A dieci anni dal Decalogo: verso un nuovo catalogo di funzioni dei magistrati dirigenti?
di Luca Verzelloni
A dieci anni dalla pubblicazione del c.d. Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario, l’articolo si interroga, da una parte, sulla trasformazione di compiti e responsabilità dei magistrati dirigenti e, dall’altra, sugli aspetti del documento non ancora completamente attuati. Il saggio sottolinea la necessità di supportare la nascita di un dibattito allargato, che sia capace di superare le distinzioni di ruolo, provenienza culturale e professionale, sulle funzioni che dovrebbero essere attribuite ai dirigenti giudiziari del prossimo futuro.
Sommario: 1. Introduzione: il Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario. - 2. La giustizia italiana a dieci anni dal Decalogo. - 3. Le funzioni non ancora attuate completamente. - 4. Prospettive: verso un nuovo catalogo di funzioni?
1. Introduzione: il Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario
Nel 2012, a conclusione di un lavoro di oltre due anni, è stato pubblicato il c.d. Decalogo del Capo dell’ufficio giudiziario [[1]]. Il documento è stato sviluppato nel corso di un ciclo di cinque seminari tematici, che si sono tenuti tra settembre 2010 e settembre 2012 a Murazzano (CN) e Bologna, sotto la supervisione scientifica e metodologica dell’allora Centro per l’Organizzazione, il Management e l’Informatizzazione degli Uffici Giudiziari (COMIUG) [[2]].
Il Decalogo è stato il frutto di un dialogo a più voci, che ha coinvolto quasi quaranta tra addetti ai lavori ed esperti di organizzazione, tra cui: presidenti di corte d’appello, presidenti di tribunale, procuratori della Repubblica, consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura, direttori generali del Ministero, membri del comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, magistrati, dirigenti amministrativi, consulenti, ricercatori e docenti universitari.
Fin dalla sua prima versione, il Decalogo si è configurato come una sorta di “strumento in divenire”, aperto al contributo e alle proposte di tutti, a prescindere dal ruolo esercitato e dalla diversa provenienza culturale e professionale. In tal senso, nello spirito dell’iniziativa, il documento è stato più volte riformulato e affinato, fino all’ultima versione dell’ottobre 2012, che si riferisce ai dirigenti sia degli uffici giudicanti sia requirenti.
Il Decalogo rappresentava un tentativo di definire compiti, funzioni e responsabilità dei magistrati con funzioni direttive. Al tempo, dieci anni fa, pur essendo stata oggetto di diverse riforme ordinamentali nonché di svariate pronunce del Consiglio Superiore della Magistratura, quella del capo ufficio era, di fatto, una funzione dai contorni tratteggiati che, non di rado, veniva interpretata in modi anche molto diversi. Al di là delle doti personali dei singoli magistrati, queste diverse “interpretazioni di ruolo” erano influenzate da una pluralità di variabili contestuali, tra cui: tasso di scopertura del personale togato e amministrativo, organizzazione interna, caratteristiche del tessuto sociale ed economico, flussi di lavoro, tasso di litigiosità, rapporti con l’avvocatura, ecc.
Lungi dal voler catalogare le qualità del “buon dirigente”, il Decalogo intendeva stimolare la comunità professionale dei magistrati italiani ad una riflessione allargata su attitudini, comportamenti e responsabilità dei magistrati con funzioni direttive. Nelle intenzioni dei promotori, il Decalogo – qualora riconosciuto e legittimato fra “pari” – poteva essere applicato in tre ambiti:
a) selezione: individuare attitudini e comportamenti che, in sede di selezione, avessero un’elevata probabilità di predire prestazioni dirigenziali coerenti con la definizione di ruolo adottata;
b) valutazione: verificare in itinere, e in ogni caso alle scadenze del mandato, i comportamenti e le prestazioni complessive dei capi degli uffici;
c) formazione: orientare i percorsi e i programmi di formazione atti a fornire ai singoli magistrati le competenze necessarie a un adeguato svolgimento del ruolo di responsabilità dell’ufficio.
