Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio*
di Francesco Dal Canto
Sommario: 1. La pietra angolare e la sua erosione - 2. La dimensione politico-rappresentativa del CSM: una questione da (ri)mettere a fuoco - 3. Per un rilancio della natura costituzionale del CSM - 4. La crisi attuale e la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007 - 5. Spunti per qualche correttivo, non solo in materia elettorale - 6. Dal 1958 ad oggi, sette discipline elettorali - 7. Verso una nuova legge elettorale - 8. In conclusione.
1. La pietra angolare e la sua erosione
Per discutere in modo equilibrato delle prospettive di riforma del Consiglio superiore della magistratura credo sia opportuno partire da due considerazioni preliminari, in parte ovvie e tuttavia imprescindibili in considerazione del dibattito più recente.
Innanzi tutto, è doveroso ricordare come a partire dal 1958 il CSM abbia svolto una funzione essenziale, ponendosi quale “pietra angolare” dell’ordinamento giudiziario [1], a presidio dell’interesse pubblico all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, da intendere non come privilegio corporativo di una particolare categoria professionale bensì quale garanzia strumentale all’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla giustizia e dunque presupposto indefettibile dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Al CSM - prima ancora che alla Corte costituzionale e al legislatore, quest’ultimo per molti anni latitante in questo settore - si deve la progressiva affermazione dei principi costituzionali in tema di magistratura e la conseguente definizione del sistema italiano di ordinamento giudiziario, da tempo apprezzato sul piano internazionale, dove spesso è stato considerato un vero e proprio modello di riferimento.
Va poi detto che, nel processo di diffusione della cultura costituzionale sulla magistratura, e all’interno della magistratura, anche l’associazionismo giudiziario - anch’esso al centro del dibattito attuale, insieme al CSM - ha fornito un contributo determinante; ruolo che, per inciso, era stato assai rilevante anche prima del 1948 e in particolare nel corso della fase di elaborazione del Titolo IV della Parte II della Costituzione [2].
In definitiva, è indiscutibile che CSM e associazionismo giudiziario, ciascuno nel proprio ambito, hanno avuto un peso fondamentale nella democratizzazione della magistratura e nell’affermazione conseguente dell’assetto democratico della Repubblica.
Ma, come dicevo, v’è una seconda osservazione che appare necessaria.
È difficile nascondere, infatti, che il CSM stia attraversando oggi la peggiore crisi dal momento della sua istituzione. La pietra angolare corre il rischio di erodersi. Le cronache degli incontri clandestini avvenuti nei mesi scorsi tra alcuni esponenti politici e alcuni magistrati, tra i quali dei componenti del CSM, finalizzati a concordare preventivamente una serie di nomine di competenza di tale organo - per lo più riguardanti incarichi direttivi requirenti ([3]) - non rappresentano soltanto degli specifici episodi di rilevanza penale ed etica; tali vicende sono idonee a insinuare dei dubbi sul grado di autonomia reciproca tra magistratura e politica e sulla stessa credibilità e legittimazione dell’organo di autogoverno. Tali avvenimenti hanno rivelato, per dirla con il Presidente della Repubblica, “un quadro sconcertante e inaccettabile” [4].
Si è aperta dunque una ferita particolarmente profonda nel rapporto di fiducia tra società civile, sistema politico e CSM. Viene rilanciato il tema antico della c.d. politicizzazione dell’organo di autogoverno, i cui lavori sarebbero condizionati, più che da criteri oggettivi e trasparenti, da spinte corporative derivanti dalla suddivisione dei suoi componenti togati in gruppi facenti riferimento alle diverse correnti interne alla magistratura [5]; con la conseguenza che sovente le decisioni non sarebbero adottate nell’interesse generale al buon andamento del sistema giustizia ma in applicazione di un criterio di sostanziale lottizzazione tra le diverse componenti associative. Alla crisi esterna se ne aggiunge poi una interna, nel senso che gli episodi sopra richiamati hanno ampliato la distanza tra il CSM e i singoli magistrati, molti dei quali hanno perso fiducia nelle modalità con cui viene esercitato il governo della magistratura.
La crisi del CSM preoccupa molto anche perché non riguarda soltanto l’istituzione in sé ma immancabilmente rischia di coinvolgere l’intero ordine giudiziario. Del resto, la storia, com’è stato sottolineato, mostra che “le tensioni che si riversano sul CSM sono, in linea generale, il puntuale riflesso sull’organo di autogoverno delle tensioni che investono la nostra società e il ruolo del giudice”; dunque, quando nel dibattito pubblico si ripropone il tema della crisi del Csm, “è il ruolo del giudice ad essere messo in tensione e in discussione” [6].
2. La dimensione politico-rappresentativa del CSM: una questione da (ri)mettere a fuoco
Per inquadrare la fase attuale del CSM è necessario affrontare un equivoco di fondo, presente nel dibattito di questi mesi. La questione, rispetto alla quale si è originato l’equivoco, ruota intorno al quesito su quale sia il corretto rapporto che deve sussistere tra il Consiglio e la politica in senso lato.
Alcune recenti proposte di riforma, infatti, sembrano muovere dall’idea che la ragione di tutti i mali del governo della magistratura abbia a che fare con la sua eccessiva vicinanza alla dimensione politica; in conseguenza di tale assunto, viene prospettata l’idea di riformare il CSM facendo di esso un organo dalla esclusiva natura burocratico-amministrativa, di mera gestione del personale magistratuale.
