ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sul tema si veda anche Criptofonini: fissati i punti di diritto (6 marzo 2024) e La Corte di Giustizia e i criptofonini (6 maggio 2024) di Giorgio Spangher.
Dopo la sentenza della Corte di Giustizia Grande sezione 30 aprile 2024 MV (Encrochat) sono state depositate anche le motivazioni delle sezioni unite (Cass. nn. 23755 e 23756 del 14-06.-2024) in tema di criptofonini.
Dovrebbero essere note le vicende dapprima quelle fattuali in Francia, poi quelle interpretative in Italia nel momento valutativo del materiale trasmesso, poi ancora quelle delle possibili soluzioni delle questioni giuridiche, ed ancora quelle della duplice prospettazione distinta dei quesiti alle Sezioni Unite.
La loro trattazione unitaria pur se disgiunta, stante la diversità dei motivi proposti con i ricorsi ha dato luogo a due massime provvisorie, a due decisioni sui ricorsi (di rigetto), a due sentenze come detto, ma che sono strutturate in una parte comune di motivazione, quella che da corpo in larga parte, come si dirà, ad una riscrittura complessiva del punto di diritto.
Escluso ogni possibile riferimento all’art 234 bis c.p.p., in tal modo cancellando tutta o quasi la giurisprudenza sul punto in quanto non si tratta di una prova ma di una modalità di acquisizione di una particolare tipologia di elementi di prove formate all’estero, il Supremo Collegio riunito ritiene necessario fare riferimento alla disciplina dell'OIE come regolato dalla direttiva 2014/41/UE del parlamento europeo e del consiglio d'Europa del 3 4 2014 in quanto si tratta nel caso di specie di rapporti tra autorità giudiziarie di stati diversi tutti inseriti nell'UE.
In altri termini, mentre l’art 234 bis c.p.p. riguarda l’acquisizione di elementi conservati all’estero che prescinde da forme di collaborazione con l’autorità giudiziaria di altro stato, la disciplina relativa all’OIE attiene all’acquisizione di elementi conservati all'estero da ottenere od ottenuti con la collaborazione della autorità giudiziaria di altro stato.
Il primo dato deducibile dalla disciplina dell'OIE relativo alle prove già in possesso delle autorità giudiziarie estere attiene alla legittimazione alla richiesta che potrà riguardare ogni tipo di prova e che comunque dovrà essere necessaria e proporzionata.
Ribadendo quanto previsto dall'art 27 comma 1 del d.lgs. 108 del 2017 attuativo dell’OIE ove si prevede in termini generali che il pubblico ministero e il giudice che procede possono emettere nell'ambito delle relative attribuzioni un ordine di indagine e trasmetterlo direttamente al giudice di esecuzione, si sottolinea che la richiesta possa essere avanzata sia dal pubblico ministero sia dal giudice.
In secondo luogo il tema riguarda le garanzie che sia all’estero sia in Italia devono governare l’utilizzabilità degli atti trasmessi.
Al riguardo, la cassazione sottolinea che nella fase di esecuzione all’estero dovranno essere rispettati i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in tema di diritti fondamentali nonché in tema di libertà e di giusto processo. Si precisa tuttavia che non è necessario che siano osservate le stesse previsioni che in Italia regolano singoli atti ma, solo quelli che disciplinano la circolazione probatoria. Il riferimento e a quanto previsto dagli artt. 238 e 270 c.p.p. e all’art 78 disp. att. c.p.p. La conclusione è giustificata sulla scorta della reciproca fiducia e in forza del necessario rispetto dei diritti fondamentali.
Resta ferma la possibilità per la difesa di far valere davanti al giudice dello stato di emissione la violazione delle garanzie riconosciute dall’ordinamento italiano e dunque il diritto di difesa.
Alla luce di queste considerazioni la corte per un verso spesso, assemblando due elementi (il soggetto richiedente in Italia e la natura dell’atto) esclude che quanto trasmesso dalla Francia possa essere anche l’incerto orizzonte contenutistico, un documento informatico risultando la sua acquisibilità disposta dal pubblico ministero (autorità giudiziaria ex art 15 Cost). Parimenti non assume rilievo il fatto che potrebbe trattarsi di un elemento relativo al traffico all'ubicazione e al contenuto di comunicazioni elettroniche, in quanto la relativa disciplina riguarda il gestore e il fornitore.
Trattandosi secondo la Cassazione di intercettazioni di comunicazioni assunte in altri procedimenti troverà applicazione l’art 270 c.p.p. anche in questo caso con richiesta di trasmissione da parte del pubblico ministero.
La. Cassazione nega rilievo alla mancata informazione alla difesa dell’algoritmo usato per la decriptazione in considerazione del fatto che la sua eventuale alterazione renderebbe incomprensibile la comunicazione. Alla luce di un recente episodio domestico la affermazione suscita non poche perplessità.
Non trova nessun riscontro nella massima il riferimento all’attività di intercettazione nel territorio dello stato da parte dell’autorità straniera senza autorizzazione. Secondo la Cassazione l’acquisizione è legittima qualora si tratti di reati gravi per i quali l’attività e consentirà nel nostro paese.
Sulla base di queste considerazioni il collegio riunito definisce la questione di diritto affermando che “La trasmissione, richiesta con ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall'autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 234-bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli artt. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen."
La vicenda si presta al di là del merito ad alcune chiavi di lettura.
La prima riguarda le dinamiche della nomofilachia: si consideri che le sentenze "spazzano via" una giurisprudenza non solo consolidata ma che voleva ostacolare una diversa interpretazione che poi è stata parzialmente accolta.
Si dirà che questa e la funzione della cassazione e delle sue dinamiche interne. Il dato resta significativo perché si trattava di misure cautelari ancorché legate alla criminalità organizzata.
La seconda attiene alla necessità di riscrivere lo statuto delle prove penali stante l’inadeguatezza dell’attuale disciplina sia sotto il profilo della necessità di accrescere la riserva su giurisdizione, sia alla luce a questa collegata delle implicazioni dello sviluppo scientifico e tecnologico, anche nella prospettiva dell’IA.
Immagine: Mediengruppe Bitnik, Installazione della macchina telefonica al Cabaret Voltaire, 2007, Zurigo.
Stefano Venturini approdò nella prima sezione della corte di appello di Roma, nella quale io militavo già da tre anni, nel marzo 2017. Dal primo momento capii che saremmo andati d’accordo: il suo sguardo aperto e sorridente preannunciava quella che sarebbe stata una bella amicizia, interrotta solo dall’intervento di un destino imprevedibile e crudele il 14 giugno di quest’anno.
Stefano non era solo un collega che amava il diritto penale, per la possibilità infinita di indagine nell’animo umano che la materia offre all’interprete. E l’animo umano era da lui indagato con la curiosità del giurista ma anche con il rispetto dell’umanista e dell’uomo di cultura. Stefano infatti coltivava soprattutto dubbi e non riteneva mai di essere depositario di verità rivelate e immutabili.
Abbiamo lavorato nello stesso collegio fino alla mia assegnazione in qualità di presidente alla terza sezione, e abbiamo affrontato talvolta decisioni non facili, alle quali giungevamo dopo lunghe e feconde discussioni. Di quelle camere di consiglio ricorderò sempre la bonomia e la mitezza con le quali Stefano sosteneva le proprie argomentazioni e il rispetto per le persone che giudicavamo: si chiedeva sempre se la persona le cui sorti eravamo chiamati a decidere, a distanza di tempo, fosse la stessa che aveva commesso il reato, se il tempo non avesse operato un cambiamento in quella persona, a volte radicale.
Rileggendo la lunghissima serie di messaggi che ci siamo scambiati a margine delle udienze, ho sorriso (tra le lacrime) per le “perle di saggezza” che emergevano dalle sue riflessioni, sempre condite da battute intelligenti dal tono lieve e ironico. Mi sono anche meravigliata per il quantitativo di ricette di cucina che siamo riusciti a scambiarci in questi sette anni.
Appassionante è stato poi rileggere le sue ineccepibili citazioni in latino e dalla Divina Commedia, brani lunghissimi che ricordava a memoria e che citava sempre a proposito e con grande arguzia. Nonostante avesse subìto le dolorose e premature perdite del papà e del fratello Paolo, Stefano era sempre sorridente, disponibile e portatore di una visione ottimistica del futuro e in generale dell’umanità.
Era anche uno sportivo instancabile, coltivava con regolarità discipline che andavano dallo sci al tennis, alla vela, al rugby, nelle quali si impegnava a fondo, riuscendo incredibilmente a non trascurare il lavoro e la famiglia. Non ha mai depositato un provvedimento in ritardo ed era sempre, quando occorreva, al fianco della moglie Maria Teresa e del figlio Federico. Ricordo la gioia e la soddisfazione che trasparivano dai suoi occhi quando rientrò da un breve viaggio in Sicilia in moto con Federico, con il quale intratteneva un dialogo continuo e affettuoso, che è rarissimo di questi tempi riscontrare tra un padre e un figlio.
Ma anche con gli amici non si risparmiava. Mi aveva promesso che non ci saremmo persi di vista dopo il mio trasferimento ad altra sezione e così è stato.
Abbiamo continuato a parlarci e a commentare i fatti di attualità che ci sembravano più rilevanti. Il mio ultimo ricordo risale a qualche mese fa, quanto gli raccontai che avevo acquistato un quadro enorme (circa due metri per due) e pesantissimo che non sarei mai riuscita ad appendere nella mia nuova stanza. Stefano era anche un esperto di bricolage.
Si presentò in ufficio con la cassetta degli attrezzi, il trapano, il martello, la livella. Sgomberò la parete, si arrampicò su una scala e in poco tempo mi risolse il problema. Era così, semplice e diretto. La sua gioia di vivere, la sua amabilità, la sua attenzione per il prossimo mi mancheranno tanto, e sono certa che mancheranno a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo. Ma il prezioso patrimonio di umanità che ci ha lasciato ci terrà compagnia e allevierà il dolore per la sua assenza.
Buon viaggio, Stefano
Daniela Rinaldi
Roma, 20 giugno 2024
Stefano lascia un vuoto incolmabile tra i familiari e nei tanti amici e colleghi che hanno avuto modo di conoscerlo ed ammirarlo nell’esercizio della sua professione di Magistrato e nei gesti, anche i più piccoli e in apparenza banali, della vita quotidiana.
Persona di straordinaria intelligenza, sensibilità, umanità, rettitudine morale ed energia vitale, Stefano ha messo a disposizione dell’intera collettività tutti i numerosi talenti di cui era dotato, incarnandoli nella sua figura di Giudice colto, serio, umile e profondamente rispettoso dei diritti di coloro che attendevano il suo giudizio.
Ciò che più colpiva nella sua persona era però una dote rara, quella profonda attenzione per gli altri, quella intelligenza del cuore che consente di “vedere” nella sua interezza la persona che si ha di fronte anche al di là dei suoi comportamenti e delle sue manifestazioni esterne.
Nei diversi passaggi della sua esperienza professionale di Giudice, dapprima a Caltagirone, in Sicilia, quindi a Rieti, poi per tanti anni ad Avezzano, nella nostra Marsica, ed infine a Roma, come Consigliere della Corte d’appello, è stato non solo profondamente stimato dai colleghi e dalla classe forense per l’autorevolezza, la cultura giuridica e il valore professionale, ma amato nelle comunità sociali e dalle persone comuni che, ovunque, nelle diverse realtà territoriali in cui ha operato hanno visto nella sua persona un sicuro e invalicabile punto di riferimento nell’esercizio di una giurisdizione attenta alla tutela dei diritti, specie delle persone più deboli e indifese.
Dalla lettura dei suoi provvedimenti emerge un distillato di rigorosa applicazione della legge illuminata da quel senso di umanità che sempre deve ispirare l’attività di un Giudice.
Non parlo solo del collega, ma soprattutto dell’uomo e dell’amico, del compagno di Liceo con il quale abbiamo condiviso esperienze di vita e professionali indimenticabili, creando, specie con gli amici e colleghi destinati al Tribunale di Caltagirone all’inizio degli anni novanta, in un passaggio storico particolarmente problematico per l’Italia e le sue Istituzioni, una comunità di affetti e valori umani che ancora oggi resiste, indissolubile, perché animata dai medesimi principi di giustizia al servizio della collettività.
Ci ha lasciati troppo presto.
La sua vita terrena è stata segnata da sventure e dolori atroci, che solo la sua straordinaria forza morale ed energia vitale gli hanno consentito di superare, con l’aiuto dei suoi cari: tetragono nelle avversità, ha resistito a tutto, non alla tragica fatalità che lo ha colpito.
Ha affrontato la vita con enorme coraggio, a viso aperto, senza mai risparmiarsi né tirarsi indietro nel lavoro.
Ha combattuto una buona battaglia.
Dietro il velo dell’esistenza terrena, Stefano, con il suo sorriso lieve e ironico di uomo retto e profondamente buono, rimarrà sempre al nostro fianco e ci sarà ancora di esempio.
Certi ricordi, come ha detto un grande poeta, bastano a profumare un’anima per sempre.
Gaetano De Amicis
Tagliacozzo, 19 giugno 2024
Entro in aula e vedo Stefano, una testa riccia nera, tutta ondulata, china a studiare bene le carte. Lo saluto con affetto, come al solito, lui alza lo sguardo, serissimo, poi mi fissa, sembra pieno di pensieri… ma mi coglie di sorpresa con una nuova storia da raccontarmi e scoppiamo a ridere… e continuiamo a ridere felici finché non ci stanchiamo per quanto ci fanno male i muscoli del viso.