Il documento si basava su tre consapevolezze di base:
a) quella del capo ufficio si configura come una funzione specifica, “altra” rispetto alla normale attività di giurisdizione e che, di conseguenza, non poteva configurarsi semplicemente come un “premio alla carriera”;
b) per quanto la figura del dirigente sia centrale, solo attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di tutta l’organizzazione si possono ottenere dei risultati significativi, sia in termini di performance sia di miglioramento del livello di qualità della giustizia;
c) il testo considerava quale prerequisito fondamentale il pieno rispetto di tutti i canoni deontologici connessi alla funzione direttiva.
Il Decalogo proponeva dieci macro funzioni dei magistrati con funzioni direttive, tra loro connesse, compreso un decimo punto generale:
1. garanzia dell’attività professionale;
2. presidio della struttura e dell’identità organizzativa;
3. rappresentanza e comunicazione istituzionale;
4. presidio delle risorse;
5. direzione e programmazione;
6. governo delle interdipendenze;
7. valorizzazione delle competenze;
8. valutazione;
9. monitoraggio e vigilanza;
10. giustizia come funzione pubblica e bene comune.
Quale era il dirigente che emergeva dal documento? E, soprattutto, al di là della normativa vigente a quel tempo, quali erano le nuove funzioni dei dirigenti giudiziari, non ancora diffuse in tutto il sistema?
Il capo ufficio delineato nelle pagine del Decalogo si distanziava sia dal modello di dirigente come primus inter pares sia dall’idea di un manager, con doti organizzative fuori dal comune, in grado di risolvere da solo i problemi di un ufficio. Come si evince in diversi passaggi del documento, nelle intenzioni dei partecipanti ai seminari coordinati dal COMIUG, quella del dirigente doveva essere interpretata come una “funzione di servizio”. Non a caso, la prima funzione del Decalogo è quella di “garanzia dell’attività professionale”, che si apre con due compiti dei dirigenti: “assicura tutte le condizioni affinché i magistrati possano svolgere al meglio l’attività professionale” e “supporta il pieno dispiegamento della professionalità dei magistrati” (funzione 1, comma 1 e 2).
Oltre a mettersi “a servizio” dei magistrati del suo ufficio, il dirigente era chiamato a sostenere lo sviluppo di “comunità di pratica” [[3]] e a promuovere la costituzione di una “struttura di direzione”, ossia a gestire l’ufficio attraverso il “metodo del confronto”, coinvolgendo, in primo luogo, i colleghi, ma anche tutte le altre professionalità che, a vario titolo, contribuiscono all’esercizio della giurisdizione (personale di cancelleria, magistrati onorari, avvocati, ecc.).
Fra le altre funzioni, il dirigente era chiamato a presidiare e valorizzare la struttura e le sue risorse, sia umane sia strumentali, a predisporre un adeguato sistema di monitoraggio, a rappresentare l’ufficio in tutte le occasioni di dialogo con i soggetti istituzionali del territorio e con gli altri interlocutori rilevanti della società civile e a promuovere la massima trasparenza, soprattutto nei confronti dei cittadini, anche attraverso strumenti quali: siti web, bilanci sociali, carte dei servi e rendiconti economici.
2. La Giustizia italiani a dieci anni dal Decalogo
È evidente che negli ultimi dieci anni la giustizia italiana abbia fatto passi da gigante verso la diffusione in tutto il sistema di una “cultura dell’organizzazione”. Per comprenderne fino in fondo la portata, questi ultimi progressi devono essere contestualizzati in un quadro più ampio.
A partire della fine degli anni ’90, si è progressivamente affermata la c.d. “questione organizzativa”. Tale processo è stato favorito dalla spinta di molteplici fattori esogeni ed endogeni, fra cui, in particolare: l’aumento dei tassi di litigiosità, il collegato allungamento dei tempi di risoluzione, il clima generale di sfiducia sociale nei confronti della magistratura, l’azione degli organismi europei e internazionali e, non da ultimo, la cronica carenza di risorse umane, finanziarie e strumentali. Tutto ciò ha portato a concepire l’organizzazione non più come una moda temporanea, da richiamare nei discorsi di apertura dell’anno giudiziario, ma come l’unica strada per riuscire effettivamente a “rendere giustizia ai cittadini” [[4]].