Si tratta di semplificazioni pericolose, che non tengono conto, tra l’altro, dell’estrema poliedricità del termine “politica”; tali ricostruzioni rischiano di favorire - anzi, in alcuni casi, è proprio questo il loro principale obiettivo - una visione estremamente riduttiva del CSM, assolutamente non conforme al modello delineato dalla Costituzione, plasmato dalla Corte costituzionale e inveratosi nella prassi degli ultimi decenni.
È pertanto quanto mai opportuno tornare a riflettere sull’effettiva natura giuridica del CSM [7]).
La Costituzione e la legge istitutiva del 1958 offrono in proposito numerosi appigli dai quali occorre ripartire: la presidenza dell’organo affidata al Capo dello Stato, la composizione mista laici-togati, la presenza di un terzo di membri eletti dal Parlamento in seduta comune a maggioranza qualificata, la vicepresidenza affidata ad un componente laico, l’attribuzione per legge all’organo di autogoverno del compito di rendere pareri e formulare proposte in materia di giustizia e di presentare annualmente, per il tramite del Ministro della Giustizia, una relazione al Parlamento sullo stato della giustizia.
Non è possibile in questa sede soffermarsi sulle singole previsioni richiamate, peraltro di peso e di tenore diverso. Certo è che dal loro combinato disposto sembra agevole ricavare l’impossibilità di affermare la natura meramente amministrativa del CSM, collocato al centro di un delicato equilibrio tra organi costituzionali e interlocutore del potere politico.
Ma vi è di più. Nell’esercizio delle stesse attribuzioni più tipicamente amministrative (assegnazioni, promozioni, assunzioni, trasferimenti, ecc.), elencate all’art. 105 Cost., il CSM è chiamato ad assumere decisioni che, per non risultare frutto di arbitrio, non possono che essere fondate su criteri predeterminati, ovvero su un insieme di indirizzi, una policy come sottolineava Alessandro Pizzorusso [8]. Le decisioni adottate dal CSM non sono frutto di scelte meramente tecniche e neutrali; assegnazioni e promozioni dei magistrati sono effettuate nel contesto di una “politica” dell’amministrazione della magistratura [9]. Del resto, si tratta di quel potere di indirizzo che prima del 1948 era il Governo ad esercitare e che, con la Costituzione, è stato in gran parte trasferito al CSM a garanzia dell’indipendenza del potere giudiziario [10].
La valenza “politica” del CSM risiede, com’è stato notato, nel complesso delle sue attribuzioni. Tutti i poteri del CSM, “considerati nel loro insieme, non sono la sommatoria di competenze frazionate, generatrici di atti isolati, privi di criteri ordinatori, ma si inseriscono in una policy di settore, i cui confini sono tracciabili a partire dal dettato costituzionale e dalle leggi attuative” [11]. Ci troviamo dunque al cospetto di un organo “di garanzia” chiamato ad esprimere, nei limiti fissati dalla Costituzione e dalla legge sull’ordinamento giudiziario, “indirizzi” in materia di amministrazione della giurisdizione [12].
In questo senso, e solo in questo senso, può dirsi che il CSM è un organo dotato di una “politicità intrinseca” [13]. Com’è ovvio, si tratta di una natura politica del tutto diversa da quella di cui sono espressione gli organi titolari di indirizzo politico. Altrettanto certamente, si tratta di una politicità che non giustifica le sue possibili degenerazioni, quali la pratica delle spartizioni tra le correnti per l’assegnazione degli incarichi direttivi o, a maggior ragione, la soggezione dei processi decisionali a pressioni provenienti da esponenti della politica partitica.
Altro tradizionale problema, all’altro strettamente collegato, è poi quello riguardante la riconducibilità del CSM alla categoria degli organi di tipo rappresentativo. E anche in questo caso, come sulla questione della sua natura politica, occorre intendersi sulle parole.
Sicuramente non può parlarsi di rappresentanza politica, non essendo il CSM un organo di democrazia rappresentativa, né può dirsi che il CSM rappresenti propriamente il corpo giudiziario; opzione, del resto, che sarebbe coerente con la sua eventuale natura corporativa, ipotesi chiaramente scartata dai Padri costituenti, quando, tra l’altro, optarono per la composizione mista laici-togati. E del resto, la stessa Corte costituzionale ha da tempo escluso che il CSM possa essere considerato uno strumento di “rappresentanza in senso tecnico dell’ordine giudiziario” [14].
Ciò che invece può affermarsi è che il CSM deve avere una necessaria composizione rappresentativa [15]. Con ciò va inteso che, tenuto conto del complesso delle funzioni di cui è titolare, esso deve tendere a presentarsi quale specchio del pluralismo ideale e culturale presente nella magistratura (con riguardo ai componenti togati) e nella società civile (con riguardo ai componenti laici). Le decisioni adottate dal plenum costituiscono necessariamente il risultato di bilanciamenti tra visioni e sensibilità diverse in materia di giustizia e la loro autorevolezza sarà tanto maggiore quanto più i componenti risulteranno individuati secondo criteri idonei a garantirne la differente estrazione e la più ampia rappresentatività.
Del resto, il collegamento tra associazionismo giudiziario e designazione dei componenti togati trova la sua esclusiva ragione - ovviamente in linea di principio, vale a dire a prescindere dalla sua resa effettiva, su cui mi soffermerò più avanti - proprio nella garanzia del pluralismo all’interno del collegio. In altre parole, i componenti togati non rappresentano (o non dovrebbero rappresentare) gli interessi delle associazioni alle quali sono eventualmente collegati, ma ciò non esclude che le regole elettorali sulla composizione dell’organo possano (o forse debbano) essere congegnate in modo tale da dare voce, per il tramite di tali associazioni, alla complessità degli orientamenti e delle idee che circolano all’interno del corpo giudiziario. A ciò si aggiunga che l’attuazione del massimo pluralismo possibile nella componente togata si pone quale garanzia anche dell’indipendenza di tutti i magistrati nei confronti dello stesso Consiglio [16].