Ecco, questo era Stefano, serissimo, quasi intransigente, che parlava del suo lavoro come di un “mestiere”, al servizio agli altri, che raccontava l’esperienza di giudice come una missione, qualcosa che andava al di là del giudicare, ma era il “rendere giustizia”, con tutte le sue forze, fino all’ultima stilla di sudore, sapendo della fallacia dell’agire umano e della fragilità degli uomini.
Poi, però, vi era l’altra parte di Stefano, quella sconosciuta ai più, quella di chi sapeva che la vita era una perentesi breve e che andava bevuta tutta d’un fiato. Il piacere di stare a raccontare storie con un amico, la pacca sulla spalla, quel modo un po' abruzzese di cercare i sentimenti veri e profondi, senza sovrastrutture, la semplicità, un pranzo condiviso, una bevanda fresca ristoratrice, la partita a tennis, lo sci… naturalmente fuori pista… La vita è qui, hic et nunc, avrebbe aggiunto con naturalezza… Si tra le sue parole spesso trovavi perle variopinte e rare, come in una enorme conchiglia colorata, adagiata sul fondale marino, erosa dal sale, ma non ancora aperta a sufficienza, che sprigiona mistero. Uno scrigno nascosto, questo si nascondeva nell’anima bella di Stefano, insieme con l’amore per Federico e Teresa, e per suo fratello Paolo, oltre che per tutti coloro che hanno avuto la ventura di imbattersi nella sua anima.
Stefano dava l’idea di essere una sorta di superuomo, sorridente anche dopo l’ennesimo intervento chirurgico che lo rimetteva sugli sci. Un uomo che anche nell’incedere trasmetteva sicurezza, che sapevi non ti avrebbe mai tradito. Incarnava la sicurezza, la certezza, il punto fermo, come marito, padre, collega, amico. Un uomo forse d’altri tempi, con valori inossidabili, come una quercia ben piantata al suolo, che lascia accarezzare le foglie dal vento tiepido della primavera.
Epperò, anche sul lavoro, talora bastava che alzasse lo sguardo… poi piegava la testa, torceva il collo, scrollava il capo, accennava una increspatura sulla bocca e gli occhi sfavillavano gioiosi…. aveva capito e ti dava conferma che eravamo allineati. Tra noi poche parole, ma era sufficiente un cenno, quella sua capacità di parlare anche attraverso i gesti, la postura del corpo, i movimenti del capo, lo strabuzzare degli occhi, il corrugarsi della fronte.
Un amico, un collega, un uomo dai valori forti, leale, gentile, coltissimo, con un cuore grande, dalla battuta rapida e leggera. Lo sguardo severo, ma dolce nel profondo. Amava il suo lavoro, come lo sport e la vita. Si è preso cura del nipotino dopo che è mancato suo fratello, con un amore raro, pieno di dolcezza, ma di sicuro affidamento. Un amico leale, un padre affettuoso, un marito accogliente, un porto sicuro, un uomo saldo nei suoi valori.
Non avrei mai pensato di dover scrivere queste parole... non si è mai pronti a farlo... ma resta nei nostri cuori... con un'ultima sua battuta... “ma che stai a scrive' Lui’?”
Luigi D'Orazio
Caro Stefano, ci conosciamo da tanti anni, sei stato – sei – per me un collega, un amico, un fratello; per anni abbiamo lavorato gomito a gomito, passato insieme l’intera giornata.
Abbiano continuato a sentirci e a parlarci, pur vedendoci meno, anche negli ultimi tempi.
Ho ancora molte cose da dirti e te le dirò, ma non ora; non qui.
Ora voglio pensare non a ciò che ho da dirti io, ma a ciò che mi avresti detto tu, se fossi dovuto partire per un lungo viaggio, senza poter avvertire né salutare nessuno.
Tu mi avresti detto – ne sono certo – di parlare di Te a tuo figlio e a tua moglie, nella lieta certezza che li avresti un giorno rivisti, ma nella dolorosa impossibilità di immaginare quando.
Parlerò allora loro di tre sentimenti, tra i più belli tra quelli che nobilitano le virtù umane e che in te, amico mio, quasi per una grazia sovrannaturale, si sono eccezionalmente riuniti, formando un dono magnifico e prezioso, un dono che ti hanno fatto gli Dei nella culla.
Essi sono la PASSIONE, la GENEROSITÀ DISINTERESSATA, l’IRONIA.
La PASSIONE vive con te, irrequieta come una giovane donna, sembra volare via dai tuoi lunghi capelli che guardo, invidioso, aprirsi al vento, mentre ti vedo scendere dalla pista della Volpe verso quella degli Innamorati, o correre veloce sull’erba con la palla ovale sotto al braccio, o tentare una demi- volée dalla linea del servizio.
Caro Federico, tuo padre tutto ciò che faceva lo faceva per PASSIONE.
La prima, la più grande, era quella per il suo lavoro e per il diritto, in particolare il diritto penale, che applicava quotidianamente nelle aule di giustizia, rendendo esemplare omaggio alla Toga orgogliosamente indossata e ricevendo la stima e l’apprezzamento unanime, non solo quello professionale degli avvocati, ma anche quello personale delle vittime dei reati e persino degli imputati, dei cui diritti era sacro tutore.
Ma oltre che applicarlo, gli piaceva studiarlo, il diritto, e qui emergeva la PASSIONE.
Una volta – voglio raccontarti questo episodio, caro Federico – ci facemmo in macchina in giornata Avezzano-Bologna e ritorno solo per sentir parlare il Prof. Ferrando Mantovani sulla teoria dell’errore nella dogmatica del reato. Tornando, sulla A14, tuo padre si era talmente appassionato alle parole del vecchio maestro che, discutendo animatamente della teoria dell’errore, mancò l’uscita di Città Sant’Angelo. Gli dissi: “Stefano, non abbiamo preso la A 25”. La sua risposta fu: “Caro Paolo, non tutti mali vengono per nuocere, ora ce ne andiamo a mangiare il pesce a Termoli”.
Se la passione sono i tuoi capelli, la GENEROSITÀ sono i tuoi occhi, Stefano: quegli occhi soccorrenti, amicali, che mi restituirono la forza e il coraggio sottrattimi dal terremoto, che mi rialzarono dalla prostrazione in cui ero piombato offrendomi aiuto, rifugio, amicizia; quegli occhi da cui sgorgava con ineffabile, naturale dolcezza, il profondo amore che regalavi alla tua sposa, alla tua amata Maria Teresa.
Ricordi, Teresa, quando ci ospitaste in Calabria? Federico era già un ragazzo, i miei figli erano ancora bambini. Stefano sorreggeva il piccolo Mario tra le acque rocciose e profonde e ti sorrideva mentre parlavi con Stefania.
Egualmente ti sorrideva in quel bar di Sirolo, quando raggiungemmo con un ritardo di oltre 4 ore la costa marchigiana e il Monte Conero per colpa mia, che vi avevo fatto sbagliare strada, perdendovi tra le mille vie della campagna umbra; mentre sorseggiavamo l’aperitivo eravamo stanchissimi e voi ragazze un poco infastidite, ma Stefano sdrammatizzò, dicendo che ti avrebbe portato in braccio in albergo. Rimasi colpito - e credo anche tu – non tanto dalle parole ma dal sorriso da cui sgorgarono, e dagli occhi che le dicevano, vere sorgenti d’amore.
In quel sorriso, che incorniciava la generosità degli occhi e la passione dei capelli, deflagra la tua IRONIA, caro Stefano; essa non è immediatamente percepibile, palpabile, come lo è la passione; è più recondita, perché ama sorprendere, palesarsi all’improvviso, ma è pronta ad accendersi, di improvvise, generose, fiammate, in una battuta, un racconto, uno scherzo.
Cari Federico e Teresa, Stefano – credo lo sappiate – amava regalare ai suoi amici, oltre la sua generosa amicizia, anche la sua propensione allo scherzo. E quanto più cresceva la diffidenza di chi la riceveva, tanto più aumentava quella propensione; al caro, comune amico che, per telefono, non aveva in un primo momento creduto che a parlare era l’ambasciatore armeno in Italia, disse, in una successiva telefonata, di essere il proconsole dei paesi emergenti dell’Asia Minore e quegli non poté fare a meno di credergli.
La PASSIONE, la GENEROSITÀ DISINTERESSATA e l’IRONIA sono stati il tuo modo di vivere, Caro Stefano, i sentimenti che hanno costantemente ispirato il tuo agire e che hanno qualificato la tua personalità.
Essi sono il contrario dell’egoismo, dell’avarizia, del distacco; sono sentimenti tipici dei ragazzi. Basta avere uno di questi tre doni, per non invecchiare, tu li avevi tutti e tre.
Per questo, ovunque sarai, continuerai, caro agli Dei, a scendere con i capelli al vento dalla pista degli Innamorati, a correre sul campo da rugby con la palla ovale sotto il braccio, a tentare demi-volée dalla linea del servizio.
E noi continueremo a parlarci, amico mio, ancora e per sempre, ne sono certo.
Paolo Spaziani
La partecipazione dei magistrati addetti alla Segreteria del CSM alle procedure di nomina per il conferimento di uffici direttivi e il paradosso del divieto rovesciato (nota a Tar Lazio, 18 marzo 2024, n. 5355).
di Fabio Francario
Sommario: 1. La sentenza Tar Lazio n. 5355/2024 e il paradosso del divieto rovesciato - 2. L’interpretazione “evolutiva” delle norme sull’ordinamento giudiziario e l’esasperazione del sindacato di legittimità e il problema mai sopito dell’indipendenza della magistratura ordinaria. - 3. Il problema del sindacato giurisdizionale (amministrativo) sugli atti di autogoverno della magistratura ordinaria - 4. Anomalie del sistema – 5. Osservazioni conclusive.
1. La sentenza Tar Lazio n. 5355/2024 e il paradosso del divieto rovesciato
La sentenza che si annota esclude che il magistrato che abbia ricoperto l’incarico di Segretario generale del Consiglio Superiore della Magistratura possa concorrere al conferimento dell’ufficio di Procuratore Generale Aggiunto della Corte di Cassazione, ritenendo che ciò sia espressamente vietato dalle vigenti Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura recate dalla l. 24 marzo 1958 n. 195. Precisamente dall’art. 41 il quale, con specifico riferimento alla “posizione dei giuridica dei segretari”, dispone che “I magistrati addetti alla segreteria del Consiglio superiore non possono partecipare ai concorsi o agli scrutini, salvo che abbiano cessato di far parte della segreteria almeno un anno prima della scadenza del termine stabilito per presentare la domanda di partecipazione al concorso o allo scrutinio, ovvero che il Consiglio, della cui segreteria facevano parte, sia cessato prima della scadenza anzidetta”.
La univoca e consolidata prassi interpretativa del Consiglio Superiore della Magistratura ha invece pacificamente considerato non più esistente tale divieto, ritenendo tale norma abrogata per effetto della radicale riforma del sistema di progressione delle carriere dei magistrati successivamente intervenuta. In origine, il RD 30 gennaio 1941 n. 12 sull’ordinamento giudiziario prevedeva infatti ruoli distinti per i magistrati di tribunale, di appello e di cassazione e che il passaggio da un ruolo all’altro avvenisse “mediante concorso” o “mediante scrutinio a turno di anzianità”(cfr. artt. 131, 145, 176 e 184); e la citata l. 195/1958 statuiva, tanto per i magistrati componenti il Consiglio Superiore, quanto per quelli addetti alla segreteria, il divieto di partecipazione ai concorsi e agli scrutini (artt. 34 e 41). Per i soli magistrati componenti stabiliva anche il divieto di conferimento di uffici direttivi (art. 35), divieto che non veniva invece riproposto per i magistrati adetti alla segreteria. Tra la seconda metà degli anni sessanta e la prima metà degli anni settanta del secolo scorso, il sistema dei concorsi interni viene abolito, tanto per la progressione a magistrato di corte d’appello, quanto per quella a magistrato di cassazione (l. 570/1966 e 831/1973) e sostituito da un diverso sistema, secondo il quale le relative qualifiche si acquisiscono al maturare di una determinata anzianità di servizio e all’esito della positiva valutazione da parte del Consiglio Superiore della Magistratura dell’attività svolta. La progressione di carriera non viene quindi più a dipendere dall’espletamento dei concorsi e scrutini originariamente previsti dai sopra citati articoli 131 e seguenti della legge sull’ordinamento giudiziario[1].
Orbene, secondo la pronuncia che si commenta, la perdurante vigenza del divieto di cui all’art. 41 l. 195/1958 non precluderebbe più, ai magistrati che ricoprano la posizione di segretario generale, la progressione di carriera attraverso le valutazioni di professionalità (che consistono, si badi, pur sempre “in un giudizio espresso ai sensi dell’art. 10 l 24 marzo 1958 n. 195 dal Consiglio superiore della Magistratura”; art. 11 d lgs 5 aprile 2006 n. 160 Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati), ma ne precluderebbe invece la partecipazione alle procedure concorsuali per il conferimento delle funzioni degli uffici giudiziari. Nonostante l’art. 12 del citato d. lgs. 160/2006 preveda che ad esse possano partecipare “tutti i magistrati che abbiano conseguito almeno la valutazione di professionalità richiesta” e nonostante nessuna norma abbia mai vietato ai magistrati addetti alla segreteria di concorrere per il conferimento degli uffici, come invece previsto per i magistrati componenti il Consiglio. Il divieto di cui all’art. 41 viene dunque considerato ancora vigente, ma applicato alla diversa fattispecie del conferimento dell’ufficio (e non della progressione di carriera); producendo così un risultato paradossale, perché ciò che era in origine precluso (la progressione di carriera) viene ritenuto possibile e ciò che era possibile (il conferimento di ufficio) viene invece ritenuto vietato.
