ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il giudice e lo storico
di Alessandro Gamberini
Sommario: 1. Paralleli e differenze epistemologiche - 1.2. Dalla cronaca agli avvenimenti remoti, il pendolo problematico dell’intervento giudiziario - 2. IL processo per la strage di Bologna del 1980. La sentenza a carico di Gilberto Cavallini: tra divergenti ricostruzioni storiche e un sillogismo inaccettabile nella formulazione della condanna.
1. Paralleli e differenze epistemologiche
Lungo il percorso ricostruttivo delle vicende umane l’argomentazione del giudice penale incrocia quella dello storico e si svolge allo stesso modo con un metodo di indagine che fa capo a documenti, testimonianze, prove logiche, fonti qualificate.
In un noto scritto risalente al 1939 Piero Calamandrei[1] indica un’affinità tra le regole probatorie e la metodologia storica e al contempo le barriere che delimitano l’attività giurisdizionale entro regole, che lo storico può ignorare.
L’accostamento non era nuovo rispetto al modo col quale si svolge la ricerca storica. Fino dal ‘700 il gesuita Henry Griffet aveva paragonato lo storico a un giudice che accerta i fatti valutando l’attendibilità delle varie testimonianze[2] e il tema è rimasto ben presente alla ricostruzione storica spesso fondata attraverso la consultazione anche di atti giudiziari[3].
Molte sono le affinità anche rispetto a come si svolge la ricerca della verità, ma il diritto e la storiografia hanno regole e fondamenti epistemologici che non sempre coincidono.
I due mestieri rimangono distinti perché la ricostruzione giudiziaria si proietta sulla necessità di assumere una decisione in sentenza sulla responsabilità di un imputato e si svolge cadenzata su canoni processuali che, nel nostro sistema, pur scontando il libero convincimento del giudice senza presunzioni legali, implicano un processo selettivo del materiale utilizzabile secondo il rispetto del contraddittorio. La ricerca della verità non si svolge “ad ogni costo”, perché la sentenza può essere ragionevolmente accettata da chi ne subisce le conseguenze e, più in generale, dalla società civile, perché frutto trasparente di un itinerario condiviso (che, tra l’altro garantisce anche che la verità appaia come il più probabile dei risultati).
L’attività giurisdizionale si misura normalmente rispetto a un passato prossimo, alle cronache delittuose sulle quali si inserisce l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, una storia minore che viene narrata dal giudice nella sentenza, riempiendo i vuoti che la frammentarietà del tessuto probatorio inevitabilmente propone.
La narrazione introduce il rischio dell’invenzione, spesso mascherata da valutazione unitaria degli indizi e presenta il rischio che sia influenzata da informazioni private, dall’utilizzo di massime d’esperienza non consolidate, frutto di intuizioni o di personali acquisizioni del giudice.
Un rischio che corre al pari di quello dello storico. Dovrebbero entrambi guardarsi in primo luogo dal trovare quello che cercano a priori, senza lasciarsi guidare decisivamente dai fatti e dalle prove: non esiste un fossato metodologico tra le due attività, tanto che la documentazione giudiziaria è considerata preziosa come detto anche per lo storico.
Ciò che muta drasticamente è la diversità di obbiettivi.
Il fatto viene ricostruito (e valorizzato) dal giudice allo scopo di accertare una responsabilità, incasellarlo in un precetto e irrogare una sanzione: un’attività conoscitiva che richiede certezza e si dispiega, subito dopo, in un’attività essenzialmente volitiva che trasforma in un comando, cristallizzato nel dispositivo, la sua scelta. Come nota Calamandrei, l’attività ermeneutica[4] si propone a quel punto come un’attività politica, nel senso più alto del termine.
In realtà può avvenire che proprio il comando[5] condizioni il processo cognitivo che accompagna anche l’ermeneutica del fatto, visto l’inevitabile intreccio che si crea con l’ermeneutica giuridica, e dunque che le pieghe del sillogismo giudiziario siano condizionate dalla suggestione del risultato al quale si vuole pervenire. La crisi che ha investito in questi anni il principio di legalità e la tipicità della fattispecie penale lo propone con maggiore frequenza, finendo per rendere più arduo il collegamento con una ricostruzione reale degli accadimenti.
1.2. Dalla cronaca agli avvenimenti remoti, il pendolo problematico dell’intervento giudiziario
Il tema assume un diverso significato quando il processo ricostruisce una responsabilità penale per avvenimenti delittuosi lontani nel tempo, che implicano la valutazione di contesti e di vicende politiche che si sono sviluppate nel corso di decenni.
In questi casi la diversità dei due approcci diviene più manifesta. La libertà di cui gode lo storico nel valutare e nel valorizzare alcune fonti, a dispetto di altre, si dispiega in un pluralismo degli esiti. Il suo itinerario non è segnato dalla necessità di una scelta (imparziale) di condanna o di assoluzione, ma può svilupparsi, mantenendo il dubbio, fino a che ulteriori elementi non coprano gli interrogativi emersi.
La necessità di verifica di una ricerca storica difficilmente corrisponde alla capacità dei giudici di soddisfarla, perché la res sulla quale è focalizzata la loro attenzione deve proiettarsi su un giudicato senza ritardo, vista la durata ragionevole del processo. La stessa riduzione della complessità dei dati, incanalati in un contraddittorio che ne limita l’esposizione, può imporre di tralasciare avvenimenti diversamente rilevanti. Anche il giudicato sembra poco compatibile con la ricerca storica, che si mantiene sempre aperta a verificare i suoi risultati di fronte a nuove emergenze.
Il Giudice, quando sia chiamato a decidere su fatti iscritti in un passato remoto, si trova in grave difficoltà di fronte a un’oralità mancante o comunque gravemente compromessa, a una documentazione in parte scomparsa, alla quale pur non può sottrarsi quando si tratta di delitti imprescrittibili.
Ha come supporto fonti giudiziarie iscritte in esiti ormai definitivi sulle quali può cercare di appoggiare il richiamo a massime di esperienza e al notorio, ma non può che recuperare, spesso decisivamente, la ricostruzione di uno scenario frutto di un’opzione oggetto di discussione storica, alla quale appendere la decisione, armonizzando i frammenti che ha acquisito nel processo. Lavora similmente allo storico – che altrettanto deve mantenere una prospettiva universalistica e oggettiva - alla ricerca della verità sulle tracce che gli avvenimenti hanno lasciato sul terreno.
Su un altro versante appare evidente come il contraddittorio non possa che essere ridotto e asfittico per la minorata difesa nella quale si trova l’imputato che subisce il logoramento o la cancellazione di eventuali apporti difensivi, in ben maggior misura, a distanza di molto tempo dai fatti che gli vengono addebitati.
Ancora più significativi i quesiti che si pongono rispetto al significato della pena irrogata a un imputato che il decorso del tempo può avere profondamente cambiato, svilendo così inesorabilmente ogni contenuto rieducativo della sanzione, comunque priva di ogni funzione di prevenzione di una pericolosità ormai inesistente.
In tali casi è ben visibile l’antinomia tra la necessità di giudicare il singolo, stante il fatto che il delitto non ammette per la sua gravità di essere prescritto, e l’azione corroditrice del tempo, che contrae la memoria viva degli avvenimenti e impedisce un accertamento fisiologico, secondo i canoni dell’oralità e dell’immediatezza che dovrebbero garantire il contraddittorio nel processo accusatorio.
D’altro canto, se si esamina con disincanto la morfologia anche del processo penale ordinario, impressa nella sua costituzione materiale, si scopre quanto la realtà fattuale si sia allontanata da tale modello normativo, per molte ragioni che sarebbe lungo in questa sede elencare.
Nei processi aventi per oggetto vicende remote difficilmente il giudice può limitarsi al mestiere che ha appreso e sperimentato nello svolgimento fisiologico della sua funzione rispetto ai delitti iscritti nella cronaca giudiziaria.
La verifica della responsabilità di un imputato per la condotta delittuosa può avvenire spesso solo con un’analisi del contesto storico nel quale la condotta si è svolta, perché ad esso rimandano anche i criteri di vaglio del materiale probatorio.
In tali casi balza in primo piano le necessità di consolidare attraverso lo strumento del processo penale una memoria dei delitti, delle modalità del loro svolgersi e dei loro protagonisti e del loro significato. La ricostruzione della verità dell’accaduto rappresenta del resto uno strumento che le vittime rivendicano costantemente per l’elaborazione del lutto, essenziale per ogni forma di riconciliazione e superamento della frattura che il delitto ha generato.
A ben guardare la stessa ragione del carattere imprescrittibile di alcuni delitti, che li colloca fuori dalla dimensione temporale della giustizia penale, è iscritta nella necessità di mantenere memoria di fatti che appaiono essere ferite di una identità collettiva, che non ammette oblio.
E dunque alla tutela della memoria viene ricondotta direttamente anche la funzione del giudice in un pendolo che oscilla necessariamente, dal lato opposto del suo moto, sulla ragione coessenziale dello svolgersi della stessa, l’accertamento della responsabilità dell’imputato.
In tali processi la pubblicità del dibattimento finisce per essere quello “spazio pubblico” nel quale si delinea un confronto tra politica e processo volto a incidere sul discorso complessivo che lega la responsabilità di un imputato alla storia del Paese[6].
Il pericolo al quale si espone il Giudice è rappresentato dalla ricostruzione di un passato che si adatti agli scopi e alle sollecitazioni che provengono dalle parti sociali e politiche, sostituendo il rigore ricostruttivo con una “mitologia storica”, per usare un termine sul quale Hobsbawm metteva in guardia gli stessi storici.[7]
D’altro lato storia e memoria possono rimanere anche su piani distinti, rimanendo la seconda ancorata a testimonianze che, anche nella loro singolarità e senza bisogno di essere sistematizzate da un filo conduttore, valgono a lasciare il ricordo del passato.
Il tema della ricostruzione della memoria è ben noto, istituzionalmente configurato, rispetto alla giurisdizione della Corte penale internazionale e dei Tribunali internazionali ad hoc per i maxidelitti attribuiti alla loro competenza – nella quale una valutazione di tal fatta appartiene alla fisiologia del sistema, che giudica sì un imputato, ma vuole ritagliare un quadro della memoria storica degli avvenimenti sottoposti al suo giudizio per prevenire i conflitti e esercitare un ruolo educativo[8].
Cronaca, storia e memoria interferiscono dunque sull’esercizio della funzione giurisdizionale e ne modellano le procedure e gli esiti.
2. IL processo per la strage di Bologna del 1980. La sentenza a carico di Gilberto Cavallini: tra divergenti ricostruzioni storiche e un sillogismo inaccettabile nella formulazione della condanna.
Le riflessioni svolte valgono a dare conto del significato del processo penale che si è celebrato nel 2019 a carico di Gilberto Cavallini (sentenza depositata nel gennaio del 2021) per la responsabilità della strage di Bologna del 1980.
Un delitto la cui gravità non ha bisogno di essere segnalata: si tratta, come ricorda la Corte di assise in sentenza, del più grave attentato terroristico che sia mai stato realizzato nel secondo dopoguerra in Europa, con effetti spaventosi per numero di vittime e di feriti e perduranti nel tempo sulla popolazione, per lo sgomento che ne derivò. Ciò che ha fatto di Bologna una città simbolo delle tante stragi che sono state perpetrate in Italia nella seconda metà del secolo scorso, anche grazie a varie forme di elaborazione del lutto e della memoria pubblica delle quali si è resa protagonista fin da subito la società civile, non rassegnata a subire versioni di comodo e riduzioniste dell’accaduto e dei suoi responsabili, come ha ricordato Annalisa Tota[9].
I condannati per questa strage con un esito definitivo erano stati, nella qualità di esecutori materiali, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, con sentenza risalente agli anni’80 (definitiva nel 1995) e Luigi Ciavardini nel 2007, con una pronuncia del Tribunale per i minorenni.
Nuove indagini, sviluppate anche su elementi emergenti dalle precedenti indagini, hanno portato a giudizio il nuovo imputato, che è stato ritenuto responsabile della strage e condannato.
Non è questa certo la sede per valutare questo esito, non avendo partecipato al lungo dibattimento e avendo solo letto la sentenza di oltre 2000 pagine che ne ha rappresentato l’epilogo. L’affermazione della responsabilità si fonda in primo e decisivo luogo sui numerosi elementi documentale e testimoniali che erano stati sinteticamente indicati dallo stesso Giudice delle indagini preliminari all’atto del rinvio a giudizio, ma viene iscritta in un quadro storico più ampio.
Lungo l’arco temporale del dibattimento è stato valutato il periodo che dalla fine degli anni ’60 e lungo il corso degli anni ’70 ha preceduto il delitto, contrassegnato da stragi e omicidi politici, di cui si dà conto in sentenza. Su tale periodo si svolgono varie considerazioni e valutazioni, che valgono a iscrivere il protagonismo dell’imputato rispetto alla strage nel contesto storico politico della destra eversiva e in particolare dei NAR, formazione nella quale militava unitamente a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti.
La ricostruzione giudiziaria non poteva limitarsi al carattere puntiforme della responsabilità del singolo dovendo collocarla, anche per darne acconcia spiegazione, in un più vasto orizzonte, che ne raccogliesse il significato e la memoria.
Microstoria e macrostoria finiscono per integrarsi e sorreggersi reciprocamente, fermo restando la necessità che il giudice si inoltri nel mare aperto di avvenimenti così risalenti e complessi con prudenza e rigore, mantenendo l’esistenza del dubbio come criterio epistemologico della sua ricerca.
Senza peraltro incontrare il limite di precedenti giudicati che possono sempre venire (prudentemente) rivisitati, in presenza di elementi nuovi per dimostrare la responsabilità di altri.
La ricerca della verità giudiziaria non incontra questo ostacolo invalicabile, vista la disciplina del codice di rito (art. 238), ma richiede ovviamente che gli elementi sui quali si fonda siano nuovi e rilevanti per superare quanto accertato in forma definitiva, fermo restando che un conflitto aperto che incidesse direttamente o indirettamente sulle precedenti condanne imporrebbe una revisione delle sentenze incompatibili.
Salvo che si intenda che il giudicato attenga solamente al comando e non alla fase cognitiva che lo supporta, la preclusione opera anche rispetto alla valutazione delle medesime risultanze probatorie sulle quali si è formato il giudicato (Sez.Un.23.02.1996 n.2110) e, come dirò, la Corte di Assise di Bologna si è sporta su questo punto avventurosamente, giungendo a ripensare e ridefinire (rivalutando una testimonianza ritenuta in precedenza inattendibile) il ruolo di Mambro e Fioravanti nella partecipazione alla strage.
La strage del 1980 rimanda a una strategia della tensione che, fin da piazza Fontana, ha scosso il nostro Paese, in un susseguirsi di attentati e stragi volte a preparare la possibilità di una svolta autoritaria. Ne dà conto Chiara Zampieri nel testo che accompagna la mia riflessione, richiamando i molti riscontri che pongono in connessione gli attentati eseguiti da gruppi della destra eversiva. Considerazioni che a me paiono del tutto significative, vuoi che essi siano stati direttamente organizzati all’interno di apparati dello Stato, vuoi che siano stati coperti per utilizzarli strumentalmente, impedendone così lo svelamento degli autori (l’accesso al cd archivio Russomanno ha consentito in questi ultimi anni di trovare molti riscontri all’attività dell’Ufficio riservato del Ministero degli Interni, vero e proprio centro di una attività eversiva sviluppata almeno fino al 1980 in stretta relazione con i protagonisti della Loggia P2).
La sentenza muove da questa tensione ricostruttiva, ma vista l’ampiezza dello scenario di cui si occupa – che, tra l’altro, vuole ricomprendere anche fatti di cui si resero responsabili formazioni del terrorismo di sinistra (Moro), omicidi di cui non sono stati chiariti giudiziariamente mandanti e esecutori (Pecorelli) , omicidi con un’accertata matrice mafiosa (Mattarella) - non sempre opera col rigore necessario, oscillando tra la proposizione di elementi conosciuti e in parte rivisitati alla luce di nuove acquisizioni, con accostamenti meramente suggestivi.
La ricostruzione politica sorregge poi alcune soluzioni giuridiche non condivisibili.
Non convince in particolare l’avere trasformato la categoria della “strage di Stato”, coniata in sede politica fin dalle bombe di Piazza Fontana (e dette il titolo a una nota pubblicazione) per evidenziare non solo le eventuali complicità che organi dello Stato hanno fornito agli autori nella preparazione degli attentati, ma le successive coperture e i dimostrati depistaggi - in una categoria giuridica sostitutiva della “strage politica” prevista dall’art. 285 c.p., quando il fatto ha “lo scopo di attentare la sicurezza dello Stato”: una nozione quest’ultima che, come tale, prescinde totalmente da complicità statuali precedenti o successive.
Né vale a giustificare la singolare soluzione che, come vedremo, porta la Corte di Assise a condannare Cavallini solo per strage comune ex art.422 c.p., il richiamo del tutto inconferente a quella giurisprudenza che si è formata rispetto al delitto di associazione terroristica per escludere da tale ambito quelle formazioni che, per difetto di requisiti organizzativi, palesino un’assoluta inidoneità a perseguire gli scopi.
La strage evidenzia, per l’enormità delle sue conseguenze di cui la Corte ha dato conto di essere ben consapevole, la capacità offensiva e gli scopi di chi l’ha organizzata e realizzata e dunque nessun dubbio poteva essere svolto a riguardo.
In realtà la soluzione viene proposta in aperta polemica con la Procura della Repubblica di Bologna, alla quale si rimprovera in primo luogo di avere collocato nel capo di imputazione la locuzione “spontaneista” come elemento descrittivo dell’organizzazione politica Nar, di cui l’imputato faceva parte (con Mambro e Fioravanti): con ciò riducendo, peraltro con un’evidente forzatura, l’attentato a un fatto puramente occasionale, “deciso in osteria”.
Diversamente la locuzione, se ben intendo, valeva come connotato autoreferenziale (utile comunque anche evitare accertamenti giudiziari relativi all’organizzazione!) e per segnalare una strategia dell’attività politico terroristica del gruppo volta a esaltarne la capacità di disarticolare la vita civile e politica, nell’imprevedibilità dei suoi obbiettivi e nell’inafferrabilità dei suoi protagonisti. Una tesi che trova conforto e chiarimento anche in quanto scrive in sede di ricostruzione storica Chiara Zampieri. E’difficile comprendere come questo elemento descrittivo della strategia politica di Nar possa esser stato considerato un ostacolo a sviluppare con pienezza il libero convincimento, tanto più rispetto alla qualificazione giuridica della condotta.
