposti ad un processo.
L’amministrazione non ha rispettato gran parte delle pronunce delle Corti, sia per quanto riguarda lo sblocco dei fondi che sono rimasti in gran parte congelati; sia per gli ordini di reintegro per lavoratori licenziati illegittimamente che non sono tornati al lavoro; sia per il caso della deportazione senza processo di centinaia di migranti nelle prigioni salvadoregne sulla base di una legge del 1798 che assegna al presidente- ma solo durante un'invasione o in tempo di guerra - il potere di espellere in via sommaria i cittadini dello Stato ostile che abbiano più di 14 anni in quanto nemici.
In tutti i casi la risposta dell’amministrazione è stata a dir poco elusiva e omissiva, data mediante lo sbrigativo sistema di comunicazione attraverso social autoreferenziali, affermando, quanto ai provvedimenti emessi senza alcuna tutela delle garanzie processuali dei migranti, che “chi salva l'America non può violare la legge”, e minacciando lo stesso trattamento anche per coloro che hanno la cittadinanza americana, pur precisando che in questo caso occorrerà, tuttavia, “consultare le leggi”; o, rispetto all'ordine del giudice federale di riassumere le migliaia di lavoratori che si assume essere stati illegittimamente licenziati, rivolgendo ai giudici l’accusa di essersi sostituiti al presidente degli Stati Uniti , che è stato eletto con quasi 80 milioni di voti, e che “i giudici non possono controllare il legittimo potere dell'esecutivo”[9].
L’idea espressa, in forma diretta, elementare ma efficace è che il potere esecutivo dovrebbe essere libero o comunque operare in autonomia, sciolto dal vincolo dal potere giudiziario.
E ciò anche in relazione ad alcuni dei più controversi e problematici ordini esecutivi emessi dall’ amministrazione.
Oltre a quelli già visti, la cancellazione dello ius soli[10], l’accesso ai dati sensibili del Dipartimento del Tesoro consentito a Elon Musk e al suo staff, il trasferimento di detenuti transgender nelle carceri maschili, tutti provvedimenti adottati in spregio di diritti costituzionalmente garantiti e con la pretesa che nessun giudice possa intervenire: concetti evidentemente estranei a qualsiasi democrazia costituzionale e che stanno assumendo un connotato preoccupante sia per gli effetti specifici sia per il nuovo concetto di Stato di diritto che tentano di accreditare.
È preoccupante, e deve far riflettere, l’attacco, forte, aggressivo e delegittimante alla magistratura: giudici definiti “pazzi” che “non si preoccupano nemmeno un po' delle loro pericolosissime sbagliate decisioni che ostacolano l’attività presidenziale”, “buffoni in cerca di notorietà con sentenze ridicole e inette, che cercano di usurpare la Presidenza”.
Lo scontro ha raggiunto momenti incandescenti con l’arresto di Hanna Dugan[11], giudice statale di Milwaukee, accusata di aver ostacolato gli agenti dell’immigrazione consentendo ad un immigrato irregolare messicano di allontanarsi da una porta laterale della sua aula mentre gli agenti lo attendevano per arrestarlo.
La campagna di attacco e di “bullismo istituzionale”[12] si svolge anche in chiave preventiva come accaduto con le sanzioni applicate agli avvocati che in passato hanno rappresentato o difeso gli avversari politici dell’attuale presidente, come si legge nell'ultimo memorandum presidenziale volto a spronare i dipartimenti di giustizia e della sicurezza interna a perseguire gli studi legali e gli avvocati che intraprendono liti frivole, irragionevoli e vessatorie contro “gli Stati Uniti”, in una sorta di monarchica identificazione tra la figura del presidente e lo Stato.
Nella stessa scia la minaccia rivolta al Canada di aggravare i dazi nel caso non sia immediatamente sospeso lo spot che manda un video dell’ex Presidente Ronald Regan che spiega come i dazi siano dannosi per l’economia americana[13]
Non può allora liquidarsi come allarmistico e infondato il dubbio di un nuovo assetto istituzionale in cui un presidente legibus solutus, fuori da ogni controllo fondato sul principio del checks and balances costituzionalmente stabiliti, può disciplinare e disporre delle garanzie poste finora a protezione del corretto andamento della vita democratica e quindi degli individui e della società tutta.
Un dubbio e un allarme che, pur a fronte di un tale successo elettorale, pare ora avvertire – e fortemente - la società civile, l’altro polo al quale, in modo così profondamente illuminato, Tocqueville assegnava il potere di controllare e contrastare le eventuali derive della tirannia della maggioranza e, a maggior ragione, di un unico potere e di un unico soggetto istituzionale.
Il movimento NO KING già nella scelta del nome sembra esprimere tutto questo.
Le proteste contro le politiche repressive dell’attuale amministrazione e i raid della Immigration and customs enforcement (ICE) che da mesi rastrellano il Paese a caccia di irregolari, hanno superato i confini di Los Angeles e stanno interessando l’intero Paese.
Il No Kings Day di questo ottobre segue la manifestazione già avvenuta a giugno, in cui, in circa 2.600 siti in tutti i 50 Stati, gruppi nazionali e locali hanno marciato al fine di manifestare il loro dissenso alle politiche antidemocratiche dell’attuale amministrazione che, in risposta, li ha bollati come “Hate American Rally”
Secondo il New York Times[14] folle di migliaia di persone al grido di No More Trump stanno marciando nel Paese, invadendo le grandi città così come le medie e le piccole. “Sono insegnanti e avvocati, militari veterani e impiegati licenziati in tronco, bambini e nonne, studenti e pensionati”.
Nelle maggiori aree metropolitane come Washington DC la folle era immensa. Ad Atlanta un corteo ha coperto ben tre interi quartieri della città, 5 a San Francisco, a Chicago 22. A New York i dati ufficiali parlano di più di100.000 persone , con il più grande assembramento concentrato in Times Square.
Arrivati a frotte da tutto il Paese appartengono alle più diverse categorie sociali, espongono cartelli o sventolano la bandiera americana, tutti con l’obiettivo ben focalizzato di non volere sovrani, chiaramente manifestato dall’unico mantra: No Kings.
In questo senso la giornata No Kings potrebbe leggersi come una manifestazione di massa che inizia ad evidenziare gli anticorpi della democrazia, posto che migliaia di cittadini, delle più diverse estrazioni, hanno espresso la condanna verso un presidente che vedono agire come un monarca, rivendicando, come hanno dichiarato molti degli intervistati, che sulle politiche si può dibattere per decidere quali sia la via giusta per risolvere i problemi, ma che non si discute sul valore del Popolo e della Democrazia .
Critica e messaggi di odio, ironia volta a svilire e sottovalutazione sono state le risposte dell’amministrazione che non ha ritenuto neppure, almeno apparentemente, di assegnare un valore a questa forte protesta di quel Popolo in nome del quale si esercita il potere.
La risposta di Abigail Jackson, una delle speakers della Casa Bianca alla richiesta di un commento sul dilagare delle manifestazioni, data con una breve email, è stata: Who cares?
Gli avvenimenti di questi giorni, tra gli altri ma non solo, la nomina di Zohran Mamdani a sindaco di New York con un’affluenza da record al voto e due donne ai governatorati di Virginia e New Jersey, legittimano la riflessione che “who cares” non è la risposta giusta.
[1] La democrazia in America . Alexis de Tocqueville 1835/1840.
[2] Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione 1964.
[3] Ha stabilito il principio del Judicial Rewiew il potere del controllo della Corte Suprema e delle Corti Federali di censurare le leggi statali e federali. Ha posto il principio che la Corte Suprema sia il garante della Costituzione e ha stabilito il principio della gerarchia delle norme al vertice delle quali vi è la legge suprema cui tutti devono attenersi. Incomprensibile dunque il dubbio espresso dall’attuale presidente che ha affermato di non essere certo di dover rispettare la legge suprema del Paese (intervista del 4.5.2025 NBCNews), nello stesso contesto in cui affermò, di non sapere, non essendo un giurista, se un immigrato avesse o meno diritto ad un giusto processo.
[4] Letteralmente biforcazione , Fork in the Road è la scelta che Elon Musk presentò, nel 2022,con un messaggino, agli impiegati di Twitter dopo la sua acquisizione, ponendoli al bivio di accogliere una nuova drastica ed intransigente visione della loro attività (!) o lasciare la compagnia dietro pagamento di uno stipendio fino ad una certa data ed alcuni benefits. Lo stesso è avvenuto nel gennaio 2025 con una mail inviata a migliaia di impiegati federali cui fu offerta la scelta tra il dimissionarsi o affrontare il licenziamento amministrativo o il demansionamento.
[5] John McConnell è capo del Tribunale distrettuale federale del Rhode Island, noto per aver presieduto la causa per lo sblocco di fondi federali destinati al sociale , ora inquisito per abuso di potere (high crimes and misdemeanors).
[6] Il giudice Amin Alì che ha sbolccato i finanziamenti a USAID e intimato con ordinanza il ripristino dei finanziamenti; l’ordinanza è stata revocata dalla Corte di Appello del Distretto di Colombia che, per questo specifico tipo di aiuti rivolti ad organizzazioni no profit, ha escluso che i soggetti destinatari possano contestarli.
[7] Il giudice Allison D.Burroughs della Corte distrettuale di Boston ha emanato il provvedimento che ha dichiarato, richiamandosi al diritto di libertà di parola, illegittimità dell’ordine di blocco dei fondi all’Università di Harvard, definita dall’attuale presidente come un luogo dove si insegna odio e stupidità.
[8] Il giudice Jame Boaseberg del distretto di Columbia.
[9] Su X J.D Vance.
[10] Il 27 giugno 2025 la Corte Suprema ha espresso una decisione sugli ordini esecutivi con i quali era stato eliminato lo ius soli per i soli figli degli immigrati irregolari a fronte del diritto costituzionale vigente secondo cui tutte le persone nate negli Stati Uniti hanno diritto ad ottenere la cittadinanza. L’ordine era stato sospeso da varie Corti federali, sostenendone l’illegittimità in relazione al XIV emendamento della Costituzione e quindi non ancora mai entrato in vigore. I giudici della Corte Suprema, con una maggioranza di 6 a 3, questi ultimi non eletti dall’attuale presidenza, pur senza valutare il merito della questione, hanno tuttavia stabilito l’incostituzionalità degli ordini di sospensione emessi dai giudici federali poiché ritenuti esorbitanti dalla loro specifica competenza.
Il che implica che i giudici federali non potranno più emettere ingiunzioni nazionali per sospendere provvedimenti decisi dal governo centrale per misure che hanno validità nazionale.
[11] Riportato dal Giornale. Pagina di politica estera 20 aprile 2025.
Secondo l’autore dell’articolo si tratta dell’attuazione della decisione di Trump di perseguire i funzionari contrari alla stretta contro i migranti.
La giudice Dugan, che si è difesa, tra le altre, affermando che non stava tenendo udienza, è stata immediatamente liberata per mancanza dei presupposti per l’arresto. Il processo doveva essere celebrato il 15 maggio 2025 ma è stato rinviato per questioni procedurali preliminari.
[12] La Stampa- Alan Friedman- 27.10.2025.