La decisione non pare ineccepibile sotto il profilo esegetico. Nemmeno appare condivisibile nella sua ratio di fondo, dal momento che esclude che la posizione rivestita nella Segreteria possa esser di per sé tale da condizionare la decisione del Consiglio nella valutazione necessaria per la progressione di carriera, salvo assumere poi che tale posizione sarebbe tale da poter condizionare la decisione del Consiglio sul conferimento dell’ufficio. Delle due l’una: o la posizione è tale da far ritenere che la vicinanza della Segreteria al Consiglio comprometta la serenità e l’imparzialità del giudizio di quest’ultimo; o non lo è. Ma è paradossale che, come già sottolineato, l’interpretazione evolutiva della norma porti a vietare ciò che prima non lo era e a permettere ciò che prima era vietato.
Ciò che più colpisce della pronuncia è però il fatto che il giudice amministrativo, attraverso una interpretazione “evolutiva” del termine concorso, finisce con il ridisegnare in parte qua le regole per il conferimento degli uffici giudiziari, in netto contrasto con la prassi applicativa e interpretativa finora univocamente e pacificamente seguita dall’organo di autogoverno della magistratura ordinaria[2]. Prassi della quale viene peraltro negata l’esistenza, che è invece fatto notorio e di comune esperienza nell’ambito della comunità giudiziaria.
2. L’interpretazione “evolutiva” delle norme sull’ordinamento giudiziario e l’esasperazione del sindacato di legittimità e il problema mai sopito dell’indipendenza della magistratura ordinaria.
La sentenza che si commenta non è certamente l’unico caso in cui si manifesta una marcata tendenza del giudice amministrativo a sindacare gli atti dell’organo di autogoverno della magistratura ordinaria in maniera talmente penetrante da sollevare dubbi sull’effettivo rispetto dei limiti del sindacato di legittimità e da riproporre sotto diverso e nuovo profilo il mai sopito problema dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura ordinaria.
Oltre al caso in esame, l’esperienza mostra infatti come il giudice amministrativo, chiamato sempre più spesso a decidere delle nomine agli uffici anche apicali e di vertice della magistratura ordinaria, esercita un sindacato difficilmente riconducibile nei ragionevoli limiti della ragionevolezza e sostanzialmente basato sul carattere più o meno persuasivo della motivazione, valutazione che evoca opinabilità e soggettività dell’apprezzamento e che riduce ad una mera clausola di stile l’affermazione del riconoscimento al Consiglio Superiore della Magistratura della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”.
I casi sono innumerevoli. Tra i più recenti e significativi, basti ricordare quelli riguardanti la nomina del Presidente e del Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, decisi dal Consiglio di Stato con le sentenze 14 gennaio 2022 nn. 267 e 268. Le sentenze ritengono pacifico che si sia in presenza di candidati tutti eccellenti e che vi sia stata effettiva comparazione dei rispettivi curricula ai fini della nomina; così come danno pacificamente atto che non vi sarebbero state violazioni dei criteri di nomina così come predefiniti dalla legge (in ptcl dall’art. 21 del T.U. che stabilisce che “ «Costituiscono specifici indicatori di attitudine direttiva […]: a) l’adeguato periodo di permanenza nelle funzioni di legittimità almeno protratto per sei anni complessivi anche se non continuativi; b) la partecipazione alle Sezioni Unite; c) l’esperienza maturata all’ufficio spoglio; d) l’esperienze e le competenze organizzative maturate nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, anche con riferimento alla presidenza dei collegi»). È pacifico dunque che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia operato una effettiva comparazione e deciso applicando i criteri predeterminati per legge. Nel caso della nomina del Presidente, si ritengono tuttavia insufficientemente motivati i giudizi di prevalenza in quanto privi di “spiegazione concreta e circostanziata” laddove hanno ritenuto sostanzialmente equivalenti esperienze consistentemente diverse (funzioni di legittimità); ovvero privi di ragionevole e compiuta spiegazione dell’esito valutativo perché “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alle conclusioni raggiunte dal Csm: seppure il dato quantitativo-temporale sul possesso degli indicatori specifici non ha infatti valore assorbente e insuperabile, né implica di per sé alcun automatismo sull’esito valutativo, occorre nondimeno una motivazione ragionevole e adeguata per poter giustificare una conclusione difforme dalle (univoche) emergenze dei dati oggettivi” (partecipazione alle Sezioni Unite); o ancora formulati “ al di là della opinabilità, e cioè del fisiologico esercizio della discrezionalità spettante all’amministrazione nel quadro degli indicatori previsti dal Testo unico” nel momento in cui si è ritenuto che una determinata sezione (la Sesta Civile) rivestisse un ruolo essenziale e strategico quale Sezione filtro perché tale valutazione sarebbe avvenuta “in assenza di criteri (predeterminati) in tal senso nell’ambito del Testo unico” e conduce evidentemente “ben oltre la discrezionalità valutativa nell’apprezzamento dell’uno o dell’altro profilo curriculare” (ufficio spoglio). Nel caso della nomina del Presidente aggiunto, si ritiene del pari che “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alla conclusione di ritenuta equivalenza dei profili dei candidati, conclusione che non risulta invece allo stato esplicabile né ragionevolmente intellegibile alla luce dello scarno passaggio motivazionale speso dal Csm al riguardo Tanto in piùin un caso, quale quello in esame, in cui l’importanza del posto a concorso, gli eccellenti profili dei candidati in competizione e la indiscutibile rilevanza dei loro curricula impongono - oltre all’attenta, accurata e completa ricognizione di tutti gli aspetti della rispettiva carriera, anche attraverso la opportuna comparazione - un particolare obbligo di motivazione, puntuale ed analitico, tale da far emergere in modo quanto più preciso ed esauriente le ragioni della prevalenza di un candidato sull’altro”[3].
Motivazioni eccessivamente invasive della discrezionalità che dovrebbe esser propria di atti di alta amministrazione, quali comunemente sono ritenuti quelli di autogoverno del Consiglio superiore della Magistratura[4], e interpretazioni evolutive delle norme sull’ordinamento giudiziario, che creano divieti al conferimento degli uffici giudiziari non esistenti in passato, fanno sorgere il dubbio che un sindacato così penetrante sugli atti espressione dell’autogoverno della magistratura ordinaria possa comprometterne la garanzia dell’indipendenza. Tanto più se operato da un giudice, “speciale” secondo la Costituzione, le garanzie d’indipendenza del quale sono attenuate rispetto a quelle proprie della magistratura ordinaria[5].
3.- Il problema del sindacato giurisdizionale (amministrativo) sugli atti di autogoverno della magistratura ordinaria.
Rebus sic stantibus, il problema del sindacato del giudice amministrativo sugli atti del Consiglio superiore della Magistratura non si pone in materia di provvedimenti disciplinari, in quanto l'attività del Consiglio in tal caso viene qualificata come giurisdizionale e le decisioni vengono impugnate con ricorso alle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Il problema riguarda essenzialmente le decisioni, diverse da quelle disciplinari, incidenti sullo status di magistrato e trova adesso esplicita definizione nell’art 17 della legge sull’ordinamento giudiziario. Dopo aver previsto che “tutti provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della repubblica controfirmato dal Ministro; ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per grazia e giustizia” e dato per scontato che “la tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo è disciplinata dal codice del processo amministrativo”, l’art. 17 della l. 195/1958 e smi, nel testo attualmente vigente, dispone come segue: “Per la tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi si segue, per quanto applicabile, il rito abbreviato disciplinato dall'articolo 119 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Nel caso di azione di ottemperanza, il giudice amministrativo, qualora sia accolto il ricorso, ordina l'ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lettere a) e c) del comma 4 dell'articolo 114 del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo n. 104 del 2010”. La giurisdizione amministrativa è data dunque per pacifica, anche se residuano incertezze sui poteri decisori concretamente spendibili dal giudice amministrativo. L’esperibilità del giudizio di ottemperanza in quanto tale, e con essa la possibilità di sostituzione dell’organo di autogoverno nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi del giudice amministrativo, viene pacificamente dichiarata, anche se i limiti in ordine al contenuto ordinatorio e alla possibilità di determinare le modalità esecutive in presenza di sentenze non ancora passate in giudicato lasciano quantomeno il dubbio che possa realizzarsi una piena sostituzione [6].
Oggi come oggi non desta quindi certamente scandalo il fatto che il giudice amministrativo intervenga nei processi decisionali del Consiglio Superiore della Magistratura condizionando inevitabilmente le scelte dell’organo di autogoverno, essendo ormai pacifica e codificata l’impugnabilità delle sue decisioni. Rimane però il fatto che si è pur sempre di fronte a un tema delicato e complesso, che appare meritevole di particolare attenzione e cautela non già ratione personae, come una sorta di privilegio di casta riservato a persone particolarmente in alto nella scala sociale, ma perché l’autogoverno della magistratura è previsto nella Costituzione a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Questo è il senso della riserva operata dall’art. 105 Cost. allorquando statuisce che “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”[7]. La norma costituzionale non ha natura puramente organizzativa, come se fosse volta semplicemente a regolare la distribuzione delle competenze amministrative per il personale di magistratura, ma, attraverso il riconoscimento dell’autogoverno, è volta a rendere concreta la garanzia di autonomia e indipendenza della magistratura rispetto al potere esecutivo (“ad ogni altro potere”), esplicitamente affermata nell’art. 104 Cost. e rinforzata dall’affermazione della soggezione del giudice “soltanto alla legge”, recata dall’art. 101 Cost.. Il problema rimane a tutt’oggi ancora aperto, come testimonia la soluzione di compromesso codificata nella stesura sopra ricordata dell’art. 17 della l. 195/1958[8].
La necessità di garantire anche al personale di magistratura il diritto alla tutela giurisdizionale, riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione come diritto fondamentale dell’individuo, deve dunque svolgersi in modo da non compromettere quell’autonomia e quell’indipendenza che la Costituzione vuole venga garantita alla magistratura ordinaria e deve essere quindi tenuto nella debita considerazione il fatto che, oggi come oggi, la concentrazione della tutela giuridizionale in capo al giudice amministrativo finisce con il presentare più di una anomalia. Specie se in un periodo come questo attuale si discute molto de jure condendo di nuove forme dell’autogoverno delle magistrature[9].
4.- Anomalie del sistema
L’anomalia si evidenzia sotto due distinti ma connessi profili; ovvero, può considerarsi duplice.
Sotto un primo profilo, deriva dalla impossibilità di negare il deficit di apparenza d’indipendenza del Consiglio di Stato, organo di vertice della magistratura amministrativa, rispetto al Governo.
Quello dell’apparenza d’indipendenza della magistratura amministrativa è un prolema antico, ma sempre attuale. È vero, infatti, che l’ordinamento delle magistrature speciali si è progressivamente avvicinato al modello di autogoverno della magistratura ordinaria, evidenziando un crescente distacco dal potere esecutivo nelle cui articolazioni erano precedentemente assorbite[10]. È innegabile, però, che le garanzie d’indipendenza dei giudici speciali sono attenuate e non sono le medesime previste per la magistratura ordinaria. Per i giudici speciali, l’art. 108, comma secondo, Cost. rinvia alla legge ordinaria (“La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso presso di esse e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”) e la disciplina concretamente dettata dal legislatore ordinario non ha certamente assicurato l’indipendenza assoluta del Consiglio di Stato rispetto al Governo. Che, a differenza del giudice ordinario, vi sia quindi un deficit d’indipendenza del giudice amministrativo rispetto al potere esecutivo è un dato oggettivo, che viene generalmente e storicamente sottolineato dalla dottrina. Nonostante la questione di costituzionalità sia stata più volte dichiarata infondata dalla Corte costituzionale, nei suoi termini di fondo la questione torna ad essere ciclicamente rimediata dalla dottrina[11]. Segno evidente che le motivazioni addotte dalla Corte, soprattutto nella pronuncia n. 177 del 19 dicembre 1973, resa con specifico riferimento al tema della nomina governativa dei Consiglieri di Stato e fatte proprie anche dalle successive sentenze, sono apparse poco convicenti nel momento in cui sostanzialmente si riassumono nella considerazione che “gli eventuali rapporti tra il prescelto e la pubblica amministrazione che abbiano preceduto la nomina o che, intervenuta questa potrebbero in ipotesi suscitare vincoli di sorta, si dissolvono nelle persone che siano idonee a ricoprire l’ufficio e all’atto in cui acquistano uno status”.
È evidente infatti che risolvere la garanzia d’indipendenza nel “potere trasfigurante”[12]dello status di magistrato lascia aperto il problema di fondo derivante dal fatto che le garanzie d’indipendenza riguardano innanzi tutto l’ufficio, prima ancora che le persone che siano ad esso preposte. È cioè evidente il limite di fondo di non distinguere tra indipendenza funzionale e istituzionale [13]. Per quanto sia stato quindi intrapreso un percorso di avvicinamento del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa al modello costituzionale dell’autogoverno tipizzato nel Consiglio Superiore della Magistratura, la mancata definitiva rescissione del cordone ombelicale del Consiglio di Stato con il Governo lascia al fondo irrisolti sempre gli stessi problemi, derivanti dalla nomina governativa dei Consiglieri di Stato, dal cumulo tra funzioni giurisdizionali e consultive, dagli incarichi extra giudiziali, della nomina del Presidente del Consiglio di Stato su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri previa delibera del Consiglio dei Ministri sentito il parere del Consiglio di Presidenza, dal conferimento dell’incarico di Segretario Generale con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio di Stato, sentito il Consiglio di presidenza.
Dal momento che l’indipendenza non può dunque ridursi ad una qualità ideale che il giudice acquista per la semplice acqusizione delle guarentigie inerenti alla sua funzione, il deficit che si sconta sotto il profilo della apparenza d’indipendenza istituzionale non esclude che la concentrazione della giurisdizione sullo status e sul rapporto di servizio dei magistrati ordinari in capo al giudice amministrativo possa esser in astratto tale da compromettere la garanzia dell’indipendenza di cui all’art. 104 Cost..