Nel corso del tempo, è emersa e si è radicata in tutto il sistema giudiziario italiano l’idea di giurisdizione come “organizzazione complessa” – riconosciuta, fra l’altro, nell’art. 26.bis del D.lgs. 26/2006, su cui si fondano i corsi della Scuola Superiore della Magistratura dedicati ai magistrati aspiranti a funzioni direttive e, a seguito della Legge 71/2022, anche semidirettive.
Questi processi hanno avuto un impatto diretto anche sul modo stesso di concepire ed esercitare la funzione direttiva (e semidirettiva). In tal senso, quasi tutte le funzioni incluse dieci anni fa nel Decalogo, sono oggi riconosciute sia da un punto di vista formale, soprattutto dalla normativa secondaria del Consiglio Superiore della Magistratura, sia da uno professionale e deontologico, ossia da parte della comunità dei magistrati italiani, come il “modo opportuno di agire”.
3. Le funzioni non ancora attuate completamente
Riletto a dieci anni di distanza, il Decalogo appare uno strumento superato, ma anche, allo stesso tempo, una testimonianza preziosa per interrogarsi su quanto si sia trasformato il ruolo dei dirigenti giudiziari.
Inoltre, a nostro avviso, vi sono almeno tre funzioni del Decalogo non ancora attuate completamente, che potrebbero avere un impatto molto significativo, soprattutto nel lungo periodo, sia sul funzionamento dei singoli uffici giudiziari sul territorio sia sul sistema giustizia, inteso nel suo complesso:
1. presidio della struttura e dell’identità organizzativa (funzione 2);
2. governo delle interdipendenze (funzione 6);
3. valutazione (funzione 8).
In primo luogo, soltanto di recente ha cominciato a diffondersi l’idea che i magistrati dirigenti debbano occuparsi attivamente di “valorizzare l’ufficio, inteso come organizzazione, promuovendo l’identità organizzativa e il senso di appartenenza alla struttura” (funzione 2, co. 7). La circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/19 ha introdotto un nuovo compito per il dirigente: “attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e di produttività, anche per mantenere il benessere fisico e psicologico dei magistrati, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della loro vita professionale” (art. 274, Circolare sulle tabelle 2017/19, approvata dal CSM il 25 gennaio 2017) [[5]]. Nonostante quanto deciso dal Consiglio, una pluralità di evidenze empiriche dimostrano come tale attenzione sia spesso solo sulla carta.
Non è questa la sede per interrogarsi sulle ragioni e sui possibili effetti di tali dinamiche, quanto per mettere in luce come la procedura di conferma quadriennale del dirigente appaia slegata da qualsiasi riflessione sul benessere organizzativo e non tiene conto di un indicatore potenzialmente cruciale: il tasso di turnover dei magistrati. A parità di altri fattori, è da confermare o meno il dirigente di un ufficio con un pessimo clima organizzativo? Oppure quello da dove i magistrati cercano di fuggire prima possibile, chiedendo il trasferimento in altre sedi anche meno prestigiose? Oppure quello in cui le persone (togati, onorari, personale di cancelleria, ecc.) non si sentono parte dell’organizzazione in cui operano, non considerano valorizzate le loro competenze e vivono l’esperienza lavorativa con sempre meno passione e coinvolgimento?
In secondo luogo, nonostante negli ultimi dieci anni sia stata sostanzialmente superata la visione dell’ufficio giudiziario come una “monade”, molto resta ancora da fare in termini di governo delle interdipendenze. Parafrasando, J. D. Thompson [[6]] i sistemi complessi – come la giustizia, ma non solo – devono saper gestire il grado di dipendenza fra le parti delle diverse relazioni organizzative che avvengono al loro interno, in termini di scambio di risorse, informazioni e risultati [[7]], che risultano essenziali per poter svolgere i rispettivi compiti. Soltanto per fare degli esempi, le relazioni organizzative tra tribunale e procura, tra tribunali del distretto e corte d’appello, tra procure e procure generali, tra corte d’appello e procura generale, tra corti d’appello e Corte di Cassazione, risultano cruciali per poter gestire la complessità dell’azione giudiziaria. Se non si investe adeguatamente nel governo di queste interdipendenze, il sistema organizzativo rischia di generare continue diseconomie e inefficienze, che finiscono per istituzionalizzarsi come il modo normale di operare – esemplificato dalla classica locuzione, che ostacola ogni tentativo di cambiamento: “si è sempre fatto così”.