[13] Nel1987 in un discorso radiofonico ora diramato dallo Stato dell’Ontario, l’ex presidente degli Stati Uniti Ronald Regan esortava il Congresso a non perseguire politiche protezionistiche (allora ipotizzate contro il Giappone) facendo una dura critica agli effetti economici dei dazi sulla produzione, sul lavoro e sui rapporti con gli altri Stati.
L’Amministrazione attuale ha accusato lo spot di rappresentare un tentativo di intromissione nelle questioni nazionali americane e ha bloccato le trattative in corso con il Canada, con la minaccia non velata di aggravare i dazi.
[14] New York Times – Corina Knoll- 21.10.2025.
Contenuto conformativo della sentenza e competenza per l’ottemperanza.
di Esper Tedeschi
Sommario: 1. L’individuazione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 113 c.p.a.; 2. Orientamenti della giurisprudenza; 3. Osservazioni su contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
1. L’individuazione del giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 113 c.p.a.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. individua il giudice dell’ottemperanza, attribuendo la competenza funzionale all’autorità giurisdizionale che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta, con la precisazione, tuttavia, nel secondo periodo, che “la competenza è del tribunale amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione che abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
L’art. 113, co. 1, c.p.a. non introduce novità nel panorama processuale amministrativo.
Già l’art. 37 della legge T.A.R. – che per la prima volta ha normato l’assoggettabilità a giudizio di ottemperanza delle pronunce del giudice amministrativo[1] – aveva individuato, quale giudice dell’ottemperanza, l’organo della giustizia amministrativa che ha emesso la decisione di cui si chiedeva l’adempimento e, del pari, aveva introdotto una disposizione apparentemente derogatoria (rispetto alla appellabilità delle sentenze T.A.R., emesse nei giudizi di ottemperanza ex art. 37, co. 1) sostanzialmente coincidente con la disposizione ora contenuta nel co. 1, secondo periodo, dell’art. 113, c.p.a.[2].
Tuttavia – mentre l’art. 37 della legge T.A.R. si limitava a dire, al co. 4, che “la competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello” – l’art. 113, co. 1, secondo periodo, c.p.a., si esprime precisando che, affinché la competenza resti radicata nel primo giudice, occorre anche che la pronuncia confermativa del giudice di appello “abbia lo stesso contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”.
Quella che potrebbe apparire soltanto una precisazione grammaticale, costituisce, invero, il “valore aggiunto” della disposizione codicistica (corrispondente alle indicazioni interpretative nel frattempo formatesi in materia[3]), in quanto chiarisce la volontà del legislatore, di modellare la ripartizione della competenza funzionale, fra Tribunali Amministrativi Regionali e il Consiglio di Stato (nella rispettiva veste di giudici di primo e di secondo grado), sulla “paternità” del contenuto dispositivo e conformativo del provvedimento giurisdizionale della cui ottemperanza si tratta, incardinandola nel Consiglio di Stato ogni qual volta, ancorché confermato il contenuto dispositivo della sentenza di accoglimento di primo grado, ne diverga il contenuto conformativo[4].
Quest’ultimo, si concreta in quel vincolo comportamentale che, sulla base delle argomentazioni che sorreggono il contenuto dispositivo, incombe sull’Amministrazione soccombente, la quale – come chiarito in giurisprudenza[5]– finisce con l’esserne astretta anche oltre i limiti temporali e processuali di esecutibilità della pronuncia giurisdizionale, nel senso che “il suddetto effetto conformativo incide anche, nei sensi indicati, sulla nuova attività amministrativa senza alcun limite temporale se non quello derivante dalla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto amministrativo che con tale effetto si pone in contrasto”. Il che è quanto dire che il provvedimento che l’Amministrazione adotta in contrasto con la pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata resta operante alla stregua di “misura ideale” del corretto e legittimo uso del potere discrezionale tipico, così che la sua violazione è idonea ad emergere sub specie di “eccesso di potere”, quale vizio del successivo provvedimento, in qualunque ragionevole tempo.
La correlazione della competenza funzionale alla paternità del contenuto “dispositivo” e “conformativo” delle pronunce giurisdizionali affonda le proprie radici nel coessenziale “pregiudizio” legislativo che, nelle materie appartenenti alla giurisdizione del giudice amministrativo, nessuno meglio del giudice al quale deve farsi risalire lo iussus conformativo è in condizione di individuarne il significato e la portata, nell’esercizio di quella particolare cognizione estesa al merito che è propria del giudizio di ottemperanza e alla quale si correla anche il potere sostitutivo, esercitabile, se occorre, mediante la nomina di un commissario ad acta (art. 114, co. 4. lett. d)) quale ausiliario del giudice (art. 21) che tenga le veci dell’amministrazione reiteratamente inottemperante[6].
Riflettendo su tale aspetto, ci si avvede che il criterio adoperato dal codice del processo si muove nell’ottica della valorizzazione la nozione di “giudice naturale”[7] e le esigenze di tutela che vi sono sottese, e che hanno fatto dire, ai costituenti, che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”[8].
Peraltro, è stata rinvenuta, in tale opzione, una deroga alla regola del doppio grado[9], ora espressamente fissata, per il giudizio di ottemperanza, in linea generale, dall’art. 114, co. 8 e 9, c.p.a., idonea a ingenerare, per tale profilo, disparità di trattamento fra quanti possono avvalersi del doppio grado e quanti, invece, sono costretti a subire l’inappellabilità delle pronunce del Consiglio di Stato, operante, nel caso, in qualità di giudice di unico grado[10].
La questione non è di poco momento.
Se pure è vero, infatti, che la garanzia del doppio grado della giurisdizione fissata nell’art. 125 Cost. opera soltanto nel senso della appellabilità delle sentenze T.A.R.[11] – senza che dall’anzidetta disposizione, o dagli artt. 100 e 111, o da altra disposizione della Carta fondamentale possa desumersi che (nell’ambito della funzione giurisdizionale propria) il Consiglio di Stato non possa mai essere investito di competenza di unico grado – altri principi, altrettanto vincolanti, operano nel senso che, anche in tale ipotesi, l’ordinamento debba individuare misure idonee a garantire l’effettività della tutela della parte soccombente, attuativa di diritti costituzionali (artt.24, 111 e 113 Cost.) e di principi sovranazionali[12].
Tuttavia, l’osservanza di tali principi, ora scolpiti positivamente nell’art. 1 c.p.a., non vincola il legislatore nazionale nella individuazione dello strumento processuale con il quale perseguirli, purché esso sussista e si riveli efficace[13].
2. Orientamenti della giurisprudenza.
Accade di frequente che il Consiglio di Stato faccia applicazione della regola processuale in esame declinando la propria competenza a decidere, per avere individuato nel T.A.R. che aveva pronunciato la sentenza di primo grado il giudice competente, in quanto la sentenza di appello non ne aveva modificato il contenuto dispositivo e conformativo, sebbene avesse motivato in modo parzialmente diverso su un aspetto della controversia.
Esemplare sotto il profilo è la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5485 del 2020.
Il T.A.R. per il Molise, con sentenza n. 448 del 2016, aveva accolto il ricorso per risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, instaurato dall’ex presidente del comitato dei revisori dei conti di un I.A.C.P. molisano, con ricorso notificato alla Regione Molise e all’I.A.C.P. entro il quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza del medesimo T.A.R.
Nell’accogliere la domanda risarcitoria (con condanna in solido delle amministrazione intimate sulla base di puntuali criteri di liquidazione anche relativi alle spettanze accessorie), il T.A.R. molisano aveva, previamente, dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione dell’azione, proposta dall’I.A.C.P., in quanto tardiva, e ha respinto la coincidente eccezione della Regione Molise, basando il proprio convincimento sull’assunto che il termine quinquennale opposto dalla Regione a fondamento della propria deduzione, dovesse farsi decorrere dalla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, al quale il suddetto giudice ha fatto risalire la giuridica azionabilità, in sede giurisdizionale, dell’autonoma pretesa risarcitoria da lesione di interessi legittimi.
La Sez. V del Consiglio di Stato – investita dell’appello principale dello I.A.C.P. e di quello incidentale autonomo della Regione Molise, entrambi volti a sindacare le conclusioni alle quali era pervenuto il T.A.R. in ordine alla decorrenza del termine per la proposizione l’azione risarcitoria (mentre il solo appello principale dello lo I.A.C.P. era anche volto caducare la condanna in solido a suo carico, sull’assunto della esclusiva responsabilità della Regione per il danno provocato all’interessato dai provvedimenti illegittimi del Commissario straordinario dell’Istituto) – ha respinto entrambi gli appelli con sentenza n. 1496 del 2018, nel cui contesto era, peraltro, precisato che “la sentenza di primo grado deve […] essere confermata, sia pure sulla base di una motivazione in parte diversa da quella contenuta nella sentenza appellata”.
Per la precisone, il giudice di appello, esaminando la riproposta eccezione di prescrizione (ed espressamente prescindendo dalla tardività riguardante la sola deduzione dell’I.A.C.P.), ha ritenuto erroneo il procedimento logico-giuridico attraverso cui il T.A.R. era pervenuto al convincimento della tempestività della proposizione dell’azione, sulla considerazione che “l’azione risarcitoria autonoma era già esperibile [prima dell’entrata in vigore del c.p.a.] e ad essa si applicava il termine di prescrizione quinquennale (come definitivamente chiarito anche da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 3/2011)”. Ciò malgrado, il Consiglio di Stato ha ritenuto la sostanziale irrilevanza dell’errore del primo giudice, nella individuazione della norma applicabile nella specie, stante, di fatto, la tempestività dell’azione risarcitoria alla stregua del principio in forza del quale “la domanda, proposta al giudice amministrativo, di annullamento del provvedimento lesivo è idonea, per la durata del processo amministrativo, ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, con la conseguenza che la prescrizione già interrotta può iniziare a decorrere nel giudizio risarcitorio dal passaggio in giudicato della statuizione del giudice amministrativo (cfr., ex multis, Cass. 10395/2012; Cass. 4874/2011”.
Nelle specie, e sulla base dell’intervallo temporale fra passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dei provvedimenti lesivi e la proposizione della domanda risarcitoria (con riferimento alla notificazione del ricorso, poi successivamente ritualmente e tempestivamente depositato), doveva comunque escludersi il compimento del temine prescrizionale.
Successivamente al deposito della sentenza in parola e alla sua notificazione a cura dell’interessato, persistendo l’inerzia dei coobbligati in solido, quest’ultimo ha proposto ricorso per l’ottemperanza dell’anzidetta sentenza del medesimo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 1496 del 2018, nel convincimento che il giudice di appello – pur avendo lasciato invariato il contenuto dispositivo del provvedimento decisorio del primo giudice – ne avesse modificato, ampliandolo, il decisum sostanziale, dichiarandosi confortato, in tale convincimento, dalla statuizione con la quale, in appello, il Consiglio di Stato aveva compensato le spese del giudizio.
Con sentenza n. 5485 del 2020, la Sez. V del Consiglio di Stato (fra l’altro espressamente accogliendo, sul punto, l’eccezione della Regione Molise, costituitasi in giudizio) ha declinato la propria competenza in favore del T.A.R. per il Molise, con concisa, ma lodevole esposizione delle conclusioni esegetiche in tema di individuazione del giudice funzionalmente competente alla stregua del disposto dell’art. 113, co. 1, del codice del processo amministrativo.