Sotto un secondo profilo, l’anomalia è data dal fatto che la concentrazione della giurisdizione in capo al giudice amministrativo risulta priva dell’adeguato bilanciamento che potrebbe essere dato dalla competenza della magistratura ordinaria sulle controversie riguardanti il personale della magistrartura amministrativa. Allorquando si è discusso dell'impugnabilità innanzi al giudice amministrativo dei provvedimenti incidenti sullo status dei magistrati ordinari, la questione si è infatti posta non solo con riferimento al tema della intrinseca impugnabilità degli atti del Consiglio Superiore della Magistratura, ma anche sulla scelta di radicare la giurisdizione nel giudice amministrativo. Entrambi i profili sono stati presi in considerazione dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 44 del 14 maggio 1968 [14], la motivazione della quale sotto questo profilo offre importanti indicazioni. La pronuncia, com’è noto, risolve innanzi tutto il problema del conflitto tra l’esigenza di assicurare a tutti i cittadini, compresi quelli appartenenti alla categoria dei magistrati, la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi e l’esigenza di evitare qualsiasi interferenza da parte non solo dei potere esecutivo, ma anche dello stesso potere giurisdizionale, a favore del primo. Affermando la prevalenza dell'esigenza di tutela giurisdizionale su quella d'indipendenza del Consiglio superiore della Magistratura, si è poi aperto l’ulteriore distinto problema della individuazione del giudice competente, la soluzione del quale a favore del giudice amministrativo, nella decisione, appare tutt’altro che scontata. Nella decisione, la individuazione del giudice amministrativo non deriva infatti automaticamente dal fatto che le difficoltà derivanti dalla non riducibilità del Consiglio Superiore ad una semplice pubblica amministrazione vengono superate valorizzando il carattere sostanzialmente amministrativo dell’attività svolta (in tal senso del resto v. già Corte Cost. 168/1963[15]), ma è frutto di una specifica autonoma valutazione di opportunità. La preferenza per il giudice amministrativo è frutto di una scelta che viene giustificata dalla necessità di evitare “la confluenza che verrebbe a verificarsi negli appartenenti allo stesso ordine di destinatari dei provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura e di giudici della regolarità dei medesimi”. Se la ratio decidendi è dunque quella di evitare la “confluenza” nel medesimo ordine giurisdizionale sulle decisioni dell'organo di autogoverno, va da sé che il medesimo principio dovrebbe impedire al giudice amministrativo di conoscere dei provvedimenti adottati dal proprio organo di autogoverno, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. Dovrebbe cioè impedire che il giudice amministrativo conosca delle decisioni sui giudici amministrativi creando una giurisdizione domestica[16].
5.- Osservazioni conclusive.
La criticità rappresentata dalle anomalie sopra descritte diventa ancor più evidente alla luce dell’orientamento della Corte Costituzionale volto a tutelare l’assetto pluralistico dell’ordinamento giurisdizionale. Mi riferisco alle note pronunce 6 luglio 2004 n. 204 e 18 gennaio 2018 n. 6, rese dalla Corte costituzionale per precisare i limiti del sindacato della Corte di cassazione sulla giurisdizione del giudice amministrativo, che è stato circoscritto e limitato negando l’esistenza di una unità organica della giurisdizione e ritenendo ravvisabile un’unità solo funzionale delle giurisdizioni[17]. Riprendendo le parole pronunciate da Costantino Mortati nella seduta pomeridiana del 27 novembre 1947 dell’Assemblea costituente, la Corte ha affermato che l’assetto pluralistico “non esclude anzi implica una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé”. Diventa infatti chiaro a questo punto che l’equiparazione dei diversi ordinamenti di magistratura in punto di autonomia e indipendenza non può non valere secondo un principio di reciprocità e non può valere a vantaggio esclusivamente della magistratura amministrativa. Che è invece proprio quel che si verifica nel momento in cui la magistratura amministrativa ha un suo proprio organo di autogoverno ed è giudice dei provvedimenti che questo adotta; laddove quella ordinaria, l’unica magistratura ad avere l’organo di autogoverno coperto dalla garanzia costituzionale, vede gli atti del suo organo di autogoverno soggetti al sindacato del giudice amministrativo, l’apparenza di assoluta indipendenza istituzionale del quale dal Governo continua ancor oggi a sollevare più di un dubbio in dottrina. Si è in presenza di una duplice anomalia, alla quale primo o poi occorrerà porre rimedio.
[1] Per una compiuta ricostruzione dell’evoluzione del sistema v. P. Filippi, La valutazione di professionalità, in E. Albamonte e P. Filippi (a cura di), Ordinamento giudiziario. Leggi , regolamenti e procedimenti, Torino, 2009, 351 ss.
[2] Per quanto si discuta se l’espressione organo di “autogoverno” sia propriamente utilizzata a proposito del Consiglio Superiore della Magistratura (per tutti v. A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad. Cost., 1989, 471 ss), è fuor di dubbio che esso sia concepito come “organo di garanzia costituzionale operante al fine primario di assicurare l’attuazione dei valori posti per l’ordine giudiziario dall’art. 104 Cost” (così F. Bonifacio, G. Giacobbe, Commento all’art. 105 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della costituzione. La magistratura. Art 104-107, II, Bologna Roma, 1986, 118). Su tali profili v. di recente V. Campigli, L’autodichia degli organi costituzionali. Dal privilegio dell’organo alla tutela amministrativa dell’individuo, Napoli, 2023, 199 e ivi ulteriori riferimenti.
[3] Cfr. Il Consiglio di Stato (e la) nomina (del) Presidente e (del) Presidente aggiunto della Corte di Cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14 01 2022 nn. 267 e 268), in GiustiziaInsieme, 15 gennaio 2022. Sempre in questa Rivista, in tema v. anche G. Tropea, Conferimento di incarichi direttivi e giudice amministrativo: il lungo addio all’ineffettività della tutela (nota a Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2020 n. 4584), in GiustiziaInsieme, 24 luglio 2020; M.R. Spasiano, Nomina dei compeonenti togati del Comitato direttivo della Scuola Superiore della magistratura: è l’autovincolo a imporre il procedimento selettivo a carattere comparativo, in GiustiziaInsieme, 2 febbraio 2021; F. Francario, Autogoverno della magistratura e tutela giurisdizionale. Brevi cenni sui profili problematici della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, in GiustiziaInsieme, 2018; C. Riviezzo, Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di autogoverno, in GiustiziaInsieme, 2/2010.
[4] Per tutti v. G. Tropea, Conferimento di incarichi direttivi e giudice amministrativo, cit.
[5] Nel testo si fa ovviamente riferimento alla necessità di porre al riparo dalle sollecitazioni dell’ambito politico o comunque esterne non già la persona del giudice in quanto tale (per questo profilo si rinvia per tutti ai contributi raccolti nel recente fascicolo monotematico della rivista Questione Giustizia, 1/2024, Magistrati: essere ed apparire impararziali), ma l’istituzione di appartenenza, l’indipendenza della quale deve essere pur sempre anch’essa valutata, secondo principi pacificamente enunciati ed applicati dalle Corti europee (ex multis cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea - grande sezione, 5 novembre 2019, causa C-192/18, Commissione c. Repubblica di Polonia; Id., 19 novembre 2019, cause riunite C-585/18, C-624/18 e C-625/18; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Prima Sezione, 20 agosto 2021, causa BEG spa vs Italia; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sezione seconda, sentenza 21 febbraio 2023, Catană contro Moldavia; per ulteriori riferimenti per tutti v. L. Montanari, La garanzia europea dell’indipendenza dei giudici nazionali, in DPCE on line, 1/2020, 957 ss), secondo la teoria cd dell’apparenza e non dell’effettiva sussistenza. Sull’attenuazione delle garanzie nel caso del Consiglio di Stato, organo di vertice della magistratura amministrativa, v. infra, sub § 4 e in ptcl dottrina citata sub nota 11.
[6] L’ammissibilità del giudizio di ottemperanza nel contenzioso sugli uffici direttivi e semidirettivi è stata esplicitamente affermata dalla Corte cost. nelle sentenze 8 settembre 1995 n. 419 e 15 settembre 1995 n. 435, rese su conflitto di attribuzione sollevato dal CSM nei confronti del Consiglio di Stato e decise sulla base del richiamo del principio di effettività della tutela giurisdizionale e della circostanza che si trattasse di porre in essere attività vincolate o meramente esecutive della pronuncia, prive pertanto di discrezionalità. Che il problema sia rimasto aperto è testimoniato dalla tormentata riscrittura dell’art. 17 della l. 195/1958 riportato nel testo, che approda alla versione attualmente vigente che esprime un evidente tentativo di raggiungere un compromesso tra contrapposte esigenze. Sul tema specifico dell’ammissibilità del giudizio di ottemperanza e dei suoi limiti per tutti v. A. Storto, I provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura e il giudizio di ottemperanza: storia di un conflitto di attribuzione che vuole rimanere tale, in B. Capponi, B. Sassani, A. Storto, R. Tiscini (a cura di), Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, Torino, 2014, 1365 ss. Sul tema in generale del sindacato sugli atti del CSM e dei suoi limiti, ex multis v. V. Spagna Musso, Sulla sindacabilità degli atti del C.S.M. da parte del Consiglio di Stato, in Giur cost., 1962, 1609 ss; A. M. Sandulli , Atti del Consiglio superiore della magistratura e sindacato giurisdizionale, in Giust. civ., 1963, II, 3 ss.; U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della Magistratura, in Giur. cost., 1968, 690 ss; E. Cannada - Bartoli, Tutela dei magistrati eletti al Consiglio superiore, giurisdizione del Consiglio di Stato e forma degli atti, in Foro amm., 1972, 109 ss; F.G. Scoca, Atti del CSM e loro sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 1/1987, 5 ss; G. Ferrari, Consiglio Superiore della Magistratura, in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, 1988; G. Cugurra, Atti del Consiglio Superiore della Magistraura e sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 3/1984, 310ss; F. Patroni Griffi, Atti del CSM e sindacato giurisdizionale nel DL 24 giugno 2014 n. 90 in www.giustizia-amministrativa.it, 4 agosto 2014; R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.giustizia-amministrativa.it, 9 novembre 2019; E. Zampetti, Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario, in GiustiziaInsieme, 19 novembre 2020; Id., Postilla a Il controverso requisito della permanenza in servizio per il consigliere CSM, la decisione spetta al giudice ordinario (nota a Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2021 n. 215), in GiustiziaInsieme, 23 febbraio 2021.
[7] V. ante , sub nota 2.
[8] V. sub nota 6.
[9] Per tutti v. T. F. Giupponi, Il Consiglio superiore della magistratura e le prospettive di riforma, in Quaderni costituzionali, n. 1/2021; M. Lipari, Verso l’Alta Corte disciplinare e dei conflitti? Unità funzionale della giurisdizione, responsabilità del giudice e autogoverno delle magistrature, in www.giustizia-amministrativa.it, 7 agosto 2022; M.A. Sandulli, Intervista a cura di P. Filippi e R. Conti nell’ambito del Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici, in Giustiziainsieme,28 marzo 2022; R. Greco, L’indipendenza del giudice amministrativo tra falsi problemi e criticità reali, in GiustiziaInsieme, 27 settembre 2023.
[10] Il Consiglio superiore della magistratura viene istituito con l. 24 marzo 1958 n. 195; il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con l. 27 aprile 1982 n. 186; il Consiglio di presidenza della corte dei conti con l. 13 aprile 1988 n. 117; il Consiglio della magistratura militare con l. 30 dicembre 1988 n. 561. Per il quadro d’insieme ex multis v. G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del costituente, in Dir. proc. Amm., 2003, 363 ss; R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema costituzionale, in Dir. proc. Amm., 1998, 144 ss; A. D’Aloia, L’autogoverno delle magistrature “non ordinarie” nel sistema costituzionale della giurisdizione, Napoli, 1995; S. Senese, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Dig. Disc. Pubbl., VII, Torino Utet, 1991, 218 ss; R. Pinardi, Sulla composizione degli organi di garanzia delle magistrature speciali, in Consulta online.
[11] Ex multis: A. M. Sandulli, Giudici amministrativi, concorsi, indipendenza, in Giur. It., 1973, III, 1, 129 ss; F. Sorrentino, I consiglieri di Stato e la Corte, in Dir. soc., 1974, 162 ss; G. Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione nella Costituzione italiana, inScritti in onore di M.S. Giannini, Milano, 1988, III, 707 ss; G. Scarselli, La terzietà e l’indipendenza dei giudici del Consiglio di Stato, in Foro It., 2001, III, 269 ss; S. Raimondi, L’ordinamento della giustizia amministrativa in Sicilia, Privilegio e condanna, Milano, 2009; A. Orsi Battaglini,Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005; M. Protto, Le garanzie di indipendenza e imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata , A Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, 2012, 95 ss; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2013, 119 ss; E. Follieri, Le garanzie d’indipendenza del Consiglio di Stato, in Dir. proc. Amm., 4/2016, 1234 ss; A. Proto Pisani, G. Scarselli, La strana idea di consentire ai giudici amministrativi di comporre i collegi delle sezioni unite, in Foro it., 2018, V, 62 ss; P. Tanda, Profili istituzionali,processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. Cost., 2020, 3, 697 ss; G. Montedoro, E Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione Giustizia, 1/2021, 15 ss; F. Volpe, Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non-processo), in GiustiziaInsieme, 13 marzo 2024; L. Ferrara, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2024, 51 ss; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2024, 94 ss.