In terzo luogo, la parte del Decalogo dedicata alla valutazione rappresenta senza dubbio quella meno attuata, soprattutto per ciò che attiene alla redazione dei rapporti di valutazione sui colleghi dell’ufficio. Anche se non mancano le realtà virtuose, come è stato rilevato da diverse ricerche empiriche sulla giustizia italiana [[8]], capita di rado che il magistrato dirigente assicuri in modo continuativo: “un’effettiva valutazione dei magistrati dell’ufficio, non limitata alla compilazione dei rapporti obbligatori, ma fondata su un esame periodico dell’attività svolta, sul confronto con i singoli magistrati e le figure semidirettive, provvedendo, ove necessario, ad un equilibrato intervento di supporto atto a prevenire le difficoltà del singolo e dell’ufficio e la persistenza di situazioni rilevanti sul piano deontologico e disciplinare” (funzione 8, co. 1).
Le ragioni alla base di questa limitata attenzione nei confronti della valutazione dell’operato del singolo magistrato sono molteplici, ma spesso sono condizionate da retaggi culturali e stereotipi ormai superati. A differenza di quanto si pensava anche solo quindici anni fa [[9]], oggi, all’interno della magistratura italiana si è cristallizzata una convinzione: il dirigente deve rispettare l’indipendenza e l’autonomia del singolo magistrato, garantita dalla Costituzione, sulle questioni che attengono all’esercizio della giurisdizione e all’interpretazione della legge. Al contempo, però, il capo ufficio è chiamato a sindacare le scelte organizzative del collega, allo scopo di armonizzarle con quelle assunte dagli altri colleghi, onde evitare possibili discrasie, ma soprattutto a integrarle e renderle coerenti alle logiche organizzative dell’ufficio.
4. Prospettive: verso un nuovo catalogo di funzioni?
Alla luce delle riflessioni sviluppate nelle pagine precedenti riteniamo opportuno sottolineare l’esigenza che si sviluppi un dibattito allargato sul ruolo del magistrato dirigente e sulle funzioni che, in un futuro prossimo, dovrebbero essere attribuite a queste “figure pivotali”, così determinanti per poter erogare una giustizia di qualità, non soltanto in termini di efficienza del servizio.
A nostro avviso, per superare alcune criticità che caratterizzano il sistema italiano, i capi ufficio dovrebbero assumere tre nuove funzioni, connesse a:
- innovazione responsabile e sostenibile;
- tutela del patrimonio conoscitivo e delle competenze esperte;
- dialogo con altri saperi esperti.
Quanto al primo punto, negli ultimi quindici anni, l’imprenditorialità dei magistrati dirigenti – da intendersi come l’interpretazione “proattiva” del proprio ruolo, per anticipare possibili criticità oppure cogliere eventuali opportunità – non è stata solamente permessa, ma addirittura incentivata [[10]]. Queste dinamiche hanno portato molti uffici ad intraprendere dei percorsi paralleli di innovazione “dal basso” che, in alcuni casi, hanno ottenuto risultati molto significativi, riconosciuti sia a livello nazionale sia internazionale.
Tali dinamiche, assolutamente virtuose, hanno però avuto un effetto perverso, ossia hanno contribuito a mantenere o, in alcuni casi, ad allargare le differenze rispetto al modo di operare e alle performance degli uffici sparsi sul territorio. In tal senso, a nostro avviso, occorrerebbe che i dirigenti giudiziari del prossimo futuro non facessero ricorso all’innovazione in modo sistematico e, molto spesso, distruttivo, ma tenessero, conto, invece, sia della sostenibilità degli interventi sia di quanto realizzato nell’ufficio prima del loro arrivo o della loro nomina.