Osserva sostanzialmente il Consiglio – nell’indicare le tappe del percorso interpretativo da compiere per l’individuare il giudice competente in materia – che la giurisprudenza ha ormai sviscerato (da tempo, in più di un decennio dalla entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, e della operatività del suo art. 113, co. 1) le linee guida da seguire, ovvero:
b) ciò fatto, l’approccio successivo sarebbe nel senso che “la competenza funzionale è del Tribunale amministrativo regionale” ove vi si ravvisi “identità di contenuto tra i provvedimenti di primo e secondo grado”, il che si verifica nell’ipotesi di “dispositivo di mero rigetto dell’appello principale o incidentale (così Cons. Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489)”;
c.1) la competenza del Consiglio di Stato se la motivazione della sentenza d’appello rechi una modificazione sostanziale del dictum giudiziario quale ricavabile dalla sentenza di primo grado, in senso (variamente) ampliativo o restrittivo della condotta richiesta per dar attuazione alla pretesa, così da incidere sull’obbligo conformativo dell’Amministrazione soccombente (Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2020, n. 871) o, anche, quando si ravvisi “un quid novisul piano del giudicato” (Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2019, n. 2051);
c.2) (oppure, al contrario) la competenza resta radicata nel primo giudice (il T.A.R. di provenienza), nel caso in cui la differente motivazione si concreti nel “mero arricchimento della motivazione a supporto di un medesimo decisum”.
L’avvertimento che la sentenza in esame sente, a questo punto, di dover dare all’interprete (nel caso, la parte vittoriosa dell’esecutando provvedimento giurisdizionale) è nel senso di una particolare cautela nella individuazione del “contenuto conformativo”, nelle maglie della motivazione della sentenza d’appello e nel confrontarlo con il dictum di prime cure, in quanto una sentenza di appello non può mai riproporre un percorso motivazionale identico (ovvero addirittura ripetitivo) a quello della sentenza impugnata, “non foss’altro per la necessità di confrontarsi con censure differenti da quelle proposte con il ricorso introduttivo del giudizio (in tal senso già Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2183)”.
La controprova è nella constatazione che un differente modo di procedere finirebbe a riconoscere sempre competenza funzionale del giudice di appello, perché si finirebbe per attribuire al differente percorso argomentativo “(sempre) un contenuto conformativo diverso”.
Il vero, per i fini che interessano il corretto confronto dei “contenuti conformativi” dei due provvedimenti appartenenti a giudici di differente grado è nel modus operandi che si richiede all’Amministrazione per dare effettiva e concreta attuazione al comando giuridico, cosicché, in conclusione, al cospetto di un identico contenuto dispositivo, l’indagine sul contenuto conformativo consiste nel chiedersi se le due pronunce (di primo e di secondo grado) abbiano posto all’Amministrazione vincoli operativi identici o differenti.
Per venire al caso concreto appena descritto, la sostanza della vicenda sulla quale è intervenuta la differente motivazione della sentenza di appello (inoperatività della prescrizione opposta) era del tutto “pre-giudiziale” rispetto alla questione di merito, da cui doveva farsi dipendere (con l’effetto dispositivo), l’effetto conformativo della pronuncia giurisdizionale. Sicché, una volta accertato che il termine prescrizionale non era decorso al tempo della proposizione della domanda risarcitoria e che, dunque, il giudice era legittimato a “entrare nel merito” della pretesa risarcitoria, era da ritenere del tutto irrilevante il differente percorso normativo attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alle medesime conclusioni del primo giudice, in ordine alla inoperatività della prescrizione.
Infatti, la correzione, sul punto, della motivazione della sentenza di primo grado non ha minimamente intaccato il decisum sul merito della domanda risarcitoria, né in ordine alla sussistenza del danno, alla taxatio o alla aestimazio dell’obbligazione relativa, né per ciò che riguarda le indicazioni operative espressamente rivolte alle Amministrazioni soccombenti, né, infine, circa gli impliciti e residui doveri conformativi (quali, in ipotesi, quello di correttamente attenersi ai criteri di liquidazione indicati dal primo giudice, di adoperarsi per rendere disponibili i fondi necessari per l’erogazione degli importi dovuti e, infine, di emettere, il mandato di pagamento necessario alla riscossione del dovuto). Ciò in quanto, fra l’altro, è stato respinto l’appello proposto dall’I.A.C.P. avverso la condanna in solido, con totale conferma, sul punto, della sentenza T.A.R.
La sentenza si segnala per aver messo a fuoco orientamenti consolidati con costruzione logica chiarificatrice (ancorché sintetica), così da fornire anche un input di tipo didattico per la comprensione della materia.
Probabilmente, uno sforzo ulteriore poteva essere compiuto, per chiarire, anche brevemente, l’ininfluenza della statuizione sulle spese del giudizio, posto che, per espressa ammissione dell’interessato, l’equivoco del ricorrente era stato alimentato proprio dalla suddetta compensazione[14].
3. Osservazioni su contenuto dispositivo e conformativo della sentenza del g.a.
Ciò detto, un qualche chiarimento richiedono ancora la nozione di “contenuto dispositivo” e “contenuto conformativo” (la legge propriamente parla di “effetti”, dispositivo e conformativo) il più delle volte non espressamente enunciato, che dalla sentenza del giudice amministrativo deriva (o può derivare) in capo all’Amministrazione soccombente.
L’idea di un “contenuto conformativo”, ulteriore rispetto a quello dispositivo, afferisce alla sentenza amministrativa di accoglimento di un ricorso giurisdizionale proposto per l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo e lesivo della sfera giuridica del ricorrente[15].
È, d’altronde, manualistico l’insegnamento secondo cui l’effetto (o contenuto) conformativo costituirebbe un elemento “tipico” di tali decisioni (ancorché eventuale), in quanto presuppone che, dopo l’annullamento giurisdizionale residuerebbe, in capo all’Amministrazione soccombente “il potere” (o, a seconda dei casi e sulla base di quanto dispone il diritto sostanziale, “il dovere”) di provvedere in ordine alla fattispecie che ha costituito oggetto del giudizio, con un nuovo atto[16].
L’effetto conformativo si concreterebbe nell’obbligo, per l’Amministrazione soccombente, di tenere conto, nella sua azione, delle indicazioni e dei limiti desumibili dall’accertamento giurisdizionale, come esplicitati nella motivazione del provvedimento giurisdizionale del quale di stratta[17].
In tale ottica, l’effetto conformativo rinverrebbe la sua tipicità nel meccanismo impugnatorio, che definisce anche i limiti del contenuto conformativo della pronuncia giurisdizionale, in quanto esige la specificazione dei motivi di impugnazione da parte del ricorrente e non consente al giudice di spingere il suo potere di controllo giurisdizionale oltre i limiti delle censure dedotte[18].
Se ne potrebbe dedurre che di contenuto conformativo possa, ancora oggi, parlarsi soltanto con riguardo alle sentenze di merito emesse nel tipico giudizio di legittimità e che, solo con riferimento alle anzidette sentenze di accoglimento, esso debba ricercarsi nelle maglie della motivazione, della pronuncia favorevole.
Sennonché, rispetto al suo atto di nascita, potrebbe dirsi, oggi, che il giudizio di ottemperanza ha cambiato pelle.
Già l’art. 33, della l. n. 1034 del 1071, con il comma 4 (aggiunto dall’art. 10, l. 21 luglio 2000 n. 205), ne ha ammesso l’esperibilità per le sentenze T.A.R. non ancora passate in cosa giudicata e non sospese dal Consiglio di Stato; sulla base del combinato disposto degli artt. 112, co. 5 e 114, co.7, il giudizio di ottemperanza può essere proposto per fornire chiarimenti sulle modalità di esecuzione, anche da parte dello stesso commissario ad acta; l’art. 112. co. 1 e 2, c.p.a, ha notevolmente ampliato l’ambito di esperibilità del giudizio di ottemperanza, in correlazione anche alla pluralità di azioni che possono essere proposte davanti al giudice amministrativo e il successivo co. 3 dello stesso articolo, modificato dal primo correttivo di cui al d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, ha reso possibile la proposizione “anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza” dell’azione “di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza”, oltre che di quella “di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”[19].
Inoltre, il “nuovo” codice del processo amministrativo (con le modificazioni apportate, all’originario d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, dai correttivi di cui ai d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 e 14 settembre 2012, n. 160, ma anche per effetto di successivi aggiustamenti e modificazioni, fino ai nostri giorni) sembra propendere, non soltanto verso una più puntuale ed esplicita enunciazione del contenuto conformativo dei provvedimenti giurisdizionali, anche con riferimento a pronunce con oggetto differente dal tipico sindacato di legittimità[20].
In tale contesto, la formula dell’art. 113, comma 1, c.p.a., in tema di giudizio di ottemperanza, induce a interrogarsi sulla possibilità che il legislatore abbia anche intenzionalmente ritenuto di dover accedere a una nozione di “contenuto conformativo” non rigorosamente ancorata ai soli effetti ulteriori della pronuncia definitiva di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, nella parte in cui, nel recepire interamente il riparto di competenza funzionale fra T.A.R. e Consiglio di Stato (nella funzione giurisdizionale di giudice di appello) già fissata nell’art. 37 della l. n. 1034 del 1971 (istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali), ha valorizzato la rilevanza processuale del “contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado”, senza tenere in alcun conto la pluralità di azioni previste dal codice e dell’altrettanto variegata tipologia di “provvedimenti” giurisdizionali finali, suscettibili di ottemperanza.
Tale convincimento è avvalorato dal comma 1 dell’art. 112 c.p.a.
Il contenuto conformativo delle pronunce amministrative, che aveva fatto dire “il sindacato di legittimità diventa una misura di giustizia in senso distributivo nei rapporti intersoggettivi”[21], nel nuovo assetto del processo amministrativo, sembra dunque emergere, a tutto tondo, nella generalità delle statuizioni di merito del giudice amministrativo, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, co. 1, Cost.[22].
Esso è da considerarsi di tale rilevanza che, secondo l’orientamento messo a fuoco dal Consiglio di Stato[23], l’effetto conformativo discendente dal giudicato impedisce l’adozione di atti amministrativi che con esso confliggono, anche indipendentemente dalla azionabilità in ottemperanza delle statuizioni della sentenza passata in cosa giudicata e della declaratoria di nullità degli atti adottati. Verrebbero così a scindersi, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’eseguibilità del giudicato (impedita dalla prescrizione dell’actio iudicati) e la persistenza dell’effetto conformativo del medesimo, che comporta, comunque, il dovere dell’Amministrazione di non adottare atti che contrastino con l’accertamento giudiziale. Il diritto all’esecuzione del giudicato non è azionabile ma il dovere di tener conto del giudicato nelle ulteriori attività dell’amministrazione permane, con la conseguente possibilità di ritenere annullabile l’atto che non lo consideri.
Detto questo, deve darsi atto che, ai fini e per gli effetti del giudizio di cui all’art. 113 c.p.a. - al cospetto di una decisione di appello che confermi il contenuto dispositivo della sentenza di primo grado con motivazione non del tutto conforme alla pronuncia di prime cure - l’individuazione del giudice al quale fare risalire la paternità del contenuto conformativo può essere complicato dallo sviluppo argomentativo della pronuncia, la cui complessità affonda le proprie radici nelle connotazioni stessa del giudizio di appello, nel contempo impugnatorio e devolutivo (nei limiti di quanto dedotto nel giudizio di primo grado ed oggetto di gravame in appello).