[12] Così efficacemente G.P.Cirillo, I principi generali del processo amministrativo, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, Padova, 2014, 28.
[13] S. Bartole, Indipendenza del giudice (teoria generale), in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, 1; R. Romboli – S. Panizza, Ordinamento giudiziario, in Dig. Disc. Pubbl., X Torino, 1995, 380 ss; U. Pototschnig, Il giudice interessato non è indipendente, in Giur. Cost., 1965, 1291 ss.
[14] Corte cost. 14.5.1968, n.44, in Foro it., 1968, I, 1396 ss.
[15] Pacificamente ammessa nei confronti del decreto presidenziale o ministeriale di recepimento, l'impugnativa è stata dunque ben presto estesa alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura in quanto atto preparatorio del procedimento concluso dal decreto presidenziale o ministeriale (Cons Stato, Sez. IV, 14 marzo 1962 n. 248; Id., 22 novembre 1962 n. 752) e, successivamente, alla deliberazione in quanto tale, indipendentemente dalla circostanza che si traduca in un decreto presidenziale o ministeriale (Tar Lazio, Sez. I, 8 giugno 1983 n. 491).
[16] Cfr. Cass. SU 29 settembre 2000 n. 1049
[17] La letteratura sul tema è molto ampia. Mi limito pertanto a rinviare, anche per gli uteriori riferimenti, a F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in GiustiziaInsieme, 11 novembre 2020; Id., Quel pasticciacio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 34/2020; Id., Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in Federalismi, 9 febbraio 2022.
Giudici laici ed Onorari Europei. Viaggio attorno alla conoscenza delle norme CEDU e della Carta Europea.
Report dell'assemblea dei giudici laici e onorari europei che si è tenuta a Lipsia dal 10 al 12 maggio 2024 in occasione della giornata del Giudice Laico.
di Alessia Perolio
Sommario: 1. Premessa – 2. Dal Processo di Lipsia al principio di legalità - 3. Il Primo Processo di Lipsia quale antecedente alla creazione della Corte Penale Internazionale - 4. Il Secondo Processo di Lipsia e la violazione del diritto di legalità e dei diritti umani - 5. Il principio di legalità - 6. Lo stato della magistratura laica ed onoraria in Europa - 7. Commissione per la redazione di un comune codice etico.
1. Premessa
Si è svolta a Lipsia, città nello Stato della Sassonia, nella ex Germania dell'Est, l’annuale assemblea della Rete Europea dei Giudici Laici ed Onorari Enalj.
La città, culturalmente attiva sin dall’antichità, è famosa per ospitare nella chiesa tardo gotica di San Tommaso la tomba del compositore J.S Bach, nonché per essere stata scelta nel 1519 quale sede per la celebre disputa fra Lutero e Johammes Eck ed ancora, per essere stata la sede universitaria ove studiò Goethe.
In epoca più recente, la chiesa di San Nicola ebbe un ruolo importante per la caduta del regime comunista, nel 1989, in quanto sede di incontro per le "manifestazioni del lunedì".
2. Dal Processo di Lipsia al principio di legalità
L’assemblea di Enalj cui hanno partecipato delegazioni di Italia, Germania, Austria, Polonia, Svezia, Finlandia, Belgio e Bulgaria, è stata preceduta da una visita alla sede della Corte Amministrativa Federale, suprema corte della giustizia amministrativa della Germania, che si occupa principalmente di dispute tra i cittadini e lo Stato ad eccezione delle materie riguardanti le politiche sociali, devolute alla Corte sociale federale, e a quelle riguardanti al finanza, gestite dalla Corte fiscale federale.
Il palazzo, dopo la prima guerra mondiale era stato sede del Supremo Tribunale Costituzionale della Repubblica di Weimar, che decideva nei casi di conflitto fra il governo del Reich e quelli dei singoli stati.
3. Il Primo Processo di Lipsia quale antecedente alla creazione della Corte Penale Internazionale
Presso la Corte Suprema Tedesca dal 23 maggio al 16 luglio 1921 si tenne il Processo di Lipsia. Un processo a criminali di guerra tedeschi della prima guerra mondiale, celebrato come parte delle sanzioni imposte al Governo Tedesco nel Trattato di Versailles.
Di attuale importanza anche ai giorni nostri, per le vicende che riguardano le guerre alle porte dell’Europa, il processo di Lipsia viene ricordato in quanto fu il primo tentativo di elaborare un sistema globale per il perseguimento delle violazioni del diritto internazionale. Tendenza rinnovata nel corso della seconda guerra mondiale, e dopo la fine della Guerra fredda, sino a giungere alla costituzione della Corte penale internazionale nel 2002.
4. Il Secondo Processo di Lipsia e la violazione del diritto di legalità e dei diritti umani
Maggiormente famoso, è il processo che si svolse a Lipsia a seguito dell’incendio del Reichstag davanti alla IV Sessione penale del tribunale del Reichstag e che iniziò nell’aprile del 1933 e terminò con la sentenza pronunciata il 23 dicembre.
Imputati tre comunisti bulgari, uno dei quali, Georgi Dimitrov (eroe bulgaro) figura di spicco del comunismo internazionale in quanto capo del Komintern per l’Europa Occidentale.
Il processo ebbe un’enorme risonanza mediatica, sia in Europa che negli Stati Uniti e fu consentito di seguire il dibattito a ottantadue corrispondenti di giornali stranieri, oltre dodici tedeschi.
Il caso fu emblematico in quanto vennero violate alcune delle procedure ordinarie quali la mancata fornitura di un’immediata assistenza legale agli imputati e l’uso delle catene con modalità degradanti e prive del rispetto della dignità umana.
Infatti i sospettati vennero tenuti incatenati dal 4 aprile al 31 agosto 1933, sia di giorno che di notte, addirittura durante le prime tre settimane vennero ammanettati anche alle caviglie, violando apertamente le più elementari procedure carcerarie.
Inoltre quale corollario al processo si ricorda che al fine di riuscire a condannare i ritenuti colpevoli dell’incendio del Reichstag il governo nazista aveva fatto approvare una legge, la cosiddetta Lex van der Lubbe (dal nome di uno degli imputati) del 29 marzo 1933, secondo la quale era prevista la condanna a morte per reati volti a sovvertire l’ordine.
Tuttavia il reato era stato commesso il 27 febbraio, quindi prima dell’entrata in vigore della normativa. Il Governo dell’epoca tuttavia aveva estesero la validità della legge a tutti i crimini compiuti a partire dal 30 gennaio.
La legge risultava così essere una vera e propria lex contra personas.
Nella sala dove si svolse il processo, i membri di Enalj hanno avuto modo di riflettere su alcuni aspetti che concernono il processo moderno.
Innanzitutto il rimando ai processi celebrati nel palazzo visitato ha permesso di focalizzare l’attenzione sull’uso ed abuso di procedure che ledono il rispetto della dignità umana e dell’attualità del tema, in relazione alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti”.
5. Il principio di legalità
Richiamando le vicende del Processo di Lipsia del 1933, si è posta l’attenzione su di un importante principio: il Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali.
L’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 stabilisce che: «Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso».
Parimenti, sul versante del diritto dell’Unione, Il Trattato sull’Unione europea, e più precisamente l’articolo 49 della Carta rispecchia che amplia l’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU, prevede che «1. Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.
2. Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni.»
L’Assemblea di Enalj, guidata dal Presidente Rainer Sedelmayer e dal segretario Hasso Lieber ha trattato alcuni tempi importanti quali la richiesta di maggior partecipazione dei giudici laici all’amministrazione della giustizia quale principio di democrazia.
Il Presidente per la ricerca scientifica, Prof. Piotr Juchaz, professore di Filosofia del diritto presso l’Università Adam Mickiewicz University (che ha ospitato l’Assemblea di Enalj nel 2022) ha esortato le organizzazioni nazionali a farsi portavoce affinché sia garantita la loro partecipazione nei rispettivi Consigli Nazionali.
Questa richiesta va di pari passo a quella avanzata da tempo dalla magistratura onoraria italiana che chiede di poter eleggere propri rappresentanti non solo presso i consigli giudiziari ma anche presso il Consiglio Superiore della Magistratura al fine di portare la voce dei tanti magistrati onorari che contribuiscono ad amministrare la giustizia.
La professoressa Daniela Heid, Ph.D alla Università Federale di Scienze amministrative applicate ha tenuto una lezione relativa alla struttura dell’Unione Europea, ripercorrendo le tappe che vanno dalla prima approvazione dei trattati che istituivano la CECA e l’EURATOM al Trattato di Lisbona.
L’assemblea ha avuto modo di instaurare un dibattito con la professoressa Heid e la Professoressa Karolina M. Cern, vicedirettore per la ricerca e la cooperazione internazionale, intervenuta all’assemblea per parlare dei modelli di partecipazione laica alla giustizia. La professoressa Cern ha ipotizzato che le istituzioni europee possano raccomandare agli stati membri di promuovere maggiormente la partecipazione laica all’amministrazione della giustizia, inserendo la previsione nel dettato costituzionale dei singoli paesi membri.
Vi è quindi una maggior richiesta di partecipazione all’amministrazione della giustizia da parte di tutte le associazioni europee che vogliono sensibilizzare la cittadinanza circa il lavoro svolto.
6. Lo stato della magistratura laica ed onoraria in Europa
Tra i report nazionali si segnala quello bulgaro, che, in vista di una riforma della figura di giudice laico, ha portato i giudici laici bulgari a chiedere aiuto a tutti i partecipanti al fine di confrontarsi sulla natura, l’impegno, la tutela dei diritti dei lavoratori nonché il trattamento economico. Ciò a significare che l’esigenza di maggior tutela non è solo una prerogativa della magistratura italiana ma è sentita in varie parti dell’Unione.
Di rilievo è la dichiarazione di Solidarietà alla causa della magistratura onoraria italiana votata dall’Assemblea che ha dato mandato di firma al Presidente Sedelmayer affinché inoltrasse alle autorità italiane una lettera di supporto e di auspicio ad una rapida definizione delle annose vicende che riguardano la magistratura onoraria italiana.
Report molto interessante è quello dell’associazione tedesca di giudici laici DVD che con la sua rivista Richter Ohne Robe (letteralmente giudici senza toga) si occupa di trattare vari temi concernenti la magistratura onoraria tedesca. In particolar modo dal report del 2024 emerge l’attenzione dell’associazione circa le modalità di reclutamento dei magistrati laici. Soprattutto in relazione all’esigenza di maggior controllo dei soggetti che vengono arruolati tra le file della magistratura laica. La preoccupazione che viene messa in rilievo anche da altre associazioni tedesche è che i magistrati laici ed onorari non siano soggetti asserviti alla politica, poiché vi è il rischio, in mancanza di regole deontologiche ed etiche, che vi sia una deriva xenofoba.
7. Commissione per la redazione di un comune codice etico
Tale argomento si collega con l’ultimo punto trattato all’ordine del giorno dell’Assemblea. Volutamente lasciato per ultimo in quanto merita un approfondimento maggiore. Si tratta della creazione di una commissione per la redazione dei principi del Codice Etico comune ai giudici onorari e laici.
Della commissione fanno parte la Polonia che tramite il Prof. Juchaz la presiede, nonché la Germania con il proprio rappresentante Hasso Lieber dell’associazione Parijus, l’Italia rappresentata dalla dott.ssa Alessia Perolio, magistrato onorario di Tribunale, e delegata UNIMO, nonché la Bulgaria con il Mimo Gracia fondatore della Fondazione Giudici laici e la Finlandia rappresentata da Ollavi Kuikka. L’obbiettivo è quello di redigere un codice che contenga delle norme etiche che rappresentino la sintesi tra la normativa di tutti gli stati membri e siano considerate il minimo denominatore comune applicabile a tutte le variegate figure di giudici onorari e laici che compongono l’associazione.
(Immagine: la sede di Lipsia della Corte amministrativa federale, foto via Wikimedia Commons)
1. Il tema della sessione odierna, all’interno di un convegno dedicato a magistratura e social network, è assai ampio perché investe la comunicazione istituzionale ed extraistituzionale e, quindi, anche le esternazioni dei magistrati non concernenti i procedimenti dagli stessi trattati ed attinenti a vicende politiche, giudiziarie e di costume. Non mi soffermo sulla differenza tra social network e social media e, muovendo dalla nozione data di questi ultimi dal Consiglio Consultivo dei giudici europei (CCJE)[1], svolgo alcune considerazioni esclusivamente in ordine ai limiti che si impongono ai magistrati nella comunicazione extraistituzionale stabiliti da norme di diritto positivo e la cui violazione può dare luogo a responsabilità disciplinare.
2. I social media, soprattutto nei primi anni di diffusione, hanno costituito uno spazio in cui tutto sembrava possibile, regolamentato dal legislatore, non solo italiano, con ritardo e non sempre con efficacia. Questo spazio virtuale è occupato anche dai magistrati, non di rado con esternazioni su questioni della politica e di costume e su vicende giudiziarie, con esiti spesso criticati dall’opinione pubblica, ma non solo, soprattutto in quanto rischierebbero di appannare l’immagine di imparzialità. Il loro uso da parte dei magistrati è quindi diventato «argomento di attuale preoccupazione» per la stessa magistratura[2] ed ha reso pressante la questione delle regole che devono governarlo. Il Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) ha infatti sottolineato «che ancora pochi codici di condotta forniscono orientamenti pratici specifici a questo riguardo»[3]; nel senso di una carente regolamentazione positiva è l’indicazione contenuta in un atto dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione[4].
È difficile dissentire da tale constatazione, se si ha riguardo ai doveri stabiliti dal codice disciplinare recato dal d.lgs. n. 109 del 2006 (di seguito, codice), i soli la cui violazione dà luogo a responsabilità disciplinare, sui quali mi soffermo brevemente.
