ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La disciplina e l’applicazione del c.d. “visto umanitario” – 2. Il caso di specie: la situazione nella Striscia di Gaza. – 3. Il diritto di asilo costituzionale: l'ingresso nel territorio italiano – 4. Valutazioni conclusive: quale effettività per le vie di ingresso legali?
1. La disciplina e l’applicazione del c.d. “visto umanitario”
Tra agosto e settembre 2025 il Tribunale di Roma ha ordinato il rilascio di varie tipologie di visti di ingresso a favore di cittadini palestinesi che si trovano nella Striscia di Gaza[1].
Precisamente, con due provvedimenti del 9 e 10 settembre, i giudici romani hanno ordinato al MAECI e all’Ambasciata d’Italia in Israele-Gerusalemme il rilascio del visto d’ingresso per ricongiungimento familiare.
I due provvedimenti di settembre seguono, in parte, le orme dei cinque provvedimenti emessi sempre dal Tribunale di Roma tra il 6 e il 13 agosto[2], con cui si ordinava, al MAECI e alle autorità diplomatico-consolari, il rilascio di visti di ingresso in Italia per motivi umanitari a favore di cittadini palestinesi che vivono della Striscia di Gaza. L’autorizzazione all’ingressso è stata prevista ai sensi dell’art. 25 del Regolamento UE n. 810/2009, dell’art. 10, co. 3 Cost. e dell’art. 19 T.U.I.
Questi ordini di rilascio sono stati riportati da molte testate giornalistiche[3] sia per l’importanza dei provvedimenti in sé ma, anche e soprattutto, per il mancato seguito all’ordine del Tribunale, in quanto i cittadini palestinesi in questione si ritrovano ad oggi ancora bloccati nella Striscia di Gaza.
Prima di procedere ad analizzare il caso di specie, si ritiene necessario effettuare una brevissima introduzione sullo strumento normativo dei visti umanitari e sulla sua applicazione in Italia.
Il visto umanitario è uno strumento di ingresso legale che permette ai cittadini stranieri di richiedere un visto presso le rappresentanze diplomatiche degli Stati membri situate nel Paese terzo in cui si trovano e, una volta ottenuto, di recarsi legalmente nello Stato di destinazione. Lo strumento trova la sua disciplina nel Regolamento CE n. 810/2009 (c.d. Codice Visti), che all’art. 25 prevede la possibilità di rilasciare visti per ragioni umanitarie.
Più precisamente, l’art. 25 prevede un visto con validità territoriale limitata (VTL), valido solo per il territorio dello Stato membro di rilascio del visto, sempre per un massimo di 90 giorni. È proprio dalla disciplina del visto VTL che è possibile dedurre lo strumento del visto umanitario. L’articolo 25 stabilisce infatti che gli Stati membri, qualora lo ritengano necessario, possono rilasciare eccezionalmente visti con validità territoriale limitata in presenza di motivi umanitari, di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali. Una volta riconosciuta una di queste circostanze, è possibile derogare ai requisiti generali previsti per il rilascio del visto uniforme Schengen, quali ad esempio il possesso di un documento di viaggio valido o mezzi di sussistenza sufficienti per il soggiorno[4].
A conferma della possibilità di dedurre la disciplina dello strumento del visto umanitario, a partire dalle disposizioni del Codice dei visti vi è anche l’art. 33 par. 1, che prevede la possibilità di prorogare il periodo di validità del visto in presenza di ragioni umanitarie che impediscono al cittadino del paese terzo di lasciare il territorio degli Stati membri.
Nonostante la disciplina dell’art. 25 del Codice Visti sia particolarmente chiara nel prevedere la possibilità degli stati di rilasciare tale tipologia di visto, la stessa è ad ogni modo stata toccata da un ampio dibattito, riguardante la vincolatività della normativa in questione. Appare opportuno riportare, almeno in parte, tale dibattito e le conclusioni tratte in Italia.
La discussione attorno al tema nasce a partire dalla nota sentenza X e X c. Belgio (sentenza del 7.03.2017, causa C-638/16)[5] della Corte di Giustizia, nella quale la Corte ha evidenziato come dal diritto dell’UE non deriva alcun obbligo in capo agli Stati membri di rilasciare il visto umanitario[6]. In seguito, anche la Corte di Strasburgo si è pronunciata su un caso analogo con la sentenza M.N. e altri c. Belgio (sentenza del 05.05.2020, ric. n. 3599/18), senza tuttavia entrare nel merito e limitandosi a dichiarare la domanda irricevibile[7].
A seguito di queste pronunce in Italia si sono delineati differenti orientamenti interpretativi[8]. Secondo il primo, pienamente aderente alla posizione della Corte di giustizia, la scelta di applicare l’articolo 25 del Codice Visti rientra nella totale discrezionalità dello Stato, che non è tenuto a concedere il visto umanitario.
Un secondo indirizzo, di segno opposto, ritiene invece che l’obbligo di rilascio non dipenda dallo Stato interpellato ma dal carattere eccezionale della situazione sui cui si fonda la richiesta, sicché il motivo umanitario stesso impone il rilascio.
Tra queste due posizioni si colloca un orientamento intermedio, consolidatosi in giurisprudenza[9], secondo il quale la competenza dello Stato a rilasciare il visto sorge quando esista, da un lato, una “relazione qualificata” preesistente tra il richiedente e lo Stato e, dall’altro, vi sia una situazione di pericolo tale da richiedere un intervento immediato[10].
La mancata vincolatività nell’applicazione dell’art. 25 del Codice Visti è tuttavia rimasta al centro del dibattito, tant’è che a seguito dell’intervento della Corte di Giustizia sono state avanzate alcune proposte di emendamento, volte a modificare l’art. 25 del Codice Visti, che è rimasto tuttavia invariato[11].
Sul punto c’è stato anche un intervento del Parlamento europeo che si è rivolto direttamente alla Commissione chiedendo di istituire un visto umanitario europeo[12]. La Commissione ha in tale sede evidenziato la necessità di prioritizzare l'approvazione dello strumento del reinsediamento, relegando lo strumento del visto per motivi umanitari a un ruolo secondario, a cui, difatti, non si fa menzione nel nuovo Patto europeo[13].
Ad oggi, dunque, in assenza di una riforma europea sui visti umanitari, gli Stati possono rilasciare visti ai sensi dell'art. 25 del Codice dei Visti secondo il proprio diritto interno. Si tratta di una pratica che rimane limitata e prevalentemente confinata a programmi di reinsediamento o ammissione umanitaria[14].
In Italia lo strumento dei visti umanitari è stato utilizzato negli scorsi anni in forma prevalentemente collettiva per i c.d. corridoi umanitari e per i programmi di reinsediamenti ed evacuazioni umanitarie gestite dal Ministero dell’Interno[15].
Questa limitata applicazione solleva non solo interrogativi circa la reale esistenza e la concreta praticabilità delle vie legali di ingresso, ma impone anche di leggere tale disposizione in stretta connessione con l’articolo 10 della Costituzione, così da valutarne la portata alla luce del diritto costituzionale d’asilo.
Proprio in considerazione del diritto di asilo costituzionale, nel riconoscimento dei visti umanitari a favore dei cittadini palestinesi nella Striscia di Gaza, c’è stata un’evoluzione rispetto alla giurisprudenza precedente. I giudici romani hanno infatti interpretato l’art. 25 del Codice Visti in maniera maggiormente estensiva, riconoscendo il diritto all’ingresso in Italia per il solo motivo umanitario, su cui si fonda la richiesta. La condizione determinante ai fini del rilascio è dunque l’estrema situazione di pericolo e di necessità umanitaria, non assumendo invece rilevanza la “relazione qualificata” tra richiedente e il territorio italiano.
Tale lettura in chiave costituzionale della fattispecie si impone, poiché – come riconosciuto dagli stessi recenti provvedimenti – se è vero che lo Stato dispone di un margine di discrezionalità nel definire modalità e condizioni per il rilascio del visto umanitario, è altrettanto vero che tale potere deve esercitarsi nel rispetto dei principi costituzionali e degli obblighi internazionali.
2. Il caso di specie: la situazione nella Striscia di Gaza
I provvedimenti di riconoscimento dei visti umanitari e dei visti per motivi familiari aprono un’importante discussione sull’effettività delle vie di ingresso legali e della tutela dei soggetti vulnerabili.
Nel caso di specie, difatti, si può da subito evidenziare come i provvedimenti di riconoscimento dei visti umanitari siano rimasti privi di seguito e i ricorrenti si trovano ancora a Gaza, in attesa dell’intervento delle autorità amministrative e consolari. La problematica, nel caso di specie, sembra risiedere nella possibilità per i cittadini palestinesi di raggiungere le autorità consolari competenti ad emettere i visti.
Nonostante nei provvedimenti si legga l’ordine di provvedere al rilascio dei visti immediatamente o entro sette giorni, più di un mese dopo la situazione rimane invariata.
È evidente che il contesto presenti una complessità straordinaria e che le difficoltà nel rilascio dei visti sono aggravate sia dalle restrizioni e dagli ostacoli posti dalle autorità israeliane, sia dalla prosecuzione dei bombardamenti e delle operazioni militari in atto. Tuttavia, i legali dei ricorrenti, evidenziano come non vi sia stata alcuna motivazione nel ritardo da parte della Farnesina e neppure vi sono state comunicazioni da parte dell’Italia su eventuali attività svolte per dare seguito agli ordini del Tribunale[16].
Una situazione in parte analoga si ha con riferimento a diversi studenti palestinesi che hanno ottenuto delle borse di studio italiane ma, nonostante ciò, si trovano impossibilitati ad uscire dalla Striscia di Gaza ed entrare in Italia[17]. Anche in questo caso, emerge una marcata dissonanza tra il riconoscimento formale del diritto e la sua effettiva fruibilità.
Difatti, la Conferenza dei rettori delle Università italiane (Crui) ha promosso un bando in collaborazione con il Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministero dell’Università e della ricerca e il Consolato generale d’Italia a Gerusalemme. Si tratta di un bando che riserva delle borse di studio per immatricolarsi in Italia a studenti e studentesse palestinesi[18]. Al bando hanno partecipato circa 35 Università italiane, le quali hanno stilato la lista degli studenti vincitori per ogni università e degli idonei non vincitori, in attesa di un eventuale scorrimento di graduatoria.
Nonostante l’importante iniziativa, la situazione appare analoga a quella del rilascio dei visti umanitari. Difatti, gli studenti vincitori sono di fatto bloccati in attesa del rilascio della documentazione necessaria per entrare in Italia, nel caso di specie impossibile da ottenere.
Anche in questo caso vi è un’inefficienza del Governo italiano che, pur consapevole del paradosso in atto, non si è adoperato per garantire l’attivazione di procedure di emergenza in grado di garantire l’ingresso in Italia.
La gravità dell’inerzia statale è rafforzata dalla ben nota situazione in cui si trovano i palestinesi nella Striscia di Gaza. La forte criticità del quadro viene descritta anche nei provvedimenti stessi, i quali sono molto chiari nel delineare la situazione attuale a Gaza ed evidenziano con precisione l’urgenza di garantire ai ricorrenti la fuoriuscita dalla Striscia.
Nel provvedimento del 9 agosto il Tribunale di Roma delinea la sussistenza del fumus bonis iuris e periculum in mora ed evidenzia come, data la situazione fattuale ampiamente documentata, si configura «una catastrofe umanitaria tale da rendere ogni ritardo potenzialmente fatale e causa di un pregiudizio irreparabile»[19].
Inoltre, il 16 settembre 2025 una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha concluso che le operazioni militari israeliane condotte a Gaza integrano un vero e proprio genocidio[20]. Precisamente, la Commissione ha riconosciuto come «sulla base di prove pienamente conclusive, la Commissione rileva che le dichiarazioni rese dalle autorità israeliane costituiscono una prova diretta dell’intento genocidario. Inoltre, sulla base di prove indiziarie, la Commissione ritiene che l’intento genocidario sia l’unica ragionevole inferenza che possa essere tratta dal modello di condotta delle autorità israeliane. Pertanto, la Commissione conclude che le autorità e le forze di sicurezza israeliane nutrono l’intento genocidario di distruggere, in tutto o in parte, la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza»[21].
Tale valutazione assume rilievo sotto un duplice profilo: da un lato rafforza l’urgenza nel rilascio dei visti, incidendo sia sulla necessità di un intervento tempestivo, sia sugli esiti dell’udienza di conferma o di eventuale revoca del provvedimento emesso ex art. 700 c.p.c. emesso inaudita altera parte.
Dall’altro, l’inquadramento dell’azione militare in corso come genocidi rileva non solo ai fini della responsabilità dello Stato israeliano, ma anche rispetto agli obblighi che gravano sugli Stati terzi, come la stessa relazione delle Nazioni Unite espressamente evidenzia. Gli Stati terzi, difatti, devono «i) garantire che Israele attui tutte le ordinanze di misure provvisorie emesse dalla Corte internazionale di giustizia; (ii) cooperare per porre fine a tutte le azioni israeliane a Gaza che costituiscono una violazione della Convenzione sul genocidio; (iii) adottare misure per garantire la prevenzione di comportamenti che potrebbero costituire un atto di genocidio ai sensi della Convenzione sul genocidio, compreso il trasferimento di armi che sono utilizzate o potrebbero essere utilizzate da Israele per commettere atti di genocidio; (iv) non riconoscere come legittime le operazioni militari a Gaza che hanno portato alla violazione di norme imperative (ius cogens), compreso il genocidio; e (v) condurre indagini e adottare misure per garantire la punizione delle violazioni delle norme imperative»[22].
Sorge dunque spontaneo domandarsi in che termini lo Stato italiano sarebbe responsabile della mancata attuazione di tutti i canali necessari per far si che sia garantito l’ingresso in Italia ai cittadini palestinesi a Gaza, in particolare se nei loro confronti è stato riconosciuto il rilascio al visto di ingresso. La recente qualificazione delle Nazioni Unite conferma e rafforza quanto già evidenziato nei provvedimenti dell’agosto 2025, nei quali il Tribunale di Roma rilevava come diverse organizzazioni internazionali avessero definito la situazione di Gaza un “genocidio” [23], riconoscendo dunque che il periculum in mora si caratterizza per una gravità e un’eccezionalità fuori dal comune.
Nel provvedimento del 6 agosto 2025, il Tribunale evidenziava con chiarezza come «l’Italia è destinataria di specifici obblighi di prevenzione e repressione del genocidio, nonché di protezione delle vittime, derivanti non solo dalla Convenzione sul genocidio, ma anche dagli articoli 1 e 16 del Progetto ONU sugli illeciti internazionali degli Stati. Ne discende che, ai fini della presente controversia, lo Stato italiano non solo non può legittimamente ostacolare l’ingresso sul territorio dei ricorrenti in fuga da Gaza, ma anzi ha un obbligo rafforzato a consentirne l’accesso, quale misura di protezione minima e necessaria per prevenire la violazione irreparabile del diritto alla vita, all’incolumità personale e alla dignità umana»[24].
Proprio negli ultimi giorni è uscita la notizia che a inizio ottobre verrà presentata una denuncia innanzi alla Corte penale internazionale nei confronti del Governo Meloni, per «aver fornito sostegno materiale e politico allo Stato israeliano anche dopo che la Corte internazionale di giustizia, il 26 gennaio 2024, ha riconosciuto «plausibile» la fattispecie di genocidio, ordinando a Israele misure immediate per prevenirlo»[25].
Allo stesso modo, i legali che si sono occupati di seguire i ricorsi continuano a denunciare l’inerzia statale, evidenziando come la condotta tenuta dal Governo rivesta chiaramente le vesti
della responsabilità «politica, giuridica e morale assunta dal Governo. Ogni limite è superato ed è chiara la colpevole responsabilità dello Stato italiano, di cui si chiederà soddisfazione in ogni sede»[26].
Certamente, nell’ordinamento italiano non mancano strumenti capaci, da un lato, di offrire una tutela risarcitoria ex post in caso di violazione e, dall’altro, di esercitare forme di coercizione indiretta nei confronti dell’amministrazione inadempiente[27]; tuttavia, la mera esistenza di tali rimedi non elimina il dato di fatto che, nelle more del loro eventuale utilizzo, le persone interessate continuano a essere esposte a rischi gravissimi per la vita e l’incolumità.
3. Il diritto di asilo costituzionale: l’ingresso nel territorio italiano
Alla luce delle considerazioni svolte, è necessario soffermarsi – sia pur in sintesi – su un’eventuale responsabilità dello Stato alla luce della normativa costituzionale.
Ci si deve infatti interrogare, ancora una volta, su quanto l’articolo 10 della Costituzione trovi effettiva applicazione nella prassi e quanto, invece, rischi di restare una garanzia meramente formale, priva di reale effettività.
L’analisi dello strumento del c.d. visto umanitario non può prescindere dal diritto di asilo costituzionalmente garantito. In questo senso, lo strumento del visto umanitario è infatti un mero mezzo attraverso cui garantire e realizzare diritti fondamentali, tra cui, in primis, l’asilo costituzionale.
Sul punto, è stato già in dottrina evidenziato come le diverse forme di protezione oggetto di vari interventi normativi europei e internazionali «si riferiscono, in realtà, a figure soggettive di diversa derivazione e comunque strutturalmente incommensurabili rispetto a quella che scaturisce direttamente dalla Costituzione»[28].