Più significativa la polemica che si legge in sentenza rispetto alla scelta dell’accusa di escludere nel capo di imputazione il concorso di eventuali altri partecipi, rimasti ignoti.
Scelta di cui non condivido il significato e che ha trovato rapida smentita peraltro, dopo un’avocazione dell’inchiesta da parte della Procura generale a seguito della richiesta di archiviazione, col rinvio a giudizio per la strage di Bologna, di un altro imputato, Paolo Bellini - in complicità con Licio Gelli quale finanziatore, non più perseguibile dopo il suo decesso - accusato di essere tra gli esecutori materiali della strage nel dibattimento in corso oggi avanti ad altra Corte di Assise (assieme ad altri, accusati di depistaggio e false informazioni al Pubblico Ministero).
Come dire, quel capo di imputazione sembra rinchiudere in un recinto, di cui si sono accertati una volta per tutte i contorni, una vicenda nella quale la ricostruzione storica ammette diversamente ipotesi e dubbi fondati su un possibile ampliamento della gamma dei responsabili rispetto a quelli accertati. Suscita perplessità l’avere voluto in sede di ipotesi accusatoria, trasfusa nell’imputazione, mettere una sorta di sigillo finale sulla drammatica vicenda, delineata come conclusa nell’individuazione del suo ultimo autore materiale e nell’individuazione dei suoi moventi e delle sue complicità (non era avvenuto nei capi di imputazione dei precedenti processi).
Va peraltro rilevato che l’assenza di quella formula non ha certamente un significato giuridico preclusivo delle scelte del giudice nel formulare la decisione: non giustifica l’esito della sentenza pronunciata a carico di Gilberto Cavallini qualificando come strage comune, ai sensi dell’art. 422 c.p., il delitto di cui viene ritenuto responsabile, per salvaguardare, come si legge, la correlazione tra imputazione e sentenza.
Anche in questo caso il Giudice poteva comunque esercitare il proprio libero convincimento sull’esistenza della strage politica, senza creare alcuna divaricazione tra il capo di accusa e la sentenza, per le ragioni già esplicitate sul significato dell’art. 285 c.p.: l’istituto di cui all’art. 521 c.p., per esperienza anche giurisprudenziale consolidata, consente di ritenere che non valga a evidenziare uno scollamento con l’ipotesi d’accusa l’accertamento in sentenza di una correità ipotetica di ignoti, pur non evidenziata nell’imputazione, quando non si delinei una trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, che incida sul diritto di difesa.
Per concludere questa sintetica riflessione.
Una ricostruzione storica anche parzialmente in dissenso tra accusa e giudice non aveva ragione di tradursi in una ermeneutica giuridica divaricata rispetto alla qualificazione giuridica della condotta contestata all’imputato.
E dunque si conferma come l’epistemologia che sorregge le scelte del giudice debba essere diverso da quello dello storico. Quando anche, come è nel caso, l’analisi del passato e dei contesti rimanga essenziale per la ricostruzione completa e la memoria di quanto accaduto e possa delineare un dissenso tra i protagonisti del processo, ciò non vale a - non dovrebbe- incidere direttamente sul sillogismo giudiziale, momento terminale della scelta del giudice all’atto in cui pronuncia la condanna dell’imputato.
[1] P. Calamandrei, II giudice e lo storico, in Riv. di Proc. Civ., 1939, pag.8 e ss. Su questo parallelismo si vedano le interessanti osservazioni di F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv.It .dir. proc. pen., 2013 pag.608 con le quali contesta che la averità del giudice sia una verità minore puramente convenzionale rispetto a quella dello scienziato o dello storico. Da ultimo vale segnalare le iosservazioni di P.Borgna, Verità storica e verità processuale, in Questione giustizia, 2019
[2] Henry Griffet, Traitè de differentes sortes de preuves qui servent a etablir la veritè de l’histoire ( 1769). Traggo la citazione da C.Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli 2020, pag. 154.
[3] Carlo Ginzburg ha tratto alcune delle sue ricerche storiche – penso ai Benandanti -dalla consultazione degli archivi dell’inquisizione conservati a Venezia presso gli archivi del Tribunale ecclesiastico.
[4] Calamandrei cita Croce (Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’esistenza, Napoli 1926) che opera un parallelo tra questa attività del giudice a quella del critico d’arte, che attribuisce a una scuola piuttosto che a un'altra un quadro di autore ignoto, scegliendo quella che “gli piace affermare come verità”( pag.74)
[5] V. P. Ferrua, Metodo scientifico e processo penale, in Dir. pen e Proc. 2019, rileva come, anche in questa fase, il giudice svolga un’attività cognitiva.
[6] Sul punto valgono le osservazioni di Fronza E, Il negazionismo come reato, Giuffrè 2012, pag 84, che richiama questo concetto nell’accezione di Hannah Arendt.
[7] Le osservazioni di E. Hobsbawm sono riportate da C. Ginzburg, Il filo e le tracce , Feltrinelli 2020, pg. 154.
[8] Sul punto valgano le osservazioni di Garapon A., Crimini che non si possono né perdonare né punire. L’emergenza di una giustizia internazionale, il Mulino, Bologna 2005. Vedi anche Damaska Mirjan, L’incerta identità delle Corti penali Internazionali, Criminalia, 2006.
[9]A.L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, il Mulino, 2009, pag. 53 e ss.
Il chiaro e lo scuro. Primo commento all’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo
di Davide Galliani
Sommario: 1. Premessa – 2. L’ordinanza 97/2021 accerta l’incostituzionalità? – 3. Il pericolo di ripristino – 4. Il destino del giudizio a quo – 5. I delitti diversi da quelli di contesto mafioso – 6. I procedimenti della sorveglianza fino al 10 maggio 2022 – 7. In particolare, i procedimenti riguardanti la liberazione condizionale – 8. L’equiparazione tra ergastolani collaboranti e non collaboranti – 9. Il sicuro ravvedimento, la libertà di non collaborare, la professione di innocenza – 10. Il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia.
1. Premessa
Questo scritto vuole essere un primo commento all’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo. Una sorta di radiografia dell’ordinanza, evidenziando i passaggi più chiari, insieme a quelli più scuri, vale a dire le argomentazioni che necessitano di essere più attentamente vagliate, proprio perché non sembrano condurre a valutazioni univoche.
2. L’ordinanza 97/2021 accerta l’incostituzionalità?
La prima domanda da porsi è la seguente: l’ordinanza 97 accerta la violazione costituzionale? Non la dichiara, su questo i dubbi non esistono. Ma l’accerta? La risposta è positiva. Ecco alcuni passaggi dell’ordinanza, ai quali aggiungo solo il corsivo-grassetto:
“anche per i condannati all’ergastolo che aspirano alla libertà condizionale, può essere ripetuto quanto osservato nella sentenza n. 253 del 2019: quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale, il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale” (§ 6, cons. dir.).
“La presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente. Non è affatto irragionevole, come meglio si dirà tra breve, presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza” (§ 7 cons. dir.).
“anche nel caso all’odierno esame la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato (…) la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica” (§ 8 cons. dir.).
“l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, potrebbe determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata, nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema” (§ 9 cons. dir.).
La Corte quindi accerta l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Consideriamola una pietra inamovibile, anzi diciamo così: se il Parlamento nulla farà entro il 10 maggio 2022, l’ergastolo ostativo sarà dichiarato incostituzionale, con una sentenza di accoglimento manipolativo.
3. Il pericolo di ripristino
Questo perché è la stessa Corte a dire in modo altrettanto chiaro che l’integrazione del pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata riguarderà anche la liberazione condizionale. A questo proposito, la seconda domanda: il Parlamento resta libero di approvare una riforma che non preveda il pericolo di ripristino?
Alcuni sosterranno che il Parlamento non farà niente, altri che qualcosa farà e di certo integrerà il pericolo di ripristino nella liberazione condizionale. Vorrei però ragionare a bocce ferme. L’ordinanza 97 non contiene solo alcuni argomenti che potranno essere utili al Parlamento, poiché dice molto chiaramente: il pericolo di ripristino deve valere anche in riferimento alla liberazione condizionale. Appunto: e se il Parlamento riforma la legislazione ma non inserisce il requisito del pericolo di ripristino?
L’unica possibilità che sono riuscito ad immaginare è la seguente: posto che la legislazione riformata superi nel suo complesso il vaglio della Corte, altro non si potrà fare, se non vi è il requisito del pericolo di ripristino, dichiararla incostituzionale nella parte in cui non lo prevede.
Dico questo non perché la Corte sia stata persuasiva nello spiegare il fondamento costituzionale del pericolo di ripristino, che ritiene anche in questo caso costituzionalmente necessario. Anzi, dice la Corte “a maggior ragione” costituzionalmente necessario nel caso della liberazione condizionale, per la quale “a fortiori” è necessario acquisire elementi tali da escludere, oltre all’attualità dei collegamenti, appunto “il rischio del loro futuro ripristino” (§ 9 cons. dir.).
Va sottolineato che la Corte nell’ordinanza in commento non parla del “pericolo di ripristino” dei collegamenti con la criminalità organizzata, ma del “rischio del loro futuro ripristino”, proponendo un lessico differente rispetto alla sentenza 253/2019: dal “pericolo” al “rischio”. Non possiamo sapere quale sarà il lessico che utilizzerà il legislatore o se la Corte, nel caso in cui il legislatore non facesse alcuna riforma in tale senso, dichiarerà incostituzionale il I comma dell’art. 4 bis usando la stessa espressione della sentenza 253 o quella dell’ordinanza 97.
Di là di questo, non riesco a vedere altra alternativa, nel caso in cui il Parlamento o non faccia alcuna riforma o riformi la legislazione senza prevedere il pericolo di ripristino o il rischio di un futuro ripristino dei collegamenti: ci penserà la Corte costituzionale, magari sul punto appoggiandosi a qualche sentenza tassativizzante del giudice di legittimità, che ben potrebbe giungere prima del 10 maggio 2022.
4. Il destino del giudizio a quo
A questo punto la terza domanda: cosa succede al giudizio a quo? Voglio dire: quando intercorre una modifica legislativa, che incide sull’ordito logico alla base delle censure prospettate dal giudice a quo, la Corte può decidere di restituire gli atti per rivalutare (almeno) la non manifesta infondatezza.
Separiamo le ipotesi, per comodità espositiva. Se il Parlamento non fa nulla, la Corte dichiara la incostituzionalità, con una sentenza di accoglimento manipolativo, aggiungendo il pericolo di ripristino o il rischio di futuro ripristino. In questa prima ipotesi, il giudizio a quo è salvo. La Corte, dopo la rinnovata sospensione disposta fino al 10 maggio 2022, prenderà atto che il Parlamento non è intervenuto, andrà con l’accoglimento manipolativo e il giudizio a quo riprenderà come sempre accade. Nel caso di specie – ove, in modo alquanto singolare, il PG aveva concluso per il rigetto del ricorso, a differenza di quanto accaduto in precedenza, nella prima delle due ordinanze che avevano generato la sentenza 253 – si dovrà annullare l’ordinanza impugnata, con l’effetto di devolvere il giudizio al Tribunale di Sorveglianza. Sempre per stare in questa prima ipotesi, nella quale il Parlamento non interviene, qualunque sia la scelta della Consulta circa il destino del lavoro all’esterno e della semilibertà e di tutti i reati di cui al I comma dell’art. 4 bis (torneremo su entrambe le questioni), nulla cambierebbe circa il destino del giudizio a quo.
Diversa l’altra ipotesi. Il Parlamento riforma la legislazione. Lasciamo in disparte la questione del pericolo di ripristino o del rischio di un futuro ripristino dei collegamenti. Si tratta di comprendere un’altra cosa: la legislazione riformata dovrà essere vagliata dalla Corte, per valutarne la conformità a Costituzione e alle motivazioni adottate nell’ordinanza 97, oppure si potrebbe avere una restituzione degli atti al giudice a quo, per rivalutare (almeno) la non manifesta infondatezza?
Non esprimo alcuna posizione. Basta che il tutto non diventi un terno al lotto. Strasburgo si è espressa in preferenza per una riforma legislativa, la Consulta rinvia l’udienza per dare tempo al Parlamento di intervenire, il Parlamento interviene, il giudice delle leggi restituisce gli atti alla Cassazione, la quale ripropone questione di costituzionalità, che sarà decisa dalla Corte (se sarà decisa) nel centenario dell’assegnazione del Nobel per la letteratura a George Bernard Shaw.
Scherzi a parte, anche se quando parliamo di pena perpetua il tempo è un fattore decisivo sotto diversi punti di vista, vi è da dire che i precedenti non aiutano. Nel caso del carcere per i giornalisti, non possiamo ancora esprimerci, visto che la nuova udienza è fissata per il 22 giugno 2021. Nel caso Cappato, invece, il Parlamento non era intervenuto entro il termine indicato dalla Corte. Ma mettiamo che nel caso dell’ergastolo ostativo lo faccia. La Corte nell’ordinanza 97 afferma in modo esplicito solo che la nuova normativa sarà valutata al fine di verificarne la conformità a Costituzione (§ 11 cons. dir.).
Non mi pare del tutto da scartare l’opzione della restituzione degli atti al giudice a quo. Molto dipenderà da quali scelte farà il legislatore. Azzardo una mezza previsione. Più saranno puntuali e limitate più la restituzione degli atti sarà improbabile. Ma oggi non possiamo escludere nulla, né che il legislatore farà una riforma non dico organica ma generale e né che, di conseguenza, si potrebbe avere la restituzione degli atti. A fronte di una nuova normativa di ampio respiro, la Corte potrebbe dubitare della tenuta dell’ordito logico adoperato dal giudice a quo.
5. I delitti diversi da quelli di contesto mafioso
Per completare questa prima parte di riflessioni, riferita ad aspetti più processualistici, ancora due domande. Cosa succede ai delitti diversi da quelli commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste? E che cosa accade, fino al 10 maggio 2022, non al giudizio a quo ma agli altri, nei quali un ergastolano ostativo non collaborante domanderà la liberazione condizionale?
Iniziamo dalla prima. L’ordinanza che ha sollevato la quaestio si riferiva solo ai due delitti appena richiamati. Sono i delitti che la Corte costituzionale nell’ordinanza 97 definisce di “contesto” mafioso, e le virgolette sono dello stesso giudice delle leggi, il quale, nelle sue argomentazioni, allarga il campo al delitto di associazione mafiosa (§ 8 cons. dir., V cpv.). L’allargamento lo si spiega in modo agevole. Serve alla Corte per confermare che la presunzione di pericolosità non è in sé incostituzionale, ma lo è in quanto assoluta, dal momento che deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione. Dato che, spiega la Corte, “l’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile ad un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo” (§ 8 cons. dir., VI cpv.), il risultato è che in discussione è anche il delitto di cui all’art. 416 bis.
Anche per questo quindi vale l’accertamento della incostituzionalità. Da un lato, esiste il precedente della sentenza 253, che ha dichiarato incostituzionale il comma 1 dell’art. 4 bis in riferimento a tutti e tre i delitti dei quali stiamo discutendo. Vero che in uno dei due giudizi a quibus era in discussione il delitto di associazione di tipo mafioso, tuttavia la Corte era stata molto chiara: la sua pronuncia avrebbe riguardato il comma 1 dell’art. 4 bis, recante una disciplina da applicarsi ai condannati per tutti e tre i delitti, e così è stato il conseguente dispositivo della sentenza 253.
Dall’altro lato, ogni dubbio mi sembra cadere se si considera uno dei motivi che hanno spinto la Corte ad adottare la tecnica decisoria del rinvio dell’udienza al 10 maggio 2022, al fine di rendere possibile un intervento legislativo. Sostiene la Corte (§ 10 cons. dir.): il giudice remittente chiede che l’illegittimità costituzionale sia dichiarata in riferimento ai soli delitti di contesto mafioso, ma il catalogo di cui al I comma dell’art. 4 bis contiene anche reati diversi (relativi alla criminalità terroristica) e addirittura delitti privi di riferimento al crimine organizzato (come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale). Pertanto: “emerge così l’incerta coerenza della disciplina risultante da un’eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata” (§ 10 cons. dir., IV cpv.).
La palla passa al Parlamento anche perché il suo intervento è necessario per porre fine all’incertezza riguardante i condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata, da intendersi di stampo mafioso.
Preso atto che la Corte accerta ma non dichiara l’incostituzionalità del I comma dell’art. 4 bis, nella parte in cui si riferisce ai delitti di cui all’art. 416 bis, a quelli avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, la domanda da porsi è cosa succede in riferimento a tutti gli altri delitti previsti nel I comma dell’art. 4 bis. I delitti ai quali si riferiva nel 1991, quando è stato introdotto, erano solo quattro, oggi sono sedici, e il 23 maggio nessuno si vergogna di questo scempio.
L’ordinanza 97 non dice niente di specifico sul punto, anzi la motivazione, valutata in termini complessivi, spinge a considerare fuori della sua portata un successivo intervento in via di incostituzionalità consequenziale, riferendoci a quanto potrà accadere all’udienza del 10 maggio 2022. E questo significa anche un’altra cosa. Nel momento in cui, prima del 10 maggio 2022, alla magistratura di sorveglianza dovesse giungere una richiesta di lavoro all’esterno, semilibertà o liberazione condizionale, da parte di un detenuto condannato per delitti del I comma art. 4 bis diversi dai tre di cui sopra, l’unica strada percorribile è la questione di costituzionalità.
Forse rimane aperto un solo caso di confine, vale a dire il delitto di cui all’art. 416 ter, lo scambio elettorale politico-mafioso. Non un reato da pena perpetua, ma di certo un reato in qualche modo collegato alla questione mafia, che tuttavia è stato “toccato” dalla sentenza 253 solo grazie alla illegittimità costituzionale consequenziale. Non di meno, anche in questo caso mi sentirei di affermare che altra via non esiste, se non la questione di costituzionalità: lo scambio elettorale politico-mafioso va trattato come tutti i delitti contemplati dal I comma dell’art. 4 bis diversi dai delitti di associazione di tipo mafioso, da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare le associazioni in esso previste.
Non riesco a trovare nell’ordinanza 97 fondamento alcuno per altra soluzione. Si ripresenta, in questo caso, lo stesso scenario post sentenza 253 in materia di estensione del pericolo di ripristino anche alla collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile. Dopo iniziali incertezze, che possono capitare in ogni corte dei pianeti appartenenti al sistema solare, la Cassazione ha giustamente indirizzato la magistratura di sorveglianza nel senso di non ritenere valido il nuovo requisito nei casi di cui al comma 1 bis dell’art. 4 bis e questo anche perché nulla la Corte aveva detto a tale proposito nella sentenza 253. Il legislatore non si è nemmeno mai posto il problema e del resto chiedere oggi alla Corte siffatta estensione sarebbe ulteriore dimostrazione che l’estensione non è stata realizzata né dal diritto vivente né dalla stessa Consulta.