3. Per un rilancio della natura costituzionale del CSM
Ma è tempo di riprendere in mano anche un’altra annosa questione, da tempo trascurata dalla dottrina malgrado la non particolare linearità degli approdi raggiunti. La crisi attuale deve rappresentare infatti occasione per un “rilancio”, ovvero indurre a tratteggiare “per intero” la dimensione costituzionale di tale organo.
Mi riferisco al tradizionale indirizzo per il quale il CSM deve essere inserito tra gli organi cosiddetti di rilievo costituzionale - previsti e disciplinati dalla Carta e dunque non modificabili, né tanto meno sopprimibili, senza una revisione costituzionale - mentre andrebbe scartata la possibilità di riconoscere allo stesso la natura di vero e proprio organo costituzionale [17]. Si tratta, com’è noto, di una conclusione largamente accolta nel dibattito dottrinale degli ultimi decenni, che molto deve alla fortuna registrata da un fondamentale studio pubblicato negli anni Sessanta [18], e verso la quale, tuttavia, con specifico riguardo al CSM, si è registrata un’acquiescenza forse eccessiva.
Va premesso che ogni indagine su tale questione deve prendere avvio dalla constatazione che le formule di organo “costituzionale” e “di rilievo costituzionale”, malgrado i tentativi profusi dalla dottrina, sono e rimangono assai sfuggenti e controverse in quanto fondate su criteri di identificazione non assoluti, nel tempo variamente individuati.
Del resto, è pure controverso che la circostanza di riconoscere natura costituzionale ad un determinato organo comporti come conseguenza l’attribuzione ad esso di uno specifico e comune regime giuridico, ad esempio in termini di assoggettabilità dei rispettivi atti ad un controllo esterno, essendo per lo più ammesse, salvo quanto si dirà subito dopo, differenziazioni da caso a caso [19]. A ben vedere, vi è un solo carattere tipico che generalmente, ancorché non unanimemente, si tende ad attribuire ai soli organi costituzionali: quello della loro “insopprimibilità” in prospettiva di una revisione costituzionale [20].
Ad ogni modo, anche se la sola affermazione davvero indiscutibile dovesse risultare quella, certo un pò vaga, per cui gli organi costituzionali sono “quelli più importanti dello Stato” [21], risulterebbe comunque davvero anomalo non poter ricomprendere tra questi il CSM. Senza contare, specularmente, che talora, soprattutto in passato, la qualifica di organo di mera rilevanza costituzionale attribuita al CSM ha dato spazio proprio a quelle teorie tese a degradare il suo ruolo a un’attività di carattere esclusivamente amministrativo [22].
Ciò detto, senza voler ripercorrere in questa sede un dibattito sconfinato e non molto appagante, possiamo partire dall’orientamento maggioritario, che individua il principale elemento di differenziazione tra le due categorie di organi nella circostanza che soltanto quelli costituzionali sarebbero “in grado di esercitare, nello svolgimento delle loro funzioni - attive, di controllo e organizzative - un’influenza effettiva sul processo produttivo delle norme primarie” ([23]).
Traducendo in pratica tale definizione, l’orientamento dottrinale qui richiamato riconduce al novero degli organi costituzionali - alcuni di indirizzo politico, altri di garanzia - il corpo elettorale, il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e il CNEL, quest’ultimo in quanto titolare dell’iniziativa legislativa e compartecipe dell’elaborazione della legislazione economica e sociale; al contrario, sulla base dello stesso ragionamento, vengono invece esclusi la Corte di cassazione, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato e, per quanto qui più interessa, il CSM, “perché nessuno di questi organi, per quanto superiorem non recognoscens, appare dotato di poteri politici o di poteri suscettibili di operare allo stesso livello di quelli politici” ed in particolare “è in grado di esercitare una influenza sul contenuto sostanziale delle norme primarie” [24].
Malgrado la raffinatezza del ragionamento seguito, tali conclusioni, con riguardo al CSM, non sembrano del tutto convincenti. Aldilà di ogni altra considerazione, pare davvero piuttosto formalistico riconoscere al CNEL il potere di incidere sulla normazione primaria, e per tale ragione annoverarlo tra gli organi costituzionali, e negare tale attitudine al CSM, estromettendolo da quel catalogo, senza tener conto, da un punto di vista sostanziale, che a tale organo è di fatto riconosciuto un ruolo fondamentale nella “scrittura” delle regole in materia di ordinamento giudiziario; attività, com’è noto, favorita per molti anni dalla sostanziale latitanza del Parlamento [25], ma che, anche all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, non è affatto venuta meno [26].
Ad ogni modo, alla conclusione di inserire il CSM tra gli organi costituzionali è possibile giungere anche seguendo un diverso indirizzo, che a me pare più lineare, avendo esso anche il pregio, se così si può dire, di riconoscere una pari “dignità costituzionale” agli organi di indirizzo politico e a quelli di garanzia, questi ultimi un poco sacrificati seguendo la precedente impostazione.
Tale orientamento è incentrato sul criterio dell’indispensabilità dell’organo costituzionale per il raggiungimento di finalità indicate come fondamentali dalla Costituzione. L’appellativo di “costituzionali”, in altre parole, dovrebbe spettare a quegli organi che devono necessariamente essere previsti, “pena la lesione di quel nucleo essenziale la cui integrità è la vera ragion d’essere della Repubblica democratica e pluralista” [27].