Non è questa la sede per riportare l’evoluzione e l’applicazione della normativa costituzionale[29], tuttavia, al riguardo devono necessariamente essere svolte due precisazioni.
La prima, è che l’esercizio del diritto di asilo non richiede la presenza sul territorio da parte del richiedente.[30] Sul punto è nota la sentenza di merito con la quale si è riconosciuto il diritto a presentare la domanda di asilo da parte del leader curdo Abdullah Öcalan, che al momento della presentazione della domanda si trovava recluso in Turchia.
Questa prima precisazione viene svolta per evidenziare come, nel caso di specie, seppur i cittadini palestinesi si trovino al di fuori del territorio italiano, ciò non preclude la possibilità di riconoscer loro il diritto di asilo ex art. 10 Cost. Ciò viene esposto chiaramente anche nel decreto del 9 agosto 2025, nel quale si evidenzia come il diritto di asilo ex art. 10 Cost., nella sua portata soggettiva, non è condizionata alla presenza fisica sul territorio italiano e vincola l’amministrazione a garantire l’ingresso a chi si trovi all’estero, qualora ricorrano le condizioni di rischio grave e attuale[31].
In secondo luogo, il diritto di asilo sorge e si perfeziona nel momento stesso in cui si verifica la lesione delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione italiana ed implica, ancor prima del diritto alla tutela, il diritto di ingresso nel territorio nazionale.[32] Più precisamente, il diritto di asilo si realizza nel momento in cui all’individuo viene impedito nel proprio paese l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ed il diritto stesso «preesiste al formale riconoscimento»[33]. L’acquisizione del diritto di asilo avviene invero «in ragione dell’esistenza dell’impedimento e non del suo accertamento»[34] e da tale acquisizione, discende, da un lato, il diritto del richiedente ad accedere al territorio ai fini dell’accertamento del proprio diritto e, dall’altro, l’obbligo positivo in capo alle autorità statali di consentire l’ingresso nel territorio proprio ai fini di tale accertamento[35].
In dottrina[36] si è difatti evidenziato come il primo contenuto del diritto costituzionale ex art. 10 sia proprio quello di garantire l’accertamento dei presupposti ai fini del riconoscimento. Allo stesso modo, volendo adottare una visione ancora più garantista, la previsione costituzionale pone un vero e proprio vincolo, in capo ai poteri pubblici, ai fini di agevolare l’ingresso dello straniero cui «sia stato precedentemente riconosciuto il diritto di asilo»[37], così che possa godere di tale diritto.
Tutto ciò viene evidenziato non tanto per un’astratta disamina teorica quanto per inquadrare correttamente la condotta perpetrata quale una lesione del diritto di asilo ex art. 10 Cost.
La normativa dei c.d. visti umanitari deve difatti essere letta in una prospettiva ampia che prenda in considerazione, oltre i profili di diritto internazionale ed europeo, anche quelli di diritto costituzionale. Del resto, il riconoscimento del visto per motivi umanitari è sì uno strumento normativo previsto dal c.d. Codice Visti ma, allo stesso tempo, è semplicemente un mezzo attraverso cui si può garantire il diritto di ingresso contenuto nella previsione costituzionale[38].
La rilevanza della previsione costituzionale viene evidenziata con chiarezza nel provvedimento del 13 agosto[39], ove il Tribunale di Roma riporta come la situazione in cui si trovano i civili nella Striscia di Gaza costituisce un «fatto notorio di catastrofe umanitaria» che impedisce l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione italiana. Nel decreto si richiama la normativa costituzionale, evidenziando come il diritto di asilo ivi garantito «ha natura di diritto soggettivo perfetto e il suo nucleo incomprimibile include, per necessità logica e giuridica, il diritto di fare ingresso in Italia per poter formalizzare la richiesta di protezione»[40].
Ancora, la motivazione del decreto continua elencando le varie fonti da quale deriva l’obbligazione di agire dell’Amministrazione, evidenziando come su di essa grava non una mera facoltà ma una vera e propria obbligazione di mezzi, consistente nel «dovere di attivarsi concretamente e senza indugio, ponendo in essere ogni sforzo possibile e ragionevolmente esigibile. In quest'ottica, ciò che non è ammissibile è l'inerzia. L'Amministrazione deve quindi utilizzare ogni canale diplomatico, coordinarsi attivamente con lo Stato estero, organismi internazionali e associazioni umanitarie presenti sul territorio per superare gli ostacoli fattuali – quali la consegna materiale del visto e l'organizzazione dell'uscita in sicurezza attraverso canali umanitari – e documentare puntualmente tutta l'attività svolta»[41].
È dunque centrale che, nel valutare la condotta del Governo italiano e l’apparente inerzia statale in relazione alla situazione di cittadini palestinesi titolari – sulla carta – di un visto umanitario, si esami anche l’agire statale con riferimento al diritto di asilo costituzionale.
Difatti, l’inerzia statale innanzi ad un contesto di tale portata, e ad un ordine contenuto in un provvedimento giudiziale, genera non solo ad una responsabilità sotto i profili internazionali ma anche costituzionali, con un conseguente svuotamento della portata dell’art. 10 Cost.
4. Valutazioni conclusive: quale effettività per le vie di ingresso legali?
Gli eventi che si stanno verificando nella Striscia di Gaza sollevano inevitabilmente molteplici interrogativi e colpiscono sotto più profili, in primis quello umano. Senza addentrarsi nelle varie questioni che ne scaturiscono, appare opportuno svolgere qualche breve considerazione sulle specifiche ipotesi sin qui richiamate e, in particolare, sul tema dell’effettività dei diritti.
Difatti, sia nel caso dei cittadini palestinesi a cui è stato riconosciuto il visto di ingresso per via giudiziaria, sia nell’ipotesi degli studenti che sono risultati titolari di una borsa di studio in Italia, c’è una chiara discordanza tra un diritto garantito sulla carta e la sua applicazione effettiva.
Con riguardo ai visti umanitari, la discrepanza tra la disciplina astratta e la prassi applicativa non è certo nuova. La giurisprudenza europea, e poi quella nazionale, ha infatti favorito in Italia un utilizzo dello strumento quasi esclusivamente in chiave collettiva, piuttosto che per singoli richiedenti. Eppure, il rilascio del visto umanitario al singolo individuo consentirebbe, in senso opposto, di dare effettiva attuazione al diritto di asilo sancito dall’articolo 10 della Costituzione, attraverso una valutazione individuale dei presupposti soggettivi che ne giustificano il riconoscimento.
L’uso prevalente dello strumento in chiave esclusivamente collettiva – come avviene nei corridoi umanitari o nei programmi di reinsediamento – finisce invece per circoscrivere l’accesso alla protezione a gruppi selezionati e ad un numero limitato di beneficiari, comprimendo la possibilità di un vero riconoscimento del diritto di asilo su base individuale.
Certamente programmi come i corridoi umanitari costituiscono esperienze virtuose che meritano di essere rafforzate e replicate. Resta tuttavia paradossale che, mentre da un lato aumenta sempre di più la paura e la diffidenza verso gli ingressi irregolari, dall’altro, non si registri un parallelo potenziamento dei canali di ingresso legale, che rappresenterebbero proprio l’alternativa più efficace alle migrazioni clandestine[42].
Tale contraddizione risalta ancor di più se si considerano gli strumenti normativi già previsti per assicurare un ingresso legale, che in genere impongono criteri particolarmente stringenti: basti pensare agli stessi visti umanitari, il cui rilascio in Italia finora ha richiesto non solo la dimostrazione di una situazione di pericolo, ma anche l’esistenza di una relazione qualificata preesistente con lo Stato.
Appare dunque paradossale che, persino quando i requisiti per accedere a queste vie formali di ingresso risultano accertati, l’effettiva possibilità di ingresso non venga poi concretamente garantita. Tanto più se, come nel caso di specie, è presente un provvedimento giudiziario che ordina alle autorità competenti di rilasciare immediatamente i visti e che impone espressamente di adottare tutte le misure necessarie a garantire l’ingresso dei ricorrenti nel territorio italiano.
Certamente la situazione attuale nella Striscia di Gaza costituisce un caso eccezionale e di particolare complessità; tuttavia, proprio per la sua eccezionalità e gravità, si impone una valutazione complessiva che non si limiti ad un mero riconoscimento formale del diritto, ma ne assicuri anche un’effettiva attuazione.
Accade infatti di frequente che, nel trattare il diritto di asilo – e, più in generale, le tematiche migratorie – si finisca per perdere di vista la dimensione umana del fenomeno, limitandosi a un riconoscimento puramente cartolare di diritti che poi, a causa di ostacoli amministrativi e burocratici, risultano di fatto difficili da esercitare.
Nel caso di specie, appare necessario considerare l’art. 10 della Costituzione per ciò che è: un diritto soggettivo perfetto, inviolabile e che, oltre a riconoscere protezione a chi si vede limitato delle proprie libertà democratiche, impone anche determinati obblighi, tra cui quello di offrire una tutela effettiva garantendo e favorendo la possibilità di ingresso nel territorio italiano.
Si tratta, è vero, di un’obbligazione di mezzi e non di risultato; nondimeno è imprescindibile un’attivazione istituzionale volta a creare, con la massima tempestività, canali reali di accesso per i cittadini palestinesi per cui è stata riconosciuta la necessità di lasciare la Striscia di Gaza nel più breve tempo possibile.
A breve si terranno le udienze di conferma o di eventuale revoca dei provvedimenti emessi ex art. 700 c.p.c. inaudita altera parte: l’auspicio è che, in caso di conferma, la decisione giudiziaria trovi concreta attuazione e non resti priva di effetti.
Il presente lavoro è stato realizzato nell'ambito del progetto S.O.L.E.I.L. - Servizi di Orientamento al Lavoro ed Empowerment Inter-regionale per un sistema Legale, finanziato dal Fondo Sociale Europeo - PN Inclusione e Lotta alla Povertà 2021-2027.
[1] Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, ordinanza n. 37790 del 09 settembre 2025; Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione, r.g. 3811/2025, decreto cautelare del 10 settembre 2025.
[2] Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione civile, r.g. 35381/2025, decreto cautelare del 6 agosto 2025; Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 34419/2025, decreto cautelare del 09 agosto 2025; Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 36206/2025, decreto cautelare del 12 agosto 2025; Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 36569/2025, decreto cautelare dell’11 agosto 2025; Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 36723/2025, decreto cautelare del 13 agosto 2025.
[3] Si v., tra i vari, A. Camilli, Visti bloccati per i palestinesi di Gaza, in Internazionale, 11.09.2025; G.Merli, Famiglie bloccate a Gaza: la Farnesina non rilascia i visti, in Il Manifesto, 24.08.2025; A. Ziniti, Gaza, tribunale di Roma ordina il ricongiungimento in Italia di una famiglia ma manca il visto, in Repubblica, 18.09.2025;
[4] Sul funzionamento del sistema dei visti si v. P. Bonetti, I diritti dei non cittadini nelle politiche dell’immigrazione e dell’asilo dell’Unione Europea, in Metamorfosi della cittadinanza e diritti degli stranieri, a cura di C.Panzera, A.Rauti, C. Salazar, A. Spadaro, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, 152 ss.
[5] A. Del Guercio, La sentenza X e X della Corte di Giustizia sul rilascio del visto umanitario: analisi critica di un’occasione persa, in European Papers, 2/2017; F. Gatta, Il rispetto dei diritti umani impone allo Stato membro l’obbligo di rilasciare un visto umanitario al richiedente asilo esposto a rischi per la propria vita e incolumità. – Le conclusioni dell’Avvocato Generale nella Causa X e X c. Belgio, C-638/16 PPU, in Eurojust, 20.02.2017; G.Raimondo, Visti umanitari: il caso X e X contro Belgio , C-638/16 PPU, in SIDIBlog, 01.05.2017.
[6] C. Siccardi, I diritti costituzionali dei migranti in viaggio. Sulle rotte del mediterraneo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, 57 ss.
[7] F. Camplone, La sentenza M.N e al c. Belgio alla luce di X e X: la conferma della prudenza delle Corti o un impulso allo sviluppo di canali di ingresso legali europei?, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 3/2020.
[8] P. Morozzo Della Rocca e M. Sossai, Chiedere asilo da lontano, in Questione Giustizia, 12.09.2022.
[9] Si specifica che il Tribunale di Roma è l’unico unico tribunale italiano ad essersi pronunciato sui visti umanitari. Si v. Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione civile, decreto del 22.11.2023, r.g. 52019/2023; Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione, ordinanza del 21.12.2021, r.g. 62652/2021; Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione, ordinanza del 08.06.2023, r.g. 17732/2023.
[10] P. Morozzo Della Rocca e M. Sossai, Chiedere asilo da lontano, in Questione Giustizia, 12.09.2022.
[11] A. Pasquero, M. Micheletti, E. Riffaldi, Anche la Cedu chiude ai visti umanitari, in Questione Giustizia, 09.07.2020.
[12] Parlamento Europeo, Plenaria 2018, Relazione d'iniziativa legislativa: 2017/2270(COD), Commissione competente per il merito: LIBE; Relatore: Juan Fernando López Aguilar (S&D), Spagna.
[13] C. Siccardi, Quali vie di ingresso legale per i richiedenti protezione in Europa? Contesto europeo e costituzionale, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2/2022.
[14] F.L. Gatta, I visti umanitari tra l’immobilismo dell’Unione europea, l’attesa per Strasburgo e l’esempio (da replicare) dell’Italia, in Rivista Diritti Comparati, 2/2020.
[15] D. Belluccio, Lo «spettro di un ingorgo di fronte a un flusso incontrollabile di domande di visti umanitari»: genesi, derive e approdi della giurisprudenza di merito, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 1/2024.
[16] Comunicato stampa ASGI, La colpevole inerzia del Governo italiano al rilascio dei visti per palestinesi di Gaza ordinati dal Tribunale di Roma, 16.09.2025.
[17] In questo caso la difficoltà risiede non solo nel raggiungimento delle autorità consolari ma anche nell’ottenimento della documentazione necessaria per la richiesta di visto.
[18] Si v. la pagina del Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme, in cui è stato pubblicato il bando delle borse di studio delle università italiane per studenti palestinesi (Progetto IUPALS – Italian Universities for Palestinian Students). Per consultare la pagina: https://bit.ly/3KDO9HN.
[19] Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 34419/2025, decreto cautelare del 09 agosto 2025.
[20] Human Rights Council Sixtieth session, Legal analysis of the conduct of Israel in Gaza pursuant to the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide Conference room paper of the Independent International Commission of Inquiry on the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, and Israel, 16.09.2025.
[21] Ibidem. Il testo originario recita: «on the basis of fully conclusive evidence, the Commission finds that statements made by Israeli authorities are direct evidence of genocidal intent. Additionally, on the basis of circumstantial evidence, the Commission finds that genocidal intent was the only reasonable inference that could be drawn based on the pattern of conduct of the Israeli authorities. Thus, the Commission concludes that the Israeli authorities and Israeli security forces have the genocidal intent to destroy, in whole or in part, the Palestinians in the Gaza Strip».
[22] Ibidem. Il testo originario recita:«(i) ensure that Israel implements all orders for provisional measures issued by the International Court of Justice; (ii) cooperate to bring to an end all Israeli actions in Gaza that amount to a violation of the Genocide Convention; (iii) take steps to ensure the prevention of conduct that may amount to an act of genocide under the Genocide Convention, including the transfer of weapons that are used or likely to be used by Israel to commit genocidal acts; (iv) not recognise as lawful the military operations in Gaza that led to the violations of peremptory norms (jus cogens), including genocide; and (v) conduct investigations and take steps to ensure the punishment of violations of peremptory norms».
[23] L.Parsi, Analisi giuridica della condotta di Israele a Gaza ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la punizione del reato di genocidio, in Sistema Penale, 19.09.2025.
[24]Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione civile, r.g. 35381/2025, decreto cautelare del 6 agosto 2025.
[25] A. D’Amato, «Governo italiano complice di Israele»: la denuncia alla Cpi per il «genocidio» a Gaza, in Open.online, 18.09.2025.
[26] Redazione Meltingpot, Visti negati, diritti calpestati: l’inerzia del Governo nei confronti dei palestinesi di Gaza, in Meltingpot, 18.09.2025.
[27] Uno strumento di tutela in tal senso si ritrova nell’art. 614 bis c.p.c.
[28] M. Benvenuti, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, CEDAM, Padova 2007, 10.
[29] Sul punto si v. M. Benvenuti, la forma dell’acqua. Il diritto di asilo costituzionale tra attuazione, applicazione e attualità, in Questione Giustizia, 2/2018.
[30] Sul punto si v. anche L.Minniti, Il nucleo e l’orbitale del diritto costituzionale d’asilo, 304. Il contributo è disponibile al seguente link: bit.ly/4nRvQNY. L’Autore evidenzia con molta chiarezza come: «in sintesi, il nesso tra la presenza del richiedente nel territorio dello Stato destinatario e la titolarità ed azionabilità del diritto di asilo non ha un connotato di necessarietà. Si potrebbe dire con altre parole che la presenza nello spazio interno non è un limite implicito, o naturale del diritto di asilo. Certamente non è un limite positivo secondo la configurazione del diritto di asilo contenuta nell’art. 10, 3° comma, Cost., che non può risentire delle limitazioni derivanti da altri istituti di matrice internazionale, i quali contengono standard minimi, condivisi con altri soggetti o Stati, ma non interferiscono con le forme di tutela più ampie apprestate eventualmente dal nostro o da altri ordinamenti».