Quanto al secondo punto, occorrerebbe evitare in tutti i modi una dispersione del patrimonio conoscitivo e delle competenze esperte presenti all’interno di ogni ufficio giudiziario. Il dirigente dovrebbe essere responsabile della protezione e della valorizzazione della “memoria storica” dell’organizzazione che dirige, per esempio, attraverso l’impiego di banche dati, la creazione di gruppi di lavoro, la promozione di iniziative per la formazione dei MOT oppure per favorire il passaggio di consegne.
Quanto all’ultima funzione, si avverte la necessità che gli uffici giudiziari si aprano ad altri saperi non strettamente giuridici, come quelli afferenti alle discipline informatiche, statistiche, sociologiche ed economiche. Ancora una volta, i dirigenti dovrebbero essere l’interfaccia tra l’ufficio giudiziario e le conoscenze e competenze presenti sul territorio. Come dimostra l’attuale dibattito sulla c.d. giustizia predittiva, i possibili sviluppi applicativi sono ancora, in parte, da scoprire e potrebbero avere un impatto diretto sull’attività degli uffici [[11]].
[1] COMIUG, Decalogo del capo dell’ufficio giudiziario, in M. Sciacca, L. Verzelloni, G. Miccoli (a cura di), Giustizia in bilico. I percorsi di innovazione giudiziaria: attori, risorse, governance, Aracne, Roma, pp. 589-97, 1999. L’ultima versione del testo è disponibile al seguente indirizzo:
http://qualitapa.gov.it/sitoarcheologico/fileadmin/mirror/immagini/Decalogo_Capo_Ottobre_2012.pdf
[2] Il Centro per l’Organizzazione, il Management e l’Informatizzazione degli Uffici Giudiziari (COMIUG) ha cessato la sua attività nel 2015. Nell’arco dei dieci anni precedenti, il Centro, coordinato dal prof. Stefano Zan, si è impegnato nella diffusione di specifiche conoscenze e competenze organizzative e manageriali nel mondo della giustizia italiana. Il Centro ha curato la pubblicazione dei Quaderni di Giustizia e Organizzazione (sei numeri dal 2006 al 2010) ed organizzato due summer school su concetti di base e metodologie per l’analisi organizzativa della giustizia.
[3] Secondo la definizione proposta da Wenger: “gruppi di persone che condividono un interesse, un insieme di problemi o una passione per un argomento e che approfondiscono la loro conoscenza e competenza in quest’area interagendo continuamente fra loro”. E. Wenger, Communities of practice: Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press, Cambridge, 1999.
[4] Sul tema, si veda: L. Verzelloni, Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019; D. Piana, Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016; L. Verzelloni, Paradossi dell’innovazione. I sistemi giustizia del sud Europa, Carocci, Roma, 2020.
[5] Si veda il contributo su questa Rivista a cura di G. Gilardi (2021), disponibile al seguente indirizzo: https://www.giustiziainsieme.it/it/ordinamento-giudiziario/1966-le-tabelle-degli-uffici-giudiziari-quarta-parte-le-tabelle-della-corte-di-cassazione-e-il-benessere-organizzativo?hitcount=0 .
[6] Thompson ha individuato tre tipologie di interdipendenze: sequenziali, reciproche e generiche. J. D. Thompson, Organizations in action: Social science bases of administration, McGraw Hill, New York, 1967.
[7] Riferendosi al mondo delle imprese, Thompson parla espressamente di “output”.
[8] Si veda: L. Verzelloni, Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2019.
[9] Come dimostra il vecchio dibattito sulla c.d. “auto-organizzazione del giudice”.
[10] D. Piana, F. Raniolo, State unbounded. Extra legal professionalism and goal oriented interventions in the italian judicial system, LUISS University Press, Roma, 2015.
[11] Sul tema, si veda: D. Piana, L. Verzelloni, "Intelligenze e garanzie. Quale governance della conoscenza nella giustizia digitale?", Quaderni di scienza politica, XXVI, 3, 349-382, 2019; D. Piana, C. Castelli, Giusto processo e intelligenza artificiale, Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna, 2019.