Il caso deciso dalla citata sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3485/2020 costituisce un esempio tipico di “equivoco”, nel quale non sarebbe dato incorrere, se soltanto si tenesse conto che il differente percorso argomentativo - che si sostanzi in un approfondimento e/o ampliamento e/o arricchimento della motivazione di accoglimento del motivo o dei motivi già positivamente vagliati ed accolti dal giudice di primo grado - non modifica, di per sé, né il contenuto dispositivo né quello conformativo della sentenza di primo grado[24], per di più nel caso in cui investa un profilo pregiudiziale (di rito o di merito) rivelatosi poi ininfluente sulla cognizione di merito richiesta al giudice dell’ottemperanza, in ordine alla pronuncia favorevole.
Altra cosa è che il giudice di appello ampli il contenuto conformativo della pronuncia di primo grado o vi imprima una differente portata: è solo in tal caso che può parlarsi di un contenuto conformativo proprio della sentenza di appello, idoneo a incardinare nel Consiglio di Stato la competenza funzionale ai fini del giudizio di ottemperanza, in conformità all’obiettivo perseguito dall’art. 113, c.p.a., che individua nel giudice che ha posto l’obbligo conformativo, quello naturalmente idoneo a garantire il corretto collegamento tra cognizione ed esecuzione, attraverso l’interpretazione della portata effettiva del proprio dictum[25].
La conclusione parrebbe semplice, se non fosse che su tale argomento sono scorsi fiumi di inchiostro[26].
[1] Quasi sottovoce – con la l. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali – il legislatore nazionale ha implicitamente conferito dignità normativa all’applicazione pretoria dell’istituto processuale di cui all’art. 27 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa. Ciò ha fatto con disposizioni (contenute nell’art. 37, co. 3 e 4, della legge citata) aventi a oggetto la distribuzione della competenza funzionale fra giudice di primo e di secondo grado (rispettivamente i T.A.R. di nuova istituzione e il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale) che, implicitamente, danno per acquisito all’ordinamento l’istituto processuale, con l’anzidetta funzione espansiva (rispetto alla formula contenuta nel T.U.). E invece – sebbene al tempo della emanazione del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, fosse superata (anche a livello legislativo) la vexata questio della natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato sui ricorsi proposti dagli interessati per l’annullamento dei provvedimenti definitivi viziati da violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere – nell’art. 27 del T.U. fu trasfuso l’originario art. 4, co. 4 della c.d. legge Crispi, senza ampliarne la portata applicativa. O. Quarta, Discorso del procuratore generale della Corte di cassazione di Roma, del 4 gennaio 1910, nel quale si rinviene (pp. 46 e ss.) un’ampia ed argomentata prolusione a sostegno della natura giurisdizionale delle decisioni della Sez. IV del Consiglio di Stato, dà conto di quanto fosse sentito, al tempo, il problema. Alla fine fu la storica sentenza del Consiglio di Stato, n. 181 del 2 marzo 1928, che per la prima volta estese il rimedio di cui all’art. 27 del T.U., anche alle sentenze amministrative, dando avvio a quella che – a distanza di anni – fu tacciata di essere una “bruta normazione giurisprudenziale” (M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Aa.Vv., Il giudizio di ottemperanza, Milano 1983, p. 65).
[2] Art. 37, co. 4. l. n. 1034 del 1971.
[3] Fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2005, n. 6767; sez. VI, 20 luglio 2009, n. 4554, nelle quali si rinviene il principio (poi confermato da Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2011, n. 3316) secondo cui la competenza del T.A.R., in sede di ottemperanza al giudicato, resta sempre preclusa quando la pronuncia del Giudice di appello ha diversamente definito una questione di natura cognitoria, ovvero ha diversamente connotato l’esatto significato e la portata della sentenza da eseguire, modificando quindi l’assetto degli interessi definiti in primo grado.
[4] Il che si verifica, come sarà meglio precisato oltre, quando il percorso decisionale attraverso cui il giudice di appello è pervenuto alla conferma del contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale di primo grado, sulla base di un di percorso argomentativo che si discosta significativamente da quello seguito dal giudice di primo grado. Si veda sul punto Cons. di Stato, sez. IV, 24 novembre 2017, n. 5489, citata nella sentenza in commento.
[5] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738.
[6] Per un approfondimento in ordine alla figura del commissario ad acta, V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., Milano, 2002, Agg. VI, pp. 284 ss.; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001, pp. 1 e ss.; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell'ottemperanza, in I Tar, Roma, 2001, Fasc. 1, II, pp. 1 e ss.
[7] V. Cass., SS.UU., 28 febbraio 2017, n. 5058, punto 2.5 del “diritto”, in cui si afferma che il giudice amministrativo in sede di ottemperanza è il “giudicenaturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”; nello stesso senso, Cass., SS.UU., 6 novembre 2017, n. 26259, ma, ancor prima, Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, punto 2 del “diritto”. Sul punto si veda l’approfondimento di F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, in particolare pp. 208 e ss.
[8] Art. 25, co. 1, Cost.
[9] Il problema era emerso già in vigenza della l. n. 1034 del 1971 in assenza, ivi, di regole procedurali sul giudizio di ottemperanza. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 23 del 14 luglio 1978 (su ordinanza di remissione del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana), aveva affermato il principio della inappellabilità dei “provvedimenti” emessi dal T.A.R. nell’ipotesi di cui all’art. 37, co. 1, l. n. 1034, desunto, oltre che dalla coordinata lettura delle regole procedimentali di cui all’art. 90 del regolamento di procedura approvato con r.d. 17 agosto 1907 n. 642, dalle finalità proprie della misura e dal criterio di ripartizione funzionale della giurisdizione fra T.A.R. e Consiglio di Stato, che vedeva, appunto quest’ultimo giudice operare come giudice unico nei giudizi attribuiti alla sua competenza in base ai commi 3 e 4 del medesimo art. 37. Tale rigida impostazione incontrò critiche della dottrina (per tutti, F.G. Scoca, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, pp. 4 e ss. e, più recentemente, C. E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1264) e ripensamenti giurisprudenziali. Il medesimo Cons. di Stato, Ad. Plen. n. 2 del 1980, ebbe a precisare che le sentenze dei T.A.R. emesse ai sensi dell’art. 37 l. 6 dicembre 1971 n. 1034 non sono appellabili là dove contengono mere misure attuative del preesistente giudicato, sempre che queste ultime non si sostanzino in statuizioni aberranti o comunque estranee all’ambito ed alla funzione propria del giudizio di ottemperanza; mentre l’appello contro le dette sentenze è consentito là dove il T.A.R. abbia pronunciato – ovvero abbia illegittimamente omesso di pronunciarsi – sulla regolarità del giudizio di ottemperanza, sulla ammissibilità dell’azione esperita, nonché sulla fondatezza della pretesa azionata: dunque, l’appello proposto avverso la sentenza di ottemperanza del T.A.R. era ammissibile, ma solo quando questa non si limitava a disporre mere misure applicative, ma risolva questioni giuridiche in rito e in merito, pronunciandosi sulla regolarità del rito instaurato, sulle condizioni oggettive e soggettive dell’azione e sulla fondatezza della pretesa azionata. A sua volta le S.U. della Suprema Corte di Cassazione, con sent. 24 novembre 1986, n. 6895 – ribadito l’orientamento espresso nelle sent. nn. 175 del 1984 e 648 del 1982 – ha alfine sciolto ogni dubbio, con articolata motivazione che ha valorizzato, innanzitutto, la natura pienamente giurisdizionale delle sentenze emesse in sede di giudizio di ottemperanza e l’applicazione alle medesime della ordinaria appellabilità contemplata per le sentenze T.A.R., indipendentemente dalla circostanza che l’art. 37 della l. T.A.R. demandasse il giudizio di ottemperanza ai T.A.R. solo per talune specifiche ipotesi, affidando le altre ipotesi direttamente al Consiglio di Stato, in unico grado.
[10] È il caso di ricordare, al riguardo, che la Corte Costituzionale, con sentenza 31 dicembre 1986 n. 301, ha affermato che “le garanzie del doppio grado di giurisdizione assurgono ad oggetto di norma costituzionale soltanto nell'area dell'art. 125 Cost. riflettente l’appello al Consiglio di Stato avverso le sentenze dei tribunali amministrativi di primo grado”.
[11] V. nota che precede.
[12] Ci si riferisce ai principi euro-unitari e a quelli CEDU e alla loro vincolatività nell’ordinamento interno. Sul tema, ex multis, Corte di Giustizia UE, sez. V, 6 ottobre 2015, e Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 17 novembre 2015, n. 35532, sulle quali pone anche l’accento C. Deodato, I possibili rimedi avverso la sentenza di ottemperanza contrastante con il giudicato, in giustizia-amministrativa.it, 2017, note 8 e 9. Ma è di chiovendiana provenienza il principio della effettività della tutela giurisdizionale, dovuto proprio ai lungimiranti insegnamenti di cui siamo debitori all’illustre Maestro della processualistica italiana, che l’elaborò, ben prima che divenisse “valore” di portata costituzionale. Sul punto, G. Chiovenda, Della azione nascente dal contratto preliminare, in Saggi di diritto processuale civile, Milano, 1930, Vol. I, pp.101 ss.; Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1923, ora Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 81, dove si legge che “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch'egli ha diritto di conseguire”.
[13] Il pensiero sembra condiviso da C. Deodato, (op. cit. nella nota che precede, pp. 7 e ss.), nell’individuare “i possibili rimedi” avverso le sentenze pronunciate dal Consiglio di Stato, in unico grado, implicante anche il convincimento della sostanziale equivalenza di tali rimedi. Per la precisone, pur non nascondendo l’esistenza di criticità, l’Autore individua come utilizzabili nella fattispecie considerata il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione e la revocazione per contrasto con un precedente giudicato, fornendone poi illustrazione sufficientemente convincente.
[14] Soltanto incidentalmente, si ricordano in questa sede gli interessanti contributi, in tema di spese del giudizio, di M. A. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto di difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, (commento alla normativa) e A. Russo, Spese compensabili solo dopo la specifica descrizione di un contrasto giurisprudenziale in materia, nota a Cass. civ., sez. VI, ord. 26 maggio 2016, n. 10917, in Fisco, 2016, n. 26, p. 2574; nonché, Corte Cost. sent. n. 77 del 2018.
[15] G. Barbagallo, Stile e motivazione delle decisioni del Consiglio di Stato, in I Consigli di Stato di Francia e d’Italia, Milano, 1998, p. 233 fa un dettagliato excursus su stile e funzioni delle decisioni del Consiglio di Stato italiano, indicando (come connotazione tipica delle argomentazioni contenute nella “sentenza amministrativa” la funzione “di conformare il futuro comportamento della Pubblica Amministrazione”, con evidente riferimento alle decisioni di accoglimento dei ricorsi giurisdizionali volti all’annullamento del provvedimento lesivo.
[16] C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, F. G. Scoca (a cura di), VII, Torino, 2017, p. 611.