[31] Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 34419/2025, decreto cautelare del 09 agosto 2025.
[32] Sul punto si v. anche L.Minniti, Il nucleo e l’orbitale del diritto costituzionale d’asilo, 304. Il contributo è disponibile al seguente link: bit.ly/4nRvQNY. L’Autore evidenzia il nesso tra la sfera di azione del principio di non respingimento internazionale e quella del diritto di asilo costituzionalmente garantito. Precisamente, evidenzia come la norma costituzionale non si esaurisca nel contenuto negativo di non respingimento ma preveda altresì «un contenuto ulteriore. Allo straniero che lo Stato non possa respingere in adempimento dell’obbligo di non-refoulement la nostra Costituzione attribuisce più di quanto non faccia il diritto internazionale, ossia il diritto a veder esaminata ed eventualmente accolta la domanda di asilo. Ciò comporta in termini di apertura delle frontiere e di accoglienza che, ogni qualvolta lo Stato non possa respingere, in osservanza dell’obbligo internazionale, le persone che manifestano l’intenzione di chiedere asilo perché gravemente minacciate nei Paesi di origine, sorga in capo al nostro Stato anche l’obbligo di accoglierle sul territorio nazionale per consentir loro di presentare e coltivare la domanda di protezione internazionale».
[33] D. Belluccio, Lo «spettro di un ingorgo di fronte a un flusso incontrollabile di domande di visti umanitari»: genesi, derive e approdi della giurisprudenza di merito, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 1/2024.
[34] C.Panzera, Il diritto all’asilo. Profili costituzionali, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, 126.
[35] Si v. Cass. civ. Sez. Un. sent.n. 04674 del 12 dicembre 1996. La Corte evidenzia come la normativa costituzionale abbia un carattere precettivo, con una conseguente immediata operatività, e tale carattere si riconduce alla circostanza per cui la norma «delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo, individuando nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche la causa di giustificazione del diritto ed indicando l’effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata».
[36] C.Panzera, Il diritto all’asilo. Profili costituzionali, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, 126.
[37] M. Benvenuti, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, CEDAM, Padova 2007, 127.
[38] Si v. Tribunale di Roma, prima sezione civile, sent. 22917/2019, r.g. 5615/2016: «Accertato il diritto degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, le conseguenti determinazioni circa modalità per consentire l’ingresso e per determinare la procedura di riconoscimento della protezione internazionale sono rimesse all’autorità competente, che potrà individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, gli strumenti più idonei a tutelare le ragioni degli odierni attori (tra i quali la concessione del visto di cui all’art. 25 del regolamento CE 810/2009 c.d. codice visti, non essendo di ostacolo la mancanza di documenti validi stante l’individuazione degli attori operata all’esito del presente giudizio, ovvero la concessione della protezione speciale di cui all’art. 32, comma 3, d.lgs. 25/2008».
[39] Tribunale ordinario di Roma, XVII sezione civile, r.g. 36723/2025, decreto cautelare del 13 agosto 2025.
[40] Ibidem.
[41] Ibidem.
[42] Sull’inefficacia delle attuali vie di ingresso legali si v. C.L. Cecchini, G. Crescini, S. Fachile, L’inefficacia delle politiche umanitarie di rimozione degli “effetti collaterali” nell’ambito dell’esternalizzazione con particolare attenzione al resettelment. La necessità di vie legali effettive e vincolanti, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2/2018.
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Contenzioso climatico italiano e sistema delle fonti, dopo l’ordinanza della Cass. civ. SS.UU. n. 13085/2024, pubblicata il 21 luglio 2025
Sommario: 1. Introduzione: verso il superamento della “tragedia degli errori”- 2. I due principali errori nei primi commenti alle Sezioni Unite - 3. Il necessario recupero dell’art. 1173 Cod. civ. - 4. La declinazione dell’art. 2058 Cod. civ. con le leggi fisiche del sistema climatico - 5. La responsabilità civile dello Stato italiano, nel combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ. con l’art. 8 CEDU, e il caso “Giudizio Universale”.
1. Introduzione: verso il superamento della “tragedia degli errori”
La decisione assunta dalla Corte di cassazione civile a Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 13085/2024, è stata salutata come storica tappa di riconoscimento, anche in Italia, della praticabilità del contenzioso climatico, nella specifica modalità dell’azione di responsabilità extracontrattuale per danni da cambiamento climatico[1].
Come immediatamente constatato da questa Testata, il Supremo consesso, da un lato, ha ammesso la potenziale giustiziabilità delle pretese di tutela climatica fondate sulla lesione dei diritti fondamentali, nella necessaria distinzione tra questione del fondamento costituzionale del potere giurisdizionale di decisione e questione di merito sull’accoglimento o meno del petitum[2], dall’altro, ha pure aperto all’esperibilità di misure coercitive giudiziali di mitigazione climatica, attraverso il ricorso all’art. 2058 Cod. civ.[3].
Oltre a questi passaggi, tuttavia, la pronuncia italiana contiene novità significative su altri fronti, meno eclatanti del tema dell’accesso al giudice, e, forse per questo, rimasti ancora all’ombra dei fari dottrinali, ancorché ineludibili per non commettere errori, di fatto e di diritto, nella discussione giuridica del complesso fenomeno climatico.
Ci si riferisce, nello specifico, ai seguenti quattro temi.
- quello della certezza scientifica della matrice antropogenica del cambiamento climatico;
- quello della sua natura di minaccia esistenziale per i diritti umani;
- quello dell’attendibilità dell’utilizzo della c.d. “scienza di attribuzione” (attribution science), ai fini della ricostruzione dei nessi causali e dell’imputazione delle singole responsabilità antropogeniche;
- quello della priorità temporale (e dell’urgenza) della mitigazione climatica rispetto al solo adattamento alle conseguenze del riscaldamento globale, in funzione della tutela intertemporale dei diritti alla vita e alla salute.
Si tratta di aspetti a lungo trascurati dai formanti giuridici, tendenzialmente propensi, soprattutto in Italia, a sussumere i fenomeni climatici, con i loro effetti giuridici, dentro le categorie del diritto ambientale tradizionale, le quali, però, al cambiamento climatico non si riferiscono affatto[4]. La falsa analogia fra ambiente e clima[5] ha prodotto errori cognitivi, inducendo a osservare il problema climatico come variabile dipendente dalle categorie e fattispecie del diritto ambientale domestico, ragionando di riflesso per singoli eventi e singoli impatti, singole azioni umane (eventualmente fra loro cumulabili) e singoli spazi delimitabili, ma ignorando del tutto che i fenomeni climatici consistono in processi intertemporali di trasformazione irreversibile dei contesti di vita.
In altre parole, mentre la tutela ambientale si traduce in protezione da specifici e circoscritti impatti, quella climatica consiste nel preservare la qualità della vita dal tempo termodinamico del sistema terrestre, destabilizzato dall’azione umana. Nella tutela climatica, dunque, il bene della vita messo in gioco è il tempo[6], come finalmente riconosciuto dalla Corte Europea dei Diritti Umani con la storica sentenza sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” ric. n. 53600/20, del 9 aprile 2024[7].
Tali errori, poi, sono stati a lungo replicati nella forma della fallacia logica dell’evidenza soppressa, ovvero in ragionamenti e giudizi, frutto di conoscenze e comprensioni parziali, imprecise, soprattutto incomplete e lacunose dei fatti[8], nonostante, tra l’altro, i periodici Report dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico dell’ONU), quasi mai letti dai giuristi, ancorché messi a disposizione della società civile precipuamente per scongiurare, in particolare attraverso i Summary for policymakers, errori cognitivi di decisori e operatori delle scienze non naturali[9].
Così, dunque, sono andate le cose nel mondo del diritto per lunghi anni, consumando una perdita irreparabile di tempo, sul fronte della tutela dei diritti, icasticamente definita “tragedia degli errori”[10].
Oggi, in enorme ritardo, da questa “tragedia” sembra che si stia uscendo.
I citati quattro passaggi, evocati nell’ordinanza in commento, lo testimoniano.
Prima di tutto, dichiarare la “certezza” della matrice antropogenica del cambiamento climatico implica la presa d’atto della sua ineluttabilità come legge di natura (constatazione che è alla base dello stesso concetto di emergenza climatica quale situazione di pericolo condizionata dalle traiettorie temporali di inerzia del sistema climatico[11]), inducendo a sottrarre il facere giuridico al criterio della sola “precauzione” (come noto utilizzabile in casi di incertezza scientifica su fatti e rischi e pertanto bilanciabile con qualsiasi altra priorità temporale umana), per proiettarlo, al contrario, verso la prevenzione, ovvero per l’adozione prioritaria e non negoziabile di misure di interruzione o riduzione del fattore produttivo del problema: la pericolosa interferenza antropogenica (come, del resto, richiederebbe l’obbligazione impressa dall’art. 2 dell’UNFCCC del 1992 e su cui si tornerà, discutendo dell’art. 2058 Cod. civ.).
In secondo luogo, qualificare tale situazione come minaccia per i diritti umani porta a inquadrarla in termini di pericolo, quindi di fatto ingiusto permanente, da interrompere proprio nell’applicazione degli artt. 2043 Cod. civ, come ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza italiana[12].
Nel contempo, coniugare la “certezza” eziologica dell’antropogenesi pericolosa con le acquisizioni di quel ramo della scienza climatica (la c.d. “attribution science”), che si occupa di identificare e quantificare il contributo di singoli agenti umani sullo stato di pericolo, vuol dire ammettere che il fenomeno non è affatto indistinto e impossibile da ricostruire nelle imputazioni giuridiche di responsabilità, smontando alla radice le storture del c.d. teoria del “Black Box” (altrimenti nota col brocardo “ad impossibilia nemo tenetur”), costantemente evocata da Stati e imprese citate in giudizio, perché fondata sul postulato che i fenomeni climatici sarebbero informi e indistinguibili nei loro processi e conseguenze, dunque impossibili appunto da “attribuire” a specifiche responsabilità e conseguenti protezioni[13].
Infine, ribadire la gerarchia fra mitigazione e adattamento, con l’urgenza della prima rispetto alla seconda per la tutela effettiva dei diritti umani, comporta la loro non equiparazione per leggi di natura (dato che solo la mitigazione incide sull’inerzia termofisica del sistema[14]), con la conseguente assenza di discrezionalità nelle preferenze e scelte di risposta alla minaccia climatica[15], nel senso che non si può discrezionalmente decidere di anteporre l’adattamento alla mitigazione né ancor meno preferire il primo, ignorando la seconda, come purtroppo, al contrario, sta succedendo in Italia[16].
Il chiarimento dell’ordinanza in commento, sulla responsabilità per le emissioni prodotte all’estero, si spiega in questa prospettiva, lì dove la Cassazione precisa che le emissioni climalteranti, pur «estendendo i loro effetti all’intera atmosfera terreste, nell’ambito della quale si determina l’incremento della temperatura globale che produce il cambiamento climatico», ledono diritti umani localizzabili, quale «effetto ultimo della sequenza causale innescata dal cambiamento climatico», sicché «l’evento generatore del danno dev’essere individuato in quello in cui si producono le emissioni climalteranti, mentre il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono».
Invero, questo sbocco della Supremo Collegio era stato in qualche modo anticipato da una precedente pronuncia a Sezioni Unite civili, la n. 5668/2023, in tema sempre di emissioni ma con riguardo alla sola atmosfera e al solo processo di inquinamento. Anche in tale giudizio, infatti, la Corte non solo aveva rigettato la plausibilità del postulato “ad impossibilia nemo tenetur” (puntualmente evocato dall’amministrazione convenuta in ragione della natura diffusa e dispersiva della contaminazione atmosferica), ma soprattutto aveva qualificato l’inquinamento, in quanto certo nella sua matrice antropogenica, come situazione di pericolo per i diritti, arrivando persino a qualificare nociva l’attività emissiva antropogenica in sé, anche ove conforme a norme o atti, allorquando fomentata da comportamenti materiali negligenti nella prevenzione e trincerati dietro pretestuose impossibilità di azioni e controlli delle conseguenze[17].
Oggi, lo stesso sbocco appare ancor più valido e convincente alla luce di quella giurisprudenza internazionale in materia climatica, che, negli ultimi due anni, la “tragedia degli errori” ha definitivamente demolito, distinguendo altrettanto definitivamente i caratteri peculiari della protezione climatica. Ci si riferisce, in ordine cronologico, alle decisioni del Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (Advisory Opinion ITLOS n. 31/2024), della Corte Europea dei Diritti Umani (casi “Verein KlimaSeniorinnen” ric. n. 53600/20, e “Duarte Agostinho et al.” ric. n. 39371/20, entrambi del 9 aprile 2024), della Corte Interamericana dei Diritti Umani (Opinione consultiva n. 35/25) e, per ultimo, della Corte Internazionale di Giustizia (Advisory Opinion ICJ case 187 del 23 luglio 2025).
Da questa cornice internazionale, quindi, si dovrebbe partire per contestualizzare correttamente tutte le conclusioni fornite dall’ordinanza in commento. Sembrerebbe suggerirlo, ancora una volta, sempre la Corte di cassazione, questa volta per bocca del suo ufficio del Massimario, la cui scheda, redatta con riguardo al caso CEDU “Verein KlimaSeniorinnen” del 9 aprile 2024[18], rileva la correttezza di collocare il «dovere di protezione dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita e sulla salute … nelle fonti di diritto interno, eurounitario ed internazionale».
2. I due principali errori nei primi commenti alle Sezioni Unite
L’omissione delle «fonti di diritto interno, eurounitario ed internazionale» segna, invece, il cammino di alcuni dei primi commenti all’ordinanza in oggetto.
Proviamo a scandagliarli.
In primo luogo, il richiamo alla responsabilità extracontrattuale come “base” del contenzioso climatico ha indotto una parte della dottrina a lasciare in ombra le fonti internazionali in materia climatica, che se queste consistessero in una sorta di lex specialis estranea al problema del danno ingiusto alla persona[19]. In effetti, fino all’Accordo di Parigi del 2015, l’interpretazione prevalente sui risvolti giuridici del cambiamento climatico risultava orientata in tal senso, con l’effetto di estromettere, dai discorsi giuridici sul cambiamento climatico, gli obblighi in materia di diritti umani e neminem laedere, giudicandoli inapplicabili e alimentando, per l’effetto, il costrutto dell’assenza di norme anche solo “astrattamente idonee” a tutelare situazioni soggettive compromesse dal fenomeno climatico, conoscibili e applicabili dai giudici. La Corte Internazionale di Giustizia, con la citata Opinione consultiva del luglio scorso, ha confutato siffatta ricostruzione (per es., nei §§ 145, 373 e 404), rilevando non solo l’interdipendenza fattuale tra diritti umani e cambiamento climatico (cfr. §§ 377-384), ma prioritariamente l’indivisibilità dei diritti umani in sé (indivisibilità formalizzata anche dai due Patti ONU del 1966), la cui unitaria tutela, corrispondendo a un diritto internazionale consuetudinario collegato all’obbligo statale, anch’esso a fondamento consuetudinario, del No Harm e dunque del non recare danno ingiusto al pari del neminem laedere, non può essere esclusa al cospetto di fenomeni antropogenici di alterazione del sistema ambientale planetario (§§ 389-393).
Dopo questa ricostruzione del diritto internazionale consuetudinario, al quale l’Italia si adatta automaticamente in forza dell’art. 10, primo comma, Cost., l’eccezione dell’assenza di una norma “astrattamente idonea” alla tutela climatica è divenuta inammissibile: il che non può non incidere sul fondamento costituzionale del potere giurisdizionale, corroborando senza eccezioni l’accertamento compiuto dall’ordinanza in commento.
Ne consegue altresì che risarcire il danno da cambiamento climatico non equivale affatto a “creazione” giurisprudenziale di norme altrimenti inesistenti, bensì al suo esatto opposto: applicazione del neminem laedere nel rispetto del diritto internazionale consuetudinario su indivisibilità dei diritti umani e No Harm.
Dentro questa cornice, la puntualizzazione dell’ordinanza in commento, secondo cui una «comune azione risarcitoria, ancorché fondata sull’allegazione dell’omesso o illegittimo esercizio della potestà legislativa, non dà luogo a un difetto assoluto di giurisdizione, neppure in relazione alla natura politica dello atto legislativo, ove sia stata dedotta la sola lesività della disciplina che ne è derivata», suona ancora più chiara.
Il neminem laedere, in effetti, non richiede esercizio del potere legislativo, ma rispetto della legalità in tutte le sue espressioni[20]; ed esige condotte materiali adeguate al pericolo. Detto altrimenti, mitigare emissioni non vuol dire creare norme; significa eliminare o ridurre il pericolo; il che esige condotte materiali di neminem laedere (e di No Harm); “dovere primario” di protezione (Primary Duty), aveva già anticipato la Corte Europea dei Diritti Umani, nel caso “Verein KlimaSeniorinnen” del 2024, come tale vincolante dall’esterno la discrezionalità politica degli Stati e dei loro organi (cfr. §§ 544-550 della decisione europea), esattamente come il dovere materiale di mitigazione contro l’inquinamento, evocato dalle Sezioni Unite n. 5668/2023.