La natura costituzionale del CSM sarebbe desumibile dal suo carattere di indefettibilità in relazione all’obiettivo di “garanzia e immediata attuazione” del principio fondamentale dell’autonomia e indipendenza della magistratura, non potendosi immaginare, per la difesa dello stesso, soluzioni alternative a quelle dell’istituzione di un organo svincolato dal Governo a cui affidare funzioni prima appartenenti al potere esecutivo [28]. In definitiva, al CSM dovrebbe riconoscersi una natura costituzionale in quanto, sebbene la sua disciplina sia certamente modificabile con il procedimento di revisione costituzionale, la sua “esistenza” si configura come un “punto di non ritorno” nel disegno costituzionale [29].
4. La crisi attuale e la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007
Tornando alla crisi che ha investito il CSM, a me pare che essa non sia tanto manifestazione della natura eccessivamente politica dell’organo ma, all’opposto, dell’incapacità di esprimere correttamente tale natura.
Da qui l’equivoco a cui ho fatto prima riferimento. Proprio la difficoltà del CSM a mostrare la sua natura intrinsecamente politica ha favorito il rafforzarsi delle logiche burocratico-amministrative, fondate per lo più sulle appartenenze dei singoli componenti, di pari passo con la torsione delle correnti da motori di pluralismo ideale a centri di interessi particolari [30].
Ma come si è arrivati a questo punto? Le ragioni sono probabilmente molte e alcune hanno radici culturali profonde, che riguardano l’intera magistratura e la società più in generale.
Tuttavia, tra le ragioni della crisi attuale, a me sembra che possano essere annoverate anche alcune scelte compiute dal legislatore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007. O meglio, quest’ultimo ha inconsapevolmente favorito il riaccendersi di alcune antiche criticità.
La ragione principale può essere individuata nella modifica dei criteri per l’attribuzione delle funzioni ai magistrati, soprattutto con riguardo agli incarichi direttivi, laddove il criterio dell’anzianità, perno del sistema a partire dalla legge Breganze n. 560/1966, è stato sostanzialmente sostituito con modalità di selezione di tipo concorsuale fondate prevalentemente sulla valutazione del merito dei candidati.
A prescindere dagli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire, per certi versi condivisibili, tale riforma ha di fatto innescato una serie di problemi a catena.
In primo luogo, è prepotentemente rientrata nella cultura di una parte della magistratura la logica della carriera, ovvero della rincorsa all’avanzamento di “grado”. Sebbene sia vero che la maggiore attenzione ai temi della dirigenza, anche grazie agli interventi del CSM all’indomani della riforma ([31]), ha contribuito ad innalzare il livello medio dei titolari degli incarichi direttivi e semi-direttivi, tuttavia è altresì incontestabile che si è venuta a creare una più netta separazione tra una sorta di “carriera dirigenziale”, percorsa da alcuni magistrati, che si snoda da un incarico direttivo ad un altro incarico direttivo, senza soluzione di continuità, e il normale avanzamento dei magistrati “normali” ([32]).
La frattura appena richiamata suscita perplessità. Non è inutile ricordare che il descritto fenomeno favorisce inevitabilmente un assetto più gerarchico della magistratura e costituisce il terreno ideale, come più volte evidenziato in passato, nel quale può diffondersi l’atteggiamento di deferenza e di conformismo giudiziario, i quali, a propria volta, mettono a rischio l’indipendenza del giudice [33]. Per tali ragioni l’idea stessa della carriera è incompatibile con l’assetto costituzionale della magistratura, che, com’è ben noto, si fonda sugli assunti per i quali i magistrati sono soggetti “soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e si distinguono “soltanto per funzioni” (art. 107, comma 3, Cost.).
Un secondo problema che si è creato con la riforma, al primo strettamente collegato, è quello della grande mole di aspettative, tensioni e pressioni che si sono scaricate sul CSM, organo chiamato a gestire l’applicazione dei nuovi criteri in materia di carriera.
Gli oltre dieci anni dall’entrata in vigore della nuova disciplina hanno confermato, qualora ve ne fosse stato bisogno, che valutare il merito è operazione estremamente complessa. Malgrado i tentativi svolti dallo stesso CSM di rendere più trasparenti le proprie scelte, attraverso l’adozione della richiamata disciplina secondaria, tanto minuziosa quanto fragile, tale obiettivo si è rivelato di ardua realizzazione. Si è rafforzata, in una grande parte della magistratura, la percezione che le scelte discrezionali del CSM, non agganciate a criteri oggettivi e davvero verificabili, siano sovente poco trasparenti, imprevedibili, talora del tutto arbitrarie.
Del resto, non sono stati rari i casi in cui i provvedimenti adottati dall’organo di autogoverno riguardanti gli incarichi direttivi e semidirettivi hanno peccato per insufficiente o incongrua motivazione; ciò che ha innescato un aumento esponenziale del contenzioso dinanzi al giudice amministrativo. Facendo una media dal 2010 al 2018, risulta che circa il 30% delle delibere adottate dal CSM di conferimento di incarichi direttivi è stata impugnata dinanzi al TAR Lazio [34].