6. I procedimenti della sorveglianza fino al 10 maggio 2022
Veniamo alla seconda domanda, connessa a quanto esposto nel paragrafo precedente. Cosa accade ai procedimenti della sorveglianza fino al 10 maggio 2022? Stiamo parlando di un periodo di un anno. La domanda non è teorico-concettuale, ma tremendamente concreta. Alla data in cui scrivo, mi risultano accordati permessi premio in otto casi, e mi riferisco ad ergastolani ostativi non collaboranti, per i quali la magistratura di sorveglianza ha finalmente potuto applicare la presunzione di pericolosità solo relativa: 28 maggio 2020, Magistrato di Sorveglianza di Sassari; 16 luglio 2020, Tribunale di Sorveglianza di Perugia; 7 agosto 2020, MdS di Siena; 3 dicembre 2020, TdS di Perugia; 14 dicembre 2021, MdS di Sassari; 8 marzo 2021, MdS di Milano; 15 aprile 2021, TdS di Perugia; 3 maggio 2021, MdS Siena.
Di questi otto casi in cinque hanno pienamente maturato il periodo temporale richiesto per domandare la liberazione condizionale. Ripetiamolo: “grazie” alla sentenza 253 sono stati accordati (almeno) otto permessi premio ad ergastolani ostativi non collaboranti, dei quali in cinque avevano soddisfatto pienamente non solo i dieci anni per domandare il permesso, ma anche i ventisei per la liberazione condizionale. Inoltre, tutti e otto erano temporalmente pronti per domandare la semilibertà. Facciamo l’elenco, così ognuno si fa un’idea: gli anni di detenzione erano in due casi 29, in uno 28, in due 26, in uno 23, in uno 24 e in uno 20.
Prendere una qualche posizione a proposito non è facile. La premessa però, almeno questa, è chiarissima. La Corte costituzionale sul punto non si esprime, come invece era dato leggere prima nell’ordinanza 207/2018 (caso Cappato) e dopo nell’ordinanza 132/2020 (carcere ai giornalisti).
Nel primo caso, dopo aver affermato che il giudizio a quo rimaneva sospeso, la Corte diceva: “Negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutate se, alla luce di quanto indicato nella presente pronuncia, analoghe questioni di legittimità costituzionale della disposizione in esame debbano essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate, così da evitare l’applicazione della disposizione stessa in parte qua” (§ 11 cons. dir.). Nel secondo caso, sempre dopo aver confermato la sospensione dei giudizi a quibus, la Corte sosteneva: “Negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutare se eventuali questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni in esame analoghe a quelle in questa sede prospettate debbano parimenti essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate alla luce dei principi sopra enunciati, così da evitare, nelle more del giudizio di costituzionalità, l’applicazione delle disposizioni censurate” (§ 8 cons. dir.).
Esistono delle differenze formali tra le due affermazioni, ma la sostanza è identica: spetta ai giudici valutare se analoghe questioni devono considerarsi rilevanti e non manifestamente infondate, così da evitare l’applicazione delle disposizioni censurate.
Si noti un aspetto. Anche se non sono in grado di affermarlo con certezza, mi risulta che in carcere, al momento delle due ordinanze di cui sopra, non esisteva alcuna persona condannata per aiuto o istigazione al suicidio o per diffamazione a mezzo stampa o omesso controllo. Ai giudici era pertanto affidato il compito di valutare se analoghe questioni di costituzionalità dovevano ritenersi rilevanti e non manifestamente infondate, così da evitare l’applicazione delle disposizioni censurate, in definitiva, di evitare il carcere a fronte di reati la cui incostituzionalità era stata accertata, ancorché non dichiarata.
Il caso alla nostra attenzione è differente. Esistono oggi, così come esistevano quando la Corte ha adottato l’ordinanza 97, persone alle quali si potrebbe applicare la disposizione accertata incostituzionale. Persone alle quali i magistrati di sorveglianza saranno chiamati a dare una qualche risposta, visto che, come detto, in cinque su otto casi post sentenza 253 il requisito temporale era soddisfatto anche per la domanda di liberazione condizionale. Di conseguenza, si può ipotizzare l’instaurazione di un procedimento per valutare siffatta domanda.
Possiamo dire subito una cosa. L’ordinanza 97 usa la tecnica del rinvio dell’udienza al 10 maggio 2022 anche perché una sua pronuncia di accoglimento, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita ad un sistema penitenziario caratterizzato da tratti di incoerenza. I condannati per i reati di cui all’art. 4 bis I comma possono essere valutati al fine di accedere al permesso premio e (all’esito di una pronuncia di accoglimento) alla liberazione condizionale, ma “resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà” (§ 10 cons. dir., VI cpv.).
Cosa significa? Cosa accade se, prima del 10 maggio 2020, un ergastolano ostativo non collaborante chiede, dopo aver fruito di uno o più permessi premio, le misure alternative?
Se la domanda sarà di lavoro all’esterno o di semilibertà, la strada sembra segnata. Anche in questo caso si chiama questione di costituzionalità, non esistendo nell’ordinamento alcuna possibilità di sospendere il procedimento in attesa di una riforma legislativa. La Corte non si è espressa sul lavoro all’esterno e sulla semilibertà, anzi dice esplicitamente che è il Parlamento a dover intervenire per evitare un sistema penitenziario disarmonico. Anche ammettendo che la Corte, nel caso in cui il Parlamento non faccia alcuna riforma, possa procedere con la illegittimità costituzionale consequenziale rispetto agli ergastolani ostativi di cui ai tre delitti sopra richiamati, resta il fatto che la magistratura di sorveglianza non può sospendere i relativi procedimenti.
Resta libera, come qualsiasi giudice italiano, di respingere l’eccezione di incostituzionalità per manifesta irrilevanza o infondatezza, sempre con un’ordinanza adeguatamente motivata, come dispone l’art. 24, I comma, della legge n. 87 del 1953. Potrà quindi dire che, non essendosi espressa la Corte né sul lavoro all’esterno né sulla semilibertà, i dubbi di costituzionalità anche per questo sono manifestamente infondati. Nel caso in cui le parti non sollevino alcuna eccezione, siamo alle solite: nel momento in cui nella testa del giudice sorge il dubbio di costituzionalità, è in quel momento che lo deve sciogliere, sollevando questione di costituzionalità o ritenendo il dubbio manifestamente infondato.
Mi sono permesso di dire che in realtà la strada è una perché non ritengo che il dubbio di costituzionalità possa dirsi manifestamente infondato, ma questo nulla toglie al rispetto che si deve ad ogni giudice italiano, magistratura di sorveglianza compresa. Se posso dire meglio: a me basta che non si sospenda il procedimento, visto che, se così fosse, il giudice non sarebbe più soggetto soltanto alla legge, che prevede unicamente le due alternative di cui sopra, non certo la terza via della sospensione.
7. In particolare, i procedimenti riguardanti la liberazione condizionale
Non di meno, la questione più delicata riguarda la domanda di liberazione condizionale. Abbiamo visto che in cinque su otto casi, nei quali è stato accordato il permesso premio, il requisito temporale è soddisfatto. E devo anche dire che mi pare alquanto difficile un ripensamento della magistratura di sorveglianza in riferimento all’attualità e al pericolo di ripristino dei collegamenti. Non siamo nel campo del riconoscimento della collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, che non deve ogni volta essere rivalutata punto e a capo dalla magistratura di sorveglianza. Tuttavia, immaginando che la fruizione del permesso o dei permessi non abbia dato adito a problemi, il giudizio sull’attualità e il pericolo di ripristino potrà solo trovare conferma.
Intendiamoci ancora meglio. Non esiste alcun obbligo giuridico in tale senso in capo alla magistratura di sorveglianza, che resta libera nell’apprezzare ogni elemento utile al fine di accordare o meno la liberazione condizionale. Sappiamo già del resto che la Corte nell’ordinanza 97 ha accertato la incostituzionalità in modo manipolativo, stabilendo che anche per la liberazione condizionale vale il pericolo di ripristino dei collegamenti o il rischio del loro futuro ripristino. Tuttavia, il problema non è questo.
Anche quando il Tribunale di Sorveglianza intendesse accordare la liberazione condizionale troverebbe dinanzi comunque lo sbarramento legislativo, accertato ma non dichiarato costituzionalmente illegittimo. Lo stesso nel caso in cui il Tribunale non ritenesse soddisfatto il requisito del sicuro ravvedimento. Anche in questo caso, lo sbarramento legislativo impedisce di scendere nel merito e quindi anche la valutazione negativa, nel merito, è preclusa.
Ecco allora la domanda: nel caso in cui al Tribunale fosse chiesta la liberazione condizionale, esiste una possibilità ulteriore tra sollevare di nuovo questione di costituzionalità o sospendere il procedimento fino al 10 maggio 2022?
Anche qui, la sospensione non sarebbe prevista in alcuna legge, né ça va sans dire nella stessa ordinanza 97. Rimarrebbe solo la via della questione di costituzionalità. La Corte, abbiamo detto, in riferimento agli altri giudizi, nell’ordinanza 97 non riporta quanto affermato nel caso Cappato e nel caso del carcere ai giornalisti. Ma questo non significa che la magistratura di sorveglianza non possa sollevare nuovamente questione di costituzionalità, ci mancherebbe. Lo può fare, ma non può essere obbligata a farlo, anche se vi è stato accertamento di incostituzionalità. Sembra un groviglio inestricabile, di fronte al quale arriverebbe il male minore, la salvezza fattasi persona: la sospensione del procedimento, che alcuni chiamano impropria, facendola sembrare un piccolo sgarbo tollerabile.
Resto convinto che la sospensione, se non prevista dalla legge, deve essere l’extrema ratio. Di là del travolgere il diritto di difesa, che si esplica anche nella possibilità di domandare al giudice di sollevare questione di costituzionalità, il punto è che sospendere significa impedire alla Consulta di valutare altre motivazioni a fondamento del dubbio di costituzionalità, magari con la possibilità di allargare anche la rilevanza, grazie alla eventuale riunione dei giudizi. Ma non solo, e voglio ribadirlo: il giudice per Costituzione è soggetto soltanto alla legge, non certo anche a valutazioni di convenienza che siano pratiche o opportunistiche poco importa.
Non sono da biasimare le sospensioni nelle more del giudizio della Corte costituzionale. Ma se già si possono nutrire fondati dubbi su quelle disposte appena dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della questione di costituzionalità, non riesco a comprendere come si possano sospendere procedimenti per i quali è certo il decorso di un determinato tempo (un anno) prima del giudizio della Consulta. Anzi, comprendo benissimo il carico di lavoro della magistratura di sorveglianza, ma è una questione che non può ricadere sulla corretta interpretazione del giudizio costituzionale incidentale.
Peraltro, vi sarebbe anche una questione di eguaglianza, rispetto alle domande di liberazione condizionale non riguardanti ergastolani o riguardanti ergastolani per delitti diversi dai tre accertati incostituzionali. Non ho contezza di quanti siano ad oggi in questi casi i permessi premio accordati, posso solo immaginare che, in riferimento ai non ergastolani, nel numero siano uguali se non maggiori rispetto a quelli accordati ad ergastolani ostativi, sempre post sentenza 253. Che si fa? Si sospendono tutti i procedimenti in Italia che riguardano richieste di liberazione condizionale per tutti i condannati per tutti i delitti di cui al I comma dell’art. 4 bis, così come si dovrebbero sospendere tutte le richieste di lavoro all’esterno e di semilibertà?
Diciamolo francamente: il giudizio incidentale non può permettersi uno scenario del genere, che da tutti può essere immaginato, tranne che dal giudice costituzionale. Ma forse è uno scenario che nessuno di noi può permettersi, visto che, a fine 2020, esistevano 7.274 detenuti per 416 bis e 8.399 per reati contro la pubblica amministrazione, che pochi non sono sul totale di cinquantamila detenuti.
Non voglio però eludere la domanda: esiste un’altra possibilità, diversa dalla sospensione e dalla questione di costituzionalità, nel caso in cui si chieda alla magistratura di sorveglianza la liberazione condizionale, da parte di un ergastolano ostativo non collaborante, che ha già fruito di uno o più permessi premio?
Per quanto sia riuscito a recuperare dei precedenti riguardanti liberazioni condizionali accordate in assenza di semilibertà, quindi solo con la precedente fruizione di permessi premio, in tutti i casi avevano come destinatari ergastolani ai quali era stata riconosciuta la collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile. Diciamo che sono precedenti da tenere in debita considerazione, sicuramente più delle liberazioni condizionali senza il passaggio della semilibertà accordate a collaboranti, poiché in questi casi, ancorché non formalmente esclusa la semilibertà, sarebbe di assai complicata gestione concreta (posso sbagliare, ma non mi risultano collaboranti semiliberi). Allo stesso modo, però, non si può negare che la progressività trattamentale costituisca, se non una regola imposta dalla Costituzione, un principio che ha trovato accoglienza, oramai, tanto nella giurisprudenza costituzionale quanto in quella di legittimità e, ovviamente, nelle pronunce della magistratura di sorveglianza.
Insomma, da una parte, non esiste alcuna disposizione legislativa che ad oggi imponga, prima della liberazione condizionale, la fruizione vuoi del lavoro all’esterno vuoi della semilibertà. Dall’altra parte, con questo non si vuole certo dire che la magistratura di sorveglianza possa disapplicare la presunzione assoluta di cui al I comma dell’art. 4 bis solo perché la Corte costituzionale ne ha accertato la incostituzionalità.
Cosa potrebbe fare allora il Tribunale di Sorveglianza? L’ordinamento penitenziario delinea una figura del magistrato di sorveglianza mai passivo ricettore delle domande dei detenuti. Non è una cassetta della posta. Al contrario, è il giudice della rieducazione, ancora meglio, è il giudice di prossimità, che non ha bisogno di alcuna autorizzazione per fare visita agli istituti penitenziari e che può impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali limitazioni dei diritti dei detenuti.
Quando è prevista la competenza collegiale, come nel caso delle domande di liberazione condizionale, il Tribunale, che è presieduto da un magistrato di cassazione, è composto, non solo da due magistrati, ma anche da due esperti scelti fra docenti di scienze criminalistiche o fra esperti ex art. 80 ord. pen. Si possono evidenziare indubbiamente anche alcuni problemi, ma è una composizione del collegio estremamente significativa, da salvaguardare. Queste e altre previsioni stanno a dimostrare che il ruolo della magistratura di sorveglianza è anche quello di essere parte attiva nel percorso rieducativo, e che può o forse deve intraprendere una sorta di confronto-dialogo con l’ergastolano ostativo non collaborante che fruisce di permessi premio.
Ruolo attivo non può mai significare sostituzione nelle scelte. Ma non sarebbe fuori dal sistema evidenziare che, nel caso di permessi premio già concessi, la magistratura di sorveglianza possa esplicitare l’anomala situazione nella quale ci si troverà fino al 10 maggio 2022. Se la domanda di liberazione condizionale non è ancora stata proposta, il buon senso, non altro, sembra autorizzare la magistratura italiana per antonomasia di prossimità, quella di sorveglianza, ad interloquire con l’ergastolano ostativo non collaborante, prospettando la possibilità di domandare altri permessi premio in attesa del 10 maggio 2022.
Lo so bene che, in non pochi casi, si sentirà rispondere che la detenzione espiata già permette di domandare la liberazione condizionale e che la Corte ha accertato la incostituzionalità della presunzione assoluta che impedisce la valutazione nel merito del sicuro ravvedimento. E lo so bene che, in realtà, qualunque sia la concezione fatta propria dalla sorveglianza circa il suo ruolo disegnato dall’ordinamento penitenziario, il problema si porrebbe qualora la domanda di liberazione condizionale risultasse comunque presentata.
In questo caso, l’unica possibilità che sono riuscito ad immaginare è la seguente: il Tribunale di Sorveglianza potrebbe utilizzare il periodo di tempo fino al 10 maggio 2022 per preparare e istruire in modo completo il procedimento. Chi ha contezza di questi procedimenti, sa benissimo che la richiesta di pareri, la volontà di integrare la documentazione, la necessità di avere tutti i documenti necessari occupano moltissimo tempo. Giusto che sia così, ovviamente.
Si pensi agli aggiornamenti delle relazioni di sintesi, alle indagini patrimoniali, ma si consideri anche la necessità di avere informazioni dalla DDA o dal COSP che siano realmente individualizzate e attuali. Si dovrebbero pubblicare tutte in un libro, previo neretto sopra i nomi. Così, tanto per far capire di cosa stiamo parlando, a volte, moltissime volte, del nulla cosmico, del “non si può escludere che”, quando va bene. D’altro canto, a volte viene pure da comprenderle queste informative senza informazioni. Se tizio è detenuto da trenta anni, durante i quali è passato dal 41 bis all’alta sicurezza e “rischia” pure la declassificazione, non è che sia facilissimo sostenere che lui è ancora socialmente pericoloso e che siano ancora attuali i suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Spesso non rimane altro che “il clan risulta ancora attivo”. Sottolineo questi aspetti, primo, perché non sono certo risaputi dall’opinione pubblica e, secondo, perché mi pare davvero fuori luogo ogni volta mettere sulla graticola solo e soltanto la magistratura di sorveglianza, inventandosi ogni argomento per dimostrare che non è una magistratura come tutte le altre in Italia.
Chiedo scusa al lettore, ma le cose vanno dette tutte: non esistono giudici di serie A e giudici di serie B, nemmeno dentro i giudici di sorveglianza; e se proprio non si trova altro di meglio di esporre al pubblico ludibrio la magistratura di sorveglianza, si ragioni anche su quanto realmente facciano il loro mestiere le procure antimafia, che non devono smettere di inviare informative, sia chiaro, ma devono inviarle individualizzate e attualizzate, così da essere davvero serventi al complicatissimo mestiere del magistrato di sorveglianza.
In più, ci sarebbe anche la questione di valutare il periodo fruito in permesso. Insomma, nel caso in cui la domanda di liberazione condizionale sia effettivamente pervenuta al Tribunale di Sorveglianza, il comportamento che mi pare ispirato al buon senso è questo: se non si decide per la questione di costituzionalità, si utilizzi il tempo fino al 10 maggio 2022 per essere prontissimi a quel punto con la valutazione nel merito.