Che poi la mitigazione sia contenuta in una legge o meno, appare accidente formale, non certo presupposto costitutivo della condotta non lesiva.
Per questo, è ampiamente condivisa la considerazione che la tutela dalla minaccia del cambiamento climatico antropogenico sia questione di responsabilità inevitabilmente extracontrattuale fattuale (ossia da fatto illecito di condotta inadeguata e non da omissione legislativa), lesiva di diritti assoluti di sopravvivenza[21].
Alcuni commentatori hanno reputato possibile sottrarsi a siffatta conclusione, adducendo la non vincolatività, per gli operatori giuridici e decisori italiani, del diritto internazionale nelle interpretazioni fornite dai suoi giudici e la prevalenza sul diritto interno, nella materia climatica, “solamente” del diritto europeo[22]. Stando a tale ordito, gli ultimi interpreti del diritto internazionale resterebbero gli agenti domestici dello Stato, per cui nulla impedirebbe loro di procedere per vie diverse da quelle segnate dalle giurisdizioni internazionali (ITLOS, Corte Internazionale, Corte EDU), fatta salva l’applicazione “solamente” del diritto europeo (come se questo fosse estraneo al – e separato dal – diritto internazionale). L’argomento, ancorché avallato da una risalente giurisprudenza minoritaria[23], risulta del tutto fuori luogo sul lato del sistema delle fonti, proprio alla luce degli interventi interpretativi internazionali, che si vorrebbero eludere.
Se la Corte dell’Aja accerta e dichiara l’esistenza di un diritto internazionale consuetudinario nella materia climatica, ad esso l’Italia, con i suoi giudici, è tenuta ad adeguarsi automaticamente, in ragione – come banalmente ricordato – del primo comma dell’art. 10 Cost., a meno che siffatto adattamento osti alla miglior tutela dei diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione italiana (si v., in proposito, la nota sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014); ipotesi certamente estranea al campo della minaccia climatica.
Inoltre, se l’Italia non si limita a ratificare trattati internazionali che predicano l’indivisibilità dei diritti umani, ma riconosce loro piena attuazione interna con l’apposito ordine di esecuzione, i suoi giudici non possono certo sottrarsi alla considerazione di quelle fonti, ai fini della ricerca della norma “astrattamente idonea” a tutelare situazioni soggettive contro il cambiamento climatico. Diversamente opinando, si arriverebbe alla violazione dei principi di “buona fede” e “pacta sun servanda”, imposti dalla Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei trattati del 1969, alla quale ovviamente l’Italia aderisce e ha dato esecuzione[24].
Infine, il rispetto del diritto internazionale consuetudinario e pattizio, con la connessa presa in considerazione delle sue interpretazioni giudiziali a tutela dei diritti, è richiesto pure dalla stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea, sicché l’evocazione “solamente” del diritto europeo in materia climatica, invece di suffragare la tesi dell’esclusione dei formanti internazionalistici, la smentirebbe sonoramente. In merito, i precedenti unionali sono innumerevoli. In questa sede, nondimeno, può esserne sufficiente un solo accenno, tra l’altro riferito agli effetti diffusi e transfrontalieri delle condotte dello Stato in materia ambientale. Nella causa C-188/23 del 21 gennaio 2025, i giudici di Lussemburgo hanno ricordato che l’obbligo di conformazione alle fonti del diritto internazionale, alle quali la UE aderisce, vincola le fonti derivate europee e, di riflesso, i giudici nazionali, con esiti disapplicativi delle norme e interpretazioni interne contrastanti.
Ora, poiché la UE aderisce a tutti i trattati internazionali in materia climatica, l’interpretazione di essi fornita dalla Corte Internazionale di Giustizia per la tutela dei diritti umani, vincolando la UE per la migliore tutela, obbliga a cascata gli Stati membri e i loro giudici.
Il che, sia detto per inciso, consente pure di perseguire tutele ambientali più rigorose di quelle europee, alla luce dell’art. 193 TFUE.
In definitiva, chi si arresta al diritto europeo, scopre di doversi comunque aprire al diritto internazionale climatico e alle sue interpretazioni, sia per adattamento italiano alle fonti internazionali, consuetudinarie e pattizie (artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.), sia per primato stesso delle fonti europee che quel diritto chiedono di rispettare (da ultimo, causa C-118/23).
A conclusione non dissimile si giunge passando alle decisioni climatiche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anch’esse reputate destituite, dalla medesima dottrina[25], di forza vincolante per il giudice italiano.
Invero, basterebbe evocare l’art. 6 TUE e l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, per confutare la pretesa destituzione[26], tant’è che la citata scheda dell’ufficio Massimario della Cassazione sembra presupporlo.
Cionondimeno, reputare finanche costituzionalmente ammissibile l’assenza di vincolo, stigmatizzerebbe l’operazione ermeneutica come oltremodo contraddittoria (perché renderebbe del tutto inutile l’adesione italiana al sistema CEDU) e illegittima in re ipsa, traducendosi in una non ammessa disapplicazione giudiziale della CEDU (in tal senso si v. il caso “Walęsa c. Polonia” ric. n. 50849/21 del 23 novembre 2023[27]).
Probabilmente, come correttamente fatto presente da altra dottrina[28], coloro che contestano il vincolo giudiziale nazionale alla CEDU, cadono in una doppia confusione:
- quella fra sistema di norme e sistema di ordinamenti,
- quella tra disapplicazione delle norme interne, per conflitto col diritto UE, e prevalenza della CEDU sulle norme interne nella tutela dei diritti, per interposizione ex art. 117, primo comma, Cost.
La CEDU non è un ordinamento giuridico con proprie fonti, come invece lo è l’UE; ma è pur sempre un sistema di norme per la tutela dei diritti umani.
Questo sistema di norme di tutela dei diritti è gerarchicamente sovraordinato alle norme di diritto interno, ma subordinato alla Costituzione.
Nel contempo, in ragione dei citati artt. 6 TUE e 53 della Carta fondamentale europea, esso interagisce anche con quello UE, che tuttavia è un ordinamento giuridico con le sue fonti.
Da questo intreccio discende che il giudice italiano, di fronte alla CEDU,
- non può disapplicare le norme interne in contrasto con la CEDU, non essendo la CEDU un ordinamento giudico di fonti,
- deve però conformare l’interpretazione di quelle norme interne all’interpretazione dei diritti, fornita dalla Corte EDU, essendo – la CEDU – un sistema di norme di tutela sovraordinato a quello solo domestico (ex art. 117, primo comma, Cost.),
- verificando che la tutela offerta dalla CEDU non produca violazioni della Costituzione, essendo la CEDU interposta ma non equiparata né sovrapposta alla Costituzione,
- e verificando altresì che la tutela CEDU non determini violazione del diritto UE,
- altrimenti procedendo alla questione di legittimità costituzionale, in caso di reputate violazioni (in capo a quelle interpretazioni CEDU) o della Costituzione o del diritto UE o di entrambe.
Come si vede, in nessun modo, il giudice domestico può affrancarsi dall’interpretazione della Corte EDU né tantomeno procedere a disapplicazione della CEDU o a sue interpretazioni esclusivamente domestiche; se nutre dubbi (ma di natura costituzionale, non certo di ermeneutica alternativa al descritto sistema delle fonti), il giudice può – deve – rivolgersi alla Corte costituzionale.
Per l’ordinanza qui in commento, quanto rappresentato conduce inesorabilmente a un unico esito:
- la decisione delle Sezioni Unite in materia climatica deve essere letta in combinato disposto con le sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani del 9 aprile 2024 (i citati casi “Verein KlimaSeniorinnen” e “Duarte Agostinho et al.”), verificandone la concorrente conformità tanto con la Costituzione quanto con il diritto UE.
La giurisprudenza maggioritaria italiana conferma l’ordito[29], e ancor di più, ovviamente, quella costituzionale, ormai salda su quattro pilastri, indisponibili per i giudici comuni:
- sussiste «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», sicché l’interpretazione di entrambi deve tendere solo ed esclusivamente a «massimizzarne l’espansione in un rapporto di integrazione reciproca» per la tutela dei diritti (così la sentenza n. 145/2022);
- di conseguenza la conformazione alla CEDU tende «ad assumere un valore generale e di principio» (sentenze. n. 236/2011 e n. 49/ 2015);
- per cui «le disposizioni della CEDU sono vincolanti nel significato che ad esse viene attribuito all’esito dell’attività interpretativa operata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» (sentenza n. 7/2024);
- a maggior ragione se tali interpretazioni sono state assunte nella modalità dell’art. 43 CEDU (come avvenuto per le decisioni climatiche del 9 aprile 2024), perché inquadrabili in termini di “novum” normativo analogo allo “ius superveniens” (ordinanza n. 150/2012).
3. Il necessario recupero dell’art. 1173 Cod. civ.
Non risulta seriamente contestabile la presa d’atto di quanto fin qui analizzato.
L’ordinanza in commento, per essere correttamente applicata secundum constitutionis, deve essere “integrata” dalle interpretazioni
- sia della Corte Internazionale di Giustizia, per la collocazione delle conclusioni italiane nella cornice del diritto internazionale consuetudinario e pattizio del No Harm e del neminem laedere in nome dell’indivisibilità dei diritti,
- sia della Corte di Strasburgo, a maggior ragione per la natura di queste ultime come “novum” normativo, reso ai sensi dell’art. 43 CEDU, e in nome del rafforzamento dei diritti.
Qualsiasi ipotesi di arroccamento domestico sarebbe solo peggiorativa dei livelli di tutela rispetto alla minaccia del cambiamento climatico, riconosciuta certa proprio dall’ordinanza in commento.
Non a caso, altra dottrina lo ha fatto ben chiaramente presente, da subito[30].
Tutto questo non induce a ritenere che la causa petendi del contenzioso climatico si fondi sul diritto internazionale, consuetudinario e pattizio, in sostituzione di quello domestico, oppure si radichi nella sola CEDU.
Ancorché prospettive del genere non vengano più reputate inammissibili da parte della dottrina, persino in presenza di enunciati internazionalistici formulati sotto forma di principio[31], c’è da prendere atto che, al cospetto della minaccia del cambiamento climatico antropogenico, vige piuttosto – grazie a quanto emerso dalla richiamata giurisprudenza degli ultimi due anni – un intreccio di fonti normative, tutte convergenti sulla rimozione del pericolo (non per nulla, tutte riconducibili allo scopo finale del diritto climatico, scandito dal già citato art. 2 dell’UNFCCC).
Anche a questo proposito, si può prendere spunto dalla già citata scheda dell’ufficio del Massimario della Cassazione, dato che in essa si chiarisce che il dovere di protezione, dagli effetti negativi dei cambiamenti climatici sulla vita e la salute, si radica in un «quadro normativo», composto da una serie di principi, tra cui gli artt. 2, 3, 9, 41 e 117 Cost., e da una serie di condotte contenute in diversi accordi internazionali, che «costituiscono una vera e propria fonte di obbligazione, avente ad oggetto la tutela del clima e la riduzione delle immissioni atmosferiche di anidride carbonica, al fine di contenere l’aumento della temperatura media globale entro il tetto massimo di 2°C, come previsto, in particolare, dall’Accordo di Parigi del 12 dicembre 2015», che «si affiancano» alle fonti del diritto europeo e su cui «la Corte costituzionale, con le sentenze n. 124/2010 e 85/2012, aveva già chiarito l’inquadramento delle fonti internazionali del diritto climatico all’interno del nostro ordinamento».
A ben vedere, siffatto «quadro normativo» rispecchia una precisa disposizione del Codice civile italiano, sorprendentemente rimasta sempre sotto traccia nel dibattito sul contenzioso climatico: l’art. 1173 Cod. civ.
Conviene partire dalla sua lettera. Nel sistema giuridico italiano, le obbligazioni «derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico».
Si è parlato, in proposito, di «trittico» delle derivazioni (contratto, fatto illecito, altro), purché dentro un’unica «conformità» all’«ordinamento giuridico»[32].
Bene, l’ordinamento giuridico italiano, come poc’anzi sintetizzato, non solo è tridimensionale nelle sue fonti e norme di «conformità» (Stato-UE-CEDU), ma inserito pure (in forza degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.) nell’ordinamento internazionale con i suoi obblighi consuetudinari e pattizi.
Il dato rende ineluttabile il radicamento delle obbligazioni civilistiche italiane, indipendentemente dalle sue atipiche modalità di manifestazione («ogni altro atto o fatto idoneo»), nella tridimensionalità europea (per di più, tale tridimensionalità, proiettata sui diritti fondamentali) e nella contestuale conformità a tutte le fonti che includono l’ordinamento italiano[33].
Si tratta di una complessità sistemica, non comune ad altri ordinamenti giuridici nazionali, come dimostrato da studi comparatistici recenti[34], carica di interessanti ripercussioni.
In pratica, l’obbligazione climatica, derivando da fonti internazionali pattizie (Convenzioni, Protocolli, Accordi, COP) e consuetudinarie (tutela dei diritti umani e No Harm), in ragione di fatti (climatici) di minaccia (l’emergenza antropogenica), opera come costrutto di responsabilità a contenuto materiale integrato da più norme (internazionali, europee, nazionali), accomunate dallo scopo di tutela (la rimozione del pericolo per il neminem laedere), da interpretare e applicare in «conformità» con l’ordinamento giuridico nella sua integrale complessità di fonti e norme che lo compongono nei modi indicati dalla Costituzione[35].
È appena il caso di far presente che questa conclusione risulta coerente anche con l’art. 23 Cost., poiché ovviamente la “legge”, in base alla quale si impongono prestazioni personali o patrimoniali, non è solo quella formale italiana, bensì quella materiale, abilitata dagli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.
Si scopre così che l’obbligazione climatica non è una “creazione” degli interpreti, bensì un dato di sistema, derivato dall’art. 1173 Cod. civ. senza alcun attrito con la Costituzione.
Diventa interessante constatare che la Corte EDU, nel caso climatico “Duarte Agostinho et al.” del 9 aprile 2024, si era già fatta carico di indurre gli interpreti nazionali a tale approccio integrato. Infatti, nel verificare l’esperibilità dell’accesso al giudice in Portogallo per la giustiziabilità dell’obbligazione climatica, la Corte di Strasburgo ha rimarcato la necessità che qualsiasi giudice nazionale accerti previamente l’esistenza o meno, nel proprio sistema domestico, di fonti o norme nazionali, aperte al diritto internazionale nell’applicazione degli istituti della responsabilità extracontrattuale e, di riflesso, abilitate alla configurazione integrata dell’obbligazione climatica e delle condotte materiali di mitigazione: esattamente quello che, in Italia, è fattibile, grazie all’art. 1173 Cod. civ.
4. La declinazione dell’art. 2058 Cod. civ. con le leggi fisiche del sistema climatico
Il descritto intreccio di norme trapela dall’ordinanza in commento, significativamente in quel passaggio in cui si spiega, da parte delle Sezioni Unite, che il compito affidato al giudice civile consiste soltanto nel verificare se le fonti internazionali e costituzionali invocate (o altre norme, eventualmente individuate, in ossequio al principio jura novit curia), risultino idonee a imporre un «dovere d’intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell'art. 2058 Cod. civ.».
In pratica, anche il facere ex art. 2058 deriva (e dipende) dall’intreccio normativo dell’art. 1173 Cod. civ.
Questo facere potrebbe riguardare sia il soggetto privato che quello pubblico. Così almeno sembrerebbe corretto dedurre, dato che la Cassazione non ne restringe il campo applicativo ai soli privati, essendo consapevole che, nel petitum della causa civile da cui è scaturita la questione di giurisdizione, è inserita la richiesta esplicita di attivazione di “policies” di abbattimento delle emissioni da parte anche dei poteri pubblici.
Su questo facere, i primi commentatori dell’ordinanza si sono posti due ordini di domande[36].
- in che cosa consisterebbe materialmente questo facere?
- il suo contenuto è manifestazione di discrezionalità politica, tale da richiedere l’atto legislativo?
Si tratta di due interrogativi, alla luce di quanto in precedenza analizzato, mal posti. Il primo, infatti, sembra replicare ancora una volta la “tragedia degli errori” nella (omessa) conoscenza del funzionamento fisico del sistema climatico, recuperando dalla finestra la trappola della teoria del “Black Box”, mandata via dalla porta dalle citate sentenze internazionali del 2024-2025. Il secondo risulta, invece, ignorare le implicazioni costituzionali degli artt. 28, 32 e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, di cui, non da oggi, si sono occupate sia la Corte costituzionale che la stessa Corte di cassazione[37].
Partiamo dal primo profilo.
Tutto ruota intorno alla formulazione letterale dell’art. 2058 Cod. civ., in base alla quale la reintegrazione in forma specifica imporrebbe un obbligo di ripristino dello status quo ante l’evento dannoso. Questo significherebbe
- rimozione del fatto lesivo e delle cause che lo hanno prodotto,
- tenendo conto, però, dell’eventuale eccessiva onerosità per il debitore,
- e dell’effettività concreta della rimozione della causa.
In forza di tali constatazioni, ci si è chiesti: nel cambiamento climatico antropogenico, si può effettivamente rimuovere il fatto lesivo con le sue cause? E come? E quanto oneroso sarebbe? E, poi, esso risulterebbe concretamente produttivo del “ripristino”?