3. La cautela raccomandata da molti atti sovranazionali ed internazionali nell’utilizzo dei social mediada parte dei magistrati[5] costituisce il contenuto dei doveri generali stabiliti dall’art. 1, comma 1, del codice, concernenti però esclusivamente quelli nell’esercizio delle funzioni. Questa disposizione stabilisce i doveri del «riserbo»[6], dello «equilibrio», della «imparzialità» (anche come immagine della stessa), i quali implicano e sanciscono quello di cautela. Riduce, ma non vanifica l’importanza dell’enunciazione la sua «funzione prevalentemente simbolica (o se si vuole "pedagogica") e deontologica», poiché, ferma l’inidoneità ad incidere sulla tipizzazione contenuta nel codice, assume rilievo «nell'ambito delle valutazioni rimesse al giudice in presenza di clausole generali»[7]. Nondimeno, la riferibilità dei doveri alle condotte tenute nell’esercizio delle funzioni esclude che possano riguardare la comunicazione social extraistituzionale, strutturalmente inidonea ad integrare le fattispecie dell’art. 2 del codice, salvo, forse, quanto a due delle stesse.
La prima è quella prevista dal comma 1, lettera c) (violazione dell’obbligo di astensione), che può assumere rilievo non soltanto sul piano probatorio, circostanza questa da sola insufficiente a desumere dalla previsione un limite concernente l’uso dei social[8]. La considerazione che i social sono caratterizzati da un’ampia gamma di modalità di interazione (like, commenti, post, segni grafici di differente significato, quali il pollice alzato, il cuore ecc.), in continua evoluzione, pone infatti la questione del significato di detti segni e del nuovo significato di risalenti nozioni (in particolare dell’amicizia) e può preludere ad un rilievo della stessa ai fini dell’integrazione di detto illecito. La questione è stata approfondita in altri ordinamenti[9], di recente anche dal Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con riguardo alla nozione di «amicizia»[10]. Quest’ultimo si è orientato nel ritenere che «le amicizie sui profili social non costituiscono un elemento di per sé rilevante a manifestare la reale consuetudine di rapporto personale» e, quindi, i presupposti dell’obbligo di astensione. Nondimeno, ha dato atto che «le amicizie e i contatti sui social network e media, pur non equiparabili a quelli della vita reale, quando concernono persone coinvolte nell’attività professionale del magistrato devono essere contenute ovvero evitate, allorché essi possano incidere sulla sua immagine di imparzialità». La direttiva è improntata a ragionevole prudenza, ma occorre andare oltre. In un tempo in cui sempre più evapora la distinzione tra mondo reale e mondo virtuale, è necessario riflettere sull’ammissibilità di un’interpretazione che omologhi le nozioni dei due diversi mondi e tenga altresì conto della forza del significato dei richiamati segni[11]. Tanto, ancora più in considerazione della natura di illecito di mera condotta della violazione dell’obbligo di astensione, che tutela l’immagine di imparzialità e non richiede, sotto il profilo soggettivo, il dolo specifico e, quindi, l’intento di favorire o danneggiare una delle parti[12]. Per dette ragioni, dalla fattispecie funzionale potrebbero essere desunti nuovi, precisi limiti che si impongono nella comunicazione in esame, con diretta ricaduta sull’esercizio delle funzioni di una condotta tenuta al di fuori delle stesse.
La seconda fattispecie è quella dell’art. 2, comma 1, lettera d) (comportamenti abitualmente o gravemente scorretti). Secondo la giurisprudenza di legittimità, i comportamenti che la integrano non devono necessariamente essere frutto dell'esercizio delle funzioni. Il concetto di "ufficio" non ha infatti una mera connotazione "logistica" e, quindi, i comportamenti non concernono i soli rapporti direttamente investiti dall'esercizio delle funzioni e riguardano anche le relazioni di tipo personale con soggetti che le hanno intessute con il magistrato per il ruolo che questi svolge, non essendo altresì necessario che la scorrettezza abbia avuto in concreto una ricaduta negativa in termini funzionali sui compiti istituzionali[13]. Non occorrendo che il comportamento sia frutto dell'esercizio delle funzioni, la norma prefigura «una responsabilità disciplinare “di posizione”»[14], che rende rilevante, ai fini dell’integrazione dell’illecito, la comunicazione social extraistituzionale.
Limitando l’attenzione ai social consistenti in applicazioni che permettono lo scambio di informazioni e documenti tra più di due persone (più complessi problemi si pongono per le app di scambio tra due sole persone) e che danno luogo ad una vera e propria piazza, sia pure virtuale, la comunicazione in esame può integrare l’illecito quando concerna colleghi e personale dell’ufficio[15], ovvero una parte del procedimento[16] e non di rado concorre con quello dell’art. 4, lettera d), del codice[17]. I doveri enucleabili dalla fattispecie sono dunque riferibili alla stessa, benché la rilevanza della condotta con riguardo ad un numero limitato di soggetti (magistrati, collaboratori dell’ufficio, parti, difensori e quanti abbiano avuto rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario) ed a rapporti intessuti per ragioni di ufficio[18], tendenzialmente non li renda applicabili alle esternazioni socialaventi ad oggetto i più generali temi sopra indicati.
La comunicazione social extraistituzionale può, infine, venire in rilievo, in relazione alle fattispecie dell’art. 2, comma 1, lettere e), u), v)[19], ma esclusivamente sul piano probatorio, non al fine di identificare limiti alla stessa, fatta forse eccezione per la prima[20], ciò che rende inutile soffermarsi su di esse.
4. Le esternazioni a mezzo social non sembrano suscettibili di integrare le fattispecie dell’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 2006. Il codice, nel disegno originario, contemplava, nell’art. 1, comma 2, i doveri inerenti ai comportamenti al di fuori dell’esercizio delle funzioni e stabiliva che non dovevano compromettere «la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario». A tale dovere generale corrispondevano la fattispecie dell’art. 3, comma 1, lettera l), recante una rigorosa, ma generica, norma di chiusura secondo cui costituiva illecito «ogni altro comportamento tale da compromettere la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza», nonché quella della lettera f), in virtù della quale costituiva illecito disciplinare «la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo».
L’abrogazione di dette disposizioni da parte della legge n. 269 del 2006 ha relegato fuori dell’ambito disciplinare le esternazioni che, per la polemica ed inappropriata presa di posizione del magistrato sui temi più vari (anche politici), potrebbero in tesi metterne in discussione l’immagine di imparzialità. Su tale conclusione non incide la riferibilità, sostenuta da una parte della dottrina, del dovere di riserbo dell’art. 1 all’attività extrafunzionale del magistrato[21] che, a tacere d’altro[22], deve fare i conti con la ricordata, limitata funzione dei doveri generali. Irrilevante, come accennato, è poi la valenza meramente probatoria della comunicazione social, extraistituzionale, al fine della prova dei presupposti delle fattispecie dell’art. 3.
5. Le esternazioni a mezzo social possono, infine, costituire illeciti disciplinari configurabili in relazione a fatti reato che, nei casi previsti dall’art. 4 del codice, assumono detta connotazione indipendentemente da una loro connessione con l’esercizio delle funzioni e concorrono con gli illeciti previsti dagli artt. 2 e 3 del codice[23].
In disparte l’analisi nel dettaglio delle fattispecie dell’art. 4, comma 1, lettere a), b), c), che qui non interessa, è sufficiente osservare che si tratta di un illecito in relazione al quale viene in rilievo il magistrato quale cittadino, che nei comportamenti incontra i limiti che si impongono a tutti e, con riguardo ad esternazioni che possono integrare il reato di diffamazione – quello cui, tendenzialmente, può dare luogo la comunicazione extraistituzionale social – si pongono le ordinarie questioni concernenti i presupposti della natura diffamatoria delle dichiarazioni[24] e l’idoneità dell’esternazione ad integrare una «comunicazione» con più persone[25].
Un elemento di specificità è costituito dalla previsione della lettera d), secondo cui costituisce illecito disciplinare «qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l'immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l'azione penale non può essere iniziata o proseguita». La considerazione che l’archiviazione del procedimento penale non esclude l’illecito[26] rende chiaro l’aggravamento della posizione del magistrato rispetto a chi non è tale, ancora più dopo il rafforzamento dell’irrilevanza del provvedimento in ambito extrapenale con la riforma Cartabia[27]. Aggravamento che rinviene la sua ratio nell’esigenza di garantire un livello di correttezza più alto di quello che può essere preteso dal comune cittadino[28], di evidente importanza con riguardo al reato di diffamazione integrato dalle esternazioni nei social.
La configurazione dell’illecito è condizionata alla compromissione dell'immagine del magistrato e della funzione giudiziaria, sotto il profilo della credibilità e della imparzialità, unico bene giuridico protetto dalla richiamata disposizione[29]. Può dunque «accadere che un determinato fatto, pur integrando un’ipotesi di reato, sia però concretamente privo di una effettiva idoneità lesiva dell'immagine sociale del magistrato»[30]. La circostanza che la lesione dell’immagine dipende dalle concrete modalità di consumazione dell’illecito[31] e non è esclusa dalla «circostanza che l'immagine pubblica dell'incolpato sia stata, in concreto e direttamente, compromessa a seguito dello strepitusconseguente all'esercizio dell'azione disciplinare»[32], connota peraltro la norma di evidente rigore.
6. Il breve excursus dimostra la sostanziale inesistenza di limiti alla comunicazione socialextraistituzionale stabiliti dal codice. Sembra dunque emergere un vuoto nel sistema di tutela dei doveri deontologici del magistrato, nonostante sia convincimento pacifico e condiviso che questi anche nei comportamenti al di fuori dell’esercizio delle funzioni è tenuto ad una condotta in grado di preservare la considerazione di cui deve godere presso la pubblica opinione e la fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria.
In realtà, non esiste il paventato vuoto assoluto. Il sistema deontologico della magistratura ordinaria si caratterizza rispetto a tutti gli altri (concernenti impiegati pubblici e professionisti) in quanto è articolato su più piani. A seguito dell’attribuzione all’A.N.M. dell’approvazione del codice etico[33], accanto ai doveri deontologici stabiliti dal codice, la cui violazione dà luogo a responsabilità disciplinare, sussistono infatti ulteriori, per certi versi più rigorosi, doveri deontologici, riferibili anche alla comunicazione in esame[34], dei quali è garante l’A.N.M. che, qualora ne accerti la violazione, irroga una sanzione che incide sul rapporto associativo.
Ulteriori doveri deontologici concernenti (per quanto qui interessa) il ‘saper essere’ magistrato, pure riferibili alla comunicazione in esame, sono altresì stabiliti dalle norme primarie, secondarie e dalle direttive consiliari[35], della cui osservanza è garante il C.S.M. e che vengono in rilievo, tra l’altro, in occasione delle valutazioni di professionalità e del conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi.
Si tratta di un articolato sistema che è rispettoso dei principi sovranazionali, i quali non esigono un’imprescindibile relazione tra dovere deontologico e responsabilità disciplinare[36] e che esclude l’esistenza del paventato vuoto assoluto.
7. Non è tuttavia possibile ignorare l’istanza per la previsione di limiti all’utilizzo dei social da parte dei magistrati proveniente dall’opinione pubblica, ma non solo, tenuto conto della richiamata presa di posizione del CGJE con l’Opinion n. 25-2022, che auspica l’introduzione nel codice di previsioni che rendano disciplinarmente sanzionabili le esternazioni social che non li osservano e che, tuttavia, deve fare i conti con complessi problemi.
Il primo è dato dalla difficoltà, se non dalla sostanziale impossibilità, della tipizzazione dell’illecito in esame che, peraltro, è questione che riguarda il complessivo sistema disciplinare, di cui ha dato atto anche il CCJE[37], ritenendo non «necessario (in virtù del principio nulla poena sine lege o su qualsiasi altra base) o anche possibile cercare di specificare in termini precisi o dettagliati a livello europeo la natura di tutti i comportamenti scorretti che potrebbero portare a procedimenti e sanzioni disciplinari»[38]. Siffatta difficoltà potrebbe far pensare all’introduzione nel codice di una clausola generale che renda disciplinarmente sanzionabili le esternazioni social lesive dei beni della credibilità della funzione, dell’imparzialità e della fiducia nella magistratura.
L’ardua praticabilità di una tale scelta è tuttavia nota, come lo è il risalente dibattito sulla questione della previsione degli illeciti disciplinari mediante una clausola generale, giudicata dalla Corte costituzionale rispettosa del principio di legalità[39], ma autorevolmente contrastata[40], non avendo avuto successo la tesi intermedia, prospettata nella Relazione Paladin, che suggeriva di prevedere «clausole finali con cui si colpisce ogni “comportamento idoneo” a ledere interessi specificamente individuati dalla legge»[41], accolta nel disegno originario del codice, ma, come accennato, abrogata dalla legge n. 269 del 2006.
La compatibilità con la Costituzione della scelta in favore di una clausola generale è tuttavia destinata a scontrarsi con ostacoli pressoché insormontabili, soprattutto con riguardo al tema in esame.
Il principio che dovrebbe informarla è chiaro, è stato più volte concordemente enunciato dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale[42] e da atti sovranazionali[43] ed è stato efficacemente sintetizzato dal C.S.M.[44]: i magistrati, come tutti i cittadini, godono della libertà riconosciuta e garantita dall’art. 21 Cost., ma la funzione svolta fa venire in rilievo valori costituzionali, che impongono un bilanciamento e, quindi, una compressione dell’espansione di detta libertà, la quale non deve compromettere l’affidabilità, la credibilità e l’immagine di imparzialità della magistratura. Ed è altresì arduo, pressoché impossibile, trovare chi non condivida le parole di Piero Calamandrei: «I giudici, per godere della fiducia del popolo, non basta che siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali»[45].