Non mi soddisfano pienamente né la proposta di fruire di altri permessi al fine di posticipare la domanda di liberazione condizionale né quest’ultima di preparare tutta la documentazione nel caso in cui la domanda di liberazione condizionale sia stata comunque presentata. Sono due proposte che, di là della questione del buon senso, hanno però almeno un vantaggio. Nel secondo caso, è una proposta percorribile dopo aver escluso la proposizione della questione di costituzionalità, che rimane l’opzione numero uno. Nel primo caso, il presupposto di partenza è chiaro. Interloquire con un ergastolano ostativo non collaborante che ha già fruito di uno o più permessi premio significa né più né meno trattarlo con eguale considerazione e rispetto, con dignità.
Sempre che ovviamente la magistratura di sorveglianza continui ad essere magistratura di prossimità, così come è stata pensata dal Parlamento quando ha voluto attuare il principio costituzionale inscindibile del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e della rieducazione. Dovesse passare la folle idea di accentrare benefici e misure a Roma, cambierebbero insieme il senso dei benefici e delle misure e della stessa magistratura di sorveglianza. Sono le attività investigative che necessitano se si vuole accentramento o in ogni caso miglior coordinamento. Per garantire migliore nomofilachia delle pronunce della sorveglianza esiste già una corte apposita questa sì con sede a Roma. E chiunque comprende che l’esempio del 41 bis è del tutto inconferente.
8. L’equiparazione tra ergastolani collaboranti e non collaboranti
Ci possiamo avviare verso la fine. Restano da radiografare due ulteriori passaggi motivazionali dell’ordinanza 97, che riguardano entrambi il futuro intervento del legislatore. In primo luogo, la necessità di un suo intervento al fine di evitare l’incongruità dell’equiparazione, per l’accesso alla liberazione condizionale, tra l’ergastolano per delitti connessi alla criminalità organizzata non collaborante e l’ergastolano collaborante per delitti di contesto mafioso. Questo sarebbe l’esito di un intervento demolitorio compiuto con i limitati strumenti a disposizione del giudice costituzionale, insieme al rischio riguardante il complessivo equilibrio della disciplina e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva (§ 9 cons. dir., cpv. 5 e 6).
Andiamo dritti al nocciolo della questione, che non sono le esigenze di prevenzione generale, le quali, evidentemente, se non incapsulate dentro la presunzione assoluta, hanno eguale cittadinanza costituzionale rispetto alla rieducazione. Questo è il pensiero della Corte e non è qui la sede per ulteriori approfondimenti. Il nocciolo del problema ora è l’incongruità della normativa di risulta, se la Corte avesse dichiarato oltreché accertato l’incostituzionalità.
La domanda è la seguente: realmente sarebbero equiparate le condizioni per accedere alla liberazione condizionale dell’ergastolano per delitti connessi alla criminalità organizzata che non ha collaborato e quelle dell’ergastolano per delitti di contesto mafioso che ha collaborato? A prima vista, la risposta sembra negativa, non fosse altro per il fatto che l’ergastolano per delitti di contesto mafioso collaborante ex art. 58 ter, facciamo solo un esempio, può domandare di accedere alla liberazione condizionale scontati dieci anni di pena, non ventisei come qualsiasi altro ergastolano non collaborante.
Esiste un’ulteriore possibilità, ossia che la Corte costituzionale si rivolga in realtà all’ergastolano collaborante ai sensi dell’art. 16 nonies del decreto legge n. 8 del 1991, vale a dire il collaborante che abbia prestato, anche dopo la condanna, una delle condotte di collaborazione che consentono la concessione delle circostanze attenuanti previste dal codice penale o da disposizioni speciali. Ora, di là del fatto che, in questi casi, qualora la collaborazione sia prestata prima della condanna, non sempre si arriverà alla condanna alla pena perpetua, il punto è che, in ogni caso, anche qui è espressamente stabilito che i provvedimenti che derogano ai limiti di pena, salvo il caso del permesso premio, possono essere accordati, in caso di condanna all’ergastolo, dopo l’espiazione di almeno dieci anni di pena (comma 4 art. 16 nonies).
Resta quindi un punto interrogativo. Anche ritenendo che l’incongrua equiparazione riguardi l’ergastolano (non collaborante) per delitti commessi per finalità di terrorismo e l’ergastolano (collaborante) per delitti di contesto mafioso, in ogni caso i limiti di pena scontata per domandare la liberazione condizionale resterebbero differenti, sempre ventisei anni nel primo caso e dieci nel secondo.
Sembra però che sia la stessa Corte, nel prosieguo del suo ragionamento, a sciogliere il nodo. O almeno così sembra. Appena dopo aver affermato la possibilità di una normativa di risulta incongrua, che equiparerebbe l’ergastolano non collaborante a quello collaborante, la Consulta afferma un altro concetto, il quale conduce anche alla nostra ultima domanda.
Seguiamo la motivazione. La mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica. Appartiene perciò alla discrezionalità legislativa, “e non a questa Corte”, decidere “quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato (non collaborante, ndr) alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione del suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.” (§ 9 cons. dir., VII cpv.). Come si vede, lo spartiacque è netto. Da un lato, tutti gli ergastolani non collaboranti, dall’altro lato tutti gli altri, collaboranti ex art. 58 ter ed ex art. 16 nonies decreto legge 8/1991: anche se il periodo di pena espiata, per domandare la liberazione condizionale, resta comunque differente, ventisei e dieci anni, la Corte valuta comunque incongrua l’equiparazione in riferimento al medesimo requisito sostanziale, il sicuro ravvedimento, che andrebbe in qualche modo diversificato nel caso degli ergastolani ostativi non collaboranti.
9. Il sicuro ravvedimento, la libertà di non collaborare, la professione di innocenza
Ma chiudiamo il punto, e quindi poniamoci l’ultima domanda. La Corte non si limita a sostenere che sono scelte che competono al legislatore, quelle di distinguere la condizione dell’ergastolano non collaborante da quella dell’ergastolo collaborante, poiché, tra le scelte che competono al legislatore, tipiche scelte di politica criminale, “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata” (§ 9 cons. dir., VII cpv.).
Sulla libertà vigilata si dovrà vigilare. Vedremo le scelte di politica criminale che il legislatore metterà in campo, e avremo pur sempre il baluardo della stessa Corte costituzionale. Ricordiamo solamente che ad oggi la libertà vigilata è automatica e fissa per ogni ergastolano, cinque anni. Difficile sul punto ogni previsione circa le scelte del legislatore. Anche in Germania, per esempio, sono cinque anni, ma la liberazione condizionale può essere chiesta scontati quindici anni di pena, in caso di pena perpetua. A mio parere, il legislatore deve ragionare sulla previsione di un range tra un minimo e un massimo di libertà vigilata. Escludendo la scelta di non pochi paesi al mondo, per i quali alla pena perpetua consegue automaticamente la libertà vigilata perpetua, soluzione da noi non perseguibile (a tacere d’altro) perché la libertà anticipata si applica anche alla libertà vigilata, la soluzione più costituzionalmente orientata sarebbe quella di ridare la parola alla magistratura di sorveglianza, chiamata a decidere, caso per caso, entro un minimo ed un massimo, sempre si voglia fare salva l’automaticità. Ogni giudice su questo pianeta dovrebbe provare l’orticaria al solo sentir parlare di automatismi e fissità, che caratterizzano oggi la libertà vigilata per gli ergastolani. Che poi le modifiche alla libertà vigilata possano avere valore retroattivo è questione assai complicata, ma devo dire che lo stesso vale per quelle alla liberazione condizionale, visto che le condizioni per estinguere la pena sono in grado di mutarne natura e qualità.
Vediamo però l’altro aspetto, vale a dire l’esempio utilizzato dalla Consulta: nei confronti dell’ergastolano non collaborante potrebbe annoverarsi “la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione”. Questa ipotesi merita di essere attentamente vagliata. Stiamo parlando di un esempio di integrazione al sicuro ravvedimento. Un esempio che presuppone che il sicuro ravvedimento potrebbe da solo non bastare. Una sorta di bilanciamento. La presunzione assoluta è incostituzionale, ma, oltre al pericolo di ripristino, sul quale la partita è chiusa, si consideri una qualche integrazione al sicuro ravvedimento, come ad esempio l’emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione.
Lasciamo in disparte ogni considerazione giuridico-politica. Non si dica però che questa proposta di integrazione è stata avanzata solo per differenziare la posizione degli ergastolani non collaboranti da quella dei collaboranti, poiché presuppone il fatto che il sicuro ravvedimento da solo potrebbe non bastare, con buona pace della giurisprudenza sviluppatasi sulla nozione per svariati decenni, che ben si era adoperata per sottolineare le particolarità della domanda avanzata da un ergastolano collaborante.
Ad ogni modo, non vi è dubbio che l’ergastolo ostativo impedisca ad oggi qualsiasi valutazione nel merito da parte della magistratura di sorveglianza. La stessa Corte, sulla scia della sentenza 253, nell’ordinanza qui commentata, non le manda a dire: dopo aver ribadito che la disciplina ostativa prefigura una sorta di “scambio” tra informazioni utili a fini investigativi e possibilità di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario, aggiunge che lo scambio può assumere una “portata drammatica” e, in alcuni casi limite, può trattarsi di una “scelta tragica”, tra la propria eventuale libertà, che può comportare rischi per la sicurezza dei propri cari e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli (§ 6 cons. dir., VI cpv.). Sono parole pesanti, che non si leggono tutti i giorni nelle motivazioni delle decisioni della Corte costituzionale.
La conclusione è di una chiarezza cristallina. Anche per gli ergastolani non collaboranti che aspirano alla liberazione condizionale “può essere ripetuto quanto osservato nella sentenza 253: quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale, il condannato alla pena perpetua è caricato di un onore di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati” (§ 6 cons. dir., VII cpv.).
Come si conciliano le due affermazioni della Consulta? Quella appena riportata, sullo “scambio” che può assumere una “portata drammatica”, in casi limite una “scelta tragica” e quella con la quale “invita” il Parlamento, a mo’ di esempio, a prevedere “la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione”?
Il terzo incomodo si chiama diritto al silenzio o se si vuole libertà di non collaborare. In realtà, a me sembra che la questione non sia un’eventuale valutazione della magistratura di sorveglianza sulle scelte che hanno spinto una persona a non collaborare. Il punto è precedente. La questione è cosa fare di fronte ad una persona che nulla afferma circa la scelta di non collaborare oppure si professa innocente. Questi sono i due dilemmi principali, poiché se il detenuto in qualche modo risponde e in qualche modo sostiene che la mancata collaborazione dipende 1) dalla possibilità di denuncia a carico di terzi, 2) dai pericoli che comporta per i propri cari o 3) dal rischio di autoincriminarsi, anche per fatti non ancora giudicati, ebbene in questi casi non esiste legislatore che possa fare alcunché. Non può emergere niente perché se emergesse sarebbe un controsenso: si chiederebbe di spiegare proprio ciò che non si può dire, per le tre ragioni evidenziate dalla Corte.
Il problema maggiore riguarda il caso nel quale alla magistratura di sorveglianza non si danno spiegazioni (diritto al silenzio o libertà di non collaborare) o la spiegazione è la professione di innocenza. A questo proposito, non resta che augurarsi che il legislatore conosca la giurisprudenza di Cassazione in merito alla professione di innocenza. Se la persona afferma che è una sua libertà quella di non collaborare, a me sembra che si rientri perfettamente nel diritto al silenzio o appunto nella libertà di non collaborare, che se vale (e vale) non può che valere per ogni detenuto italiano. Ma se la persona qualcosa dice, ossia che la mancata collaborazione dipende dalla professione di innocenza, il legislatore deve sapere che, per costante e consolidata giurisprudenza di legittimità, la professione di innocenza non può avere alcun peso circa il giudizio di merito della sorveglianza. In nessun caso, né in positivo né in negativo, poiché è una questione da valutare in termini neutri: è oggettivamente irrilevante, se ne prende atto e si passa a valutare nel merito il soddisfacimento dei requisiti previsti per i benefici e per le misure alternative.
Sostenere che non si collabora perché ci si ritiene innocenti è un fattore del tutto neutro. Non conta se è iniziata la revisione del giudicato, poiché questa possibilità è da sempre stata circoscritta (al massimo) alla collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile. Di fronte alla possibilità di collaborare, l’unica cosa che per il diritto deve avere importanza non è se è iniziata la revisione del giudicato, ma il soddisfacimento o meno dei requisiti temporali e sostanziali per accedere nel nostro caso specifico alla liberazione condizionale. Non sarebbe da paese civile sostenere che non può esserci sicuro ravvedimento se vi è professione di innocenza.
Qui il legislatore non può e non deve sbagliare di una virgola. Ragioni sulla libertà vigilata. Rifletta sull’arricchimento del requisito del sicuro ravvedimento, in termini di comportamenti tenuti durante l’esecuzione, espressivi di una recuperata considerazione dei valori della civile convivenza, indicativi di un reale abbandono di logiche devianti. In entrambi i casi, usando il massimo delle proprie capacità in termini costituzionalmente orientati. Del resto, non mancano progetti lasciati cadere, così come non mancano spunti molto interessanti offerti dalla giurisprudenza, prima di sorveglianza e dopo di legittimità.
Spetterà poi alla Corte vagliare le eventuali riforme legislative, opera in sé non certo delle più semplici, se si ricorda la questione della restituzione degli atti al giudice a quo, alla quale vorremmo aggiungere, senza però approfondirla, quella della valenza retroattiva di modifiche che potrebbero aggravare le condizioni per accedere alla liberazione condizionale, in grado di variare natura e qualità della stessa pena perpetua, che non esistevano al momento della commissione del reato. Si deve escludere ogni divieto di retroattività, il divieto opera solo se sono già maturati i precedenti requisiti o avrà valore integrale, quindi le modifiche riguarderanno solo i reati commessi successivamente?
Come che sia, la Corte costituzionale con l’ordinanza 97 ha scelto una strada. Piaccia o meno, se ne deve prendere atto. Il legislatore una cosa non deve fare: reintrodurre sotto diverso nome la presunzione assoluta, quasi che il nostro ordinamento non sia in grado garantire uno dei portati della civiltà giuridica occidentale.
Che non è l’inumanità della pena perpetua, purtroppo. Non siamo ancora pronti nel dire che contrasta con il senso di umanità una pena che attribuisce allo Stato il potere di detenere una persona fino alla fine dei propri giorni. Non siamo ancora pronti anche perché ragioniamo spesso in astratto, dimenticandoci che le liberazioni condizionali accordate ad ergastolani sono davvero poche, risultando invece nella stragrande maggioranza dei casi una perfetta coincidenza tra la pena perpetua in astratto e la pena perpetua in concreto. Ad oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, la pena perpetua si estingue per la morte del reo in carcere, non perché è stata accordata la liberazione condizionale e sono trascorsi positivamente i cinque anni di libertà vigilata. La differenza tra gli ergastolani al 1 settembre 2020 (1.800) e al 1 aprile 2021 (1.779), vale a dire 21 persone, è dovuta in minima parte alle liberazioni condizionali accordate (4), poiché nella stragrande maggioranza dei casi (17) si tratta di decessi in carcere: 9 di ergastolani non ostativi e 8 di ergastolani ostativi.
Non sono dati della California, dove Life means Life è considerato il minimo, visto che Death is Different. In poche parole: la pena perpetua deve essere davvero perpetua se sostituisce la pena capitale. Quelli appena riportati, però, sono dati riguardanti la penisola italiana, dove la pena capitale è vietata e quella perpetua sembra non porre problemi perché esiste la liberazione condizionale…
Lasciamo pure in disparte la questione pena perpetua, anche perché, riletta nel suo complesso, l’ordinanza 97 parte proprio dal presupposto che la liberazione condizionale non può viaggiare insieme alla presunzione assoluta poiché è la salvezza della pena perpetua. Ma non si tergiversi nemmeno un secondo sul fatto che una persona è sempre libera di professarsi innocente, senza timore di subire alcuna conseguenza negativa. Qui si sta discutendo dell’essenza non tanto e non solo del diritto al silenzio o della libertà di non collaborare, ma dell’essenza di questa nostra civiltà giuridica europea, i cui capisaldi, se non sono difesi di continuo, rischiano di scapparci di mano senza nemmeno accorgercene.
10. Il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia
Usi il Parlamento il tempo fino al 10 maggio 2022 anche per riformare in meglio il sistema di protezione dei collaboratori di giustizia. La Corte costituzionale non lo dice in modo esplicito, ma non è difficile comprenderlo. Lo “scambio” può assumere una “portata drammatica”, in casi limite una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia ad essa, per preservarli dai pericoli.
Fermo restando che mi sembra mancare ad oggi una sorta di studio statistico, in base al quale censire il “quando” intervengono le utili collaborazioni con la giustizia, se prima o dopo la sentenza di condanna, e fermo restando che il più genuino e sincero retribuzionista, se proprio non vuole sprofondare nell’abisso dell’incoerenza, dovrebbe fare di tutto affinché si potenzi la collaborazione prima della sentenza di condanna e non dopo in fase di esecuzione, il Parlamento ha gli strumenti utili per fare bene il proprio mestiere, che è anche quello di diminuire al massimo, nel limite delle umane possibilità, la portata drammatica, in casi limite una scelta tragica, dello scambio tra informazioni utili a fini investigativi e possibilità di eventualmente accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.
Sarebbe un modo pregevole per tenere viva la memoria di chi, come Nino Caponnetto e Giovanni Falcone, hanno sempre chiesto al legislatore di apprestare appunto la più adeguata normativa utile a scongiurare la portata drammatica, in casi limite una scelta tragica, tra quella sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al percorso di trattamento penitenziario. Questi magistrati svolgevano il loro mestiere senza poter contare su alcuna normativa specifica sulla collaborazione e la protezione dei collaboratori. Esisteva qualche circolare ministeriale e nulla più. Oggi la normativa esiste. Abbia il coraggio il Parlamento di farne un serio esame, per qualche aggiustamento, al fine di un miglioramento, che tenga conto dell’esperienza applicativa, degli aspetti positivi e di quelli da rivalutare.
Per concludere. In riferimento ad un’altra questione, le Sezioni Unite penali della Cassazione hanno affermato che l’istanza della legalità della pena “è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice…non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla…Carta fondamentale (n. 18821/2014). E nemmeno hanno mancato di evidenziare che “fin quando l’esecuzione della pena è in atto gli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi” (n. 42858/2014).