[17] Vd. nota che precede.
[18] Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2020, n. 1738. La sentenza precisa che “il giudicato di annullamento di atti amministrativi produce,normalmente, effetti, oltre che di accertamento, di eliminazione, di ripristinazione e conformativi. In particolare, il vincolo conformativo assume una valenza differente a seconda che oggetto di sindacato sia un’attività amministrativa vincolata o discrezionale: i) nel primo caso esso è pieno nel senso che viene delineata in modo completo la modalità successiva di svolgimento dell’azione amministrativa; ii) nel secondo caso esso ha valenza meno pregnante, in quanto non può estendersi, per assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, a valutazioni riservate alla pubblica amministrazione. Per quanto il giudizio amministrativo verta sul rapporto giuridico al fine di accertare la spettanza delle utilità finali oggetto dell’interesse legittimo, quando l’attività amministrativa è discrezionale, il vincolo giudiziale non può incidere su spazi di decisione, afferenti all’opportunità, attribuiti alla pubblica amministrazione”.
[19] Per una visione panoramica dei processi evolutivi, C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2018, in particolare pp. 287 e ss.; F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3, 2018, pp. 171 e ss.; Id., Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007, pp. 52 e ss.; A. Travi, Il giudizio di ottemperanza ed il termine per l’esecuzione del giudicato, in Giorn. dir. amm., 1995, pp. 976 e ss.; L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, pp. 226 e ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., 1989, pp. 369 e ss.
[20] Vd., al riguardo, art. 34, c.p.a.
[21] A. Police, L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. Amm., 2003, p. 757, con particolare riferimento alla nota n. 63.
[22] Al riguardo, su tutti, si veda M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, pp. 280 e ss.
Una singolare corrente di pensiero, sostenuta dalla Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana (pareristica a cura dell'Avvocatura generale dello Stato), ha propugnato la necessità di codificare una sorta di c.d. “schema conformativo” delle pronunce giurisdizionali di merito, corrispondente a quello inaugurato dal T.A.R. Piemonte, nel periodo 2010/2011 (si vedano le sentt. T.A.R. Piemonte, Sez. I, nn. 1488/2010, 385/2011,785/2011). Eloquente, al riguardo, E. Michetti, Una nuova prospettiva per la giustizia amministrativa – Lo schema conformativo, Montecompatri, 2012, nel cui ambito in particolare si segnalano, F. Bianchi, Prefazione, pp. 2 e ss.; del medesimo Autore, E. Michetti, Prefazione, pp. 6 e sss, nonché, nel volume, Conclusioni – Sperimentazione schema conformativo: obiettivi e finalità per una giustizia “misura”, pp. 151 e ss.
[23] Cons. Stato, Sez. V, 11marzo 2020, n. 1738, cit.
[24] In questo senso, si vedano Cons. di Stato, Sez. IV, 24 novembre 2017 e Sez. IV, 1° febbraio 2017, n. 409 e 2 luglio 2014, n. 3331.
[25] Oltre le sentenze citate nella nota che precede, e la stessa sentenza Cons. di Stato, Sez. VI, n. 5485 del 2020 che ha ispirato il presente contributo, v. anche Cons. di Stato, Sez. IV, 24 gennaio 2020, n. 612 e A.P., 6 maggio 2013, n. 9.
[26] Vanno infatti ad intersecarsi, con la questione in esame, problematiche di più ampio respiro, quali derivanti dalla natura mista del giudizio di ottemperanza, di cognizione ed esecuzione, che dà luogo a un giudicato a formazione progressiva. Il giudizio di ottemperanza si caratterizza in modo diverso a seconda della tipologia di provvedimento di cui si chiede l’attuazione e del peculiare contenuto dello stesso. Ad esempio, ove il contenuto conformativo investa il comportamento che l’amministrazione dovrà tenere in seguito ad una sentenza emessa sul silenzio serbato dall’amministrazione in relazione a un’istanza sulla quale il giudice amministrativo ha riconosciuta la sussistenza dell’obbligo di provvedere, lo iussus conformativo deve essere relazionato al tipo di azione e di tutela che l’ordinamento ha consentito di apprestare con tale azione con necessario adattamento degli insegnamenti dottrinali in ordine alla funzione tipica del giudizio di ottemperanza, come. d es., fra gli altri, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, pp. 1025 e ss.
Il presente contributo offre una prima riflessione sistematica sulla Legge 135/2025 in materia di intelligenza artificiale, con particolare riguardo all’art. 15 e all’uso dei sistemi di IA nell’attività giudiziaria. Muovendo dall’analisi del bilanciamento tra autonomia del magistrato e potere autorizzatorio ministeriale, il lavoro indaga la coerenza costituzionale e il rapporto con il quadro eurounitario delineato dal Regolamento (UE) 2024/1689 (AI Act). La trattazione si estende alle prospettive di armonizzazione internazionale, considerando la Raccomandazione UNESCO 2021 e le più recenti indagini empiriche sul ruolo dell’IA nella giustizia. Emergono riflessioni sul valore probatorio dei documenti redatti con strumenti di IA, sull’onere argomentativo del giudice e sulla progressiva trasformazione del potere ministeriale da autorizzatorio a gestionale, in un contesto di crescente autonomia e responsabilità giurisdizionale.
Sommario: 1.Premessa metodologica: la sfida costituzionale dell'intelligenza artificiale nella giustizia - 2. Il quadro normativo stratificato: dal Regolamento Europeo (cd AI ACT) alla disciplina nazionale - 3 La Legge 132/2025: luci, ombre e questioni irrisolte - 4. L'ambito applicativo: riserva giurisdizionale e attività compatibili nelle raccomandazioni del CSM 5. Rischi, cautele e protocolli operativi per un uso responsabile - 6. Validità probatoria e conseguenze dell'uso improprio -- Il sistema di certificazione europeo e la governance partecipata - 7. Conclusioni: la machina sapiens giurisdizionale nei binari del CSM come imperativo costituzionale.
1. Premessa metodologica: la sfida costituzionale dell'intelligenza artificiale nella giustizia
L'introduzione dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia segna un passaggio storico che trascende le dimensioni meramente tecniche o organizzative per investire i principi fondamentali dello Stato di diritto: l'indipendenza e l'autonomia della magistratura, il principio di legalità, il diritto di difesa, il giusto processo, la tutela dei dati personali. L'espressione metaforica contenuta nel titolo – "l'algoritmo giurisdizionale nei binari del CSM" – evoca l'immagine di una tecnologia potente e pervasiva che deve essere incanalata entro argini costituzionalmente definiti, sotto la vigilanza dell'organo che la Costituzione ha preposto alla tutela dell'autonomia della magistratura. I "binari" rappresentano il tracciato costituzionale entro cui l'innovazione tecnologica deve necessariamente scorrere, mentre il Consiglio Superiore della Magistratura si configura come garante che tale percorso non devii verso approdi incompatibili con i principi fondamentali di autonomia, indipendenza e umanità del giudizio. In sintesi, l'algoritmo, per quanto sofisticato, non può essere lasciato libero di autodeterminarsi secondo logiche proprie, ma deve essere governato, indirizzato, controllato dall'intelligenza umana e dalla sapienza giuridica che si è sedimentata nel corso dei secoli nella tradizione del processo come esperienza relazionale e non già come mero automatismo decisionale. La Legge 25 settembre 2025, n. 132, recante "Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale", costituisce il primo intervento legislativo nazionale in materia, segnando una tappa fondamentale nel processo di regolamentazione dell'impiego dei sistemi algoritmici in ambito giudiziario. L'articolo 15, dedicato specificamente all'attività giudiziaria, introduce un regime caratterizzato da duplice valenza: da un lato, stabilisce un principio di riserva decisionale in capo al magistrato di ogni decisione sull'interpretazione e applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull'adozione dei provvedimenti; dall'altro, istituisce un meccanismo di autorizzazione preventiva rimesso alla competenza del Ministero della Giustizia per i sistemi impiegati negli uffici giudiziari. Tale previsione normativa dischiude una pluralità di interrogativi dirimenti che investono profili di legittimità costituzionale, compatibilità con il diritto euro-unitario e operatività concreta. Si pone, in particolare, il problema della compatibilità di un potere autorizzatorio dell'esecutivo con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura consacrati negli artt. 101, comma 2, 104 e ss. della Costituzione, specialmente laddove il magistrato faccia ricorso a strumenti tecnologici non previamente inclusi nel novero di quelli autorizzati. La delibera del Consiglio Superiore della Magistratura dell'8 ottobre 2025, contenente raccomandazioni sull'uso dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia, fornisce orientamenti operativi immediati che colmano il vuoto normativo della fase transitoria, rivendicando con fermezza il ruolo dell'organo di autogoverno quale garante imprescindibile dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura anche – e forse soprattutto – nell'era dell'automazione decisionale. L'approccio metodologico che informa il presente contributo mira a evidenziare come la disciplina dell'intelligenza artificiale in ambito giudiziario richieda una sintesi equilibrata tra rigore costituzionale e pragmatismo operativo, tra fedeltà ai principi fondamentali e capacità di cogliere le opportunità offerte dall'innovazione tecnologica, tra tutela delle garanzie e perseguimento dell'efficienza.
2. Il quadro normativo stratificato: dal Regolamento Europeo (cd AI ACT ) alla disciplina nazionale
Il sistema normativo che regola l'impiego dell'intelligenza artificiale nell'amministrazione della giustizia si presenta come edificio complesso, caratterizzato da stratificazione di fonti eterogenee per rango, efficacia e ambito applicativo. Al vertice si colloca il Regolamento (UE) 2024/1689 del 13 giugno 2024, comunemente denominato AI Act, il quale in virtù del suo carattere direttamente applicabile ex art. 288 TFUE costituisce il parametro normativo primario cui l'ordinamento interno deve conformarsi. Il Regolamento adotta un approccio basato sulla stratificazione del rischio (risk-based approach) che classifica i sistemi destinati all'uso in ambito giudiziario tra quelli ad alto rischio, sottoponendoli conseguentemente a un regime particolarmente stringente. L'allegato III contempla tra i sistemi ad alto rischio quelli "destinati a essere usati da un'autorità giudiziaria o per suo conto per assistere un'autorità giudiziaria nella ricerca e nell'interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti". Il considerando 61 del medesimo Regolamento precisa, tuttavia, che l'utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale può fornire sostegno al potere decisionale dei giudici o all'indipendenza del potere giudiziario, ma non dovrebbe sostituirlo, giacché il processo decisionale finale deve rimanere un'attività a guida umana. La delibera consiliare illumina un aspetto cruciale spesso trascurato nell'analisi dottrinale: l'applicazione temporale scaglionata del Regolamento. Mentre i divieti assoluti e gli obblighi di alfabetizzazione trovano immediata operatività dal 2 febbraio 2025, le disposizioni concernenti i sistemi ad alto rischio – cuore pulsante della disciplina giudiziaria – dispiegheranno effetti soltanto dal 2 agosto 2026. Tale differimento non rappresenta un accidente legislativo, bensì la consapevole scelta di consentire la predisposizione di infrastrutture tecniche, competenze specialistiche e procedure di certificazione di straordinaria complessità. Emerge così una prima, fondamentale acquisizione: esiste una fase transitoria – quella che stiamo attualmente attraversando – nella quale la disciplina si presenta frammentaria, caratterizzata da una coesistenza non sempre armonica tra norme nazionali ancora incomplete e prescrizioni europee non ancora pienamente operative. È precisamente in questo interstizio normativo che le raccomandazioni del Consiglio Superiore della Magistratura assumono una valenza determinante, colmando il vuoto regolamentare e fornendo quella necessaria prevedibilità che costituisce presupposto ineludibile per un utilizzo consapevole delle tecnologie emergenti.