Se è facile concordare sul principio generale, assai difficile, se non impossibile, è giungere ad una condivisa applicazione dello stesso, per quanto chiaro, almeno all’apparenza. Stabilire quali siano gli accennati limiti, alla luce del bene protetto, pur essendo indiscusso che questo è costituito dalla credibilità e dall’immagine di imparzialità della funzione giudiziaria, vuol dire confrontarsi con un rebus sostanzialmente non risolubile. La pratica impossibilità di una soluzione condivisa emerge, in sintesi: x) dalla giurisprudenza costituzionale, dato che l’apprezzamento del contenuto e della rilevanza dei «più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni» che si impongono nel bilanciamento, ha condotto la Corte, nella decisione di due questioni di legittimità costituzionale, in relazione a due fattispecie, a soluzioni non del tutto collimanti, della cui diversità potrebbe almeno discutersi, come qui non è possibile[46]; x-1) dalla giurisprudenza convenzionale, in quanto la recente sentenza della Corte EDU Danileţ c. Romania, per le ben tre opinioni dissenzienti, ma forse anche per quella concorrente, è emblematicamente espressiva della difficoltà (se non dell’impossibilità) di stabilire un condiviso discrimine tra opinioni legittime e censurabili; x-2) dagli atti sovranazionali, tra gli altri, le Linee guida predisposte dalla Rete globale sull’integrità dei giudici e l’Opinion n. 25 (2022) del CCJE, favorevoli all’utilizzo dei social media, ma consapevoli dell’esigenza di «preservare l’autorità morale, l’integrità, il decoro e la dignità della loro funzione» (art. 5 delle prime) e del fatto che «azioni relativamente piccole e casuali (come ad es. un “like”) […] possono avere potenzialmente implicazioni significative (art. 6 delle Linee guida), sicché «I giudici non dovrebbero impegnarsi nei social media in un modo che possa influenzare negativamente la percezione pubblica dell’integrità giudiziaria» (§ 73 dell’Opinion), che, quindi, indulgono in prospettazioni che, in definitiva, non sciolgono i nodi che dovrebbero essere dipanati; x-3) dalla dottrina, come si desume, da ultimo, dal complesso delle autorevoli opinioni contenute in un numero monografico di Questione giustizia[47], emblematiche della difficoltà di scrivere lo statuto dell’imparzialità del magistrato – anche, e soprattutto, con riguardo al profilo dell’immagine della stessa – in una moderna società democratica, specie al tempo di internet.
Siffatta difficoltà non solleva dall’obbligo di dare contenuto all’imperativo di «trovare un equilibrio tra il diritto fondamentale di un singolo giudice alla libertà di espressione e l'interesse legittimo di una società democratica a preservare la fiducia del pubblico nella magistratura»[48]. Non ho, ovviamente, soluzioni salvifiche e, per il tempo a disposizione, devo limitarmi ad osservare che la questione è complicata, tra l’altro, perché investe la concezione della figura e del ruolo del giudice, del rapporto tra il magistrato e la legge, tra il legiferare ed il giudicare. Nell’impossibilità di affrontare in questa sede detta questione, dovremmo almeno concordare con la considerazione che il giudice «non è una macchina sillogizzante»[49] e prendere atto che si è affermata la «discrezionalità (della interpretazione) giudiziaria» e che questa, unitamente ad altre note ragioni, ha determinato l’espansione del potere giudiziario. Ma se i giudici hanno assunto poteri che li portano a decisioni concernenti interessi vitali ben oltre quanto accadeva nel passato, anche recente, se «il giudice è anche, in una certa misura, un creatore di diritto», si impongono allora – come ha sottolineato l’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ) – «responsabilità e regole etiche coerenti con questa evoluzione» ed «il serio rispetto della deontologia professionale»[50]. Più si riduce il tecnicismo e si espande la discrezionalità giudiziaria, più si amplia il dovere dell’apparenza di imparzialità, che impone al magistrato di non essere coinvolto nelle vicende politiche, sulle quali maggiormente si focalizza l’attenzione, ma anche giudiziarie. Ed emerge altresì il "paradosso del giudice", in quanto deve essere "terzo" rispetto alle dinamiche culturali e sociali e, tuttavia, allo stesso tempo, in esse deve essere "immerso", affinché possa correttamente e compiutamente svolgere l’attività diretta a realizzare i valori costituzionali[51].
A questo antico problema se ne è aggiunto uno nuovo, determinato dal fatto che nel mondo della rete il verdetto, in un’ansia di velocità della risposta, assurta a valore assoluto e dominante ben oltre quanto imposto dalla ragionevole durata del processo, tende ad essere abnormemente attratto alla «smisurata giuria pubblica» dei social, che giudicano in tempo reale, attraverso anomali plebisciti, nel dilagare del processo mediatico. Questo fenomeno va contrastato, tenendo altresì conto che in questi distorti processi mediatici le esternazioni dei magistrati non irragionevolmente, per competenza e professionalità, sono accreditate di particolare peso. L’esito, devastante, è che le esternazioni, benché non provenienti dai magistrati che trattano i processi, hanno un alto potenziale lesivo della presunzione di innocenza, concorrendo a comporre il quadro probatorio della c.d. giustizia mediatica, alimentandone le distorsioni, fenomeno che va decisamente contrastato e che esige, quanto ai magistrati, di evitarle.
Le complesse questioni poste dalle esternazioni social extraistituzionali vanno dunque affrontate muovendo dalla premessa che nel tempo che stiamo vivendo, del «crepuscolo del dovere», occorre una rinnovata attenzione ai doveri; ce lo impone la Costituzione, come altrove ho cercato di dimostrare[52]. La funzione di giudicare, scriveva Piero Calamandrei, implica un «potere misterioso, che può essere straziante per il giudice più che per il giudicato» e, se «la vocazione del missionario è vocazione di sacrificio», «quella del giudice [aggiungo, e del pubblico ministero] esige uno spirito di sacrificio anche più inflessibile»[53]. Chi decide di fare parte della magistratura, opera una scelta non solo lavorativa, ma di vita, di una missione al servizio del Paese, che richiede consapevolezza di svolgere un servizio fondamentale per garantire la sicurezza, la legalità, i diritti fondamentali, la democrazia. Ed è alla luce di tale significato della funzione che vanno riempiti di contenuti doveri e limiti che vengono in gioco nel bilanciamento della libertà di manifestazione del pensiero e della tutela dell’immagine di imparzialità ed indipendenza, della presunzione di innocenza. Per meritare la fiducia, bene ha detto Giorgio Lattanzi, «il giudice, come anche il pubblico ministero, non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire imparziale, e per apparire tale occorre che sia privo di legami politici, economici, sociali, personali o anche solo ideologici che possano farlo ritenere condizionato o condizionabile»[54] e, aggiungerei, pregiudizialmente schierato.
La rinnovata attenzione ai doveri va assicurata attraverso la maturazione di una condivisa professionalità, che condensa il complesso delle regole patrimonio comune della funzione giudiziaria concernenti anche il ‘saper essere’ magistrato, da garantire anzitutto mediante la formazione, che non è soltanto affinamento delle conoscenze tecnico-giuridiche, ma è costruzione di una comunanza di idee e di valori, in vista della condivisione del più profondo significato di detti doveri, della funzione e del significato dell’essere magistrato quale scelta di vita. È questa la strada da percorrere per contrastare la pretesa di un diritto disciplinare quale principale, se non addirittura unico, strumento di garanzia della correttezza dei comportamenti, per evitare la riproposizione in tale ambito delle dinamiche degenerative che affliggono il diritto penale. Ed è una strada che impone di abbandonare la tentazione dell’autoreferenzialità, di non indulgere nel ritenere il ruolo attribuito alla funzione giudiziaria assistito da una sorta di primazia culturale all’interno e fuori del processo, di riscoprire il significato della funzione come dovere, che impone limiti, i quali ne costituiscono necessario corollario, strumentali a garantire autonomia e indipendenza. Una strada da percorrere interrogandosi sull’esigenza di dare nuova forza, significato ed effettività agli interventi del C.S.M. nel corso della vita professionale, sulla possibilità di innovare il sistema deontologico non disciplinare che oggi fa capo all’A.N.M.[55] Le singole sentenze, «per quanto rese “in nome del popolo italiano” non hanno bisogno del consenso popolare», ma «la funzione giudiziaria, considerata nella sua interezza, invece ne ha necessità assoluta»[56] e ciò esige anche un’affidante definizione dei confini della comunicazione extraistituzionale social, nella consapevolezza che, se non siamo in grado di dare risposte alle legittime istanze dell’opinione pubblica e dei cittadini, è alto il rischio di una caduta di fiducia che la magistratura non può permettersi.
Pubblichiamo il testo dell’intervento al convegno organizzato dal C.S.M. sul tema “La magistratura e i social network”, Roma 16/17 maggio 2024, in attesa del suo inserimento agli atti da parte del Consiglio Superiore.
[1] Nel Parere n. 25 (2022) sulla libertà di espressione dei giudici.
[2] Parere del CCJE n. 25 (2022), § 21.
[3] Parere del CCJE n. 25 (2022), § 21.
[4] Recante le Risposte della Suprema Corte di Cassazione al questionario, proveniente dalla Corte Suprema della Repubblica Ceca, su “Le attività secondarie e l’uso dei social media da parte dei magistrati“, ottobre 2021, in cui si legge: «L’attività compiuta dai singoli magistrati sui social network non è invece oggetto di regolamentazione positiva, neppure nella forma di regole non vincolanti aventi funzione di direttive o raccomandazioni. Peraltro, deve ritenersi che essa trovi la sua misura e i suoi limiti nelle norme che connotano la deontologia del magistrato».
[5] Limitatamente alla comunicazione extraistituzionale, tra i principali: Bangalore Principles of Judicial Conduct (2002), Aja, 2002, specie artt. 4.6-4.8; Linee guida non vincolanti sull’utilizzo dei social media da parte dei giudici, predisposte dalla Rete Globale sull’integrità dei giudici, Vienna, 2019; Guida sulla comunicazione con i media e il pubblico per i tribunali e le autorità giudiziarieDocumento preparato dal Gruppo di lavoro CEPEJ sulla qualità della giustizia, Strasburgo, 2018, dedicato alla comunicazione istituzionale; ma con riferimenti al tema in esame (v. art. 3.5); Parere del CCJE n. 25 (2022), cit. nella nota 1. Cfr. anche Parere n. 3 (2002) del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) all'attenzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sui principi e le regole che disciplinano la condotta professionale dei giudici (v., in particolare, la parte concernente l'imparzialità, paragrafo B); Statuto universale del giudice, adottato dal Consiglio Centrale dell’UIM a Taiwan il 17 novembre 1999, aggiornato a Santiago del Cile il 14 novembre 2017 (specie art. 6.2); Rapporto ENCJ sulla fiducia del pubblico e l’immagine della giustizia, rapporto 2019-2020 sulla comunicazione con gli altri rami del potere; Rapporto ENCJ sulla fiducia del pubblico e l’immagine della giustizia, rapporto 2018-2019 sull’uso individuale e istituzionale dei social media all’interno della magistratura. Per ulteriori indicazioni, anche in ordine alla disciplina negli Stati al di fuori dell’Europa, F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Questione giustizia,1/2, 2024, 313; G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati sui rapporti tra giustizia, comunicazione e informazione, AA.VV., Comunicazione e giustizia, SSM, Roma, 2024, 3.
[6] Termine dal significato più forte di «riservatezza», che descrive «un atteggiamento richiesto al magistrato all’evidente fine di evitare che, facendo percepire i propri sentimenti e le proprie opinioni, possa suscitare dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità, danneggiando la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione», S.U. n. 6827 del 2014.
[7] S.U., n. 6827 del 2014.
[8] Post, immagini ecc., possono concorrere a dimostrare l’esistenza della «amicizia» o della «grave inimicizia» con uno dei difensori e/o delle parti, ovvero la manifestazione di un parere sull’oggetto del procedimento, così da integrare una causa di astensione. Ma questione diversa è, come si precisa nel testo, la rilevanza ex se dei segni. Per la rilevanza sul piano probatorio, Sezione disciplinare, sentenza n. 52 del 2018, concernente la pubblicazione nel profilo Facebook della magistrata di fotografie che la ritraevano in atteggiamenti confidenziali con un avvocato.
[9] Si rinvia sul punto a F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati, cit.; G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati, cit.
[10] Linee guida in materia di uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi, Delibera del 25 marzo 2021, n. 40, su cui G. Grasso, Libertà di espressione e regole di condotta: l’uso responsabile dei social media da parte della magistratura, Foro it., 2021, III, c. 313.
[11] In ordine alla valenza da attribuire al «richiamo sul proprio profilo Facebook, [di] una pubblica petizione» su una data piattaforma, Sezione disciplinare, sentenza n. 86 del 2021. Sulla sufficienza dell’utilizzo di un nickname in un blog, per escludere la responsabilità, Sezione disciplinare, sentenza n. 67 del 2018, che comunque ha ritenuto le dichiarazioni prive di carattere diffamatorio.
[12] Per la cui integrazione non si richiede uno sviamento di potere o un vantaggio per il magistrato o per il terzo. Per la giurisprudenza disciplinare in tema di astensione, da ultimo, R. Sanlorenzo. Imparzialità, libertà di espressione del magistrato e illecito disciplinare, Questione giustizia,1/2, 2024, 161.