Siamo esattamente nel punto di mezzo. Non possiamo tollerare che si assista inerti all’esecuzione di pene non conformi alla Costituzione, quale è l’ergastolo ostativo. E se è vero che non abbiamo ancora avuto la dichiarazione di incostituzionalità, spetta ora al Parlamento adoperarsi affinché siano rimosse le incongruenze evidenziate dal giudice delle leggi. Il Parlamento sia in grado di meritarsi la fiducia accordatagli dalla Corte costituzionale. Che non guarda a chi occupa oggi il seggio parlamentare, ma riflette in termini di rapporti tra organi costituzionali. Poteva prendere sicuramente un’altra strada, quella di accertare e insieme dichiarare l’incostituzionalità. Speriamo solamente che il Parlamento sia all’altezza e che abbia compreso la posta in gioco, che è, insieme alla questione dell’ergastolo ostativo, anche il senso dello stesso Parlamento.
La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207)
di Veronica Sordi
Sommario: 1. Il caso. – 2. Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione. – 3. Sul concetto di “dichiarazioni false o mendaci”. – Il possibile effetto “anestetizzante” del Capo VI d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art 21 l. n. 241/90) sull’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
1. Il caso
La pronuncia che si annota interviene su una vicenda che ha avuto una notevole eco mediatica (la destinazione della Certosa di Trisulti a scuola del sovranismo europeo) e merita di essere segnalata per le argomentazioni svolte dal giudice amministrativo con riferimento (i) all’applicabilità delle - rigorose - disposizioni previste dal Codice dei contratti per l’affidamento di servizi e forniture alle concessioni di beni; (ii) al concetto (fortemente dibattuto) di “dichiarazioni false o mendaci”; e infine (iii) al complesso rapporto del d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/90) con l’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aveva infatti indetto una procedura selettiva per la concessione in uso di alcuni beni immobili appartenenti al demanio culturale dello Stato, ad esito della quale la Certosa di Trisulti veniva data in concessione alla Dignitatis Humanae Institute, associazione vicina all’ideologo Steve Bannon. A causa della carenza dei requisiti originari prescritti dall’avviso pubblico di selezione (oltre che per asserite inadempienze della concessionaria agli obblighi assunti), a distanza di due anni, il Ministero annullava in autotutela il decreto con il quale era stata approvata la graduatoria della selezione, nonché tutti gli atti conseguenti, ivi compreso il contratto di concessione. L’associazione, quindi, impugnava tale determina, che veniva annullata dal giudice di prime cure. Avverso siffatta decisione il Ministero proponeva appello al Consiglio di Stato, il quale riformava la decisione del TAR.
2. Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione.
La sentenza, dopo aver precisato che la concessione per la cura e lo sfruttamento (i.e. la gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione, ha evidenziato che la stipula della convenzione tra amministrazione e privato costituisce il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, ossia il momento nel quale concedente e concessionario disciplinano gli aspetti operativi della gestione del bene demaniale. In altre parole, secondo l’impostazione del g.a. la fase civilistica “non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionata dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario … Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio”. Quindi, nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si sia proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità, in ragione dell’”intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra fase amministrativa e fase civilistica”, pervade - inevitabilmente - il contratto, provocando la decadenza dal beneficio ottenuto dal privato.
3. Sul concetto di “dichiarazioni false o mendaci”.
Prima di entrare nel merito della questione, occorre ricordare che nella specie l’associazione appellata aveva conseguito un vantaggio economico, ossia l’assegnazione di un bene demaniale culturale (la Certosa di Trisulti), all’esito di una selezione, tramite concessione, sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione, poi dimostratesi non veritiere. Il giudice di prime cure, pur non ignorando tale circostanza, aveva comunque ritenuto che l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento soltanto all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) – eventualmente – avviato nei confronti del dichiarante. Tale impostazione non è stata condivisa dal Consiglio di Stato sulla scorta di diverse ragioni. Il Collegio ha, in primo luogo, richiamato l’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 25 settembre 2020 n. 16 con riferimento agli obblighi dichiarativi dei concorrenti nell’ambito della (diversa e specifica) disciplina del codice dei contratti pubblici di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture, rilevando che le informazioni rese da un concorrente nell’ambito di una procedura selettiva ben possono essere false o fuorvianti, nonché dirette e in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva medesima. In secondo luogo, ha evidenziato che in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale riservato all’amministrazione (la quale è tenuta ad accertare i presupposti di fatto e a svolgere le proprie valutazioni di carattere giuridico), “la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione dell’amministrazione diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo, e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nell’attitudine delle informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione”. Il giudice d’appello ha di conseguenza affermato che “la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità”. Fatta questa premessa di ordine generale, il Collegio ha avuto peraltro specificamente e opportunamente cura di sottolineare che, nel caso di specie, (i) la non veridicità delle dichiarazioni poggiava su dati di realtà non opinabili, ossia su dimostrazioni documentali di insussistenza dei requisiti richiesti dalla procedura di selezione; (ii) prima di adottare il provvedimento di annullamento in autotutela l’amministrazione aveva svolto un’apposita istruttoria coinvolgendo pienamente l’associazione appellata, consentendole quindi di contraddire su ogni carenza riscontrata dall’amministrazione in ordine ai requisiti di partecipazione dichiarati ma la cui sussistenza non era stata confermata – al termine della verifica successiva all’esito della selezione – dalla documentazione ricevuta; (iii) quindi, la insussistenza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione al momento della presentazione della domanda (il 16 gennaio 2017) era dimostrata dalla non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. n. 445/2000. In altre parole, il Consiglio di Stato, sulla scorta dell’insegnamento desunto dall’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020 (che – come già ricordato – era stata pronunciata con riferimento alla selezione dei contraenti nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica), ha ritenuto che nel caso in cui la fallace dichiarazione abbia inciso sul rilascio del provvedimento amministrativo, “è del pari congruo che il termine “ragionevole” (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità”. Tale interpretazione però non trova conferma nel dato testuale dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 e sembra contravvenire allo spirito del legislatore che, già dal 2004 – e, quindi, ancora prima della riforma Madia del 2015 – aveva tentato di dare una precisa delimitazione temporale al potere dell’Amministrazione di intervenire in autotutela sui propri provvedimenti, proprio allo scopo di bilanciare l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l’esigenza del privato destinatario del provvedimento a conservare la propria posizione soggettiva (ci si riferisce, in particolare, all’art. 1, co. 136, l. n. 311/2004, ai sensi del quale “L'annullamento … di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”). E ha circoscritto l’inapplicabilità del limite temporale all’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo venga conseguito “sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. La “terza via” percorsa dal Consiglio di Stato – rinvio del dies a quo all’accertamento amministrativo dell’illecito – al di là della sua possibile ragionevolezza, non è contemplata da alcuna disposizione di legge.
4. Il possibile effetto “anestetizzante” del Capo VI d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art. 21 l. n. 241/90) sull’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
Sotto altro profilo, nella ricerca di un autonomo punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze rappresentate dagli artt 19, 21 e 21-nonies l. n. 241/90 (M.A. Sandulli, La semplificazione nella produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2021, 181 ss.; Id., Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e Pa o il Recovery è inutile, in Il Dubbio, 7 maggio 2021), il Consiglio di Stato si è spinto ad affermare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241/1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., porterebbe ad affermare che “il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario”. Nella fattispecie de qua, pertanto, secondo il Collegio, trovano contemporanea applicazione l’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990 e l’art. 75, comma 1, d.P.R. n. 445/2000, per il quale, in forza del principio di autoresponsabilità, (i) al privato è precluso trarre vantaggi da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero e (ii) l'amministrazione è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità e, addirittura, prescindendo dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante. La sentenza, peraltro, proprio in merito alle suddette norme, ha rilevato che “il rapporto osmotico [che viene ad instaurarsi tra esse]… è tale che la seconda [l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000] incide sulla prima [l’art. 21-nonies l. 241/90] anestetizzando l’applicazione del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela. Le due norme, dunque, non sono antitetiche tra di loro, ma trovano il punto d’incontro nel principio per il quale l’affidamento va garantito solo se è legittimo e se quindi il provvedimento favorevole non è stato acquisito coartando o inquinando o (ancora) deviando la volontà dell’amministrazione attraverso non veritiere rappresentazione della realtà, sia con la produzione di documentazione fuorviante che con la predisposizione di dichiarazioni dal contenuto omissivo ovvero non rispondente a quanto era richiesto di dichiarare”. Il punto critico è però che il Collegio, per un verso, richiama il principio di autoresponsabilità e “sfrutta” la clausola di salvezza delle “sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”, verosimilmente frutto di un refuso e, per l’altro, non senza contraddizioni, assume l’irrilevanza dell’elemento soggettivo.
La sentenza (al di là del risultato raggiunto) mette in luce l’assoluta urgenza di risolvere il problema dei rapporti dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 con il Capo VI del d.P.R. n. 445/2000, nonché con l’art. 21, co.1, l. n. 241/90 (laddove dispone che “Con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”).
Con specifico riferimento al rapporto tra gli artt. 21, co.1, e 21-nonies l. n. 241/90, l’interrogativo che dottrina e giurisprudenza si pongono è se il limite temporale imposto dall’art. 21-nonies debba operare anche rispetto agli interventi posti in essere in forza dell’art. 21, co. 1, cit., ovvero se tale ultima previsione debba costituire (invece) una ulteriore eccezione al limite dei 18 mesi previsti dal 21-nonies, quale deroga aggiuntiva rispetto a quella individuata dal co. 2-bis della medesima disposizione. La permanenza del suddetto quesito ha indotto autorevole dottrina a rilevare l’assoluta necessità di un intervento legislativo teso a rimuovere “l’errore” compiuto dal legislatore del 2015 di non modificare l’art. 21, co.1 in linea con le ragioni che avevano ispirato il medesimo ad abrogare il secondo comma dell’art. 21 e di introdurre rigorosi limiti al potere di rimuovere con effetto ex tunc i titoli e i benefici acquisiti ai sensi degli artt. 19 e 20 l. n. 241/90. A tal proposito, occorre ricordare che la Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, nei pareri nn. 839 e 1784 del 2016 (sui c.d. d.lgs. SCIA 1 e SCIA 2), guardando proprio alla ratioposta a fondamento della riforma (ossia garantire la stabilità del titolo del privato tramite l’abrogazione del co. 2 dell’art. 21 e l’introduzione del co. 2-bis all’art. 21-nonies), nel rilevare la distonia della scelta riformistica di mantenere inalterato il suddetto art. 21, co.1, aveva sin da subito evidenziato che se effettivamente il legislatore avesse voluto individuare una deroga ulteriore rispetto a quella prevista dal co. 2-bis dell’art. 21-nonies, avrebbe dovuto precisare “quali [fossero] i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies (...)”.
È innegabile quindi che la perdurante (e inalterata) vigenza dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/90, oltre a determinare un’insostenibile confusione di sistema (soprattutto se si guarda alle disposizioni di cui agli artt. 19 e 21-nonies), rappresenta un “pericolo” per il privato:
(i) non solo perché siffatta norma, così come il Capo VI del d.P.R. n. 445/2000, viene utilizzata dalla giurisprudenza non soltanto nelle ipotesi di non veridicità documentalmente dimostrata – come nel caso della sentenza in commento – ma anche, come spesso accaduto, a fronte di meri errori di diritto e comunque di dichiarazioni in cui l’assoluta non veridicità non sia riconducibile alla formula “vero-falso”, ma risulti invece opinabile, con la conseguenza che ogni disposizione tesa a limitare il potere dell’amministrazione di intervenire in autotutela su propri provvedimenti per vizi originari di legittimità (compresa, da ultimo, la previsione di cui all’art. 2, co. 8-bis l. n. 241/90 introdotta dall’art. 12 d.l. n. 76/2020 conv. nella l. n. 120/2020) sarà di fatto “anestetizzata”;
(ii) ma soprattutto perché la lettura combinata del primo periodo di essa (“l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti”) con il secondo (“In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni … il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale”) comporta l’inaccettabile equiparazione dell’errore di diritto al “falso ideologico in atto pubblico”, oltre che una (assurda) disparità tra la posizione del privato, esposto al rischio di una condanna ai sensi dell’art. 483 c.p. nel caso in cui erri nell’interpretare le norme di legge, e quella del funzionario pubblico, che risulterà, invece, esonerato dalla responsabilità, laddove incorra in meri errori di diritto.
Quanto illustrato mostra chiaramente la più volte richiamata urgenza di un intervento legislativo che, tra le tante, chiarisca (i) se la locuzione “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” debba riferirsi anche alle “false rappresentazioni dei fatti”; (ii) che l’errore di diritto non può essere ricondotto alle “false rappresentazioni dei fatti”; e (iii) in caso di esito negativo della prima domanda, che i 18 mesi possano essere superati, al di là delle condanne penali passate in giudicato, soltanto nelle fattispecie in cui il “falso” della dichiarazione si evinca con immediatezza dal contrasto di essa con dati di realtà oggettivi, quali quelli risultanti da pubblici registri.
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Per un maggiore approfondimento dei temi trattati si vedano in giurisprudenza, ex multis: Cons. Stato, Sez. III, 8 luglio 2020 n. 4392, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 16 marzo 2020 n. 1872, ivi; Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, in dejure.it, Id., 24 aprile 2019 n. 2645, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018 n. 3940, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017 n. 8, in questa Riv. giur. edil., 2017, 5, I, 1089 (nota di N. Posteraro). Da ultimo, Corte cost., 16 aprile 2021 n. 68, in Il quotidiano giuridico, (che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953, “in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada” e) le cui argomentazioni e conclusioni, anche alla luce dei recenti interventi legislativi, non sembra che possano trovare spazio rispetto ai benefici incisi da misure sanzionatorie di carattere interdittivo.
In dottrina, si rinvia a M.A. Sandulli, Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e Pa o il Recovery è inutile, in questa rivista 10 maggio 2021; Id., Autodichiarazioni e dichiarazione "non veritiera", in questa Rivista, 15 ottobre 2020; Id., La semplificazione nella produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, 181 ss.; Id., La “trappola” dell’art. 264 "decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in questa Rivista, 2 giugno 2020; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in www.giustizia-amministrativa.it, nel quale si denuncia l’assoluta incertezza e il caos generato dalla disciplina in tema di autocertificazioni e di esercizio del potere dell’autotutela soprattutto nella materia edilizia; Id., L’autotutela perde i limiti temporali imposti dalla «Madia», in Il sole 24 ore, 9 luglio 2018; M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019; M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria (artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, 421 ss.; G. Strazza, I “tempi” dell’annullamento d’ufficio (Nota a C.g.a.r.s., sez. I, 26 maggio 2020, n. 325), in Giustizia insieme, 24 giugno 2020; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1177; Id., Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in federalismi.it, 22 marzo 2017; A. Gualdani, Il tempo nell’autotutela, in Federalismi.it, 12, 2017; C.P. Santacroce, Annullamento d’ufficio e tutela dell’affidamento dopo la legge n. 124 del 2015, in Dir. e proc. amm., 2017, 1145 ss..
Presunzione di “protezione equivalente”, accertamento delle condizioni di detenzione e tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione del mandato di arresto europeo: la Corte di Strasburgo detta le regole
(Nota a Corte EDU, Sez. V, 25 marzo 2021, Bivolaru e Moldovan c. Francia, nn. 40324/16 e 12623/17)
di Gaetano De Amicis
Abstract
La Corte EDU si è pronunciata in relazione ad caso avente ad oggetto due mandati esecutivi di arresto europeo richiesti dalla Romania alla Francia nei confronti di due cittadini rumeni condannati in absentia, stabilendo i seguenti principî: a) nell'adempimento dei loro obblighi internazionali gli Stati contraenti restano comunque vincolati al rispetto degli obblighi stabiliti dalla CEDU; b) se l'organizzazione internazionale in questione (nel caso in esame, l'Unione europea) conferisce ai diritti fondamentali (nel caso in esame, il divieto di subire trattamenti inumani o degradanti negli istituti di pena dello Stato di emissione) un livello equivalente o comparabile di protezione rispetto a quello ad essi garantito dalla CEDU, le misure adottate per adempiere quegli obblighi internazionali devono ritenersi giustificate; c) l'applicabilità della “presunzione di protezione equivalente” si fonda sui due presupposti dell’assenza in capo alle autorità nazionali di margini discrezionali in relazione all'adempimento dell’obbligo internazionale e della piena attuazione del potenziale del meccanismo di vigilanza e controllo sul rispetto dei diritti fondamentali all’interno dell'organizzazione; d) il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nell'Unione europea non può essere applicato in modo automatico e meccanico a discapito dei diritti fondamentali; e) qualora la regola basata sulla presunzione di protezione equivalente sia in concreto configurabile, la CEDU verifica se le modalità di applicazione dello strumento di riconoscimento reciproco renda manifestamente carente o meno la tutela dei diritti convenzionali; f) tali principî non si applicano solo al mandato d'arresto europeo, ma anche a tutti i meccanismi euro-unitari di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie.
Sommario: 1. Il caso. – 2. La ratio decidendi. – 3. I precedenti giurisprudenziali in ordine al mandato di arresto europeo. - 4. I precedenti giurisprudenziali in ordine alle procedure di estradizione ed espulsione. – 5. La decisione. – 6. Mutuo riconoscimento e presunzione di protezione equivalente nel “dialogo” fra le Corti sovranazionali. – 7. L’accertamento delle condizioni di detenzione nello Stato di emissione del mandato di arresto europeo e i presupposti di opponibilità del motivo di rifiuto. – 8. Il progressivo adeguamento della giurisprudenza di legittimità.
1. Il caso.
Con la sentenza in esame[1] la Corte EDU si è pronunciata su due ricorsi aventi ad oggetto la consegna disposta a seguito della emissione di due mandati esecutivi di arresto europeo richiesti dalla Romania alla Francia nei confronti di due cittadini rumeni (Codrut Moldovan e Gregorian Bivolaru) rispettivamente condannati, il primo, alla pena di sette anni e mesi sei di reclusione per il reato di traffico di esseri umani, ed il secondo, in possesso dello status di rifugiato politico in Svezia, alla pena di sei anni di reclusione per reati in materia sessuale[2].
A fronte di m.a.e. emessi per l’esecuzione di condanne definitive emesse in absentia, le autorità giudiziarie francesi hanno accolto entrambe le richieste sulla base di differenti percorsi procedimentali.
Per quel che attiene alla posizione del Moldovan, condannato nel 2015 per il reato di traffico di esseri umani dalla Romania alla Francia ed ivi posto in stato di arresto, era stata contestata l’esecuzione del m.a.e. allegando il fatto che in Romania egli avrebbe subito una detenzione in condizioni incompatibili con le garanzie previste dall’art. 3 CEDU: le autorità francesi, dopo aver richiesto informazioni supplementari ed assicurazioni sul punto alla Romania, avevano disposto l’esecuzione del m.a.e. respingendone il ricorso per cassazione.