Per inciso, proprio allo scopo di ridurre il contenzioso, era stato adottato il d.l n. 90/2014, sulla semplificazione e trasparenza amministrativa, laddove, all’art. 24, si era previsto che “contro i provvedimenti riguardanti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi il controllo del giudice amministrativo ha ad oggetto i vizi di violazione di legge e l’eccesso di potere manifesto” (c.vi aggiunti). A prescindere dalle difficoltà che si sarebbero inevitabilmente presentate per distinguere tra vizio manifesto e vizio non manifesto, appariva chiaro l’intento del Governo di venire incontro al CSM, impedendo le impugnazioni degli atti consiliari motivate in ragione dei vizi meno evidenti. Ed è dunque significativo che il Parlamento abbia ritenuto di non convertire, con la legge n. 114/2014, tale disposizione, dando un segnale di sostanziale sfiducia nei confronti dell’organo di governo della magistratura.
Infine, un terzo problema esaltato dalla riforma è stato proprio il rafforzamento delle logiche corporative. Nell’applicazione dei criteri riguardanti la carriera dei magistrati, divenuti meno oggettivi, i componenti del CSM, soprattutto i togati ma non soltanto loro, hanno non raramente assecondato le aspettative derivanti dalle rispettive appartenenze, spogliandosi del ruolo di rappresentanti imparziali di pluralismo culturale per divenire meri terminali delle scelte delle rispettive “associazioni di categoria”, al fine di tutelare gli interessi degli affiliati.
Com’è stato efficacemente sintetizzato, “nell’ambito della selezione dei dirigenti, il difficile esercizio della discrezionalità ha incrociato le più forti resistenze culturali di una magistratura che, di fronte al venir meno delle certezze rappresentate dal criterio dell’anzianità, ha riscoperto il valore della carriera e la dimensione della corporazione” [35].
Va detto che sia il CSM sia la magistratura associata si sono mostrati in più occasioni consapevoli di tali rischi. In una delibera del 20 gennaio 2014, ove si elencano i doveri dei componenti dell’organo, si precisa che la volontà di questi ultimi “deve essere frutto di un personale studio e valutazione” e che il consigliere “non deve essere acritico interprete di posizioni di gruppi dell’associazionismo giudiziario anche solo per ragioni di appartenenza o debito elettorale”. Sono state poi predisposte negli ultimi anni puntuali regole deontologiche tese a sottolineare con forza l’importanza del “disinteresse personale” nella vita professionale e sociale [36].
Ma tale attenzione formale non ha costituito un argine adeguato contro le derive descritte.
5. Spunti per qualche correttivo, non solo in materia elettorale
Numerose sarebbero le riforme utili per aiutare il CSM ad uscire dalla crisi in cui versa attualmente. Non essendo questa la sede per affrontare le questioni in modo puntuale, mi limito ad alcuni cenni, per lo più in continuità con quanto detto in precedenza.
In primo luogo, pare necessario intervenire sulla disciplina della carriera dei magistrati, sia individuando un equilibrio diverso tra il criterio dell’anzianità e quello del merito sia attraverso l’utilizzo di parametri e indicatori più puntuali e oggettivi, maggiormente idonei ad apprezzare le attitudini effettive dei candidati e a contenere, conseguentemente, la “crisi di discrezionalità” che oggi investe il CSM.
Un altro obiettivo da perseguire sembra quello di riformare gli incarichi direttivi rendendoli davvero temporanei. Oggi la normativa prevede che essi abbiano una durata di quattro anni e siano rinnovabili una volta; ciò non esclude, tuttavia, che al termine di un incarico direttivo il magistrato possa passare senza soluzione di continuità ad un altro incarico direttivo, solitamente più prestigioso del precedente. Ma tale circostanza è incompatibile con la ratio più profonda della temporaneità degli incarichi, ovvero l’esigenza di preservare l’orizzontalità nei rapporti tra magistrati.
Dunque, la provvisorietà non dovrebbe riguardare il singolo incarico ma, in generale, la titolarità della funzione direttiva; insomma, al termine di un periodo di “servizio” il magistrato dovrebbe tornare a svolgere, almeno per un certo tempo, la normale funzione giurisdizionale. Come è stato efficacemente precisato, “il ruolo di direzione di un ufficio giudiziario non è uno status, ma un incarico temporaneo, di durata adeguata a garantirne l’incisività, che non istituisce differenze permanenti tra dirigenti e diretti, ma solo una temporanea diversità di funzioni” [37].
Ancora, in stretto collegamento con quanto appena evidenziato, pare opportuno impedire, o quanto meno limitare, con puntuali previsioni, i collegamenti troppo stretti tra la titolarità di incarichi istituzionali (CSM, Scuola della Magistratura, consigli giudiziari, ecc.) o associativi e la carriera professionale. Si tratta, infatti, di potenziali “circoli viziosi” che si prestano a divenire il terreno ideale per il diffondersi delle logiche corporative.
Infine, venendo più da vicino al CSM, nel tempo sono state avanzate proposte e correttivi volti a rendere i suoi processi decisionali più trasparenti e meno soggetti a condizionamenti impropri o a dinamiche spartitorie; per tutte, può richiamarsi l’idea di vietare le cd. nomine a pacchetto, oggi soltanto limitate dall’art. 38 del Regolamento interno del 2016, attraverso la previsione del voto separato per ciascuno dei candidati indicati nella proposta unitaria della commissione competente.
6. Dal 1958 ad oggi, sette discipline elettorali
Ma è sulla legge elettorale per il rinnovo della componente togata del CSM che in questi mesi si sono concentrate le attenzioni maggiori.