[13] Ex plurimis, S.U. n. 22302 del 2021. Tuttavia, va segnalato che la Sezione disciplinare, sentenza n. 81 del 2018, ha ritenuto che la mail inoltrata nella mailing list riservata a magistrati aderenti all'A.N.M., contenente un’aspra critica di un provvedimento giurisdizionale costituisce condotta non tenuta nell’esercizio delle funzioni, ma ha poi assolto il magistrato sulla scorta della concorrente motivazione che nell’esternazione «non si rinvengono riferimenti individualizzanti che consentano di identificare l'autore del provvedimento oggetto di critica», non essendo stati indicati «in modo specifico l'organo giudicante dell'atto stesso, né la sua data di emissione, né il numero di registro, né tanto meno le parti ed i rispettivi difensori».
[14] Così, peraltro criticamente, G. Verde, La vicenda Palamara e le ripercussioni sulla magistratura: una riflessione “eretica”, in, Sul potere giudiziale e sull’inganno dei concetti, Torino, 2023, 207.
[15] Sezione disciplinare, sentenza n. 79 del 2023, avente ad oggetto la pubblicazione nel profilo Facebook, in bacheca libera e visibile a tutti gli utenti del portale, di numerosi post contenenti espressioni ed apprezzamenti dal contenuto gravemente sconveniente, offensivo, minaccioso ed anche diffamatorio di colleghi e funzionari dello stesso ufficio in cui svolgeva le funzioni il magistrato incolpato; analogamente, sentenza n. 153 del 2021.
[16] Sezione disciplinare, sentenza n. 127 del 2017, relativa all’inserimento nel profilo Facebook dell’incolpato di espressioni di apprezzamento sull’avvenenza di un attore, parte del procedimento assegnato alla magistrata, assolta, perché il fatto è stato giudicato di scarsa rilevanza.
[17] Sezione disciplinare, sentenza n. 79 del 2023, avente ad oggetto la pubblicazione nel profilo Facebook, in bacheca libera e visibile a tutti gli utenti del portale, di numerosi post contenenti espressioni ed apprezzamenti dal contenuto gravemente sconveniente, offensivo, minaccioso ed anche diffamatorio di colleghi e funzionari dello stesso ufficio in cui svolgeva le funzioni il magistrato incolpato; analogamente, sentenza n. 153 del 2021.
[18] Sentenza n. 81 del 2018, avente ad oggetto l’aspra critica di un provvedimento giudiziario in una mail inoltrata nella mailing listdell'A.N.M., ritenuta tuttavia priva di riferimenti individualizzanti. Anche in relazione alla tipologia di rapporti indicati nel testo si pone, ovviamente, la generale questione dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero, come accaduto nel caso deciso dalla Sezione disciplinare con la sentenza n. 86 del 2021, che ha assolto il magistrato dall’illecito dell’art. 2, lettera d), ritenendo che l’avere postato nel proprio profilo Facebook, a carattere pubblico, una petizione divulgata da una piattaforma, diretta ad ottenere che la Sezione disciplinare rivedesse un’ordinanza cautelare, aspramente criticata, aveva «assunto i connotati della "inopportunità", ovvero della riprovevolezza professionale, sotto il profilo della carenza di equilibrio, ma non appare aver trasmodato oltre il limite della liceità disciplinare».
[19] Lettera e) «l'ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato»; lettera u), «la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui»; lettera v), «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione di quanto disposto dall'articolo 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 10».
[20] In tal senso viene in rilievo un caso deciso dalla Sezione disciplinare, sentenza n. 99 del 2015: promossa azione disciplinare anche in relazione all’illecito dell’art. 2, lettera e), in quanto l’incolpato con le dichiarazioni contenute in una mail inoltrata nella mailing listdell’A.N.M., concernenti un procedimento pendente, avrebbe compiuto «anche una grave interferenza nei riguardi dei componenti il collegio giudicante e dello stesso PM di appello, esposti tutti ad una sorta di censura preventiva», la Sezione riqualificava l’illecito in quello dell’art. 4, lettera d), del codice, sicché non ha risolto la questione, in vero assai dubbia, dell’idoneità delle esternazioni in esame ad integrare l’illecito della lettera e). Vicenda analoga è quella decisa dalla sentenza n. 23 del 2014 (pure concernente dichiarazioni contenute in una mail inoltrata nella mailing list dell’A.N.M.), che ha riqualificato gli illeciti contestati dell’art. 2, comma 1, lettere d), e) e u), ritenendo «unica norma applicabile quella prevista dall'art. 4 lettera d)».
[21] Su detta questione, anche per riferimenti, S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Milano, 2013, 303.; D. Cavallini, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, 239.
[22] L’espresso richiamo nell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 «dei doveri disciplinati dall’articolo 1» costituisce, infatti, già da solo indice dell’irriferibilità di detti doveri alle fattispecie dell’art. 3, risultando altrimenti del tutto privo di senso e giustificazione quello operato dalla richiamata lettera.
[23] S.U. n. 1719 del 2020.
[24] Tra le altre, Sezione disciplinare, sentenza n. 98 del 2019, avente ad oggetto apprezzamenti in post pubblicati nei profili Facebook, Instagram e Twitter, giudicati «estranei ad una critica lecita essendosi tradotti in un autentico insulto»; sentenza n. 95 del 2016, concernente un post pubblicato dal magistrato nel proprio profilo Facebook, interpretato nel senso che le frasi contestate, nel contesto complessivo del post, non erano affatto offensive. Relativamente alle mailing list: ordinanza n. 50 del 2020, avente ad oggetto una mail inoltrata in una mailing list di magistrati; sentenza n. 99 del 2015, concernente una mail inoltrata nella mailing list dell’A.N.M., di cui è stata ritenuta la natura diffamatoria, ma il fatto giudicato di scarsa gravità ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006.
[25] Ritenuta integrata dalla Sezione disciplinare con la sentenza n. 107 del 2016, in riferimento al caso di post nel profilo Facebook che aveva una «pluralità dei destinatari, circa tremila, nonostante si trattasse di un'area riservata del proprio profilo Facebook». La sentenza aveva peraltro fatto applicazione dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, ma è stata in tale capo cassata con rinvio dalle Sezioni unite civili ed all’esito del relativo giudizio la Sezione disciplinare ha irrogato la sanzione dell’ammonimento, con la sentenza n. 20 del 2018. Le dichiarazioni contenute in una mail inoltrata in una mailing list dell’A.N.M. sono state ritenute idonee ad integrare una comunicazione con più persone: sentenza n. 99 del 2015 (sintetizzata nella nota che precede); ordinanza n. 120 del 2011, («non v'è dubbio che l'immissione in una mailing list gestita da un'associazione di messaggi contenenti frasi offensive o denigratorie dell'altrui reputazione in astratto è senz'altro riconducibile al delitto di diffamazione commesso attraverso il peculiare "mezzo di pubblicità" della rete Internet»); ordinanza n. 167 del 2010.
[26] Tanto se disposta per estinzione del reato, per improcedibilità, ovvero per infondatezza della notizia di reato, oppure per difetto dell’elemento soggettivo, S.U. n. 16277 del 2010.
[27] Come di recente sottolineato dalla Corte costituzionale, sentenza n. 41 del 2024.
[28] S.U. n. 10796 del 2015, con riguardo al caso dei messaggi telematici nel dominio informatico dell'A.N.M.
[29] Tra le molte, S.U. n. 18987 del 2017; n. 6327 del 2012; n. 25091 del 2010. Per detta ragione, è irrilevante la mancata percezione dell'offesa da parte della vittima del reato, S.U. n. 18987 del 2017.
[30] S.U. n. 34992 del 2022.
[31] S.U. n. 28263 del 2023 che sembra farle assurgere ad elemento necessario ma anche sufficiente ai fini della lesione del bene giuridico protetto dalla disposizione.
[32] S.U. n. 34992 del 2022.
[33] Art. 58-bis del d.lgs. n. 29 del 1993, trasfuso nell’art. 54 d.lgs. n. 165 del 2001, riscritto, senza sostanziali modifiche, dalla legge n. 190 del 2012.
[34] In particolare, cfr. l’art. 6.
[35] Tra l’altro, nella Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati, con le modifiche apportate dall’Assemblea plenaria”, e succ. mod. e nella Circolare n. P 14858 del 28 luglio 2015, recante il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria, e succ. mod.
[36] La Magna carta dei giudici stabilisce, infatti, che «L’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari» (art. 18); la Opinion no. 3 (2002) del CCJE esplicita che, «anche se c'è una sovrapposizione e un'interazione, i principi di condotta dovrebbero rimanere indipendenti dalle regole disciplinari applicabili ai giudici» (art. 48); secondo l’European judicial systems CEPEJ Evaluation Report 2020, «per quanto riguarda i procedimenti disciplinari, le violazioni dell’etica professionale non giocano un ruolo importante»
[37] Opinion n. 3 (2002) del CCJE: «alla fine, tutti ricorrono a formulazioni generali catch-all» e non è «necessario […] o anche possibile cercare di specificare in termini precisi o dettagliati a livello europeo la natura di tutti i comportamenti scorretti».
[38] Opinion n. 3 (2002) del CCJE, § 63.
[39] Sentenza n. 100 del 1981.
[40] È sufficiente ricordare la presa di posizione in favore della tipizzazione contenuta nel Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 luglio 1990, nel Parere reso dal CSM nel settembre del 1984 su un disegno di legge sulla responsabilità del magistrato presentato nel corso della IX Legislatura, nella dottrina, ex plurimis, G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano, 1977, 857.
[41] Relazione della Commissione Presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura, presieduta da L. Paladin, 10 gennaio 1991, 138.
[42] Per riferimenti sulla prima, C. Bologna, La libertà di espressione dei «funzionari», Bologna, 2020, 147 ss; sulla seconda, di recente, F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati, cit.; ID, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Questione giustizia, 9 giugno 2022; R. Sabato, Una nuova tutela “genetica” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo?, Questione giustizia, n.1/2, 2024, 222.
[43] Agli atti citati nella nota 5 adde, European Commission for Democracy through Law, Opinion n. 806/2015 On the Freedom of Expression of Judges, 23 giugno 2015 (Commissione di Venezia), in cui, pur ribadendo che la garanzia della libertà di espressione si estende anche ai giudici, è sottolineato che «la specificità dei doveri e delle responsabilità» e «il bisogno di assicurare l’imparzialità e l’indipendenza del giudiziario, vengono considerati obiettivi legittimi per imporre restrizioni specifiche alla (loro) libertà di espressione, associazione e riunione, incluse le attività politiche». Benché nessuno Stato aderente al Consiglio d’Europa preveda norme costituzionali che limitino la libertà di manifestazione del pensiero dei giudici, la legislazione e la giurisprudenza individuano spesso limiti alla libertà di espressione degli appartenenti all’ordine giudiziario, limiti la cui ampiezza è connessa anche al sistema di reclutamento dei magistrati e alle caratteristiche generali dell’ordine giudiziario medesimo.
[44] Nel sito web ufficiale del C.S.M., nella sezione dedicata all’autonomia della magistratura, che ospita anche le principali, pertinenti sentenze della Corte costituzionale e delibere consiliari, si legge: «I magistrati, come tutti i cittadini, godono della libertà riconosciuta e garantita dall’art. 21 Cost., la libertà, cioè, di manifestare il proprio pensiero. Tale libertà, però, attesa la peculiare funzione svolta dalla magistratura, si declina diversamente rispetto al cittadino comune, venendo in rilievo altri valori costituzionali, che consentono un ideale bilanciamento e, quindi, una compressione dell’espansione del diritto di libera manifestazione del pensiero. In particolare, la necessaria imparzialità e indipendenza che devono caratterizzare l’esercizio delle funzioni giudiziarie impongono dunque che il diritto in discorso non sia esercitato in modo anomalo o se ne abusi, abuso che si concreta ove vengano lese proprio imparzialità e indipendenza del magistrato».
[45] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1954, 239.
[46] Il riferimento è alle sentenze n. 197 del 2018 e n. 51 del 2024. La prima ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lettera e). La seconda ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale del richiamato art. 12, comma 5, limitatamente alla parte in cui stabilisce l’automatismo della rimozione del magistrato che «incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
[47] Magistrati: essere ed apparire imparziali, Questione giustizia, 1/2, 2024.
[48] CCJE, Opinion n. 25 (2022), § 31.
[49] Sono parole di P. Calamandrei, La vocazione del giudice, La Stampa, 8 maggio 1956, e in Opere giuridiche di Piero Calamandrei, vol. X, Roma 2019, 422.
[50] ENCJ working group. Judicial Ethics Report 2009-2010-Groupe de travail RECJ. Déontologie judiciaire Rapport 2009-2010.
[51] S. Mannuzzu, il fantasma della giustizia, Bologna, 1998, 43.
[52] Per esigenze di sintesi, mi permetto di rinviare a L. Salvato, Il ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale quale garante e promotore dei diritti fondamentali, Atti del Convegno su La giustizia al servizio del Paese, Palermo 12/13 ottobre 2023, Quaderni della Rivista della Corte dei conti, 2/2023, 105.
[53] P. Calamandrei, La vocazione del giudice, cit., 423.
[54] Intervento all’Incontro del Presidente della Repubblica con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con d.m. 2 marzo 2021, Roma, 30 marzo 2022.
[55] Muovendo dalla considerazione che, se le regole deontologiche presidiate dalla responsabilità disciplinare non sono preordinate a garantire l’ordine giudiziario ed i valori propri di quest’ultimo, ma sono strumentali alla tutela dell’ordinamento giuridico generale (cfr. Corte cost., sentenze n. 289 del 1992, n. 119 del 1995), tale connotazione dovrebbe caratterizzare anche le regole la cui violazione non dà luogo a detta responsabilità, con tutte le conseguenze che da ciò derivano.
[56] S. Mannuzzu, il fantasma della giustizia, cit., 28.
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