Uno dei commentatori[38], senza fornire alcun riscontro di conoscenza e comprensione del sistema climatico, sostiene che il “ripristino” sarebbe impossibile, se non attraverso il facere di tutti gli emettitori e non invece di un singolo agente. Di qui, discenderebbe l’inconsistenza dell’evocazione dell’art. 2058 Cod. civ. Si tornerebbe, insomma, alla teoria del “Black Box” o, meglio, al postulato “ad impossibilia nemo tenetur”.
Siffatto ordito logico prova troppo. Se davvero un singolo emettitore, impresa o Stato che sia, non può incidere effettivamente sul “ripristino”, allora perché mai ci si è dati accordi internazionali, a partire dall’UNFCCC del 1992, per promuoverlo nella modalità della mitigazione? Oltre trent’anni di fonti climatiche sarebbero state concordate e scritte, fra Stati o da parlamenti o piani industriali, nella consapevolezza dell’inutilità e inefficacia? Per esempio, l’art. 4, n. 2 lett. a), dell’UNFCCC, che imponeva questo “ripristino” in dieci anni a carico dei paesi sviluppati, consisterebbe in una disposizione “impossibile”? A questo punto, persino i Giudici della Suprema Corte sarebbero inciampati in una rappresentazione surreale dei problemi climatici?
Evidentemente, per sottrarsi al circolo vizioso,, bisognerebbe chiedersi in che cosa consista la realtà del “ripristino” nel contesto del cambiamento climatico antropogenico, prima di maturare siffatti dubbi e, per comprenderlo, è necessario accertare se e che cosa dicano, in proposito, le fonti del diritto climatico.
In primo luogo, esse fanno rinvio, sin dalle definizioni normative dell’art. 1 dell’UNFCCC, alle leggi fisiche di funzionamento del sistema climatico[39] e questo comporta che, senza conoscere tali leggi fisiche, a partire dalle traiettorie di inerzia che condizionano la qualità intertemporale di ambiente e salute, la risposta alla domanda sull’effettivo “ripristino” rimane appesa a un filo.
Ma non solo. Tutte le fonti del diritto climatico si fondano, come già ricordato, sull’art. 2 dell’UNFCCC, il quale indica l’obiettivo ultimo e finale dell’intero complesso normativo di lotta al cambiamento climatico antropogenico: eliminare qualsiasi pericolosa interferenza umana sul sistema climatico.
“Ripristinare”, pertanto, non vuol dire “tornare” a uno status quo ante genericamente inteso, quanto piuttosto “eliminare” l’interferenza umana “pericolosa” sul sistema climatico, che prima non si verificava. E qual era questo passato senza interferenza umana “pericolosa”? Era quello pre-fossile, quando non esistevano le emissioni antropogeniche di gas serra (dunque fossili) che “si sono aggiunte”, come precisa l’art. 1 dell’UNFCCC, a quelle prodotte dai cicli solo naturali delle sfere del sistema climatico.
Ecco chiarito che il “ripristino” è sinonimo di eliminazione della “pericolosa” interferenza fossile sul sistema climatico da parte di qualsiasi emettitore fossile: invece di “aggiungere” nuove emissioni di gas serra, bisogna “toglierle” dalle proprie attività antropogeniche.
Come questo possa avvenire in modo effettivo, è stato spiegato con grande chiarezza dalla Corte Europea dei Diritti Umani, nella sentenza sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” (nei paragrafi dal 444 al 550 della decisione, attraverso il calcolo del c.d. “Carbon Budget Residuo” insieme ad altri calcoli equivalenti e complementari, capaci di incidere sulle traiettorie di inerzia del sistema climatico), per poi essere ripreso dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani (con il criterio pro natura, ovvero attraverso la conoscenza e il rispetto dei cicli naturali del carbonio e delle traiettorie di inerzia[40]) e dalla Corte Internazionale di Giustizia (a partire dai paragrafi 224-243, con il riferimento al c.d. Global Stocktake, richiesto dall’art. 14 dell’Accordo di Parigi, al non sforamento della soglia di temperatura di 1,5°C nel calcolo storico delle emissioni, all’obbligo di non ripetizione dell’illecito e di correzione alla fonte del pericolo[41]). Non è questa la sede per spiegare nel dettaglio queste modalità. È sufficiente precisare che si tratta comunque di un calcolo quantitativo; un’operazione contabile di mitigazione climatica, funzionale a escludere, in modo definitivo e irreversibile, il concorso del singolo agente emissivo alla propria “pericolosa” interferenza umana sul sistema climatico, tenendo conto del suo trascorso storico di emissioni fossili pregresse. Solo grazie a questo calcolo, in sostanza, un agente emettitore potrà comprovatamente sostenere di aver “ripristinato”, per il proprio agire, un’interferenza sul sistema climatico non più “pericolosa”, per il presente e il futuro tenendo conto del passato.
Sembra una conclusione complicata e quasi inverosimile, ma l’epistemologia giuridica che la sostiene è identica a quella che fonda disposizioni ben note al sistema giuridico in tema di concorso (commissivo od omissivo) di cause, come l’art. 2055 Cod. civ. e gli artt. 40 e 41 Cod. pen.
Il che dimostra, ancora una volta, l’inevitabilità di leggere l’ordinanza in commento in combinato con la giurisprudenza internazionale sulla mitigazione climatica. D’altra parte, che tale calcolo sia compatibile con il facere dell’art. 2058 Cod. civ., appare implicitamente ammesso dall’ordinanza in commento, lì dove essa evoca l’importanza della “scienza di attribuzione” (attribution science), dalla quale sono maturati i metodi di calcolo realizzabili per il facere di “ripristino”.
A questo punto, diventa semplice affrontare anche il secondo profilo. Si può seriamente sostenere che effettuare un calcolo di “ripristino” dell’interferenza umana non “pericolosa” sia ontologicamente un atto politico e addirittura necessariamente legislativo? Oppure si tratta di un doveroso atto di prevenzione, visto che esso, al di là della forma, opera in un contesto che le stesse Sezioni Unite ammettono di “certezza” dell’antropogenesi del pericolo?
Qui si ritorna al tema del neminem laedere, che, dopo l’apertura tracciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 641/1987, ben può operare anche come “prevenzione” di futuri danni e quindi come obbligo “attivo” di evitare il peggio, sia per l’autonomia privata che per la discrezionalità pubblica, non a caso qualificata “attiva” dalla Corte di cassazione in numerose decisioni di condanna della Pubblica Amministrazione al facere ex art. 2058 Cod. civ.[42].
Com’è noto e pacifico, la discrezionalità attiva può anche riflettere un indirizzo politico, ma non per questo essa si manifesta di per sé quale “atto politico”, visto che il suo contenuto «si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini» (Corte cass. civ. SS.UU. n. 5992/2025).
Quali siano questi “confini” normativi di calcolo trova risposta in quella giurisprudenza internazionale, più volte rimarcata in questa sede, ma omessa la quale nulla diventa esaustivamente comprensibile dell’ordinanza in commento.
Insomma, calcolare la propria mitigazione climatica in funzione della eliminazione della propria “pericolosa” interferenza umana sul sistema climatico e per il “ripristino” di un’interferenza non più “pericolosa”, costituisce limite esterno invalicabile di qualsiasi potere privato e pubblico: potere-dovere di neminem laedere nella minaccia del cambiamento climatico; nulla di più.
Di conseguenza, quanto constatato sul contenuto del facere di condanna ex art. 2058 Cod. civ. dissolve le nebbie sull’ultimo fronte delle ricadute dell’ordinanza in commento: la responsabilità dello Stato in materia climatica, la cui discrezionalità attiva è pienamente riconducibile allo schema costituzionale degli artt. 28, 32 e 113 Cost. e dunque giustiziabile in nome della tutela dei diritti.
5. La responsabilità civile dello Stato italiano, nel combinato disposto degli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ. con l’art. 8 CEDU, e il caso “Giudizio Universale”
Questa responsabilità statale è indubbiamente di natura extracontrattuale, trovando fondamento, come si è visto, in un intreccio di norme che abilitano, attraverso la Costituzione e l’art. 1173 Cod. civ., al rispetto del neminem laedere (e No Harm), imponendo necessarie operazioni di calcolo, funzionali all’eliminazione del pericolo e per ciò stesso limitative della discrezionalità politica.
Il paragrafo 550 della sentenza europea “Verein KlimaSeniorinnen” fonda questo limite esterno sui diritti umani, protetti dall’art. 8 CEDU, attraverso gli artt. 28 Cost. e 1173 Cod. civ.
Sembra quindi corretto, e costituzionalmente conforme all’art. 28 Cost., evocare l’insorgenza, nel sistema normativo italiano, di una responsabilità civile dello Stato in materia climatica, derivante dall’obbligo vincolante di non violare l’art. 8 CEDU.
Anche su questo versante, gli enigmi che i primi commentatori hanno voluto intravedere nella lettura dell’ordinanza in commento, per i riferimenti, in essa presenti, alla nota vicenda processuale “Giudizio Universale”, inerente appunto alla responsabilità climatica statale extracontrattuale, si dissolvono nella lettura della giurisprudenza climatica internazionale del biennio 2024-2025.
È stato già da altri correttamente concluso con riguardo alla CEDU[43], sottolineando che l’ipotetica adesione delle Sezioni Unite in commento «alla sentenza Giudizio Universale appare inverosimile, posto che quest’ultima risulta a sua volta inconciliabile con quanto stabilito dalla Corte EDU». E lo stesso può dirsi a seguito della decisione della Corte Internazionale di Giustizia, con i suoi richiami all’obbligo statale di non ripetizione dell’illecito e di correzione alla fonte della “pericolosa” interferenza umana.
Parafrasando la celebre metafora normativa di Vezio Crisafulli, si potrebbe chiudere, parlando di una responsabilità civile extracontrattuale di facere a “rime obbligate”[44] sia per le imprese che per lo Stato: “rime” dettate dall’intreccio di fonti e norme, ammesse tanto dalla Costituzione quanto dall’art. 1173 Cod. civ., per la miglior tutela dei diritti presidiati dall’art. 8 CEDU e nel miglioramento del diritto climatico UE, come consentito dall’art. 193 TFUE[45].
[1] L. Serafinelli, Cass. Civ., Sez. Un., ord. 21 luglio 2025, n. 20381, Greenpeace et al. c. Eni et al.: navigare nel mare (forse un poco meno?) incerto del contenzioso climatico all’italiana, in OCA-Osservatorio su Costituzionalismo Ambientale, DPCE online, 29 luglio 2025.
[2] Sulla ricostruzione del dibattito intorno al costrutto del “difetto assoluto di giurisdizione”, si v. ora C. Giudice, L'assoluto difetto di giurisdizione, Torino, Giappichelli, 2025.
[3] Redazione, Una svolta nella giustiziabilità climatica? Le Sezioni Unite e il caso Greenpeace vs ENI, in www.giustiziainsieme.it, 24 luglio 2024
[4] Si v., per esempio, M. Zarro, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile, Napoli, ESI, 2022, e V. Conte, Per una teoria civilistica del danno climatico, in DPCE Online, SP2, 2023, 669-682.
[5] Sulla erroneità di questa analogia insistono soprattutto gli studi di Michele Carducci, alla luce della c.d. “equazione di Lenton et al.”, che spiega l’unicità problematica dell’emergenza climatica: cfr. M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Digesto delle discipline pubblicistiche, VIII Aggiornamento, Torino, Utet, 2021, 51-74, e Ordinamenti giuridici e sistema climatico di fronte all’autoconservazione, in Ars Interpretandi, 2, 2022, 13-28.
[6] M. Carducci, Il tempo del pianeta come bene della vita nell’emergenza climatica, in www.diritticomparati.it, 6 settembre 2022, nonché, a seguito della prima decisione costituzionale europea che ha preso atto del fattore tempo come bene della vita (il Bundesverfassungsgericht), M. Carducci, Libertà “climaticamente” condizionate e governo del tempo nella sentenza del BVerfG del 24 marzo 2021, in www.LaCostituzione.info, 3 maggio 2021.
[7] Cfr. A. Di Martino, The Problem of Temporal Synchronization in Climate Change Theoretical and Comparative Interplays in the Light of Litigation, in L’Ircocervo, 24(1), 2025, 62-98.
[8] Sugli errori sul fatto nella dogmatica giuridica, si v. molto efficacemente E. Fittipaldi, Conoscenza giuridica ed errore. Saggio sullo statuto epistemologico degli asserti prodotti dalla dogmatica giuridica, Roma, Aracne, 2013.
[9] Cfr. P. Marijn Poortvliet et al., Communicating Climate Change Risk: A Content Analysis of IPCC’s Summary for Policymakers, in Sustainability 12(12), 2020, 4861.
[10] J. Spier, S. Wiegers, Climate Change: A Tragedy of Errors and Looking Away, in L’Ircocervo, 24(1), 2025, 169-206.
[11] Cfr. M. Cunha Verciano, L’emergenza climatica tra concetto scientifico e categorie giuridiche: da situazione di pericolo a fatto ingiusto permanente sul Carbon Budget residuo, dopo KlimaSeniorinnen, in OCA-Osservatorio su Costituzionalismo Ambientale, DPCE online, 8 ottobre 2024.
[12] Cfr., tra i tanti riferimenti, Corte Cass., ord n. 5022/2021; Cass. civ. SS.UU. nn. 4908/2006, 6218/2006, 23735/2006, 17461/2006, 12133/1990 e 5626/1988; Cass. civ. sez. III. nn. 9893/2000 e 15853/2015; Corte cost. n. 5/2018.
[13] L’approccio risale alle considerazioni, in seguito strumentalizzate, di M. Bunge, A General Black Box Theory, in Philosophy of Science, 30(4), 1963, 346-358.
[14] Cfr. M. Carducci, Costituzionalismo ambientale e leggi della natura, in www.federalismi.it, 12, 2025, 23-36.
[15] Questa fondamentale distinzione sembra sfuggire alla proposta ricostruttiva di P. Femia, Responsabilità civile e Climate Change Litigation, in Enciclopedia del Diritto, I Tematici VII-2024, Milano, Giuffrè, 2025, 847-879.
[16] Cfr. M. Cunha Verciano, Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU, in www.diritticomparati.it, 21 marzo 2023, e L. Cardelli, La doppia inadeguatezza della mitigazione climatica italiana nei dati ISPRA e i suoi effetti di costo e di danno, in www.giustiziainsieme.it, 29 maggio 2025.
[17] In merito, si v. il commento di V. Vaira, Il danno alla salute da inquinamento atmosferico e l’omessa adozione di provvedimenti da parte della p.a. per la tutela dell’ambiente, in Corti Supreme e Salute, 3, 2023, 578-598; nonché, per un quadro di comparazione, M. Carducci, Le affinità emissive. La giurisprudenza comparata destinata a incidere sul contenzioso climatico italiano, in www.diritticomparati.it, 11 luglio 2024.
[18] Cfr. Corte suprema di cassazione, Report Corte EDU Verein Klimaseniorinnen Schweiz, 9 aprile 2024.
[19] È questo l’elemento che contraddistingue la lettura proposta da G. Scarselli, Per una corretta lettura della recente ordinanza della Sezioni unite (Cass. sez. un. 21 luglio 2025 n. 20381) in tema di contenzioso climatico, in Judicium. Il giudizio civile in Italia e in Europa, 29 luglio 2025.
[20] Cfr. Cass. civ. sez. III, n. 5120/2011, e n. 5984/2023.
[21] Cfr. L. Serafinelli, Responsabilità extracontrattuale e cambiamento climatico, Torino, Giappichelli, 2024, e A. Lupo, Il diritto alla sostenibilità climatica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2025.
[22] Si tratta sempre della posizione di G. Scarselli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in www.giustiziainsieme, 26 novembre 2024.
[23] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale come fonte di obbligazioni nei rapporti di diritto civile, in Rivista di Diritto Internazionale, 2, 2025, 327-373 e ivi nt. 100 e 105.
[24] Cfr. M. Carducci, La buona fede “climatica” dopo la COP28, in Eunomia. Rivista di studi su pace e diritti umani, 2, 2023, 127-144, e G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[25] Sempre G. Scarselli, op. cit.
[26] Cfr. M. Cunha Verciano, Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024, in www.giustiziainsieme.it, 22 gennaio 2025. Ma cfr. anche S. Vezzani, M.C. Carta (ed.), International and European Union Law in the Face of Cliamte Change, Torino, Giappichelli, 2024.
[27] Cfr. L. Acconciamessa, Nessuna “eccezione costituzionalmente giustificata” alla CEDU, in www.SIDIBlog, 8 marzo 2024.
[28] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[29] Cfr. G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit. e ivi note 123 e 124.
[30] Cfr. M. Buffoni, Giustizia per il clima, ai rigori della Cassazione passa la linea ambientalista. Ma la partita non è finita, in EconomiaCircolare.com, 7 agosto 2025; D. Castagno, La Corte di cassazione traccia la rotta: anche in Italia c’è un giudice per il clima, in https://climatedisplacements.wordpress.com/, 31 luglio 2025; P. De Stefani, Cambiamenti climatici: la CIG e la Cassazione italiana segnano una svolta nella giustizia climatica, in Annuario Italiano dei Diritti Umani, 28 luglio 2025; F. Garelli, La storica ordinanza della Corte Suprema italiana nel caso ENI: le implicazioni per la causa “Giudizio Universale” e per il contenzioso climatico in Italia, in Politica del Diritto, 3, 2025; A. Molfetta, «Eppur [qualcosa] si muove». Considerazioni a prima lettura intorno all’ordinanza sul regolamento di giurisdizione nella vertenza climatica Greenpeace e al. v. Eni e al., in Corti Supreme e Salute, 3, 2025, 1-12; R.R. Severino, Una storica vittoria per il clima?, in www.LaCostituzione.info, 4 agosto 2025,
[31] Ancora G. Zarra, I principi di diritto internazionale, cit.