Non è la prima volta che accade. Dal 1958 ad oggi si sono avute quindici consiliature del CSM e ben sette discipline elettorali (cfr. leggi nn. 195/1958, 1198/1967, 695/1975, 1/1981, 655/1985, 74/1990 e 44/2002). Senza contare che la legge elettorale è stata oggetto, nel 1986 e nel 2000, anche di due procedimenti referendari promossi senza successo dai radicali. Nessun sistema elettorale, almeno a partire dagli anni Settanta, ha mai retto all’accusa di favorire la politicizzazione del Consiglio superiore [38].
Le correnti della magistratura, vive e vitali fin dall’inizio delle attività del CSM, “entrano” ufficialmente al suo interno con la legge n. 695/1975, con la quale non soltanto i componenti togati elettivi vengono portati da 14 a 20 (8 giudici di legittimità, 8 di tribunale e 4 di appello) ma si introduce per la prima volta il voto per liste concorrenti, con nome e simbolo del gruppo e con possibilità di esprimere preferenze all’interno della lista prescelta. Il sistema introdotto è proporzionale, con collegio unico nazionale e con clausola di sbarramento al 6%.
Il ragionamento che conduce all’approvazione di tale riforma, realizzata con il diffuso consenso della magistratura associata, della classe politica e della prevalente dottrina, è il seguente: poiché il CSM definisce i criteri generali sulla cui base è tenuto ad adottare i singoli provvedimenti riguardanti i magistrati, esso è in grado di incidere con un potere “immenso” sulla politica giudiziaria, ragione per la quale la sua composizione deve necessariamente essere “rappresentativa” delle diverse anime di cui la magistratura si compone [39].
Inoltre, tale assetto viene considerato il più adeguato allo scopo di consentire all’organo di autogoverno di farsi garante dell’indipendenza non soltanto esterna ma anche interna della magistratura [40]. In definitiva, in una fase storica nella quale viene raggiunta la piena consapevolezza del ruolo del giudice e della funzione giudiziaria nell’ordinamento, la componente togata del CSM diviene diretta espressione della vivacità culturale presente nel corpo giudiziario.
Quindici anni più tardi le prospettive sono parzialmente mutate. In un clima caratterizzato da forti tensioni tra politica e magistratura e preso atto, già allora, di alcune evidenti degenerazioni del “correntismo” [41], si giunge all’approvazione della legge n. 74/1990, approvata con la quasi esclusiva finalità di diminuire il peso delle correnti nel CSM. Vengono previsti più collegi nazionali, uno per l’elezione di due magistrati di cassazione e quattro (composti associando una pluralità di distretti di Corte d’Appello scelti mediante sorteggio) per l’elezione di diciotto magistrati di merito; il voto è espresso a favore delle liste e all’assegnazione dei seggi, realizzata con metodo proporzionale, partecipano soltanto i gruppi che hanno conseguito almeno il 9% dei suffragi sul piano nazionale.
Se l’obiettivo è quello di riavvicinare i candidati agli elettori, riducendo il peso della mediazione dei gruppi organizzati, in realtà la non sufficiente ristrettezza dei collegi, unita ad alcuni infelici tecnicismi, sortirà l’effetto esattamente contrario, rendendo ancora più decisivi gli apparati [42].
Si giunge quindi alla legge n. 44/2002, oggi in vigore, anch’essa figlia di una stagione caratterizzata da contrapposizioni tra politica e magistratura e da una malcelata volontà di depotenziare, con l’associazionismo giudiziario, il ruolo e il peso dell’organo di governo della magistratura. I componenti togati vengono ridotti a sedici, eletti col sistema maggioritario in tre collegi unici nazionali: uno per eleggere due magistrati di Cassazione, uno per eleggere dieci magistrati giudicanti, uno per eleggere quattro magistrati requirenti. Il voto non è per lista ma sui singoli candidati, ogni elettore ne ha uno per ciascun collegio, risultano eletti coloro che hanno ottenuto più suffragi fino alla copertura dei posti. Anche in questo caso la finalità perseguita è quella di “ridurre sensibilmente” il peso delle correnti e la logica spartitoria che ne segue [43].
Tale obiettivo non sarà raggiunto. A prescindere dalle critiche tradizionali rivolte ad un siffatto sistema, di tipo maggioritario, da alcuni ritenuto “la negazione del ruolo assegnato al CSM dalla Costituzione” [44], ben presto viene in risalto soprattutto l’incongruenza tra abolizione del voto di lista e introduzione soltanto di tre collegi unici nazionali; la prassi, infatti, mostra fin da subito l’impossibilità per i candidati di fare a meno dell’appoggio di gruppi organizzati su tutto il territorio nazionale.
In definitiva, l’esperienza insegna che nessuna formula elettorale è in grado, di per sé, di risolvere il problema del peso delle correnti all’interno del CSM.
7. Verso una nuova legge elettorale
È ovvio che il vero problema è quello di mettere a fuoco l’obiettivo della riforma elettorale.
Alla luce di quanto prima evidenziato, circa la corretta collocazione del CSM nell’ordinamento e la sua valenza in senso lato politico-rappresentativa, appare chiaro che non si dovrebbe prospettare tanto l’espulsione delle correnti dal meccanismo elettorale ma predisporre un sistema idoneo - ovviamente nei limiti ristretti in cui una formula elettorale può incidere su questo profilo - a contenere le degenerazioni del correntismo senza rinunciare al pluralismo di idee di cui le correnti devono essere espressione anche all’interno del CSM [45].