3.La Legge 132/2025: luci, ombre e questioni irrisolte
La Legge 132/2025 si inserisce in questo contesto quale primo tentativo dell'ordinamento nazionale di dare attuazione alle prescrizioni euro-unitarie. L'articolo 15 delinea una apparentemente lineare bipartizione funzionale: il comma 1 sancisce inequivocabilmente la riserva al giudice di ogni decisione sull'interpretazione e applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull'adozione dei provvedimenti, indipendentemente dal locus in cui l'attività si svolge; il comma 2 prevede che il Ministero della giustizia disciplini gli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale per l'organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie; il comma 3 attribuisce al Ministero il potere di autorizzare la sperimentazione e l'impiego dei sistemi negli uffici giudiziari ordinari, previa consultazione delle autorità nazionali di cui all'articolo 20 (AGID e ACN).
Tale architettura normativa lascia emergere tre nodi problematici di primaria rilevanza costituzionale. Il primo concerne la compatibilità di un potere autorizzatorio rimesso all'Esecutivo con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura, specialmente ove si consideri l'assenza di coinvolgimento sostanziale del Consiglio Superiore della Magistratura e la designazione di AGID e ACN – agenzie governative non indipendenti, sottoposte a un marcato controllo e indirizzo politico – quali interlocutori unici del Ministero nella regolamentazione e governance delle applicazioni dell'intelligenza artificiale negli uffici giudiziari. Il secondo nodo attiene all'incertezza interpretativa circa la perimetrazione concreta delle categorie funzionali individuate dal comma 2. La distinzione tra "organizzazione dei servizi relativi alla giustizia", "semplificazione del lavoro giudiziario" e "attività amministrative accessorie" si rivela, all'atto pratico, assai più sfumata di quanto la formulazione letterale lasci intendere. Il Regolamento europeo, al considerando 61, esclude dalla classificazione dei sistemi ad alto rischio soltanto quelli "destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull'effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi". L'avverbio "puramente" e la negazione "non incidono" assumono valenza ermeneutica dirimente, imponendo una valutazione rigorosa dell'effettiva incidenza dell'attività automatizzata sull'amministrazione della giustizia. Attività quali la distribuzione automatizzata degli affari tra i magistrati dell'ufficio o la definizione algoritmica delle priorità nella trattazione dei procedimenti si collocano evidentemente in una zona grigia: formalmente riferibili all'organizzazione del lavoro, esse presuppongono necessariamente operazioni di qualificazione giuridica che difficilmente possono considerarsi "puramente" accessorie. Il terzo nodo concerne l'indeterminatezza della fonte normativa chiamata a disciplinare gli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale, giacché il comma 2 si limita a stabilire che "il Ministero della giustizia disciplina" senza specificare lo strumento normativo da adottare. In questo contesto di incompletezza normativa e incertezza applicativa si collocano le raccomandazioni del Consiglio Superiore della Magistratura dell'8 ottobre 2025, che si configurano come soft law dotato di efficacia ordinante in ragione dell'autorevolezza dell'organo emanante e della persuasività intrinseca dei principi enunciati. Le raccomandazioni operano su tre piani complementari: sul piano prescrittivo, individuano con precisione i sistemi utilizzabili nella fase transitoria, le attività compatibili con l'ordinamento vigente, le cautele obbligatorie da osservare e i rischi da governare; sul piano formativo, assegnano alla Struttura Tecnica per l'Organizzazione e alla rete dei Referenti Informatici Distrettuali il compito di predisporre e diffondere buone prassi, protocolli operativi e percorsi di alfabetizzazione tecnologica; sul piano strategico-istituzionale, rivendicano con forza il ruolo comprimario del Consiglio nella governance dell'intelligenza artificiale applicata alla giustizia, proponendo tavoli tecnici congiunti, sandbox regolatorie, sistemi di audit periodico e interlocuzioni con l'avvocatura.
4. L'ambito applicativo: riserva giurisdizionale e attività compatibili nelle raccomandazioni del CSM
La tripartizione funzionale delineata dall'art. 15, comma 2, della Legge 132/2025 si rivela assai più problematica di quanto la formulazione letterale lasci intendere quando si tratti di verificarne l'operatività in relazione a fattispecie concrete. Il Regolamento europeo, al considerando 61, esclude dalla classificazione dei sistemi ad alto rischio soltanto quelli "destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull'effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi", menzionando a titolo esemplificativo l'anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, la comunicazione tra il personale e i compiti amministrativi. L'avverbio "puramente" e l'inciso "che non incidono" assumono valenza ermeneutica tutt'altro che trascurabile, imponendo una valutazione qualitativa rigorosa circa l'effettiva incidenza sull'amministrazione della giustizia.
Le raccomandazioni del Consiglio Superiore della Magistratura risolvono pragmaticamente tale incertezza interpretativa mediante un elenco operativo, dichiaratamente non esaustivo, di impieghi dell'intelligenza artificiale che, allo stato attuale della normativa e in attesa della piena operatività del Regolamento europeo, possono considerarsi compatibili con i principi costituzionali e con le prescrizioni eurounitarie, a condizione che vengano implementati in modalità tracciata, sicura, con costante revisione umana e nell'ambito degli applicativi forniti all'interno del dominio giustizia.
Tale elenco riflette una logica di fondo ben definita: l'intelligenza artificiale può legittimamente assistere il magistrato in tutte quelle attività che, pur essendo strumentali o accessorie rispetto alla funzione giurisdizionale in senso stretto, comportano un impegno significativo di tempo e di risorse cognitive, a condizione che il contributo algoritmico non si sostituisca mai alla valutazione umana ma si limiti a facilitarla.
Gli ambiti compatibili individuati includono: ricerche dottrinali intese come assistenza nella consultazione di banche dati e nella costruzione di stringhe di ricerca; sintesi di provvedimenti ostensibili e contributi dottrinali per la creazione di abstract destinati alla classificazione tematica; attività organizzativo-gestionali quali report statistici, analisi di conformità tra programmi di gestione e dati di registro, comparazione automatizzata di documenti, redazione di bozze di relazioni su incarichi direttivi, gestione dei calendari d'udienza; supporto agli uffici per i cosiddetti "affari semplici" mediante redazione di bozze standardizzate da adattare al caso specifico; supporto ad attività giurisdizionali gestionali attraverso il controllo della documentazione prodotta in atti ove opportunamente anonimizzata; attività di natura tecnico-amministrativa quali generazione automatica di presentazioni, produzione di tabelle e grafici, revisione linguistica e stilistica, catalogazione e archiviazione per materia dei quesiti ai consulenti tecnici, predisposizione di calendari d'udienza, traduzione assistita. Tra le molteplici attività suscettibili di essere assistite da strumenti di intelligenza artificiale, quella concernente le ricerche su banche dati giurisprudenziali merita una riflessione autonoma e approfondita, collocandosi su un crinale sottile tra l'ammissibilità e la problematicità.
L'utilizzo dell'intelligenza artificiale per tale finalità presenta una natura bifronte: da un lato, può validamente assistere il magistrato nella consultazione delle banche dati, nella costruzione di stringhe di ricerca complesse e nella classificazione tematica del materiale reperito, configurandosi come supporto tecnico-organizzativo riconducibile ai "compiti procedurali limitati" di cui all'art. 6, par. 3, lett. a) del Regolamento (UE) 2024/1689; dall'altro lato, laddove i sistemi siano progettati per selezionare automaticamente la giurisprudenza "più rilevante", per suggerire orientamenti interpretativi prevalenti o per generare schemi motivazionali basati su pattern ricorrenti, si configura un impiego che incide potenzialmente sull'attività valutativa e sull'indirizzo giuridico.
Si impone conseguentemente vigilanza stringente su tre piani: la natura e l'architettura dei sistemi utilizzati; la trasparenza degli algoritmi di selezione e classificazione; il ruolo attivo e critico del magistrato nel vaglio dei risultati.
L'output prodotto deve essere oggetto di valutazione e verifica autonoma da parte del magistrato: l'automazione della ricerca non può sostituire quella sensibilità giuridica che è necessaria alla contestualizzazione del precedente. È necessario che le banche dati giurisprudenziali messe a disposizione del magistrato garantiscano una base dati completa, non discriminatoria e aggiornata, e prevedano forme di controllo e supervisione da parte della magistratura nella fase della selezione, classificazione e aggiornamento delle sentenze.
Durante la fase transitoria possono essere utilizzati: tutti i sistemi autorizzati dal Ministero della Giustizia ai sensi dell'art. 15, comma 3; gli strumenti forniti all'interno del dominio giustizia, quale ad esempio la funzionalità Copilot messa a disposizione dal pacchetto Office ministeriale; progetti sperimentali condotti in ambiente protetto e sotto la supervisione congiunta del Ministero e del Consiglio, purché con preventiva anonimizzazione e tracciabilità dei dati.
Rimane categoricamente escluso l'utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale generalisti, non autorizzati, per l'attività giudiziaria in senso stretto, giacché tali sistemi non garantiscono i requisiti previsti dal Regolamento europeo per i sistemi ad alto rischio.
5. Rischi, cautele e protocolli operativi per un uso responsabile
L'impiego di sistemi di intelligenza artificiale è connesso a rischi significativi, distinguibili in rischi tecnici attinenti al funzionamento intrinseco dei sistemi e rischi sistemici concernenti le ricadute più ampie dell'automazione decisionale sulla tenuta dei principi costituzionali e processuali.
I rischi tecnici includono: la trasmissione automatica e predefinita di dati a fornitori terzi e la loro registrazione su server di aziende estere anche extra-UE, con conseguente esposizione al rischio di violazione della riservatezza e di profilazione non autorizzata; il riutilizzo dei dati per finalità non previste, con particolare riguardo alla possibilità che essi concorrano all'addestramento di modelli successivi, finendo per incorporarsi stabilmente nel patrimonio informativo dell'operatore commerciale e determinando erosione progressiva della sovranità pubblica sui dati giudiziari; la fallibilità degli output generati, che possono contenere errori e distorsioni quali le cosiddette "allucinazioni" consistenti nella generazione di contenuti non basati sulla realtà oggettiva, e le "compiacenze" consistenti nella generazione di contenuti orientati ad assecondare le aspettative percepite dell'utente; errori derivanti da dati di addestramento insufficienti o viziati, dalle modalità di funzionamento degli algoritmi che essendo basati sulla statistica tendono talvolta anche a "inventare" risposte solo probabili, da correlazioni spurie. I rischi sistemici concernono: i bias algoritmici, vale a dire distorsioni sistematiche che i sistemi ereditano dai dati di addestramento e dalle scelte progettuali, giacché l'intelligenza artificiale non è mai neutrale ma incorpora tutte le imprecisioni contenute nel database e gli eventuali pregiudizi di chi ha progettato il sistema; le discriminazioni strutturali, giacché qualora i dati di addestramento riflettano squilibri o stereotipi presenti nella realtà sociale il sistema finirà per replicare e amplificare tali distorsioni, producendo output affetti da discriminazione in contrasto con il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall'art. 3 della Costituzione; l'opacità dei processi decisionali, giacché molti sistemi operano come "scatole nere" rendendo estremamente arduo individuare l'origine di eventuali distorsioni; l'automation bias, vale a dire quella pericolosa tendenza cognitiva a fare eccessivo affidamento sull'output automatizzato attribuendogli un'autorevolezza superiore a quella realmente posseduta.