[32] Cfr. M. Torsello, Commento Articoli 1173–1174 c.c., in M. Franzoni, R. Rolli e G. De Marzo (cur.), Codice civile commentato con dottrina e giurisprudenza, tomo I, Torino, Giappichelli, 2018, 1569.
[33] In proposito, C. Castronovo, F. Realmonte, Le ragioni del diritto: teoria giuridica ed esperienze applicative nel diritto dalla prospettiva delle obbligazioni, in Jus, 1-2, 1996, 87 ss., giustamente concludono che, nel sistema italiano, tutte le obbligazioni nascono da una fonte legale (domestica e non), purché collegata a un fatto – contratto, fatto illecito o ogni altro atto o fatto in tal senso qualificato dalla fonte legale – al quale riconnettere l’effetto giuridico obbligatorio.
[34] Cfr. M. Carducci, V. Mazzuoli, Teoria tridimensional das Integrações supranacionais. Uma análise comparativa dos sistemas e modelos de integração da Europa e América Latina, Rio de Janeiro, Forense, 2014.
[35] In ragione di questa complessa articolazione dell’ordinamento italiano, A. Ruggeri si interroga da tempo sull’opportunità di discutere di “sistema di norme”, piuttosto che di “sistema di fonti”, nell’osservazione della dinamica giuridica dei diritti (cfr., per es., A. Ruggeri, Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in www.diritticomparati.it, 22 novembre 2012).
[36] Sul ricorso all’art. 2058 Cod. civ., si v. L. Serafinelli, Cass. Civ., Sez. Un., cit., e G. Scarselli, Per una corretta lettura, cit.
[37] Cfr. Corte cost. sent. n. 205/2022 nonché sentt. nn. 307/1990, 64/1992, 132/1992, 258/1994, 118/1996, 27/1998, 226/2000, 443/2000, 342/2006, 107/2012, 268/2017, 118/2000, 35/2023 e 129/2023
[38] È questa la conclusione di Scarselli, con riferimento all’eventuale condanna dell’impresa fossile, convenuta nel processo a quo dell’ordinanza in commento, rispetto all’intero sistema industriale.
[39] Cfr., in merio, M. Carducci, Cambiamento climatico, cit.
[40] Cfr. M. Carducci, Prima la natura. La svolta epistemologica nell’Opinione Consultiva n. 32/25 della Corte Interamericana dei Diritti Umani, in www.diritticomparati.it, 9 settembre 2025.
[41] Cfr. S. Humpherys, 1,5 at ICJ, in www.ejiltalk.org, 25 agosto 2025.
[42] Cfr. Corte cass. SS.UU. n. 21993/2020, n. 23436/2022, 27175/2022, secondo cui alla P.A. è riconosciuta una discrezionalità attiva di eliminazione del danno o del pericolo di danno, attinente cioè alla scelta delle misure più idonee, non anche la discrezionalità nel non agire, perché quest’ultima è incompatibile con la natura inviolabile del diritto fondamentale alla salute, soprattutto quando sia a rischio il nucleo essenziale del diritto medesimo.
[43] R.R. Severino, Una storica vittoria per il clima?, cit.
[44] Sulla metafora crisafulliana, cfr. D. Tega, La traiettoria delle rime obbligate, in Sistema Penale, 2, 2021, 5-31.
[45] Cfr. M. Cunha Verciano, Il doppio limite, cit.
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C’è un modo per liberare gli uomini dalla “fatalità della guerra”?
Queste le parole con cui A. Einstein interpellava S. Freud in una lettera famosa del 1932. Il carteggio fra i due si svolse all’interno di una iniziativa della Società delle Nazioni.
Nella lettera Freud non tanto e non solo ribadisce la sua contrarietà alla guerra, ma ne indaga le radici nella psiche umana per trovare risposte e, se possibile, rimedi. “La guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attivare l’antico ideale eroico, la guerra di domani a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti.” Da tempo immemorabile, secondo lo scienziato della psiche, è cominciato il processo di incivilimento che può essere paragonato ad una sorta di “addomesticamento”.
I cambiamenti psichici che intervengono con l’incivilimento producono modificazioni vistose e per nulla equivoche che consistono sostanzialmente nello spostamento progressivo delle mete e dei moti pulsionali.
Di tutti i caratteri psicologici della civiltà a Freud due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto capace di dominare la vita pulsionale e l’interiorizzazione dell’aggressività con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono.
Ora, giacché la guerra è in conflitto con tutto l’atteggiamento psichico imposto dal progresso civile, noi dobbiamo ribellarci contro di essa. E non è il nostro un rifiuto semplicemente intellettuale o affettivo, per un pacifista si tratta di una intolleranza costituzionale.
Freud si chiede: quanto tempo bisogna aspettare perché tutti diventino pacifisti? Non c’è una risposta ma solo “la speranza che l’influsso di due fattori, un atteggiamento più civile e il giustificato timore per gli effetti di una guerra futura, ponga fine alla guerra in un prossimo futuro”.
L’ "attesa” di Freud ci sembra oggi ancor più legata ad un mondo utopistico di pace mentre sotto i nostri occhi si moltiplicano risorse e giustificazioni per sostenere le guerre mai concluse dopo il Secondo conflitto mondiale e quelle che attualmente ci toccano da vicino. L’azione violenta degli stati viene percepita come una sorta di “necessità” secondo l’assunto hegeliano per cui la guerra è una specie di “giudizio di Dio” del quale la provvidenza storica si avvale per far trionfare l’incarnazione migliore dello Spirito del mondo.
Il filosofo tedesco certamente ha influenzato in modo nettissimo tutte le teorie successive sulla “bontà della guerra rigeneratrice”, sulla “guerra igiene dei popoli” e via discorrendo…tali convinzioni poggiano tutte sulla concezione del piano provvidenziale della Storia del mondo, per cui un popolo succede all’altro nell’incarnare, realizzare o manifestare lo Spirito del mondo, dominando in nome e per via di questa superiorità tutti gli altri popoli. Una guerra vittoriosa è la prova che lo Spirito di “quel popolo” ha prevalso ed è perciò giustamente dominante! Dunque l’azione violenta dello Stato è normale che richieda il sacrificio delle persone? Esse devono essere disposte a morire per lo Stato.
Niente come la guerra determina la perdita della libertà individuale e perciò la libertà di dissentire. Lo stato che decide la guerra ha un potere assoluto sul singolo individuo costretto all’obbedienza. Ormai le spese in armamenti e quelle per le operazioni belliche, sopravanzano ogni piano di intervento economico e sociale in qualsiasi area del mondo.
La guerra è diventata man mano, quasi in modo impercettibile, l’unica vera sanzione degli illeciti internazionali. Appaiono di una attualità sconcertante le parole del generale von Clausewitz (1780-1830): la guerra è un vero camaleonte, è inafferrabile nella sua dinamica. Domina gli uomini, li travolge senza farsi addomesticare. Diceva G. Zagrebelsky in una trasmissione televisiva pochi giorni addietro: “siamo entrati a pieno titolo nell’età dell’odio”. E l’odio, secondo me, nella sua manifestazione estrema condanna la ragione al silenzio, ripristina le pulsioni primordiali non addomesticate dall’incivilimento. Così finiamo per assistere ad ogni efferatezza mentre siamo a tavola nelle nostre case, ci battiamo il petto, ci sdegniamo, come nella canzone di F. De Andrè… sempre con gran dignità!
I governi europei, tranne in parte quello spagnolo per la chiarezza delle posizioni, non hanno avuto alcun peso nel modificare il disegno politico genocida a Gaza e sono state disattese tutte le norme del diritto internazionale. Sia la guerra in Ucraina, sia quella di Gaza sono state frutto di violenta aggressione di uno stato sull’altro.
Durante la guerra del Peloponneso Atene attaccò la piccola isola di Melo. Furono massacrati tutti gli uomini adulti, deportata e ridotta in schiavitù l’intera popolazione. Tucidide così spiega i motivi dell’assassinio. Gli ateniesi così si esprimono con i rappresentanti dell’isola di Melo: “Noi crediamo che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi prima, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza”.
Dobbiamo veramente arrenderci a questi principi che sono stati la linfa vitale di ogni dittatura?
Abbiamo la Costituzione e le leggi, usiamole perché lo Stato di diritto trovi in esse la base e la forza della sua stessa esistenza o meglio sopravvivenza, specie in quei territori dove la Costituzione e le leggi sono calpestate e gli innocenti continuano ogni giorno a morire.
Immagine: La Battaglia di Isso, in una celebre rappresentazione romana, che mostra Alessandro (a sinistra) nell'atto di sconfiggere Dario III; è un mosaico rinvenuto nella pavimentazione della casa del Fauno di Pompei, 100B a.C., Museo Archeologico di Napoli. Via Wikimedia Commons.
Inadempimento dell’amministrazione e perdita di chance del privato nelle convenzioni urbanistiche (commento a Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2025, n. 1962)
di Gabriele Torelli
Sommario: 1. Il fatto. – 2. Le convenzioni urbanistiche tra dimensione civile e amministrativa e un tratto in comune: la centralità dell’accertamento dell’inadempimento. – 3. Canone di buona fede, proposte di modifica alla convenzione urbanistica e facoltà di recesso unilaterale. – 4. La perdita di chance nelle convenzioni urbanistiche. – 5. Qualche appunto conclusivo.
1. Il fatto
In data 1° dicembre 2004, Roma Capitale sottoscriveva con la Regione Lazio l’accordo relativo al Programma di Recupero Urbano (d’ora innanzi PRU) “Acilia-Dragona”, in seguito debitamente ratificato con deliberazione del Consiglio comunale, che prevedeva la realizzazione sia di interventi privati sia di opere pubbliche. Per dare attuazione al PRU, veniva sottoscritta apposita convenzione tra Roma capitale ed un consorzio di imprese, al cui interno figurava Monti di San Paolo Quinta S.p.a.: mentre il Comune si impegnava a realizzare alcune opere pubbliche, ed in particolare opere di collegamento viario e sottopassi, la società si obbligava a garantire la costruzione di diverse opere di urbanizzazione (parcheggi pubblici, illuminazione, reti fognarie ed idriche, etc.).
Tuttavia, Roma Capitale non realizzava parte delle opere di sua spettanza e, pertanto, Monti di San Paolo Quinta S.p.a. proponeva ricorso dinanzi al TAR Lazio chiedendo l’accertamento dell’inadempimento parziale del Comune nonché la risoluzione in parte qua della convenzione urbanistica, oltre al risarcimento di tutti i danni subiti e subendi in conseguenza di tale inadempimento, a titolo di danno emergente per le spese sostenute e di lucro cessante per mancato utile di impresa sottoforma di perdita di chance[i]. Ciò in quanto l’inerzia di Roma Capitale nella realizzazione delle opere pubbliche avrebbe irrimediabilmente compromesso la possibilità per l’impresa di completare i programmi realizzativi delle capacità edificatorie e, di conseguenza, di massimizzare i profitti, impedendo la vendita dei beni oggetto di trasformazione urbanistica a favore di acquirenti concretamente interessati.
Il TAR Lazio, con sentenza 2 maggio 2019, n. 5552, ha accolto il ricorso dichiarando risolta la convenzione urbanistica e condannando Roma Capitale, oltre al risarcimento del danno per le spese sostenute dalla società ricorrente, a rifondere a quest’ultima sette milioni di euro per lucro cessante con riguardo alla componente commerciale, oltre ad una cifra sensibilmente inferiore[ii] per i terreni a destinazione residenziale.
Il Comune ha appellato la sentenza di primo grado chiedendone la riforma in quanto errata in diritto, non ritenendosi inadempiente nell’attuazione della convenzione, ed in subordine la rimodulazione del risarcimento del danno ritenuto eccessivo e non giustificato nei termini sopra descritti.
Investito della questione, il Consiglio di Stato, dopo avere disposto una consulenza tecnica d’ufficio per accertare il contenuto delle reciproche obbligazioni assunte e l’effettivo stato dei lavori, ritiene fondato l’appello, negli stretti limiti di seguito precisati.
Da un lato, il Collegio conferma le ragioni di Monti di San paolo Quinta S.p.a. perché rileva l’inadempimento della convenzione urbanistica da parte di Roma Capitale, peraltro qualificandolo come «grave», essendone derivata l’impossibilità per l’appellato di dare seguito agli impegni assunti con terzi e il conseguente diritto ad ottenere la risoluzione della convenzione oltre al risarcimento dei danni. Dall’altro lato, però, i giudici d’appello, chiamati a valutare l’effettività della lesione economica, hanno ritenuto per alcuni profili insussistente il danno da perdita di chance e, per altri, eccessiva la sua quantificazione.
Più precisamente, il Consiglio di Stato, con riferimento ad un terreno dove realizzare un centro commerciale e per cui la società aveva già individuato un acquirente, osserva che la stessa non abbia mai fornito prova né del danno da perdita di chance causato dal Comune (consistente appunto nella mancata vendita a terzi del centro commerciale a causa dell’incompletezza dei lavori pubblici), né della relativa quantificazione, non avendo dimostrato un’adeguata consistenza probabilistica circa il conseguimento dell’utilità finale[iii]. Cioè, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, la perdita di chance non sussista in quanto al termine ultimo concordato tra la società e i soggetti terzi acquirenti per l’apertura del centro commerciale – 31 dicembre 2008 – Roma Capitale non risultava ancora inadempiente, perché la scadenza per la realizzazione delle opere di completamento viario di propria competenza era stata individuata nel 12 agosto 2010.
Nondimeno, seppure l’esistenza di quel contratto di vendita non abbia determinato di per sé il danno da perdita di chance, i giudici d’appello ritengono tale contratto una prova della probabilità di analoghe occasioni di alienazione di un fondo di fatto appetibile sul mercato; occasioni mai concretizzatesi in futuro a causa dell’inadempimento del Comune, che di fatto risulta responsabile di un mancato guadagno.
Per la quantificazione del danno patrimoniale da perdita di chance, il Consiglio di Stato applica per pacifica giurisprudenza il principio della liquidazione per via equitativa ex art. 1226 c.c., stimato nella percentuale del dieci per cento del prezzo inizialmente concordato tra l’impresa appellata e il terzo acquirente (poco meno di trenta milioni di euro), cifra da ridurre ulteriormente a poco meno di un milione di euro in ragione della stima del grado di probabilità della vendita dell’immobile ed a fronte del fatto che, per l’area in cui sarebbe dovuto sorgere il centro commerciale, fosse pervenuta una sola proposta di acquisto.
Infine, con riferimento alla richiesta della società appellata di ottenere un risarcimento del danno per lucro cessante per la mancata vendita degli immobili a destinazione residenziale (sempre parametrato in via equitativa al dieci per cento del mancato utile), il Consiglio di Stato capovolge la pronuncia di prime cure, non riconoscendo tale somma in difetto della prova che la perdita di chance sia stata determinata dalla mancata realizzazione delle opere di collegamento viario.
In definitiva, l’appello principale viene accolto in parte: stante la conferma del «grave» inadempimento della convenzione urbanistica, per i terreni a destinazione commerciale il Consiglio di Stato nega il danno patrimoniale dovuto alla perdita di chance per quella mancata vendita del terreno su cui sarebbe dovuto sorgere il centro commerciale, ma riconosce la medesima perdita per analoghe possibilità di vendita future, sebbene con un ricalcolo al ribasso; diversamente, per i terreni a destinazione residenziale viene rilevato il difetto di prova del nesso causale ex art. 1223 c.c., essendo indimostrato che la mancata alienazione dei lotti sia stata causata dall’inadempimento del Comune.
2. Le convenzioni urbanistiche tra dimensione civile e amministrativa e un tratto in comune: la centralità dell’accertamento dell’inadempimento
La sentenza, particolarmente complessa come risulta dalla descrizione del fatto, affronta un tema “tradizionale” del diritto amministrativo e, in specie di quello urbanistico, relativo agli strumenti negoziali dell’attività pubblica che, nel caso di specie, assumono la forma delle convenzioni urbanistiche[iv], il cui modello normativo è notoriamente quello dell’art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241, potendo atteggiarsi a seconda dei casi come accordo sostitutivo o integrativo del provvedimento[v]. Strumento dunque ibrido, a metà strada tra la dimensione civilistica e quella pubblicistica, con tutto quanto ne deriva in termini di principi (civilistici) applicabili, obbligazioni e richieste di risarcimento danni a fronte di eventuali inadempimenti della controparte[vi].
Il fugace richiamo a questi aspetti, seppur di impronta più didascalica che scientifica, appare comunque necessario per procedere all’analisi di maggiore dettaglio degli altri punti della pronuncia meritevoli di attenzione.