Insomma, pur nella consapevolezza che i congegni elettorali non sono da soli risolutivi, è opportuno rintracciare una soluzione che vada nel senso di ridurre gli effetti perversi del correntismo senza, allo stesso tempo, frustrare il pluralismo di cui le correnti sono espressione. Come detto, una cosa è il pluralismo culturale, che è un valore da preservare, altro è la lottizzazione, che è una degenerazione da combattere. La circostanza per la quale le correnti si sono dimostrate non sempre all’altezza del ruolo “pubblico” loro affidato, in quanto assorbite dal far prevalere gli interessi particolari dei propri associati, è un fattore di cui si deve tenere conto ma che non incide sulla centralità della loro funzione, che è da apprezzare, per inciso, anche in termini di garanzia di accountability dei componenti togati [46].
Quanto si è venuti dicendo impone innanzi tutto di scartare, tra le diverse ipotesi di riforma prospettate in questi mesi, la non-soluzione del sorteggio dei componenti togati del CSM, peraltro già a suo tempo avanzata nel d.d.l. costituzionale n. 4275/2011 e prima ancora, negli anni Settanta, dal Movimento sociale italiano. A prescindere dalla circostanza che tale prospettiva, anche se preceduta o seguita da una fase elettorale, potrebbe essere percorribile soltanto con una revisione dell’art. 104 Cost., contro di essa depone soprattutto l’evidente incompatibilità con la natura del CSM così come appena tratteggiata: il sorteggio, infatti, presuppone un Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno di cui si è detto. Senza contare che tale modalità di selezione, più che garantire una riduzione del peso delle correnti all’interno dell’organo, è in grado di assicurare soltanto una sua casuale ridistribuzione; né la stessa può offrire uno scudo insuperabile contro le pratiche lottizzatorie, le quali, anzi, potrebbero rinnovarsi secondo logiche diverse e meno trasparenti. Infine, com’è ovvio, il sorteggio non assicura l’individuazione delle persone più adeguate a ricoprire quel peculiare ruolo ([47]).
Sembrano peraltro troppo radicali i recenti progetti di legge C. 226 e C. 227, presentati negli scorsi mesi alla Camera dei deputati per iniziativa dei deputati Stefano Ceccanti e Marco Di Maio (in realtà riproduttivi di proposte analoghe presentate nella XVI legislatura), tesi all’introduzione di un sistema, di tipo maggioritario, caratterizzato dall’articolazione in sedici piccoli collegi uninominali (uno per i magistrati di legittimità, quattro per i pubblici ministeri, undici per i giudici di merito) e dalla circostanza che ogni elettore può votare soltanto per il collegio ad esso relativo. Tale sistema, avvicinando i candidati agli elettori, renderebbe almeno in prima battuta plausibilmente meno essenziale l’intermediazione delle correnti; d’altra parte, il rischio in cui si potrebbe incorrere sarebbe duplice: da un lato favorire la creazione di una rappresentanza fortemente localistica, dove l’interesse generale potrebbe cedere il posto agli interessi particolari, con possibile esaltazione di rapporti clientelari tra elettori ed eletti; dall’altro, il rischio di estromettere le minoranze culturali dal Consiglio.
A mio giudizio sono da preferire sistemi più calibrati. Ne richiamo tre, senza alcuna pretesa di esaustività.
Può innanzi tutto segnalarsi il progetto elaborato dalla Commissione Scotti, che ha ultimato i suoi lavori nel 2016, laddove in esso si è tentato di coniugare il sistema maggioritario con quello proporzionale, prevedendo sia collegi territoriali che un collegio nazionale. Le votazioni sono articolate infatti in due turni, il primo maggioritario, su base territoriale, il secondo, proporzionale per liste concorrenti, su base nazionale.
Appare poi coerente con l’obiettivo indicato anche la proposta avanzata a suo tempo dalla Commissione Balboni, istituita nel 1995. La soluzione del “voto singolo trasferibile”, infatti, ha il vantaggio di “mantenere un elevato grado di proporzionalità” impedendo al contempo di far prevalere la “logica di lista e degli schieramenti”, valorizzando la personalità dei singoli magistrati [48]. I collegi sono plurinominali e l’elettore si esprime votando un singolo candidato di una lista e indicando, in ordine di preferenza, altri candidati, non necessariamente della stessa lista, ai quali il voto potrebbe essere trasferito qualora il primo candidato non possa essere eletto o non abbia bisogno del voto per essere eletto.
Nello stesso senso, ovvero con la finalità di coniugare esigenze di “conservazione del pluralismo ideale e culturale […] e valorizzazione delle capacità e dell’indipendenza dei singoli magistrati”, si muove anche la recente proposta di un sistema proporzionale “temperato” [49]. Essa, in particolare, prevede tanti collegi uninominali quanti sono i magistrati da eleggere (esclusi quelli di legittimità, da concentrare in un collegio apposito), con collegamento di ciascun candidato con candidati in altri collegi facenti parte dello stesso gruppo e con distribuzione dei seggi su scala nazionale con il sistema proporzionale. Una volta ripartiti su scala nazionale i seggi tra i diversi gruppi, risultano eletti i candidati che, nel rispettivo collegio, ottengono la percentuale di voti più alta.
Tale sistema manterrebbe il ruolo delle correnti ma garantirebbe allo stesso tempo un rapporto diretto tra elettore e candidato nel collegio uninominale.
8. In conclusione
I congegni elettorali sono sempre perfettibili e nessuno mai davvero decisivo. Sono in ogni caso da prediligere, come accennavo, soluzioni equilibrate, che tengano conto dell’esigenza di contemperare le diverse istanze coinvolte, tutte di rilievo costituzionale.
Di tutto c’è bisogno meno che di risposte frettolose e scomposte.