La traduzione della consapevolezza dei rischi in cautele operative concrete si articola in cinque pilastri fondamentali. Il primo pilastro è costituito dal principio della sovranità dei dati e delle informazioni, in forza del quale i dati e le informazioni generate non devono mai essere accessibili a terzi non autorizzati, con conseguente necessità di orientarsi verso l'utilizzo di modelli residenti su server sotto il controllo del Ministero della Giustizia ovvero di modelli open source eseguibili localmente su hardware in dotazione ai magistrati. Il secondo pilastro è costituito dal divieto assoluto, non ammettente deroghe né temperamenti, di immettere nei sistemi dati sensibili, riservati o soggetti a segreto investigativo, anche in forma indiretta, stante l'impossibilità di garantire con certezza che tali informazioni non vengano utilizzate per finalità diverse o che non si verifichino fughe informative, con particolare attenzione al rischio di re-identificazione giacché anche dati anonimizzati possono essere re-identificati mediante l'incrocio di dataset apparentemente innocui. Il terzo pilastro è costituito dall'attenzione alla qualità dei dati immessi nei sistemi, al fine di evitare output affetti da bias o da discriminazioni nei confronti di persone in ragione di razza, religione, sesso, origine nazionale, età, disabilità, stato civile, affiliazione politica o orientamento sessuale. Il quarto pilastro, di assoluta centralità, è costituito dall'obbligo di supervisione umana su ogni utilizzo dell'intelligenza artificiale, supervisione che deve esplicarsi sulla pluralità di piani costituiti dalla verifica del rispetto delle normative, dal controllo dell'accuratezza, completezza e pertinenza dell'output, e soprattutto dalla necessità di verificare costantemente la possibilità di replicare autonomamente le conclusioni fornite dall'intelligenza artificiale. Il quinto pilastro è costituito dal principio della responsabilità individuale del magistrato, il quale è tenuto all'utilizzo consapevole e conforme degli strumenti di intelligenza artificiale, all'acquisizione di una formazione adeguata e al suo costante aggiornamento.
Gli utenti devono essere consapevoli che l'output prodotto dai sistemi di IA generativa non è costante poiché il loro funzionamento non segue logiche deterministiche ma probabilistiche; che le risposte fornite possono variare in funzione della formulazione del quesito; che non è garantito un livello uniforme di qualità, coerenza o affidabilità; che è sempre necessaria una verifica umana sull'accuratezza, la completezza e la pertinenza delle risposte con riferimento a fonti attendibili e normative aggiornate, al fine di evitare che contenuti generati automaticamente assumano valore probatorio o decisionale senza adeguato controllo.
6.Validità probatoria e conseguenze dell'uso improprio
Anche a voler configurare l'uso di un sistema non autorizzato come un'irregolarità procedimentale, ciò non determinerebbe di per sé l'invalidità dell'atto. Il Regolamento (UE) n. 910/2014 (eIDAS[1]), all'articolo 46, stabilisce infatti che a un documento elettronico non possono essere negati effetti giuridici o ammissibilità probatoria per il solo fatto della sua forma[2]. Una sentenza redatta con l'ausilio di un sistema di IA, sebbene non previamente autorizzato, non può dunque essere respinta ab origine. Essa rientra a pieno titolo nella categoria del documento elettronico e deve essere valutata secondo i criteri ordinari. Nell'ordinamento interno, il Codice dell'Amministrazione Digitale (D.Lgs. 82/2005), all'articolo 20, comma 1-bis, prevede che l'idoneità del documento informatico e il suo valore probatorio siano oggetto di libera valutazione da parte del giudice, alla luce delle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità. È stato peraltro osservato, nel dibattito di categoria, che sul giudice gravi un preciso onere argomentativo, volto a dimostrare se e come l'impiego di uno specifico strumento abbia effettivamente compromesso tali caratteristiche[3]. Tale onere può apparire gravoso, ma costituisce il necessario presidio a tutela della trasparenza e del contraddittorio.
In questa prospettiva, la mancata autorizzazione ministeriale non produce automaticamente invalidità, ma alimenta semmai una presunzione relativa di inaffidabilità. È stato rilevato che tale presunzione non è assoluta: essa può essere superata dal giudice attraverso un apprezzamento autonomo, anche con il supporto di ausiliari tecnici, che consenta di verificare il grado di trust attribuibile allo strumento utilizzato. È stato altresì notato come, in taluni casi, anche sistemi non formalmente autorizzati possano offrire de facto garanzie tecniche e contrattuali sufficienti a soddisfare i requisiti di legge, sicché nulla impedisce al giudice di attribuire pieno valore probatorio all'atto, ove tale verifica risulti positiva.
Una questione di peculiare rilevanza sistematica concerne le conseguenze giuridiche derivanti dall'impiego di sistemi di IA non autorizzati ai sensi del comma 3. Il disegno di legge non prevede esplicitamente sanzioni a carico del magistrato che utilizzi impropriamente un sistema di intelligenza artificiale nell'adozione di un provvedimento, rimettendo evidentemente alle ordinarie misure disciplinari previste dal d.lgs. n. 109/2006.
Sul piano disciplinare, potrebbe configurarsi l'inosservanza dell'art. 2, comma 1, lett. n), d.lgs. n. 109/2006, che sanziona «la reiterata o grave inosservanza delle norme regolamentari, delle direttive o delle disposizioni sul servizio giudiziario o sui servizi organizzativi e informatici adottate dagli organi competenti». Potrebbero altresì prospettarsi le violazioni di cui alle lett. a) (comportamenti che, violando i doveri di cui all'art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti), g) (grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile) e o) («indebito affidamento ad altri di attività rientranti nei propri compiti», ove nella categoria degli "altri" possa ricomprendersi l'algoritmo o, comunque, colui che lo ha ideato o addestrato).
Sul piano processuale, la questione si presenta più complessa e articolata. Nel dibattito professionale è emersa l'opinione secondo cui l'atto, pur sottoscritto dal magistrato, ma adottato in violazione del comma 1 dell'art. 15 -- con conseguente abnormità dell'atto stesso per essere stato lo stesso adottato senza alcun contributo umano, ad eccezione della sottoscrizione -- potrebbe, in ambito civile, non essere considerato esistente, per difetto genetico di un requisito essenziale.
Come rilevato dalla Sesta Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, «ove il fatto fosse ritenuto di rilevante gravità per lesione dei più rilevanti principi in materia processuale, potrebbe ravvisarsi l'utilità di un intervento del legislatore delegato sul punto, mediante la esplicita previsione che, in presenza di tale specifica violazione, l'atto sia da considerare inesistente». Analogamente, in ambito penalistico, potrebbe rendersi assoluta, ex art. 179, comma 2, c.p.p., la nullità di un provvedimento adottato in seguito all'impiego di un sistema di IA in violazione dell'art. 15, comma 1, con conseguente regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo (art. 185, comma 3, c.p.p.).
Deve tuttavia rilevarsi che, in difetto di un criterio orientatore in tal senso contenuto nel disegno di legge, potrebbe essere precluso, in sede di esercizio della delega di cui all'art. 24, intervenire sanzionando la violazione sul piano processuale. Sul punto, come rilevato nel parere CSM, potrebbe sostenersi che nell'ambito dell'ipotesi di "impiego illecito" contemplata dall'art. 24, comma 3, lett. a) e f), non potrebbe essere ricompresa l'attività, in senso lato, decisoria del magistrato in violazione dell'art. 15, comma 1, da considerare, invece, illegittima piuttosto che illecita.
Peraltro, anche tale assunto è controvertibile, poiché tra i principi e criteri direttivi della delega di cui all'art. 24, comma 3, vi è quello concernente la «regolazione dell'utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale nelle indagini preliminari, nel rispetto delle garanzie inerenti al diritto di difesa e ai dati personali dei terzi, nonché dei principi di proporzionalità, non discriminazione e trasparenza» (lett. f). Dal che potrebbe desumersi che l'utilizzo del sistema di IA nelle indagini preliminari in violazione, ad esempio, delle garanzie inerenti al diritto di difesa, possa integrare proprio un impiego "illecito" del sistema. Sicché, quanto meno in ambito penalistico, potrebbe esservi spazio -- anche ritenendo che vi sia necessità di apposita delega -- per interventi sul fronte processuale.
7. Il sistema di certificazione europeo e la governance partecipata
Il Regolamento (UE) 2024/1689 affida un ruolo centrale alle norme tecniche armonizzate, intese come specifiche tecniche elaborate dagli organismi europei di normazione – il Comitato Europeo di Normazione (CEN) e il Comitato Europeo di Normazione Elettrotecnica (CENELEC) – su mandato della Commissione europea conferito nel maggio 2023, con termine fissato alla fine di aprile 2025 per l'elaborazione e la pubblicazione delle norme che saranno successivamente valutate e, ove approvate, pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea conferendo ai sistemi sviluppati in conformità ad esse una presunzione iuris tantum di conformità ai requisiti del Regolamento. Si delinea un modello di regolazione ibrido nel quale la fonte normativa primaria definisce i requisiti sostanziali in termini generali e principiali, mentre la normazione tecnica traduce tali requisiti in specifiche tecniche puntuali e verificabili. I requisiti obbligatori per i sistemi ad alto rischio, disciplinati dagli articoli da 8 a 15 del Regolamento, assumono particolare rilevanza per l'amministrazione della giustizia: sistema di gestione dei rischi inteso come processo iterativo continuo pianificato ed eseguito nel corso dell'intero ciclo di vita; qualità dei dati di addestramento, convalida e prova, che devono essere pertinenti, sufficientemente rappresentativi e nella misura del possibile esenti da errori e completi; documentazione tecnica che dimostri la conformità e fornisca alle autorità le informazioni necessarie; tracciabilità intesa a garantire che sia possibile ricostruire le modalità operative; trasparenza e fornitura di informazioni, stabilendo che i sistemi devono essere progettati in modo tale da garantire che il loro funzionamento sia sufficientemente trasparente da consentire agli utilizzatori di interpretare l'output; sorveglianza umana, stabilendo che i sistemi devono essere progettati in modo tale che possano essere efficacemente supervisionati da persone fisiche durante il periodo in cui sono in uso; accuratezza, robustezza e cybersicurezza. Per dimostrare la conformità ai requisiti prescritti, il fornitore di un sistema ad alto rischio deve sottoporlo a una procedura di valutazione della conformità, potendo scegliere tra il controllo interno ovvero la valutazione da parte di terzi con il coinvolgimento di un organismo notificato. Gli organismi notificati rappresentano un elemento cardine del sistema di governance europeo: si tratta di organismi di valutazione della conformità notificati dalla competente Autorità nazionale – in Italia, l'Agenzia per l'Italia Digitale – a condizione che soddisfino una serie stringente di requisiti in materia di indipendenza, competenza, assenza di conflitti di interesse e adeguati standard di cybersicurezza.