Nei confronti del Bivolaru, invece, dopo il suo arresto a Parigi, il m.a.e. era stato contestato allegando in particolare la natura politica della condanna e il rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3 CEDU per ragioni discriminatorie di ordine politico e religioso; dal 2005, infatti, egli aveva ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Svezia.
Ciò nonostante, anche il suo ricorso veniva respinto dalla Corte di cassazione francese, che ne disponeva la consegna alla Romania in esecuzione del m.a.e.
Dinanzi alla Corte EDU entrambi i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 3 CEDU per effetto dell’esecuzione del m.a.e. emesso nei loro confronti, contestando il fatto che le Autorità giudiziarie francesi, nell’eseguire le rispettive “eurordinanze” rumene, non avevano tenuto conto dei rischi individuali di esposizione a trattamenti inumani e degradanti negli istituti penitenziari dello Stato richiedente, con riferimento alla prospettata violazione del parametro convenzionale stabilito dalla su indicata disposizione. Nel caso del Bivolaru, in particolare, il ricorso veniva incentrato anche, e soprattutto, sul problema legato all’apprezzamento delle conseguenze legate allo status di rifugiato concessogli da un altro Paese membro dell’Unione europea.
2. La ratio decidendi
Richiamata preliminarmente la sua consolidata elaborazione giurisprudenziale in merito alle condizioni di applicazione della presunzione di protezione equivalente nelle questioni relative all’applicazione degli strumenti normativi propri del diritto dell’Unione europea[3], la Corte EDU ne ha vagliato le implicazioni con riferimento al caso in cui nell’esecuzione di un m.a.e. entrino in giuoco i profili attinenti alle condizioni di detenzione degli istituti penitenziari dello Stato di emissione.
Secondo i principi generali al riguardo enunciati nella sentenza Bosphorus, poi sviluppati dalla Corte di Strasburgo nelle sentenze Michaud e Avotiņš, nell'applicare il diritto dell'Unione europea gli Stati contraenti rimangono soggetti agli obblighi liberamente assunti nell’aderire alla Convenzione: siffatti obblighi, tuttavia, devono essere valutati rispetto ai presupposti della presunzione di protezione cd. “equivalente”, vale a dire in termini non identici ma "paragonabili" a quelli assicurati dalla Convenzione.
Entro tale prospettiva, afferma la Corte, una misura adottata con la finalità di adempiere agli obblighi giuridici internazionali (nel caso di specie quelli derivanti dall’adesione dei predetti Stati parti all’Unione europea) può ritenersi giustificata solo se l’organizzazione in questione accordi ai diritti fondamentali un livello di protezione comparabile a quello garantito dalla Convenzione europea e, se ciò accade, deve presumersi che gli Stati parti rispettino i requisiti della Convenzione quando eseguono gli obblighi giuridici derivanti dalla loro appartenenza a quell’organizzazione.
Il compito della Corte, in particolare, consiste nel verificare se le condizioni per l’applicazione della presunzione di protezione equivalente siano state soddisfatte nelle circostanze del caso concreto, accertando se in sede di esecuzione di un mandato di arresto europeo sia riscontrabile o meno una manifesta inadeguatezza dei meccanismi di protezione dei diritti e delle garanzie convenzionali.
Ove tali condizioni non risultino integralmente soddisfatte, la Corte deve esaminare il modo in cui l’autorità giudiziaria di esecuzione ha concretamente proceduto nella trattazione del caso, al fine di accertare l’esistenza di un rischio reale e concreto di violazione dei diritti protetti dalla Convenzione in sede di esecuzione di un mandato europeo di arresto.
Nel sistema UE le condizioni per l’applicazione della presunzione di protezione equivalente sono di duplice ordine: a) l’assenza di qualunque margine di discrezionalità in capo alle autorità statali; b) la massima espansione delle potenzialità inerenti al meccanismo di controllo previsto dal diritto dell’Unione.
Ora, i principi enunciati nella giurisprudenza della Corte europea si applicano a tutti i meccanismi di mutuo riconoscimento previsti dal diritto dell'Unione europea e la presunzione di protezione equivalente è considerata senz’altro applicabile quando le autorità nazionali attuano il diritto euro-unitario senza margini di apprezzamento discrezionale, ma la stessa può essere superata all’esito di una complessiva delle circostanze rilevanti in un caso concreto: pur dovendo tener conto, infatti, delle modalità di funzionamento dei meccanismi del mutuo riconoscimento, e in particolare della loro esigenza di effettività, la Corte deve verificare che il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie non sia applicato in maniera automatica e meccanica, a discapito dei diritti fondamentali.
Solo un’adeguata protezione dei diritti tutelati dalla Convenzione conferisce a questo meccanismo la sua piena efficacia, sicchè se dinanzi alle autorità nazionali viene presentata una censura seria e motivata di manifesta insufficienza della tutela di un diritto garantito dalla Convenzione e il diritto dell'UE non consenta di porvi rimedio, esse non possono rinunciare all'esame di tali doglianze per il solo motivo che sono tenute ad applicare la normativa euro-unitaria. In questo caso, dunque, spetta ad esse interpretare ed applicare tale normativa in conformità con la Convenzione[4].
Ove la presunzione di protezione equivalente sia applicabile nel caso sottoposto alla sua cognizione, è compito della Corte europea stabilire se la protezione dei diritti garantiti dalla Convenzione risulti viziata nel caso di specie da una insufficienza “manifesta”, come tale idonea a rovesciare il fondamento di tale presunzione, nel qual caso il rispetto della Convenzione come “strumento costituzionale dell'ordine pubblico europeo" nel campo dei diritti umani dovrebbe prevalere sull'interesse della cooperazione internazionale (cfr. sent. Bosphorus, § 156, e Michaud, § 103).
3. I precedenti giurisprudenziali in ordine al mandato di arresto europeo
La Corte ha inoltre richiamato i principi ricavabili dalla sua elaborazione giurisprudenziale in relazione ai casi che hanno avuto ad oggetto l’applicazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo.
Nella su citata sentenza relativa al caso Pirozzi[5], richiamata l'importanza dei meccanismi di riconoscimento reciproco per la costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e della fiducia reciproca che essi richiedono fra gli Stati membri dell’Unione europea, la Corte ha affermato che, salva la presenza di motivi ostativi, l'esecuzione del m.a.e. è obbligatoria per l'autorità giudiziaria dell'esecuzione, ciò che determina l'applicazione della presunzione di tutela equivalente (§§ 66 e 71).
Nel sottolineare che tale autorità aveva, nel caso di specie, verificato che l'esecuzione del m.a.e. non aveva dato luogo ad una situazione di manifesta insufficienza di tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione, la Corte ha osservato che, valutato in questi termini, il sistema previsto dalla richiamata decisione quadro di per sé non entra in conflitto con il quadro delle garanzie convenzionali.
Nella sentenza Romeo Castaño[6], inoltre, la Corte ha affermato che il rifiuto di eseguire un m.a.e. sulla base del fatto che la consegna solleverebbe delle preoccupazioni circa un rischio di violazione dei diritti fondamentali della persona ricercata può essere ritenuto contrario all'obbligo procedurale di cooperazione stabilito dall’art. 2 della Convenzione quando il vaglio della relativa condizione ostativa non riposi su una sufficiente base fattuale.
Entro tale prospettiva essa ha ribadito che, in sede di esecuzione di un m.a.e., il meccanismo di riconoscimento reciproco non dovrebbe essere applicato in maniera automatica e meccanica a discapito dei diritti fondamentali, sicchè un rischio di trattamento inumano e degradante della persona di cui viene richiesta la consegna può costituire un motivo legittimo per rifiutarne l'esecuzione, a condizione che l'accertamento di tale rischio si fondi su basi fattuali sufficientemente solide. Spetta all'autorità giudiziaria di esecuzione svolgere un esame dettagliato e aggiornato della situazione concreta, al fine di stabilire se esista o meno un rischio reale e individualizzato di violazione dei diritti protetti dalla Convenzione a causa delle specifiche condizioni di detenzione previste per la persona richiesta in consegna dallo Stato di emissione.
4. I precedenti giurisprudenziali in ordine alle procedure di estradizione ed espulsione
La Corte ha infine richiamato i principi generali affermati in relazione al tipo di controllo che essa stessa è chiamata ad espletare in ordine al rispetto dell'art. 3 della Convenzione in caso di estradizione o di espulsione del ricorrente nel suo Paese di origine.
Al riguardo, infatti, la giurisprudenza della Corte è orientata a ritenere che gli Stati parti hanno l'obbligo di non estradare una persona verso un Paese che ne chiede l'estradizione, qualora sussistano motivi seri e comprovati per ritenere che la stessa, se estradata nel Paese di destinazione, andrà incontro ad un rischio reale di essere sottoposta ad un trattamento contrario ai divieti posti dall'art. 3 CEDU[7].
A tale proposito, la Corte ha ritenuto opportuno fare riferimento ai principi generali applicabili nel contesto, sia pure diverso, dell’espulsione ed ha ribadito che spetta in linea di principio al ricorrente produrre elementi di prova atti a dimostrare che esistono seri motivi per ritenere che, se la misura controversa venisse attuata, egli sarebbe esposto ad un rischio reale e concreto di un trattamento contrario alle richiamate garanzie convenzionali; qualora tali prove siano prodotte, spetta al Governo fugare qualsiasi dubbio che al riguardo possa sorgere[8].
5. La decisione
Applicando tali parametri ai casi devoluti alla sua cognizione, la Corte EDU è pervenuta a soluzioni differenti, assumendo costantemente come punti fermi nelle sequenze del suo percorso argomentativo i principi affermati nella più recente elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia in merito al rapporto fra il divieto – omologo all’art. 3 CEDU - posto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (secondo cui Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti) ed il concerto funzionamento del sistema di consegna post-estradizionale fondato sulla Decisione quadro in tema di mandato di arresto europeo.
5.1. In relazione al primo ricorso, ha preliminarmente rammentato che l’obbligo giuridico per l’autorità giudiziaria che esegue il m.a.e. discende dalla decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, così come interpretata dalla Corte di giustizia UE sin dalla sua sentenza Aranyosi e Căldăraru del 5 aprile 2016, e che, allo stato attuale della giurisprudenza di tale Corte, all’autorità giudiziaria dell’esecuzione è consentito derogare solo in circostanze eccezionali ai principi di fiducia e riconoscimento reciproci tra gli Stati membri rinviando o addirittura rifiutando, se del caso, l’esecuzione del m.a.e.
Verificata la sussistenza nel caso di specie dei presupposti di applicabilità della presunzione di protezione equivalente, la Corte ha rilevato che, sulla base dell’esame dei fatti e delle allegazioni offerte dal primo ricorrente, l’autorità giudiziaria di esecuzione disponeva di solidi elementi fattuali per riconoscere la sussistenza di un rischio reale che egli, in caso di consegna, potesse subire trattamenti inumani e degradanti a causa delle condizioni di detenzione cui sarebbe stato sottoposto in Romania, sicchè non avrebbe dovuto basarsi esclusivamente sulle dichiarazioni delle autorità rumene.
Sebbene il ricorrente avesse prodotto prove di carenze sistemiche e diffuse nelle carceri dello Stato di emissione, ivi compreso l’istituto ove le autorità di emissione intendevano collocarlo, le autorità di esecuzione hanno escluso la presenza di un rischio di violazione della garanzia prevista dall’art. 3 CEDU, senza esaminare in maniera adeguata: a) il fatto che, secondo la sua giurisprudenza[9], il limite di 3 mq di superficie calpestabile per detenuto in una cella multipla costituisce lo standard minimo applicabile ai fini dell'art. 3 della Convenzione (laddove nel caso in esame la risposta delle Autorità rumene, che consideravano a tal fine anche la presenza di mobili e servizi igienici, era indicativa del fatto che quello spazio minimo non gli sarebbe stato concesso); b) il fatto che le assicurazioni fornite dalle Autorità rumene in merito agli altri aspetti delle condizioni di detenzione nel carcere ove avrebbe dovuto scontare gran parte della pena risultavano formulate in modo stereotipato e non erano state apprezzate ai fini della valutazione del rischio da parte dell'autorità giudiziaria competente per l'esecuzione; c) la circostanza che, se anche le Autorità dello Stato di emissione non avevano escluso la possibilità che il ricorrente venisse trattenuto in un carcere diverso da quello indicato, le precauzioni al riguardo assunte dall'autorità giudiziaria dell'esecuzione, sotto la forma di una raccomandazione che il ricorrente doveva esser detenuto in una prigione in grado di offrire condizioni identiche, se non migliori, erano comunque insufficienti per escludere la presenza di un rischio reale di trattamenti inumani e degradanti.
Alla luce delle particolari circostanze del caso in esame, dunque, la Corte ha concluso rilevando una manifesta inadeguatezza della protezione dei diritti fondamentali, in termini tali da confutare la presunzione di protezione equivalente, con il conseguente accertamento della violazione dell’art. 3 Cedu.
5.2. In relazione al secondo ricorso, invece, la Corte ha ritenuto che l'autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, dopo aver svolto un esame approfondito e completo della situazione personale del ricorrente, non era in possesso di una base fattuale sufficientemente solida per ritenere l’esistenza di un rischio reale di violazione dell’art. 3 della Convenzione e rifiutare, sulla base di tale motivo, l’esecuzione del m.a.e.
Preliminarmente, tuttavia, la Corte di Strasburgo ha esaminato il profilo di doglianza concernente il vaglio in concreto effettuato dalle Autorità francesi circa lo status di rifugiato concesso, e non revocato, al ricorrente da un altro Stato membro UE (la Svezia), escludendo l’operatività del principio di protezione equivalente sul rilievo che le Autorità di esecuzione avevano respinto la domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per chiedere chiarimenti sul rapporto tra la disciplina del m.a.e. e lo status di rifugiato riconosciutogli da un Paese membro dell’Unione: questione, quella ora indicata, che la Corte di Strasburgo ha considerato rilevante sia sul versante della protezione dei diritti fondamentali da parte del sistema euro-unitario, sia su quello della interrelazione con la tutela offerta dall’art. 33, § 1, della Convenzione di Ginevra del 1951, trattandosi di un aspetto sul quale la Corte di giustizia non risultava essersi pronunciata.
Nel caso in esame, dunque, la Corte di cassazione francese, decidendo di non attivare il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulle implicazioni sottese all'esecuzione di un m.a.e. emesso nei confronti di una persona in possesso dello status di rifugiato - status concesso, peraltro, da uno Stato membro al cittadino di un Paese terzo, la Romania, successivamente divenuto Stato membro dell’Unione - si era pronunciata senza utilizzare l’intero potenziale del meccanismo internazionale disponibile per le garanzie di controllo del rispetto dei diritti fondamentali.
Di qui il radicamento della competenza della Corte EDU ai fini del controllo sul modo in cui l'autorità giudiziaria di esecuzione aveva proceduto nel caso di specie, così da accertare se esistesse o meno il rischio che, in caso di esecuzione del m.a.e., il ricorrente sarebbe stato esposto a trattamenti persecutori in ragione delle proprie convinzioni politiche e religiose: controllo che le autorità di esecuzione avevano in effetti svolto scambiando le opportune informazioni con le autorità svedesi, le quali avevano a loro volta risposto in merito allo status di rifugiato del ricorrente, chiarendo che intendevano mantenerlo, senza tuttavia esprimersi in merito alla persistenza, dieci anni dopo la sua concessione, del rischio di persecuzione nel suo Paese d'origine.
Alcun elemento sintomatico, tuttavia, emergeva dal dossier esaminato dall'autorità giudiziaria di esecuzione, ovvero dal materiale offerto dal ricorrente alla Corte, in ordine alla effettiva sussistenza di un rischio di persecuzione in conseguenza della sua consegna alla Romania.
Sotto tale profilo, pertanto, la Corte ha concluso il suo ragionamento osservando che le autorità giudiziarie di esecuzione avevano verificato l’assenza di motivi discriminatori legati alla richiesta di esecuzione del m.a.e. sulla base di un esame approfondito e completo della situazione personale del ricorrente, mostrando attenzione allo status derivante dalla sua posizione di rifugiato.
Con riguardo al diverso, ma connesso, profilo di doglianza inerente alla verifica delle condizioni di detenzione in Romania, il ricorrente si era invece limitato a formulare generiche doglianze, senza offrire specifici riferimenti alla situazione e alle condizioni degli istituti penitenziari nello Stato di emissione, sicché l’autorità giudiziaria di esecuzione non disponeva di sufficienti elementi di prova al riguardo.
A fronte di tale evenienza, in definitiva, la Corte ha ritenuto che la descrizione - fornita dal ricorrente all’autorità giudiziaria di esecuzione - delle condizioni di detenzione nelle carceri rumene non fosse sufficientemente dettagliata né approfondita, con il conseguente rilievo dell’assenza delle condizioni ostative necessarie per opporre il rifiuto del m.a.e., la cui esecuzione, in questo caso, non ha determinato alcuna violazione del diritto previsto dall’art. 3 CEDU.
6. Mutuo riconoscimento e presunzione di protezione equivalente nel “dialogo” fra le Corti sovranazionali
Particolarmente rilevante deve ritenersi il quadro dei principi affermati dalla Corte EDU con la decisione in commento, che si segnala non solo per la volontà di avviare un fruttuoso dialogo con la Corte di giustizia sulle tematiche “sensibili” dei rapporti fra l’esecuzione del m.a.e. e le condizioni di detenzione dei diversi sistemi nazionali, ma anche, e soprattutto, per un primo tentativo di razionale ed equilibrata sistemazione delle complesse relazioni fra l’applicazione delle garanzie fondamentali della CEDU e i concreti meccanismi di funzionamento degli strumenti normativi euro-unitari in materia di cooperazione giudiziaria penale.