Tra essi, c’è sicuramente il ricorso del Collegio alla consulenza tecnica d’ufficio (CTU), verso la quale il giudice amministrativo ha tradizionalmente mostrato alcune riserve per la preoccupazione di adottare una decisione che sconfini nel merito, ma che in un settore per l’appunto “ibrido” tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e perciò rientrante nella giurisdizione esclusiva, sembra essere stato utilizzato senza particolari timori[vii]. Nondimeno, a prescindere dal tipo di giurisdizione, con il fine di non “indebolire” eccessivamente il già rivisitato (rispetto al processo civile) metodo dispositivo in favore del metodo acquisitivo[viii], va comunque ricordato che per il giudice amministrativo la CTU costituisce non già un mezzo di prova, ma al più di ricerca della prova, avente la funzione di fornire al giudice i necessari elementi di valutazione quando la complessità dei fatti di causa sul piano tecnico-specialistico impedisca una compiuta comprensione, senza però avere la funzione di esonerare la parte dagli oneri probatori[ix].
Al di là di queste speculazioni, un aspetto è però evidente: la CTU si è rivelata utile per fornire al Consiglio di Stato una serie di elementi necessari per accertare l’inadempimento del Comune appellante e, allo stesso tempo, additarlo come “grave”.
L’inadempimento e la sua gravità sono dunque i due aspetti che inducono il Collegio, e in primo grado il TAR, ad individuare la responsabilità del Comune per non avere rispettato gli impegni assunti – per l’appunto la realizzazione delle opere pubbliche – senza avere dimostrato che la mancanza fosse dovuta a cause a sé non imputabili, o comunque inevitabili con l’ordinaria diligenza: ovvero, dimostrazioni imprescindibili per evitare profili di responsabilità, come continua a ribadire la Corte di cassazione[x].
3. Canone di buona fede, proposte di modifica alla convenzione urbanistica e facoltà di recesso unilaterale
L’influsso dei principi civilistici sulla convenzione urbanistica è nitido non solo con riguardo agli aspetti appena esaminati, che hanno portato il Consiglio di Stato a confermare la sentenza di prime cure, ma anche al capo relativo alla contestazione sul risarcimento del danno e, soprattutto, alla sua quantificazione. Il giudice d’appello si è trovato a doversi esprimere sulla (presunta) mancata collaborazione della società appellata, che avrebbe risposto alla domanda del Comune di rimodulare gli impegni convenzionali con una richiesta di risoluzione della convenzione in quanto, a quelle condizioni, «non più conveniente». Come a dire che il risarcimento non sarebbe stato dovuto a causa del difetto di un comportamento incline alla buona fede da parte di Monti di San Paolo Quinta S.p.a.
Non che il canone di buona fede non sia basilare nello sviluppo dell’azione amministrativa e, a maggior ragione, negli strumenti di natura consensuale in forza dell’influenza posta dai principi civilistici[xi]; pensiero del resto rafforzato anche da quegli studi che propendono per una sostanziale omogeneità di fondo tra i poteri pubblici e privati e i relativi tratti ontologici, anche in considerazione dell’obbligo reciproco di rispettare gli interessi dell’una e dell’altra parte[xii].
Senza però ampliare eccessivamente lo sguardo a tematiche di teoria generale – limitandosi a segnalare l’esistenza di tesi contrarie secondo cui nel potere amministrativo sono insiti dei profili non presenti nei c.d. “poteri privati”[xiii], cosa che comunque non può implicare un rinnegamento del canone di buona fede dell’azione amministrativa – e rimanendo nel perimetro delle convenzioni urbanistiche, si ravvisa che in tale ambito la giurisprudenza è tendenzialmente chiamata a pronunciarsi più sul comportamento dell’amministrazione che su quello del privato (al quale viene sostanzialmente richiesto di rispettare gli obblighi assunti)[xiv]. Ciò in quanto il legittimo affidamento che quest’ultimo ripone nell’accordo, sin dalla fase delle trattative[xv], è potenzialmente minato non solo da circostanze sopravvenute rilevanti che alterano l’equilibrio sinallagmatico[xvi] ma anche dalla rivisitazione dell’interesse pubblico che l’amministrazione può attuare in base alle proprie valutazioni discrezionali; valutazioni che si possono concretizzare tanto in una variante allo strumento urbanistico che incide sulla convenzione quanto in una richiesta di modifica della stessa. Ma mentre la prima circostanza, che può precludere al privato l’esecuzione di attività economicamente rilevanti su cui c’è già l’accordo, è oggetto di risarcimento quantomeno per le spese sostenute[xvii], la seconda può legittimamente non essere accettata, per cui il rifiuto del privato non è di per sé motivo di inadempimento e, dunque, motivo di esclusione del risarcimento da parte dell’ente pubblico in caso di controversia.
Ed è proprio questa una delle affermazioni più nette del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento: la richiesta del Comune appellante di negare, o comunque diminuire, il risarcimento del danno non può essere accolta in forza della mancata cooperazione del privato, che si atteggia come tale non essendo giuridicamente obbligato ad accondiscendere alle proposte di revisione dell’accordo avanzate da parte dell’amministrazione per i propri interessi[xviii]. Tanto è vero che, come già ricordato nel paragrafo 1, il diniego del risarcimento per alcuni aspetti e la sua diminuzione per altri sono dovuti ad una mancata dimostrazione della perdita di chance, non alla mancata volontà della società di rivedere gli accordi originariamente assunti.
Conclude sul punto la sentenza in commento: «era piuttosto il Comune che avrebbe dovuto valutare i presupposti per un recesso dall’accordo, previo pagamento di un eventuale indennizzo, motivando in ordine alla sussistenza di sopravvenuti motivi di interesse pubblico come previsto dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990». Viene dunque mosso un rimprovero all’amministrazione, la quale anziché tentare di mantenere in vigore la convenzione apportando delle modifiche potenzialmente non condivisibili, avrebbe piuttosto dovuto ponderare l’ipotesi di recedere dall’accordo previo indennizzo, circostanza in cui vanta una maggiore autonomia di scelta.
4. La perdita di chance nelle convenzioni urbanistiche
A questo punto, vale la pena soffermarsi su un altro dei passaggi principali della pronuncia, quello relativo al risarcimento del lucro cessante da perdita di chance, intesa come perdita di un risultato finale (a causa dell’inadempimento) anziché di quello specifico risultato[xix].
Si è accennato nel primo paragrafo che, limitatamente ai terreni a destinazione residenziale, la sentenza in commento capovolge quella di primo grado in difetto della dimostrazione che il danno in questione sia stato causato dalla mancata realizzazione delle opere di collegamento viario da parte del Comune.
Ragionamento diverso, invece, è compiuto per il terreno a destinazione commerciale sul quale si sarebbe dovuta realizzare una grande struttura di vendita: in questa circostanza, il Collegio ritiene che la società abbia fornito prova sufficiente del nesso causale tra l’inadempimento di Roma Capitale ed il vulnus alle future aspettative economiche legate alla vendita del terreno stesso.
La perdita di chance, costruita sull’art. 1223 c.c., è tema complesso e scivoloso perché il risarcimento è subordinato ad una dimostrazione basata su un fattore ipotetico, o meglio ancora probabilistico, piuttosto che su un elemento reale[xx]; proprio a causa della sua complessità, sotto il profilo squisitamente dogmatico si sono contrapposte tesi diverse sull’istituto, alcune delle quali hanno promosso la teorica eziologica della chance, altre ancora quella ontologica[xxi].
Per questi motivi, c’è stato un interessamento sul tema dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la quale con la sentenza 23 aprile 2021, n. 7 ha dichiarato che «l’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente. A differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica». Di conseguenza, continua l’Adunanza plenaria, «La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. Non a caso in questo ambito è sorta la tematica della risarcibilità della chance, considerata ormai, sia dalla giurisprudenza civile sia dalla giurisprudenza amministrativa, una posizione giuridica autonomamente tutelabile – morfologicamente intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole (e in ciò distinta dall’elemento causale dell’illecito, da accertarsi preliminarmente e indipendentemente da essa) – purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata»[xxii].
Prova che, nel caso della sentenza in commento, è costituita dall’esistenza di un contratto pregresso tra la società ed un acquirente terzo per la vendita del fondo: sebbene gli effetti di quel contratto non si concretizzarono per ragioni non imputabili all’inadempimento dell’amministrazione[xxiii], la sola stipula dell’accordo è stata ritenuta un indizio «grave e preciso circa l’appetibilità commerciale del terreno», e dunque sufficiente per accertare la probabilità di analoghe occasioni di alienazione future, di fatto impedite dall’inadempimento del Comune che non realizzò mai le opere di collegamento viario.
Certo, si è già posta in dubbio l’effettiva efficacia del criterio probabilistico applicato al nesso di causalità poiché lascia qualche perplessità in termini di certezza del diritto[xxiv], ma l’Adunanza plenaria ritiene inevitabile una valutazione costruita attorno al criterio della verosimiglianza; valutazione che, del resto, sembra in parte influenzata dal meccanismo per stabilire il risarcimento del danno delineato dalla sentenza delle Sezioni unite 22 luglio 1999, n. 500[xxv] per la lesione degli interessi legittimi (pretensivi), basato su un giudizio di spettanza[xxvi]. Sebbene le due valutazioni siano diverse – l’una su danno verosimile ma la cui accertabilità in concreto non è oggettiva, l’altra su un danno più “evidente” e cioè oggettivamente accertabile, che sarebbe stato evitato se l’amministrazione avesse agito in modo conforme a diritto – entrambe si basano su un ragionamento prognostico[xxvii].
Al di là di queste speculazioni, però, un elemento appare chiaro dalla sentenza dell’Adunanza plenaria: la perdita di chance ha ormai trovato autonomo riconoscimento (anche) nel giudizio amministrativo, dovendosi valutare caso per caso il venir meno di un risultato più favorevole rispetto ad aspettative legittime.
Peraltro, limitatamente alle convenzioni urbanistiche, proprio in virtù del fatto che esse rappresentano uno strumento ibrido in larga parte influenzato dai principi civilistici, e sebbene anche in questo ambito fisiologicamente permangano delle incertezze nella valutazione che il giudice è chiamato a svolgere[xxviii], si ha l’impressione che il giudizio di perdita di chance possa beneficiare di qualche elemento di certezza maggiore rispetto ai casi di “pura” giurisdizione di legittimità: cioè, nelle convenzioni urbanistiche l’accertamento della perdita di un risultato più favorevole potrebbe risultare meno difficoltoso in quanto spesso correlabile – come nel caso di specie – a dinamiche di mercato e di scambi commerciali, i cui costi seppure in termini probabilistici sono in linea teorica accertabili[xxix].
In ultimo, sulla quantificazione del danno da perdita di chance, la sentenza si limita a confermare «per pacifica giurisprudenza» il principio della liquidazione per via equitativa, individuando l’ammontare del risarcimento in 930.000 euro. Tale cifra è il risultato del 30% rispetto all’utile teorico (ossia il presso inizialmente concordato per la vendita del terreno, mai avvenuta) quantificabile in tre milioni di euro, a cui sono state ulteriormente decurtate altre somme per le seguenti circostanze: esistenza di una sola proposta di acquisto; esistenza di oggettive condizioni disincentivanti l’acquisto per le estreme difficoltà di attuazione del piano attuativo, ben visibili sin da principio; natura pubblicistica della convenzione che implica il rischio del recesso per il privato; il fatto che la società, chiedendo la risoluzione dell’accordo anziché l’adempimento, ha di fatto rinunciato alla possibilità di ricercare ulteriori chance di vendita.
5. Qualche appunto conclusivo
Muovendo verso qualche breve considerazione conclusiva, la sentenza in commento è apprezzabile non tanto perché rileva l’inadempimento del Comune di Roma – punto fondamentale in diritto, eppure meno significativo nell’ottica dell’esegesi – quanto piuttosto per il tentativo di offrire indicazioni puntuali in merito alla quantificazione del danno da perdita di chance.
In parole più semplici, il Collegio non si è limitato a richiamare il passaggio dell’Adunanza plenaria n. 7/2021 sopra citato, dove si indica nella probabilità del mancato utile a causa del fatto ingiusto il “nucleo” della perdita di chance. Diversamente, quando la pronuncia n. 1962/2025 individua i motivi che hanno determinato l’ammontare della liquidazione in via equitativa, descrive per punti le ragioni che hanno condotto alla cifra finale riconosciuta come risarcimento[xxx], andando a proseguire nel solco già tracciato da precedente giurisprudenza secondo cui, ai fini del risarcimento, non è sufficiente un astratto richiamo alla probabilità del vantaggio economico che si sarebbe ottenuto in mancanza del fatto ingiusto, essendo invero doveroso un analitico vaglio sulla concretezza e l’attualità della chance oramai irrimediabilmente preclusa[xxxi].
Vaglio più che mai opportuno perché, oltre a motivare il danno di cui si discute, serve a differenziarlo dal nocumento basato sul giudizio sulla spettanza, dove invece il mancato conseguimento del risultato vantaggioso è ancora accertabile e il relativo vantaggio ancora perseguibile; il che equivale a riconoscere come, al fine di evitare duplicazioni di tutele per il privato, la perdita di chance è riconosciuta in quanto assolutamente alternativa al risultato finale, oramai impossibile da ottenere[xxxii]. Situazione, questa, che evidentemente si verifica nell’ipotesi di un inadempimento di una convenzione urbanistica, a cui segue peraltro è seguita la risoluzione dichiarata dal giudice.
[i] Con la specificazione che il lucro cessante veniva richiesto in relazione alla mancata vendita di un terreno edificabile con destinazione commerciale oggetto di un preliminare di compravendita sospensivamente condizionato alla approvazione, non intervenuta nei termini della convenzione, da parte di Roma Capitale della progettazione delle opere viarie di collegamento previste a servizio del centro commerciale che si stava realizzando. Inoltre, il lucro cessante veniva richiesto anche con riferimento alla mancata vendita di altri terreni a destinazione residenziale.
[ii] Nella sentenza in commento, non è specificato l’ammontare della cifra per gli immobili ad uso residenziale in quanto non fondamentale ai fini della controversia.
[iii] Ciò in quanto il termine di avveramento della condizione sospensiva per la vendita del centro commerciale (31 dicembre 2008) da parte delle imprese appellate era anteriore rispetto alla scadenza ultima della realizzazione delle opere pubbliche per cui si era obbligato il Comune (12 agosto 2010).
[iv] L’argomento è stato approfondito a più riprese dalla dottrina. Senza pretese di completezza, tra i lavori più significativi, F. Manganaro, Nuove questioni sulla natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, in Urb. app., 2006, n. 3, 344 ss.; M. Dugato, Brevi note in tema di convenzioni edilizie ed accordi ex art. 11 l. 241/1990, in Le Regioni, 1993, n. 3, 970 ss.; G.F. Cartei, Convenzioni urbanistiche e limiti alla giurisdizione esclusiva, in Giorn. dir. amm., 2003, n. 7, 715 ss.; N. Aicardi, Convenzioni urbanistiche per opere energetiche e competenze comunali per l’edificazione: le situazioni soggettive tutelabili, in Riv. giur. urb., 1990, n. 3-4, 381 ss.; M. Magri, Gli accordi con i privati nella formazione dei piani urbanistici strutturali, in Riv. giur. urb., 2004, n. 4, 539 ss.; E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992; M. De Donno, Il principio di consensualità nel governo del territorio: le convenzioni urbanistiche, in Riv. giur. edil., 2010, n. 5, 279 ss.
[v] Di recente, sulla qualificazione delle convenzioni urbanistiche come accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 11, l. n. 241/1990, oltre alla sentenza in commento, si v. di recente, tra le tante, anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 25 ottobre 2024, n. 2898; Cons. Stato, sez. IV, 4 giugno 2024, n. 5001; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10 novembre 2023, n. 2608; TAR Molise, sez. I, 20 dicembre 2023, n. 344.
[vi] In ultimo, questi profili sono ben descritti da Corte cass., sez. VI, 12 ottobre 2024, n. 25584, la quale rammenta che il se creditore agisce per la risoluzione dell’accordo, per il risarcimento del danno ovvero per l’adempimento, debba limitarsi a fornire la fonte dell’obbligazione e ad allegare l’inadempimento, mentre il debitore è chiamato a dimostrare il fatto estintivo dell’altrui pretesa o sollevare l’eccezione di inadempimento del creditore.
[vii] In letteratura, per un’analisi su questi profili ed un continuo confronto tra CTU e verificazione, G. Clemente di San Luca, Verificazione e consulenza tecnica d’ufficio nel quadro dei mezzi di prova esperibili nel processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2018, n. 3, 761 ss. Con specifico riguardo alle titubanze del giudice amministrativo nell’utilizzo della CTU, A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 280 ss., dove appunto l’A. ricorda come, anche in base agli artt. 19 e 63 c.p.a., la CTU sia vista come uno strumento da utilizzare «eccezionalmente» e comunque «se indispensabile». Cfr. anche S. Mirate, La consulenza tecnica nel giudizio di legittimità: verso nuovi confini del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, in Giur. it., 2000, n. 12, pp. 2402 ss.; E. Giardino, La consulenza tecnica d’ufficio nel processo amministrativo, in Il Foro it., 2002, n. 9, pp. 414 ss.; G. D’Angelo, La consulenza tecnica nel processo amministrativo tra prassi consolidata e studi innovativi, in Il Foro amm. TAR, 2005, n. 2, pp. 579 ss. .