Il sistema si completa con l'istituzione di una banca dati europea presso cui è fatto obbligo di registrarsi a tutti i fornitori di sistemi ad alto rischio, banca dati che svolge funzioni di monitoraggio dell'evoluzione del mercato, trasparenza verso il pubblico e garanzia che nei settori ad alto rischio possano essere utilizzati esclusivamente sistemi certificati secondo le procedure europee, muniti di marcatura CE e iscritti nella banca dati.
A decorrere dall'agosto 2026, i magistrati potranno legittimamente utilizzare nell'esercizio dell'attività giudiziaria in senso stretto soltanto sistemi che siano stati certificati secondo le procedure europee, rechino la marcatura CE e risultino iscritti nella banca dati dell'Unione europea.
Tale sistema comporta un significativo trasferimento del controllo di conformità a un livello centralizzato, esentando i singoli magistrati da verifiche tecniche di fatto impraticabili e garantendo uno standard uniforme di tutela su tutto il territorio dell'Unione.
Il mancato coinvolgimento del Consiglio Superiore della Magistratura nella disciplina ministeriale di cui all'art. 15, comma 2, e nella procedura di autorizzazione dei sistemi di cui al comma 3 appare in potenziale contrasto con l'esigenza di garantire l'indipendenza e l'autonomia della magistratura. Le raccomandazioni del CSM contenute nella delibera dell’8.10.2025 rivendicano con forza un ruolo di attore comprimario, unitamente al Ministero della Giustizia, nella sperimentazione, nell'implementazione e nell'impiego dell'intelligenza artificiale nella giurisdizione, proponendo una serie di azioni istituzionali concrete: costituzione di tavoli tecnici congiunti destinati a costituire sedi di confronto permanente sulle scelte strategiche secondo un modello di collaborazione paritetica; istituzione di un gruppo tecnico multidisciplinare permanente incaricato di svolgere attività di valutazione indipendente dei sistemi e di elaborare criteri metodologici condivisi; definizione di una sandbox regolatoria congiunta per la sperimentazione controllata di sistemi destinati all'uso giudiziario o organizzativo, intesa come strumento di cooperazione istituzionale con finalità di test ex ante, valutazione condivisa e monitoraggio trasparente;
La raccomandazione relativa allo sviluppo di un sistema di intelligenza artificiale interno al sistema giustizia rappresenta sotto questo profilo scelta di particolare saggezza e lungimiranza: anziché subire passivamente soluzioni tecnologiche elaborate da soggetti privati per finalità commerciali e secondo logiche di mercato che potrebbero non coincidere con le esigenze della giustizia, si propone di costruire strumento specificamente calibrato sulle peculiarità dell'amministrazione della giustizia italiana, rispettoso delle specificità del nostro ordinamento giuridico, pienamente controllabile sul piano pubblico e sostenibile economicamente nel lungo periodo, rappresentando l'unica via per garantire quella piena sovranità sui dati che costituisce presupposto ineludibile per l'effettiva indipendenza della magistratura nell'era digitale.
Si impone la necessità di dialogo istituzionale costante tra tutti gli attori coinvolti: il Ministero della Giustizia quale responsabile dell'organizzazione dei servizi, il Consiglio Superiore della Magistratura quale garante dell'autonomia e dell'indipendenza, AGID e ACN nelle loro funzioni di notifica e vigilanza, il Garante per la protezione dei dati personali, l'avvocatura, la comunità scientifica, giacché solo attraverso governance partecipata che consenta confronto tra prospettive diverse, integrazione di competenze complementari, bilanciamento di interessi legittimi sarà possibile pervenire a soluzioni equilibrate, costituzionalmente compatibili, tecnicamente sostenibili e socialmente accettabili. Non si deve sottovalutare la dimensione europea e internazionale della questione giacché l'intelligenza artificiale non conosce confini nazionali e la risposta normativa deve articolarsi su scala europea e globale: il Regolamento UE 2024/1689 rappresenta modello di riferimento di portata storica costituendo la prima volta che una comunità di Stati elabora corpus organico e vincolante governante l'intero spettro dell'intelligenza artificiale bilanciando innovazione e tutela dei diritti, e l'Italia deve cogliere tale opportunità contribuendo attivamente alla sua implementazione e partecipando costruttivamente all'evoluzione della disciplina europea.
Occorre la necessità di monitoraggio continuo dell'evoluzione tecnologica giacché l'intelligenza artificiale è tecnologia in rapidissima evoluzione e il sistema normativo deve essere sufficientemente flessibile da adattarsi ai mutamenti senza richiedere continue riforme legislative ma sufficientemente solido da garantire tenuta dei principi fondamentali: il sistema di audit periodico proposto costituisce strumento prezioso per verificare se le scelte compiute continuino a essere appropriate o richiedano correzioni, se i benefici attesi si stiano effettivamente realizzando o se si manifestino effetti inattesi che richiedano interventi correttivi, se le tutele predisposte risultino adeguate o necessitino di rafforzamento. Non si deve perdere mai di vista la finalità ultima dell'amministrazione della giustizia che rimane oggi come ieri quella di garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, assicurare il rispetto dei diritti fondamentali, realizzare l'eguaglianza sostanziale, contribuire alla pacificazione sociale: l'intelligenza artificiale è strumento non fine, utile se e nella misura in cui contribuisce al perseguimento di tali obiettivi, dannosa se finisce per oscurarli o comprometterli. L'efficienza, la rapidità, la standardizzazione non sono valori assoluti ma strumentali rispetto a valore superiore che è la giustizia nel caso concreto, la decisione tenente conto delle peculiarità della fattispecie, la sentenza non limitantesi ad applicare meccanicamente la norma ma interpretandola alla luce dei principi costituzionali e delle esigenze di equità sostanziale.
L'integrazione tra il rigore dell'analisi giuridica sistematica e la concretezza degli orientamenti operativi non rappresenta mero esercizio accademico ma risponde a esigenza pratica primaria di fornire a magistrati, operatori del diritto, studiosi, tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell'amministrazione della giustizia, strumento di orientamento completo, rigoroso, immediatamente utilizzabile nella fase di transizione carica di incertezze che stiamo attraversando. Da un lato emerge la prospettiva del giurista sistematico attento alle implicazioni costituzionali, eurounitarie, processuali, dall'altro la prospettiva dell'organo di autogoverno calato nella realtà operativa degli uffici, consapevole dei problemi concreti dei magistrati, capace di tradurre principi astratti in protocolli immediatamente applicabili: la sintesi tra tali prospettive consente visione integrata coniugante rigore teorico e utilità pratica, fedeltà ai principi e pragmatismo, capacità critica e propositività costruttiva. L'auspicio è che tale sintesi si realizzi non solo sul piano intellettuale mediante elaborazione di visione unitaria valorizzante i contributi di entrambe le fonti ma anche e soprattutto sul piano istituzionale mediante realizzazione del modello di governance bilanciata delineato con lucidità: tavoli tecnici congiunti ove Ministero e CSM collaborino in leale cooperazione, sandbox regolatorie sperimentanti in modo controllato le innovazioni prima dell'implementazione su larga scala, sistemi di audit periodico verificanti l'effettivo impatto dell'intelligenza artificiale e apportanti i correttivi necessari, percorsi formativi preparanti i magistrati ad affrontare con consapevolezza critica le sfide dell'era digitale.
Solo attraverso tale approccio integrato, collaborativo, costantemente vigilante sarà possibile governare la transizione senza compromettere i valori fondamentali quali indipendenza, autonomia, imparzialità, umanità del giudizio che costituiscono patrimonio irrinunciabile della tradizione giurisdizionale europea e rappresentano oggi più che mai presidio essenziale contro i rischi della tecnocrazia, dell'automazione acritica, dell'erosione della dimensione umana del diritto. L'intelligenza artificiale può essere formidabile alleato del magistrato giacché può liberare tempo per la decisione, facilitare l'accesso all'informazione, contribuire a ridurre i tempi processuali e alleggerire i carichi pendenti, ma tutto ciò potrà realizzarsi soltanto se sapremo costruire sistema di governance ponente l'essere umano al centro anziché alla periferia, concepente la tecnologia come strumento al servizio della giustizia e non già come fine autosufficiente, preservante quella dimensione di responsabilità personale, di giudizio critico, di sensibilità alle peculiarità del caso concreto che nessun algoritmo per quanto sofisticato e potente potrà mai replicare integralmente senza tradire l'essenza stessa della funzione giurisdizionale come attività intellettuale guidata da valori e principi e non da mere correlazioni statistiche.
Il cammino che ci attende è lungo e irto di difficoltà ma l'integrazione tra riflessione teorica rigorosa e orientamento operativo concreto, tra analisi critica delle norme e formulazione di raccomandazioni immediatamente applicabili, tra rivendicazione ferma dei principi costituzionali e pragmatismo realizzatore costituisce la premessa indispensabile per percorrerlo con successo. La Legge 132/2025 e la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura dell'8 ottobre 2025 rappresentano i due pilastri di una costruzione ancora da completare: spetta ora alla comunità giuridica nel suo complesso – magistrati, avvocati, studiosi, legislatori – raccogliere la sfida e tradurre in realtà operativa quella visione di intelligenza artificiale costituzionalmente orientata, umanamente governata, tecnicamente sostenibile che entrambi i provvedimenti, ciascuno con proprio linguaggio e prospettiva, hanno saputo delineare con chiarezza e forza persuasiva. L'algoritmo giurisdizionale può e deve scorrere sui binari tracciati dal Consiglio Superiore della Magistratura: questa è la scommessa, questa è la sfida, questo è l'imperativo categorico per una magistratura che voglia essere all'altezza del proprio tempo senza tradire la propria storia e i propri valori fondanti.
L'intelligenza artificiale, machina sapiens giurisdizionale, è già presente nell'amministrazione della giustizia e destinata a diventare sempre più pervasiva. La scelta è tra subirla passivamente o governarla attivamente secondo criteri che pongano al centro la persona umana e le garanzie processuali. Il Consiglio Superiore della Magistratura indica la via: non fuga dal progresso né abbraccio acritico, ma ricerca di equilibrio tra efficienza e garanzie, tra innovazione e tradizione. L'IA può liberare il magistrato dalle incombenze ripetitive, consentendogli di concentrarsi sulla parte più nobile del giudizio, quella che richiede intelligenza umana, sensibilità ai valori e capacità di comprensione. In questo contesto di collaborazione uomo-macchina, la governance partecipata proposta dal CSM rappresenta lo strumento più adeguato per assicurare che l'apporto algoritmico resti governabile, tracciabile e sempre funzionale al giudizio umano, senza mai sostituirlo.
[1] Regolamento (UE) n. 910/2014, eIDAS, art. 46, in G.U. UE L 257 del 28 agosto 2014
[2] Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenza 27 febbraio 2025, causa C-203/22, C.K. / Dun & Bradstreet Austria GmbH.
[3] Osservazioni emerse nel dibattito di categoria 2024-2025 (forum professionali e contributi LinkedIn).
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