Un catalogo di principi e di indicazioni operative, quello delineato dalla Corte, che può sinteticamente riassumersi come segue: a) nell'adempimento degli obblighi internazionali gli Stati contraenti restano comunque vincolati al rispetto degli obblighi stabiliti dalla Convenzione; b) se l'organizzazione internazionale in questione (nel caso in esame, l'Unione europea) conferisce ai diritti fondamentali un livello equivalente o comparabile di protezione rispetto a quello ad essi garantito dalla CEDU, le misure adottate per adempiere quegli obblighi internazionali devono ritenersi giustificate; c) l'applicabilità della presunzione di protezione equivalente si fonda sui due presupposti dianzi richiamati (l’assenza in capo alle autorità nazionali di margini discrezionali in relazione all'adempimento dell’obbligo internazionale; la piena attuazione del potenziale del meccanismo di vigilanza e controllo sul rispetto dei diritti fondamentali all’interno dell'organizzazione); d) il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nell'UE non può essere applicato in modo automatico e meccanico a discapito dei diritti fondamentali; e) qualora la regola basata sulla presunzione di protezione equivalente sia in concreto configurabile, la CEDU verifica se le modalità di applicazione dello strumento di riconoscimento reciproco renda manifestamente carente o meno la tutela dei diritti convenzionali; f) tali principi non si applicano solo al mandato d'arresto europeo, ma anche a tutti i meccanismi euro-unitari di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie.
Il tema dei rapporti fra il sistema dei controlli attivabili sulla base della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’Unione europea rappresenta da tempo uno degli snodi più delicati nel rapporto fra l’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e della Corte di giustizia[10]. La CEDU, infatti, non esclude né limita la partecipazione dei propri Stati parti alle organizzazioni internazionali attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale, ma al contempo sottolinea il fatto che la qualità di membro di un’organizzazione internazionale non fa venir meno gli obblighi che derivano dall’adesione alla Convenzione.
In applicazione di tali principi, la Corte di Strasburgo, muovendo dal presupposto che il sistema euro-unitario offre una protezione dei diritti umani “equivalente” a quella prevista dalla CEDU, ha costruito le basi della c.d. “presunzione Bosphorus”, secondo cui opera, per lo Stato la cui condotta costituisce adempimento di un obbligo derivante dalla propria appartenenza all’organizzazione internazionale, la presunzione che tale condotta sia anche convenzionalmente conforme.
Tale accertamento si basa sull’esistenza, nell’ambito dell’Unione europea, non solo di garanzie sostanziali ma anche di meccanismi procedurali di controllo della loro osservanza, che offrono una tutela equivalente a quella prevista dalla CEDU. Per “equivalent”, tuttavia, la Corte ha precisato, nella sentenza Bosphorus, che la protezione si intende “comparable”, not “identical” e la presunzione di conformità che ne consegue è suscettibile di prova contraria qualora, nelle specifiche circostanze del caso concreto, sia accertato che la protezione dei diritti è stata “manifestly deficient” (§156).
Nel successivo caso Michaud, la Corte EDU ha ulteriormente chiarito che l’operatività della presunzione è subordinata a due condizioni: l’assenza di qualunque margine di discrezionalità per lo Stato membro nell’adempimento dell’obbligo che deriva dal diritto UE (condizione che tipicamente sussiste nel caso dei regolamenti e manca invece rispetto alle direttive o ad altri strumenti come le decisioni quadro) e lo spiegamento, nella vicenda concreta, del pieno potenziale dei meccanismi di tutela giurisdizionale esistenti a livello UE (con una particolare sottolineatura, rispetto a questi ultimi, del ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia).
Dal canto suo, la Corte di giustizia ha da sempre riconosciuto l’importanza centrale che il sistema convenzionale riveste per la protezione dei diritti umani nell’ambito dell’ordinamento (dapprima comunitario, ora euro-unitario) sia quale fonte di ispirazione dei “principi generali” che continuano a far parte del diritto dell’Unione (ex art. 6, par. 3, TUE), sia per la determinazione del significato e della portata dei diritti, previsti dalla Carta dei diritti fondamentali, corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU (ex art. 52 CFUE).
L’aspetto più problematico di tale ricostruzione è stato ravvisato, tuttavia, nel fatto che essa tende ad affievolire il ruolo della Corte EDU di garante del rispetto dei diritti umani negli Stati membri dell’UE. Se ciò, per un verso, può apparire giustificato sulla base del rilievo che l’Unione europea assicura autonomamente, anche sul piano giurisdizionale, la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU e che, in generale, è ragionevole presumere che i diritti fondamentali, ivi incluse le garanzie del giusto processo, siano rispettati, per altro verso, tale soluzione non appare necessitata quando lo Stato convenuto agisce in adempimento di un obbligo di mutuo riconoscimento, nonostante la protezione sia, in linea di principio, equivalente[11].
Nel sistema euro-unitario il principio del mutuo riconoscimento impone agli Stati membri di assumere automaticamente che i diritti umani siano rispettati anche negli altri ordinamenti interni. L’applicazione della presunzione Bosphorus in questo contesto consente (ed anzi impone) allo Stato – in ipotesi – convenuto dinanzi alla Corte EDU di non verificare il rispetto di tali diritti nello Stato di origine, ciò che è contrario all’oggetto e lo scopo della CEDU, la cui funzione fondamentale è di assicurare non una tutela teorica o illusoria, ma “pratica ed effettiva” dei diritti fondamentali.
Ed è proprio in questa problematica intersezione che la posizione assunta dalla Corte EDU con la richiamata sentenza Avotins segna un punto a favore del meccanismo di controllo interno attivabile dinanzi alla Corte di giustizia e la Corte di Strasburgo sembra cedere il passo, forse nel timore di rompere l’equilibrio dei rapporti fra le due Corti sovranazionali[12].
Con la pronuncia in esame, tuttavia, la Corte EDU sembra voler fare un passo in avanti nell’affermazione del grado di intensità del controllo sulla comparazione delle rispettive forme di tutela dei diritti fondamentali, poiché, da un lato, ha affermato con chiarezza che gli Stati membri UE devono rispettare le garanzie convenzionali quando applicano gli strumenti del riconoscimento reciproco, dall’altro lato ha indicato le modalità del controllo attivabile in relazione alla regola della presunzione di protezione equivalente, riconoscendo per la prima volta che la stessa può essere in concreto superata a causa di una manifesta carenza di tutela nell'applicazione del m.a.e. come strumento di riconoscimento reciproco[13].
7. L’accertamento delle condizioni di detenzione nello Stato di emissione del mandato di arresto europeo e i presupposti di opponibilità del motivo di rifiuto
Un ulteriore profilo di interesse della decisione in esame può cogliersi in relazione alle modalità di valutazione delle condizioni di detenzione riscontrabili negli istituti penitenziari dello Stato di emissione ai fini della opponibilità del correlativo motivo di rifiuto della consegna, poiché se la Corte EDU conviene con l'approccio seguito dalla Corte di Lussemburgo là dove entrambe richiedono l’accertamento di un rischio reale e individualizzato di violazione del diritto fondamentale a non subire un trattamento inumano e degradante in conseguenza della consegna, per altro verso essa non segue necessariamente l’approccio basato sul percorso bifasico inaugurato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia con la menzionata decisione Aranyosi e Căldăraru.
Strettamente connessa a tale rilievo è la rilevante affermazione secondo cui la CEDU agisce quale punto di riferimento nelle ipotesi ritenute non coperte dall’applicazione della presunzione di protezione equivalente (nel caso di specie, a causa della mancata formulazione, da parte della Corte di cassazione francese, di una domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte UE su questioni rilevanti quali quelle relative alle implicazioni, ai fini dell’esecuzione del m.a.e., della concessione dello status di rifugiato ad opera di un altro Stato membro UE): in tali evenienze, infatti, il criterio basato sulla “manifesta insufficienza” di tutela viene considerato irrilevante.
Nel sistema di consegna post-estradizionale istituito dalla decisione quadro relativa al mandato di arresto europeo, fondato, come è noto, sul principio del riconoscimento reciproco (considerando 6, art. 82, par. 1, TFUE), mentre l'esecuzione del m.a.e. rappresenta la norma (art. 1, par. 2), il rifiuto di darvi esecuzione rappresenta l'eccezione.
L’opposizione del rifiuto, che potrebbe aumentare il rischio di impunità e compromettere la sicurezza dei cittadini, nonché la protezione delle vittime dei reati, può essere presa in considerazione, in via di principio, solo nelle circostanze di cui agli artt. 3, 4 e 4 bis della decisione quadro. Sebbene non sia previsto un motivo di rifiuto legato alle violazioni dei diritti fondamentali, la decisione quadro non ha l'effetto di modificare l'obbligo degli Stati membri di rispettare i diritti e i principi fondamentali sanciti dall'arti. 6 TUE e dalla Carta dei diritti fondamentali (art. 1, par. 3, considerando 12 e 13).
Al riguardo, infatti, una consolidata linea interpretativa della Corte di giustizia[14] ha riconosciuto che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione, in circostanze eccezionali e a determinate condizioni, può rifiutare di dare esecuzione ad un m.a.e. laddove sussista un rischio reale che la consegna dell'interessato possa portare a trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell'art. 4 della Carta, a causa delle condizioni di detenzione nello Stato emittente, ovvero ad una violazione del diritto fondamentale ad un giudice imparziale sancito dall'art. 47, secondo comma, della Carta, a causa di preoccupazioni in merito all'indipendenza della magistratura nello Stato emittente.
Alle autorità giudiziarie competenti per l’esecuzione è dunque affidato il difficile compito di trovare, caso per caso, una equilibrata soluzione al conflitto tra il principio del riconoscimento reciproco e la tutela dei diritti fondamentali.
Per quel che attiene, in particolare, alla protezione da trattamenti inumani o degradanti, il divieto posto dall'art. 4 della Carta ha carattere assoluto in quanto è strettamente connesso al rispetto della dignità umana di cui all'art. 1 della Carta, uno dei valori fondamentali dell'Unione e dei suoi Stati membri, come stabilito dall'articolo 2 TUE.
Come dianzi accennato, la valutazione, al riguardo, va effettuata in due fasi: a) le autorità competenti per l’esecuzione del m.a.e. devono avere accesso ad informazioni obiettive, attendibili, specifiche e debitamente aggiornate al fine di stabilire, in una prima fase, se, per quanto riguarda le condizioni di detenzione, nello Stato membro emittente sussistano carenze sistemiche o generalizzate, oppure carenze che colpiscono determinati gruppi di persone o taluni centri di detenzione; b) nella seconda fase della valutazione, esse, ai sensi dell'art. 15, par. 2, della decisione quadro, devono ricevere tutte le informazioni necessarie in ordine alle condizioni nelle quali è concretamente previsto che la persona interessata venga detenuta nello Stato membro emittente, così da poter verificare se sussistano motivi seri e comprovati per ritenere che, se consegnata, tale persona correrebbe un rischio reale di subire un trattamento inumano o degradante.
8. Il progressivo adeguamento della giurisprudenza di legittimità
La giurisprudenza di legittimità si è prontamente adeguata alle indicazioni al riguardo offerte dalla Corte di Lussemburgo, stabilendo che, una volta accertata, attraverso l’acquisizione di documenti affidabili, l'esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro, va verificato se, in concreto, la persona oggetto del m.a.e. potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano: a tal fine l’autorità giudiziaria può richiedere allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria e dovrà rinviare la propria decisione sulla consegna fino a quando non ottenga, entro un termine ragionevole, notizie che le consentano di escludere la sussistenza del rischio, pronunziando, in caso negativo, una decisione allo stato degli atti[15].
Nelle ipotesi in cui non emerga una situazione di pericolo “attuale”, la Corte di cassazione ha ritenuto legittima la consegna senza la preventiva necessità di informazioni individualizzanti[16].
Per quel che attiene alle informazioni provenienti dallo Stato di emissione circa il regime carcerario riservato al consegnando, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che lo Stato di esecuzione, in conformità̀ con i principi del mutuo riconoscimento, deve limitarsi a “prenderne atto”[17].
Più di recente si è precisato che, alla luce della evoluzione giurisprudenziale registrata nei più recenti indirizzi interpretativi della Corte di giustizia (Grande Sezione, 15 ottobre 2019, Dorobantu, C – 128/19 e Prima Sezione, 25 luglio 2018, Generalstaatsanwaltschaft, C-220/18), qualora lo Stato emittente abbia fornito assicurazioni che la persona interessata non subirà un trattamento inumano e degradante, l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione può rifiutare di eseguire la richiesta solo quando, sulla base di elementi precisi, riscontri comunque il pericolo che le condizioni di detenzione siano contrarie all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali UE[18].
Si è altresì affermato che sono inammissibili critiche al sistema carcerario estero meramente esplorative, ovvero non sostenute dalla allegazione di attendibili e qualificate fonti in ordine alla sussistenza della carenza denunciata[19].
La questione delle condizioni in cui versano gli istituti penitenziari dello Stato di esecuzione non può essere in ogni caso proposta per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, in quanto la necessità di attività istruttoria è incompatibile con la competenza attribuita alla Corte di cassazione: la previsione di legge del ricorso per cassazione “anche per il merito” attribuisce alla Corte di cassazione la possibilità̀ di verificare gli apprezzamenti di fatto operati dal giudice della consegna, ma non le conferisce poteri di tipo sostitutivo o integrativo e tanto meno istruttorio, a fronte di carenze documentali ed informative su aspetti determinanti ai fini della consegna e della giurisdizione dello Stato italiano[20].
8.1. Sulla nozione di “spazio minimo detentivo”, inoltre, la Corte di cassazione ha rammentato che per spazio minimo in una cella collettiva deve intendersi quello in cui il soggetto detenuto abbia la concreta possibilità̀ di muoversi[21].
Muovendo da tale considerazione di ordine generale si è affermato, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 CEDU, che devono essere detratte dalla superficie lorda della cella l'area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e struttura "a castello", e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente spostabili.
Resta fermo, in ogni caso, che lì dove la superficie così calcolata scenda al di sotto dei tre metri quadrati ciò non integra di per sè la violazione del parametro convenzionale, bensì la "strong presumption" di trattamento contrario ai contenuti dell'art. 3 CEDU, che, a determinate condizioni, viene ritenuta bilanciabile[22].
In tale prospettiva è stato da ultimo affermato che la circostanza che lo spazio disponibile per ciascun detenuto in regime di detenzione cd. “chiuso” sia temporaneamente di poco inferiore al limite dei tre metri quadri (nella specie mq. 2,83) non comporta il rischio di un trattamento carcerario inumano o degradante, in presenza della concreta operatività di fattori compensativi che rendano le condizioni della detenzione conformi agli standards convenzionali[23].
8.2. Una linea interpretativa, quella dianzi citata, che le Sezioni Unite hanno di recente accolto ed ancor meglio precisato[24], affermando il principio secondo cui nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello.
Al riguardo, in particolare, le Sezioni Unite hanno considerato come la Grande Camera della Corte EDU abbia optato per una valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui anche il dato temporale giuoca un ruolo rilevante, specie se il detenuto ha subito condizioni di ristrettezza per periodi non consecutivi. Mentre nel su citato caso Muršić, infatti, i giudici europei hanno rilevato la violazione per il periodo in cui il ricorrente ha trascorso ventisette giorni consecutivi in uno spazio inferiore a tre mq., nel caso trattato da Corte EDU, 17/10/2013, Belyayev v. Russia, la stessa Corte ha escluso che 26 giorni consecutivi espiati in uno spazio di poco inferiore ai 3 mq. (2,97 al lordo) avessero raggiunto quella soglia di gravità da integrare la violazione dell’art. 3 CEDU, in presenza di altri aspetti trattamentali allevianti.
Particolarmente rilevante, ai fini della soluzione della questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite, è la modalità di calcolo dello spazio minimo adottata dalla Corte EDU. La Grande Camera, infatti, ha condiviso il metodo utilizzato dal Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, ovvero il fatto che la superficie vada considerata al netto dei servizi igienici, ma comprensiva degli arredi, senza distinzione. Ciò che è importante in tale accertamento, ha sottolineato la Corte europea, è verificare se i detenuti abbiano o meno la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella («detainees had a possibility to move around within the cell normally»; «détenus avaient la possibilité de se mouvoir normalement dans la cellule» (§ 114).
Ebbene, l’attenzione della Corte di legittimità si è concentrata sui richiamati passaggi argomentativi, in quanto ritenuti espressione di principi consolidati a livello europeo, atteso che sono stati ribaditi anche in sentenze successive al caso Muršić[25], per poi sviluppare la considerazione che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti da parte della Corte EDU è il frutto di una valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale, che sulla base di concreti fattori ambientali positivi, pur in presenza di uno spazio vitale inferiore a tre mq., può portare a ritenere, che le complessive condizioni di detenzione siano conformi agli standard convenzionali.
Nella citata sentenza Muršić, infatti, la Corte europea ha ribadito che l'attribuzione di uno spazio individuale inferiore al minimo di tre metri quadrati non comporta inevitabilmente e di per sé la violazione dell'art. 3 CEDU, ma fa sorgere soltanto una "forte presunzione", non assoluta, di violazione. Viene, inoltre, stabilito che tale presunzione può essere vinta dalla presenza congiunta di altri aspetti delle condizioni di detenzione, costituiti, ad es., dalla sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella, dallo svolgimento di adeguate attività fuori cella e dal rilievo di dignitose condizioni della detenzione in generale (§ 132, § 138).
Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno sottolineato che la problematica relativa all’incidenza da riconoscere ai c.d. “fattori compensativi”, assume uno specifico rilievo soprattutto nell'ambito della procedura di consegna ad altri Stati di persone arrestate in forza di m.a.e. e, quindi, nei rapporti con autorità giudiziarie straniere.
A tal proposito, infatti, la Corte di giustizia ha riconosciuto, a determinate condizioni, l'obbligo per l'autorità giudiziaria dell'esecuzione di sospendere o porre fine alla procedura di consegna, qualora questa rischi, in concreto, di esporre la persona colpita dal mandato ad un trattamento inumano o degradante. Quando tale rischio sia presente, l'autorità giudiziaria dell'esecuzione deve rimandare la decisione sulla consegna della persona fino a quando non riceva informazioni che consentano di escluderlo.
Ebbene, la Corte di cassazione si è in più occasioni trovata a decidere sulla legittimità della disposta consegna in favore di Paesi membri dell’Unione in cui le condizioni detentive prevedono uno spazio vitale effettivo, al netto degli arredi fissi, inferiore al limite di tre mq. In diversi casi la violazione dell’art. 3 CEDU è stata esclusa proprio sulla base del riconoscimento di positivi fattori che compensavano l’insufficienza dello spazio (v., ad es., Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355, che ha valorizzato il congruo numero di ore da trascorrere quotidianamente all'esterno delle celle, le adeguate condizioni di igiene, e, dopo l'espiazione di un quinto della pena, la possibilità di accedere al regime di detenzione cd. aperto; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296, che ha dato importanza al ridotto lasso di tempo (solo nelle ore notturne) trascorso in cella, all'igiene personale, ai pasti, all'areazione, a condizioni di illuminazione e climatizzazione adeguate, nonché all'accesso all'acqua corrente ed ai servizi sanitari e, ancora alla possibilità di accedere a postazioni telefoniche ed informatiche, all'acquisto di generi di necessità, alle visite, alla possibilità di lavoro, allo svolgimento di attività educative, sportive, terapeutiche, con accesso agli spazi aperti).