[viii] Sull’applicazione del metodo acquisitivo nel processo amministrativo, per tutti, G. Manfredi, Attualità e limiti del metodo acquisitivo nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2020, n. 3, 578 ss.
[ix] TAR Campania, Napoli, sez. V, 15 febbraio 2024, n. 1091; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 27 febbraio 2024, n. 703; Id., sez. I, 12 giugno 2023, n. 1831; TAR Marche, sez. I, 25 agosto 2021, n. 641.
[x] Ex multis, Cass. civ., sez. III, 23 ottobre 2018, n. 26700.
[xi] È noto che il principio di buona fede permei in generale tutta l’attività amministrativa, come peraltro stabilito anche dall’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990. Al riguardo, la lettura è molto copiosa, per cui si rimanda ad alcuni tra i più significativi contributi, senza pretese di completezza: A. Romano, Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, n. 1, 111 ss.; E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo, in Il dir. econ., 2001, n. 2, pp. 317 ss.; G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali: le analogie tra sindacato sul potere pubblico e sui poteri privati, in Pubblico e privato nell’organizzazione e nell’azione amministrativa. Problemi e prospettive, a cura di G.D. Falcon e B. Marchetti, Padova, Cedam, 2013, 307 ss., spec. 323 ss., dove l’A. addita la buona fede e la correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. come vere e proprie clausole generali e, pertanto, elementi che caratterizzano non solo l’attività amministrativa ma anche (e di conseguenza) il sindacato sul provvedimento, in particolare tramite la valutazione di eccesso di potere; più di recente, sul tema S. Torricelli, Buona fede e confini dell’imparzialità nel rapporto procedimentale, in P.A. Persona e Amministrazione, 2022, n. 2, 29 ss.; G. Tropea, Buona fede e processo amministrativo, in P.A. Persona e Amministrazione, 2022, n. 2, pp. 151 ss.; M.C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, ibidem, pp. 131 ss.; A. Carbone, Considerazioni generali su buona fede e responsabilità nel diritto amministrativo, in P.A. Persona e amministrazione, 2023, n. 2, pp. 603 ss.; A. Mandara, La buona fede come parametro di validità del provvedimento amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2024, n. 4, pp. 527 ss. In giurisprudenza, tra le pronunce che richiamano espressamente il canone di buona fede come criterio di orientamento dell’attività amministrativa, di qualsiasi natura (consensuale, coattiva, discrezionale, etc.), tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 7 febbraio 2025, n. 1003; TAR Trento, sez. I, 14 ottobre 2024, n. 149; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2023, n. 10911; TAR Lazio, Latina, sez. II, 25 settembre 2023, n. 684; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 10 novembre 2023, n. 2608.
[xii] G. G. Sigismondi, di, Eccesso di potere e clausole generali, cit., passim; su una posizione più mediata è B.G. Mattarella, Poteri amministrativi e poteri privati: convergenze e divergenze, in Pubblico e privato nell’organizzazione e nell’azione amministrativa. Problemi e prospettive, cit., 363 ss., il quale ricorda appunto che a fronte di una tendenziale convergenza tra poteri pubblici e privati, vi sono molti dei primi strutturalmente diversi dai secondi.
[xiii] V. Cerulli Irelli, Il potere amministrativo e l’assetto delle funzioni di governo, in Dir. pubbl., 2011, n. 1, 33 ss., che vede nella funzionalizzazione ad un interesse pubblico collettivo il decisivo elemento di discrimine tra poteri pubblici e privati. Il tema è stato altresì affrontato da A. Sandulli, Il Diritto quale infrastruttura per i poteri privati? A proposito di un libro di Katharina Pistor, in Dir. pubbl., 2021, n. 3, pp. 999 ss.; G. Sigismondi, La tutela nei confronti del potere pubblico e dei poteri privati: prospettive comuni e aspetti problematici, in Dir. pubbl., 2003, n. 2, pp. 475 ss.; E. Bruni Liberati, Poteri privati e nuova regolazione pubblica, in Dir. pubbl., 2023, n. 1, pp. 285 ss.; C. Pinelli, Il Costituzionalismo di fronte ai nuovi poteri privati, in Economia pubblica, 2023, n. 1, pp. 115 ss.; L. Torchia, Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale, in Il Mulino, 2024, n. 1, pp. 14 ss.
[xiv] L’affermazione è chiaramente generica e non corroborata da percentuali nella presentazione dei ricorsi da parte di privati o delle amministrazioni pubbliche. Ciò nonostante, pare evidente come, nel processo amministrativo, la ripartizione dei ruoli attribuisca generalmente al privato la parte di ricorrente ed alla amministrazione quella di resistente. Tuttavia, oggi è pacificamente condiviso che le stesse amministrazioni possano legittimamente presentare ricorso: per tutti, M. Delsignore, L’amministrazione ricorrente, Torino, Giappichelli, 2020.
[xv] Infatti, TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 7 gennaio 2022, n. 16, afferma che: «Anche nelle trattative per la formazione di accordi ex art. 11, l. n. 241/1990, in cui rientrano pacificamente le convenzioni urbanistiche, è configurabile una responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione allorché essa, con il proprio complessivo comportamento colpevole, leda l’affidamento in buona fede del privato in merito alla legittimità ed operatività dei provvedimenti preordinati alla conclusione dell’accordo medesimo, indipendentemente dal profilo della legittimità o meno dell'esercizio del potere autoritativo di autotutela».
[xvi] Tanto è vero che il giudice amministrativo presta attenzione a questa eventualità. Si v., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2024, n. 9014, secondo cui in materia di convenzioni urbanistiche, in presenza di circostanze sopravvenute rilevanti, il privato può chiedere al Comune di rinegoziare i contenuti della convezione, in applicazione del principio di buona fede e correttezza ex art. 1375 c.c., in forza del rinvio contenuto dell’art. 11, l. n. 241/1990 ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti; inoltre, avendo il privato una posizione qualificata e differenziata in quanto parte dell’accordo, in presenza di un’istanza di riesame dei contenuti della convenzione, motivata in ragione di circostanze sopravvenute, è ben possibile configurare un obbligo di provvedere, ai sensi dell’art. 2, l. n. 241/1990, in capo alla controparte pubblica, che non necessariamente sarà tenuta ad assicurare il bene della vita cui aspira la parte privata, ma che dovrà, in ogni caso, istruire l’istanza e motivare le proprie determinazioni nel rispetto del canone generale di ragionevolezza e di proporzionalità.
[xvii] È quanto posto in evidenza, in ultimo, da Cons. Stato, sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514, il quale riconosce il diritto al risarcimento danni commisurato all’interesse negativo (spese sostenute) a favore del privato nel momento in cui l’amministrazione decida legittimamente di adottare una variante urbanistica che rivede i termini della convenzione urbanistica.
[xviii] L’affermazione secondo cui una parte può legittimamente non accogliere le proposte di modifica alla convenzione avanzata dall’altro soggetto non è così banale come potrebbe prima facie apparire se la si considera dal punto di vista della già sopra citata pronuncia Cons. Stato n. 9014/2024: se la richiesta della modifica è proposta dal privato, l’amministrazione dovrebbe quantomeno valutarla secondo buona fede, pur non essendo chiaramente obbligata ad accoglierla.
[xix] Sul concetto di perdita di chance, di matrice chiaramente civilistica, nell’ambito del diritto amministrativo, tra gli studi più recenti si segnalano i contributi di A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, in Dir. proc. amm., 2022, n. 4, 936 ss.; L. Viola, Il danno da perdita di “chances” a vent’anni da Cass. n. 500/1999, in Urb. app., 2020, n. 2, pp. 182 ss.; F. Cortese, Evidenza pubblica, potere amministrativo e risarcimento del danno da perdita di chance, in Giorn. dir. amm., 2007, n. 2, pp. 183 ss.; A. Travi, In tema di risarcimento del danno da perdita di “chance” per annullamento di una gara, in Il Foro it., 2015, n. 9, pp. 441 ss.; M.C. Cavallaro, Risarcimento del danno da perdita di chance, in Studium iuris, 2001, n. 5, pp. 573 ss.; G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva: osservazioni sulla perdita di chance nel diritto amministrativo, in Il dir. econ., 2023, n. 2, 11 ss. Per ulteriore bibliografia, molto estesa sul punto, per motivi di sintesi si rinvia ai contributi dottrinali appena citati.
[xx] La norma richiama appunto il risarcimento del danno costituito dal danno emergente e dal lucro cessante.
[xxi] Lo ricorda bene G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva, cit., 13-14, quando osserva che la teoria eziologica della perdita di chance si basa su una perdita che non ha autonoma consistenza ma è presupposto causale per il raggiungimento del risultato sperato; diversamente, «la tesi ontologica qualifica la chance come bene autonomo rispetto al risultato perso, indicandola come possibilità attuale di raggiungere il risultato futuro, già presente nel patrimonio del danneggiato». Per maggiori approfondimenti bibliografici e giurisprudenziali al riguardo, si v. la nota 6 del lavoro.
[xxii] Cons. Stato, Ad. plen., n. 7/2021, punto n. 21 delle considerazioni in diritto.
Nella dottrina, sulla questione della probabilità si era già esposto L. Viola, Il danno da perdita di chance, in Il Foro amm., 2020, n. 3, 587 ss.
[xxiii] Si ricordi, infatti, come già scritto in fine del paragrafo 1, che la perdita di chance non fu riconosciuta per la mancata vendita del terreno su cui sarebbe dovuto sorgere il centro commerciale, perché la società si era obbligata alla realizzazione delle opere di urbanizzazione ed alla consegna del fondo in favore dell’acquirente in un momento anteriore rispetto al termine ultimo per Roma Capitale di eseguire la propria parte di lavori (in effetti mai realizzati).
[xxiv] Per una critica al criterio probabilistico, si v. le riflessioni di G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva, cit., 14-15, dove l’A. evidenzia le criticità legate alla definizione della perdita di chance, troppo spesso costruita su una base di criteri eccessivamente empirici che non offrono garanzie in merito alla certezza del diritto.
[xxv] Il parallelo è proposto anche da A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, cit., 938.
[xxvi] Per un commento alla pronuncia, a fronte di copiosa letteratura, si rinvia ad alcuni degli studi più significativi. F.G. Scoca, Per un’amministrazione responsabile, in Giur. cost., 1999, n. 6, 4045 ss. e G. Cugurra, Risarcimento dell’interesse legittimo e riparto di giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2000, n. 1, 1 ss.; L. Torchia, La risarcibilità degli interessi legittimi: dalla foresta pietrificata al bosco di Birnam, in Giorn. dir. amm., 1999, n. 9, pp. 843 ss.; A. Travi, La giurisprudenza della Cassazione sul risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi dopo la sentenza delle sezioni unite 22 luglio 1999 , n. 500/SU, in Il Foro it., 2004, n. 3, pp. 794 ss.; F. Satta, La sentenza n. 500 del 1999: dagli interessi legittimi ai diritti fondamentali, in Giur. cost., 1999, n. 5, pp. 3233 ss.; G. Greco, Interesse legittimo e risarcimento dei danni: crollo di un pregiudizio sotto la pressione della normativa europea e dei contributi della dottrina, in Dir. pubbl. com., 1999, n. 5, pp. 1126 ss.; F. Fracchia, Dalla negoziazione della risarcibilità degli interessi legittimi alla risarcibilità di quelli giuridicamente rilevanti: la svolta della Suprema Corte lascia aperti alcuni interrogativi, in Il Foro it., 1999, n. 11, pp. 3212 ss. Pochi mesi prima della pronuncia, sul tema è fondamentale il rinvio allo studio di A. Romano, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili, sono diritti soggettivi, in Dir. amm., 1999, n. 1, 1 ss.
[xxvii] In poche parole, è questo il senso delle riflessioni di G. Serra, Tra danno e situazione giuridica soggettiva, cit., 16-22, il quale individua la differenza tra risarcimento del danno per equivalente e risarcimento del danno da perdita di chance nel fatto che, nel primo caso, il bene della vita può essere oggettivamente accertato, mentre nel secondo caso tale accertamento sia impossibile: a quel punto, ha senso parlare di risarcimento da perdita di chance. Soprattutto, continua l’A., nel caso da perdita di chance per l’amministrazione non è possibile ripetere le sue valutazioni, il che rende appunto impossibile acclarare la spettanza al bene della vita. In termini sostanzialmente analoghi sull’impossibilità di accertare in modo oggettivo il risultato vantaggioso, anche Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2021, n. 6268.
[xxviii] Sull’impossibilità di avere delle certezze, si v. le riflessioni di A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, cit., passim.
[xxix] Si pensi, a titolo di semplice esempio, ad accurate indagini di mercato per individuare i costi al metro quadro di un certo terreno con una determinata destinazione.
[xxx] Si fa riferimento ai motivi elencati in fine del paragrafo n. 4.
[xxxi] Il richiamo è alla già citata Cons. Stato, n. 6268/2021. Per la descrizione analitica dei punti da esaminare per rendere concreta l’analisi della perdita di chance, si rinvia ancora una volta ad A. Magliari, Il risarcimento del danno da perdita di “chance” tra insuperabile certezza cognitiva e definitiva preclusione del risultato finale, cit., 949-951, sostanzialmente relativi all’insuperabile deficienza cognitiva del processo eziologico, all’estremo rigore con cui accertare il danno alla condotta altrui, al livello elevato delle probabilità perdute, alla mancanza di un effetto conformativo della sentenza che garantirebbe al privato una seconda possibilità.
[xxxii] A. Magliari, op. cit., 943-944, 951.
Mi sono a lungo interrogato sulla riforma della giustizia promossa dal governo, tanto che a luglio ho indetto io stesso un referendum tra i lettori, per vedere quanti condividevano il mio dilemma (il risultato, piuttosto sorprendente, è stato: non pochi). Da un lato avvertivo infatti l’esigenza di ridimensionare il ruolo strabordante acquisito dalla pubblica accusa negli ultimi trent’anni; dall’altro pensavo fosse necessario contrastare una tendenza non meno pericolosa presente nel governo, e cioè quel misto di giustizialismo per i nemici (modello Bibbiano), impunità per gli amici (modello Santanchè) e stato di polizia per i migranti (modello Salvini) che rappresenta la via italiana alla democrazia illiberale (modello Orbán) ed è una minaccia che non riguarda solo la giustizia, come dimostra il modo a dir poco spregiudicato in cui l’esecutivo è intervenuto sulle banche, a cominciare dalla scalata Mps-Mediobanca, o nell’occupazione della Rai e di ogni altro spazio occupabile. Devo però aggiungere che negli ultimi giorni, almeno per quanto mi riguarda, il dilemma è stato sciolto, direi definitivamente, dalle prese di posizione di Fratelli d’Italia e della Lega sul caso di Ilaria Salis. Il parlamento europeo si pronuncerà infatti sulla richiesta di revoca della sua immunità, avanzata dall’Ungheria, domani in commissione e il 7 ottobre in plenaria, e la destra italiana sembra determinata a votare a favore, cioè per riconsegnare l’eurodeputata di Avs alle carceri di Viktor Orbán, come hanno confermato Giovanni Donzelli dal palco della festa di Gioventù nazionale, tra gli applausi dei militanti, e Roberto Vannacci a Pontida, parlando con i giornalisti.
Al di là degli aspetti insieme inquietanti e ridicoli che hanno caratterizzato il caso sin dall’inizio, come l’idea che Salis abbia fisicamente aggredito due neonazisti ungheresi mandandoli in ospedale, o il fatto che rischiasse fino a ventiquattro anni per lesioni lievi, una cosa che in Italia si sarebbe risolta dal giudice di pace (serve altro per misurare il grado di asservimento della magistratura locale?), la vicenda è resa ancora più preoccupante, ed emblematica, dalla scelta di Donald Trump di designare i gruppi «Antifa» come terrorismo interno. Trattandosi non di una precisa organizzazione, ma di una sigla che qualunque movimento di sinistra può attribuirsi – o vedersi attribuire da altri – è evidente l’enormità e l’assoluta arbitrarietà della procedura, di fatto uno strumento per mettere in galera gli oppositori, che infatti Orbán si è affrettato a copiare, riconducendo alla stessa sigla anche l’eurodeputata di Avs, così da aggravare ulteriormente la sua posizione.
Il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha replicato di non credere, bontà sua, che Salis sia una «terrorista». In ogni caso, se la discussione sulla riforma della giustizia avvenisse tra persone in buona fede, la domanda che per primissimi gli elettori di centrodestra dovrebbero rivolgere ai partiti di governo sarebbe una sola: la giustizia ungherese corrisponde alla vostra idea di come dovrebbe funzionare la giustizia in un paese democratico? Se la risposta è no, ne consegue che i partiti del centrodestra non possono votare la revoca dell’immunità a Salis; se la risposta è sì, è evidente che i loro elettori, come chiunque non voglia vivere in una democrazia illiberale sul modello orbaniano, non potranno votare sì al referendum sulla riforma della giustizia.
Il presente articolo è già stato pubblicato il 22 settembre 2025 sul Linkiesta, e viene qui ripubblicato con il consenso dell’autore, che ringraziamo.Questo è un estratto di “La Linea” la newsletter de Linkiesta curata da Francesco Cundari per orientarsi nel gran guazzabuglio della politica e della vita, tutte le mattine – dal lunedì al venerdì – alle sette. Più o meno. Qui per iscriversi.
Foto via Wikimedia Commons.
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