Le Sezioni Unite hanno confermato la correttezza di tale impostazione, accedendo all’interpretazione secondo la quale, se il detenuto è sottoposto al regime c.d. "chiuso", è necessario che gli venga assicurato uno spazio minimo di tre metri quadrati, detratto quello impegnato da strutture sanitarie e arredi fissi; se, al contrario, è sottoposto al regime c.d. "semiaperto", ove gli venga riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadrati, è necessario, al fine di escludere o di contenere il pericolo di violazione dell'art. 3 CEDU, che concorrano i seguenti fattori: 1) breve durata della detenzione; 2) sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella assicurata dallo svolgimento di adeguate attività; 3) dignitose condizioni carcerarie (Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, P, Rv. 271577).
Le Sezioni Unite, inoltre, hanno sviluppato tale ricostruzione esegetica, applicandola anche a situazioni diverse dalla fruizione di uno spazio minimo inferiore a tre mq. In linea con i principi espressi dalla consolidata giurisprudenza sovranazionale, hanno precisato che in caso di restrizione in una cella collettiva in cui lo spazio sia uguale o superiore al livello minimo di tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati e, quindi, pur non violando la regola “spaziale” dettata dalla Corte EDU, l’incidenza di altri fattori negativi - quali la mancanza di accesso al cortile o all'aria e alla luce naturale, la cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, l'assenza di riservatezza nelle toilette, le cattive condizioni sanitarie e igieniche) - può portare a ritenere, comunque, violato l’art. 3 della Convenzione.
È dunque importante che nella presentazione dell’istanza ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen. l’interessato deduca, oltre alla sofferta detenzione in celle collettive con uno spazio individuale inferiore a quattro metri quadrati, anche l’esistenza di alcuni dei fattori negativi sopra indicati, dei quali, hanno precisato le Sezioni Unite, non è, comunque, richiesta la presenza cumulativa.
Infine, se lo spazio individuale in una cella collettiva è stato superiore a quattro metri quadrati, le Sezioni Unite non hanno escluso la possibilità di riconoscere trattamenti carcerari contrari all’art. 3 CEDU; hanno, comunque, specificato che il fattore del sovraffollamento non rileverà in una domanda proposta ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. che, pertanto, dovrà essere basata su fattori differenti.
[1] Corte EDU, Sez. V, 25 marzo 2021, Bivolaru e Moldovan c. Francia, nn. 40324/16 e 12623/17. Per una prima analisi della pronuncia v. T. WAHL, ETCHR: EAW cannot be automatically executed, in www.eucrim.eu, 26 aprile 2021, p. 1 ss.; A. BARLETTA, F. CAPPELLETTI, S. MORI, Mandato di Arresto Europeo: la Corte europea dei diritti dell’uomo precisa gli ambiti di applicazione della presunzione di protezione equivalente in materia di esecuzione di MAE con possibile violazione dell’art. 3 CEDU, in www.camerepenali.it, 29 marzo 2021.
[2] Sulla riforma della disciplina interna del mandato di arresto europeo a seguito del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, v. M. BARGIS, Meglio tardi che mai. Il nuovo volto del recepimento della decisione quadro relativa al m.a.e. nel d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10: una prima lettura, in Sistema penale, 16 marzo 2021, p. 1 ss.; V. PICCIOTTI, La riforma del mandato di arresto europeo. Note di sintesi a margine del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, in www.lalegislazionepenale.eu, 12 aprile 2021, p. 2 ss.; per un commento organico della nuova disciplina v. i contributi di G. COLAIACOVO, G. DE AMICIS, G. IUZZOLINO, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da G. LATTANZI e E. LUPO, VI, Parte speciale, Giuffrè, 2021, p. 517 ss.; per una complessiva analisi della giurisprudenza di legittimità ed europea v. E. CALVANESE, G. DE AMICIS, Mandato d'arresto europeo: rassegna della giurisprudenza di legittimità ed europea, in Sistema penale, 22 gennaio 2021.
[3] Corte EDU, Grande Camera, Bosphorus Hava Yollar Turizm ve Ticaret Anonim Sirketi c. Irlanda, 30 giugno 2005, § 155, n. 45036/98; Corte EDU, Grande Camera, 23 maggio 2016, Avotins c. Lettonia, n. 17502/07; Corte EDU, 6 marzo 2013, Michaud c. Francia, n. 12323/11.
[4] Corte EDU, 17 aprile 2018, Pirozzi c. Belgio, § 64, n. 21055/11.
[5] V. la nota che precede.
[6] Corte EDU, Sez. II, 9/7/2019, Romeo Castano c. Belgio, n. 8351/17, in Cass. pen., 2019, p. 4506 ss., con nota di G. DE AMICIS, Violazione del diritto allo svolgimento di indagini efficaci e limiti dell'obbligo di consegna basata sul mandato di arresto europeo.
[7] Corte EDU, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, § 88; cfr., inoltre, la già citata decisione Romeo Castaño, § 92.
[8] Corte EDU, 14 febbraio 2017, Allanazarova c. Russia, n. 46721/15, § 71; Corte EDU, 29 aprile 2019, AM c. France, n. 12148/18, §§ 118 e 119.
[9] Corte EDU, Grande Camera, 20 ottobre 2016, Mursic c. Croazia, n. 7334/13.
[10] A. CIAMPI, M. STELLA, Principio della protezione equivalente fra UE e CEDU e mutuo riconoscimento delle decisioni tra Stati membri: la sentenza della Corte EDU nel caso Avotins c. Lettonia, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2017, disponibile in www.osservatoriosullefonti.it, p. 2 ss.
[11] CIAMPI, M. STELLA, cit., p.16 ss.
[12] CIAMPI, M. STELLA, cit., p.17.
[13] T. WAHL, cit., p. 2.
[14] Corte giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15, Aranyosi e Căldăraru; Id., 15 ottobre 2019, C-128/18, Dorobantu; Id., 25 luglio 2018, C-216/18 PPU, LM.
Sul tema v. L. LIONELLO, Nuovi sviluppi per il test Aranyosi e Căldăraru ed il rapporto tra giurisdizioni: il caso Dorobantu, in www.eurojus.it, 2020, n. 1, p. 107 ss.; N. CANESTRINI, Condizioni di detenzione nei Paesi membri nell’Unione europea: verso standard comuni a tutela della dignità umana?, in Cass. pen., 2020, p. 774 ss.
[15] Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296.
[16] Nel caso di un m.a.e. emesso dalle autorità belghe sono state ritenute dirimenti le osservazioni avanzate dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa nel settembre 2016, dalle quali era emerso un miglioramento delle condizioni della situazione carceraria, tale da rendere non necessaria la verifica d’ufficio, Sez. 6, n. 9391 del 28/02/2018, Jovanovic, Rv. 272341.
[17] In tal senso v. Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, in motivazione; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, in motivazione.
[18] Sez. 6, n. 18352 del 11 giugno 2020, C., Rv. 279301.
[19] Sez. 6, n. 24436 del 30/05/2019, Brunga, non mass. relativa ad un m.a.e. greco; Sez. 6, n. 31375 del 06/07/2018, Nwadike, non mass., relativa ad un m.a.e. maltese.
[20] Sez. 6, n. 23130 del 21/05/2019, Vasile, non mass.; Sez. 6, n. 32404 del 18/07/2019, Hantig, non mass. In termini generali si è infatti affermato che, a mente dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., con il ricorso per cassazione è possibile dedurre violazioni di legge soltanto se le stesse siano state dedotte nel grado precedente, sicché́ non è possibile devolvere alla cognizione della Suprema Corte questioni mai dedotte davanti al giudice del grado precedente, ivi compreso il caso in cui, come nella specie, la Corte di cassazione sia investita di una cognizione di merito (Sez. 6, n. 43804 del 9/11/2012, Casini, Rv. 253433).
[21] Sez. 6, n. 1562 del 10/01/2019, Sava, non mass. Secondo la decisione della Grande Camera, 20/10/2016, Mursic c. Croazia "L'important est de déterminer si les détenus avaient la possibilité de se mouvoir normalement dans la cellule (voir, par exemple, Ananyev et autres, précité, §§ 147-148, et Vladimir Belyayev, précité, § 342".
[22] In tal senso v. Sez. 1, n. 39294 del 03/07/2017, Marsala, non mass.; Corte EDU, Grande Camera, 15/12/2016, Khalifa e altri c. Italia, § 166, con la quale è stato ribadito che uno spazio personale inferiore a 3 mq. in una cella collettiva fa sorgere una "presunzione, forte ma non inconfutabile, di violazione" e che la presunzione in questione può essere confutata, in particolare, dagli effetti complessivi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione ai sensi dell’art. 3 CEDU, tali da compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale, quali, in via cumulativa, "la durata e l'ampiezza della restrizione, il grado di libertà di circolazione e l'offerta di attività̀ all'esterno della cella, nonché́ del carattere generalmente decente o meno delle condizioni di detenzione nell'istituto”.
[23] Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355, in presenza di un m.a.e. esecutivo romeno.
[24] Sez. U, 6551 del 20 settembre 2020, dep. 2021, Commisso, Rv. 280433.
[25] Corte EDU, sentenza-pilota 25/04/2017, Rezmives e altri c. Romania, § 77; Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e Nollomont c. Belgio, § 27; Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. et autres c. France, § 147; v., inoltre, Corte giust. UE, Grande Sezione, 15/10/2019, Dumitru-Tudor Dorobantu.
Un galantuomo, memoria storica del primo maxi-processo alla mafia siciliana, custode spirituale dei tanti segreti dell'aula bunker dell'Ucciardone, tanto arguto e sagace nelle riflessioni quanto pronto nella ricerca delle soluzioni efficaci ai tanti problemi del mondo giudiziario palermitano. Questo era soprattutto Vincenzo Mineo in vita. Rimarrà nel ricordo dei suoi familiari e dei tantissimi operatori giudiziari che lo hanno apprezzato e stimato.
Vincenzo Mineo ricorda Giovanni Falcone*
È stato definito “il custode dell’aula bunker”. Vincenzo Mineo, durante il Maxiprocesso fu a capo della sicurezza dell'aula bunker costruita nel carcere dell’Ucciardone dove, per la prima volta, Cosa nostra fu sconfitta da una raffica di condanne. Collaborò, in quel periodo, con Giovanni Falcone e con i magistrati del pool. Non aveva ancora compiuto 70 anni ma ci ha lasciato questa notte, colpito da un infarto. La settimana scorsa lo avevo chiamato per farmi raccontare da lui quel periodo. Oggi, mentre trascrivo la nostra chiacchierata, mi rendo conto di aver perso non un semplice conoscente ma un amico, sensibile, generoso e un grand’uomo mai pieno di sé e del suo ruolo.
Dottor Mineo, quando ha incontrato per la prima volta Giovanni Falcone?
Tutto inizia in quella caldissima estate del 1985, quando il dottor Falcone e il dottor Borsellino erano all’Asinara e stavano scrivendo l’ordinanza del Maxi-processo. Avevo allora 33 anni e, in quell’estate, sono stato chiamato dal presidente del Tribunale che mi dice che l’aula bunker era in costruzione e che c’era bisogno di qualcuno che se ne occupasse. Inoltre, da lì a pochi mesi, ci sarebbe stato il Maxi-processo da seguire e mi chiese se me la sentissi. Per attimo mi sentii spiazzato perché ci trovavamo davanti a un mostro. Il mio primo incontro fu quindi con il cantiere in costruzione dell’aula bunker. Andai in quel luogo assieme al consigliere Piero Grasso, che era appena stato designato come giudice a latere della Corte d’Assise che avrebbe poi celebrato il Maxi. Il cantiere era blindatissimo, si lavorava 24 ore su 24 per rispettare i tempi di realizzazione. Una struttura di quella portata fu realizzata in solo nove mesi, dal progetto alla consegna, e questa fu un’anomalia per l’Italia, se pensiamo ai nostri ponti e alle nostre gradi vie di comunicazione. L’input partì da Giovanni Falcone. L’idea iniziale era quella di non celebrare il processo a Palermo perché si riteneva fosse troppo pericoloso. Giovanni Falcone s’impuntò e disse che il processo si DOVEVA fare a Palermo “perché in questi anni noi abbiamo lavorato a Palermo, perché la mafia è a Palermo e la risposta va data a Palermo, non altrove”. Fu una presa di posizione molto importante.
Si trattava di un processo straordinario non solo per i contenuti ma anche per la sua dimensione. Quale fu il suo lavoro?
Io avevo già avuto contatti con l’Ufficio Istruzione ma in quell’occasione ci fu il mio primo incontro con Giovanni Falcone, qualche mese prima del deposito dell’”Ordinanza di rinvio a giudizio” che avvenne l’8 novembre del 1985. Dal deposito partiva la competenza del tribunale, ossia la nostra. Mi fu assegnata, nell’Ufficio Istruzione, la stanza di Barbara Sanzo, la segretaria di Falcone. Cominciai a parlare con loro e mi fecero “vedere” il processo. L’attuale “bunkerino”, oggi luogo della memoria, conteneva una quantità incredibile di faldoni. Nessuno di noi, né giudici né funzionari, aveva mai lavorato a un processo di quelle dimensioni. In quella fase, quella del trasferimento dall’Ufficio Istruzione alla Corte d’Assise, mi occupai, da solo, di tutte le posizioni processuali dal punto di vista dei provvedimenti sulla libertà personale. Tenga conto che, prima del rinvio a giudizio, c’erano 706 indagati che diventarono 475 imputati rinviati a giudizio di cui circa 300 erano detenuti.
Un lavoro molto faticoso nel pieno della seconda guerra di mafia e dopo l’assassinio, proprio da parte della mafia, di diversi magistrati.
Per fortuna avevamo un importantissimo punto di riferimento che era il dottor Antonino Caponnetto. Fu per me un incontro bellissimo, quello con Caponnetto, persona di grandissima umanità. Ha ragione, venivamo da un periodo terribile. Nel 1971 la mafia aveva ucciso il procuratore Scaglione, nel 1979 il giudice Terranova poi, nel 1980, il procuratore Costa e nel 1983, solo due anni prima, il consigliere Chinnici. Ma c’era ancora il sangue a terra di Ninni Cassarà e di Beppe Montana. Il loro omicidio fu il tentativo più violento per fermare la storia di quello che sarebbe stato il Maxi processo. Ricordiamo che Cassarà era uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone, realizzò il “Rapporto dei 162” che fu prodromico al Maxi processo, e che Montana era a capo della prima “Catturandi” e si occupava di trovare i latitanti. In tutto questo ci fu anche la vicenda di Marino e proprio in quell’estate fu smantellata la più bella Squadra Mobile che Palermo abbia mai avuto. Questo, inevitabilmente, fu un grande schiaffo al contrasto alla mafia. Grazie all’”Ordinanza di rinvio a giudizio”, però, si riuscì a ripartire. Ricordo diversi episodi di quel periodo perché quello fu un momento importantissimo. Cominciammo immediatamente a lavorare per il processo che avrebbe dovuto iniziare tre mesi dopo, il 10 febbraio del 1986. Quei tre mesi furono molto intensi sia per il completamento dell’aula bunker sia per il trasferimento del processo in aula e, soprattutto, per i preparativi del processo in Corte d’Assise. Era in vigore il vecchio Codice di procedura Penale e bisognava notificare il “decreto di citazione a giudizio” ai 475 imputati ognuno dei quali aveva, mediamente, due avvocati. Raggiungemmo una sinergia mai vista prima di allora con il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Interno, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. Deve sapere che un “decreto di citazione” è, normalmente, un volume di circa 1200 pagine per la prima volta stampato con le “stampanti ad aghi”. Fu spedito in tutt’Italia per essere consegnato ai destinatari e da Palermo partirono furgoni e auto pieni di carta. Per ogni notifica, tra l’altro, si doveva presentare una copia doppia, una da consegnare e una da conservare controfirmata. Di fatto, il 16 dicembre 1987 il presidente Giordano lesse il dispositivo della sentenza che concludese il primo grado del maxiprocesso: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. La conferma di tutto il lavoro del pool arrivò con la sentenza della Cassazione che fu emessa il 30 gennaio 1992 e che fu molto severa. Non solo furono confermate le condanne ma gran parte delle assoluzioni pronunciate nel giudizio d'appello per gli omicidi Giuliano, dalla Chiesa, Giaccone e altri furono annullate e per gli imputati fu disposto un nuovo giudizio.
Dottor Mineo, dov’era il 23 maggio 1992?
Ero a casa. Nel pomeriggio mi arrivò una telefonata dal posto di Polizia dell’aula bunker e mi informarono di aver sentito, tramite le radio di servizio, che era successo qualcosa a Capaci che riguardava il dottor Falcone. La notizia non era ancora pubblica, in quel momento. Subito dopo mi richiamarono per dirmi che il dottor Falcone era ancora vivo e che lo stavano trasportando all’Ospedale Civico. Mi precipitai subito là e la scena chi mi trovai davanti fu una di quelle che non puoi dimenticarti e che ti segnano per tutta la vita. C’erano moltissime persone, procuratori, aggiunti, sostituti, il personale del Tribunale. Ricordo perfettamente l’allora sostituto procuratore Lo Voi, che oggi è procuratore della Repubblica a Palermo, con la testa tra le mani, disperato. Quella sera accadde una cosa strana: mi trovavo in mezzo tutte queste persone poi mi ritrovai nella stanza a piano terra. Non so perché ma mi ritrovai lì con il dottor Borsellino. Eravamo in quella camera mortuaria in cui era appena stato portato il corpo di Giovanni Falcone. In quel momento la dottoressa Francesca Morvillo stava ancora combattendo tra la vita e la morte. Attorno a noi c’era un silenzio irreale, mentre fuori c’era il delirio. Per diversi minuti, io e Paolo Borsellino, ci trovammo con Giovanni Falcone. Non aveva segni nel volto, nonostante la sua tragica morte. Quel momento mi ha segnato per tutta la vita. È stato uno di quei momenti che ti fa capire qual è la parte in cui stare, la parte giusta.
“Sit tibi terra levis”, Vincenzo
*Intervista di Roberto Greco già pubblicata sul “Quotidiano di Sicilia” il giorno 10.05.2021: https://qds.it/antimafia-lultima-intervista-di-vincenzo-mineo-prima-della-morte/
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