In effetti, all’indomani degli scandali che hanno lambito il CSM la classe politica ha mostrato, almeno in una prima fase, una straordinaria reattività, con la messa in cantiere di una serie di proposte di riforma non sempre sufficientemente meditate. Reattività, per inciso, certamente giustificata in ragione della gravità dei fatti, anche se piuttosto inusuale se raffrontata ai tempi di reazione che si registrano di solito in altri settori dell’ordinamento, pur certamente bisognosi di interventi normativi. Mentre si scrive, in realtà, l’entusiasmo iniziale sembra essersi un poco raffreddato e il CSM appare meno al centro del dibattito politico rispetto soltanto a pochi mesi fa. Vedremo nei prossimi mesi se tale rallentamento è sintomo di una maggiore riflessione.
Per quanto molti dei problemi attuali abbiano una matrice culturale, e su quel piano debbano essere affrontati, qualche intervento normativo appare senza dubbio necessario. Ciò che deve essere tuttavia scongiurato è lo “scatto di nervi” del Parlamento, ovvero che si possa varare una riforma che non tenga conto dell’effettiva posta in gioco e risulti diretta a mortificare un organo fondamentale per l’equilibrio dei poteri e per il loro assetto democratico.
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. * Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17 in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
[1] Corte cost., sent. n. 4/1986.
[2] Si noti che nel 1910, pochi mesi dopo la nascita della Associazione nazionale magistrati, l’allora ministro Orlando manifestò alcune perplessità rispetto a tale avvenimento, evidenziando un generico rischio che l’assetto associativo potesse condurre ad una “eccessiva” democratizzazione del corpo giudiziario, allora caratterizzato, come si sa, da una struttura marcatamente gerarchica. In effetti, i dubbi del ministro si dimostrarono fondati e l’associazionismo giudiziario contribuì a preparare il terreno alle novità che sarebbero state successivamente introdotte dalla Carta costituzionale.
[3] Cfr., da ultimo, G. Verde, Il conferimento degli incarichi direttivi fra Consiglio superiore della magistratura e Ministro della giustizia, in Lo Stato, 2019, 105
([4] G. Mattarella, Intervento nel corso del Plenum straordinario del CSM del 21 giugno 2019.
([5]) Per quanto, come giustamente nota L. Pepino, La magistratura e il suo consiglio superiore, in Questione giustizia, 2020, le vicende di cronaca cui si fa riferimento evidenziano in realtà un fatto ancora più grave del (già grave) fenomeno della lottizzazione correntizia; esse, infatti, riguardano una serie di contatti intercorsi tra politici e magistrati finalizzati ad individuare i candidati più idonei per certi incarichi direttivi in relazione non tanto alla loro appartenenza ad una certa associazione quanto alla loro “ritenuta maggiore o minor duttilità nella gestione di indagini eccellenti”.
[6] E. Bruti Liberati, Crisi del Csm, indipendenza della magistratura, modifica del sistema elettorale, in Questione giustizia, n. 1/1990, 18 ss.
[7] Cfr. A. Pizzorusso, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, Napoli, 2019, 519ss.
[8] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, I, Napoli, 2019, 116.
[9] G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova, 2005, 247.
[10] Cfr. A. Pizzorusso, Il CSM nella forma di governo vigente in Italia, in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 548.
[11] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, n. 4/2017, 24.
[12] Da ultimo, la Commissione Scotti (cfr. Relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla Costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in www.giustizia.it, 2016, 19) ha ricordato che il CSM “non è un semplice consiglio di amministrazione, è piuttosto un’istituzione di garanzia nonché rappresentativa di idee, di prospettive, di orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia, anzi su quale sia il ruolo della magistratura e dello stesso Consiglio superiore”.
[13] P. Barile, Il CSM e la Costituzione, in la Repubblica, 9 aprile 1986.
[14] Cfr. Corte cost., sent. n. 142/1973
[15] Nella pronuncia richiamata alla nota precedente, del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato, con riferimento alla componente togata, che il CSM è un “organo a composizione parzialmente rappresentativa”.
[16] A. Pizzorusso, Il CSM nella forma di governo vigente in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 540.
[17] In argomento, da ultimo, M. Luciani, Il consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in www.osservatorioaic.it, 7 gennaio 2020.
[18] Il riferimento è ovviamente a E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale (appunti per una definizione), in Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, XLVI, 1, 1966, 155ss.
[19] S. Franzoni, I giudici del Consiglio superiore della magistratura, Torino, 2014, 117ss.
Nel 2019, peraltro, la Corte dei conti (N. 2/SSRRCO/QMIG/19) ha avuto modo di precisare che il suo controllo contabile deve essere escluso nei confronti dei soli organi costituzionali, pur riconoscendo che anche quelli di rilevanza costituzionale abbiano quale tratto comune riconoscibile “l’estraneità ad una sussunzione del loro operato nell’ambito delle politiche pubbliche governative”.
[20] Di recente M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura, cit., 8 ha proposto una variante a tale indirizzo tradizionale con specifico riferimento agli organi di rilevanza costituzionale: mentre di essi, a differenza di quanto valga per gli organi costituzionali, il legislatore costituzionale potrebbe certamente disporre, altrettanto non potrebbe fare con riguardo alle prestazioni agli stessi affidate, che comunque dovrebbero essere erogate in quanto connesse a scelte costituzionali fondamentali e non eludibili.
[21] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del CSM, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 1067.
[22] Cfr. L. Geninatti Saté, Il ruolo costituzionale del C.S.M.e i limiti al sindacato giurisdizionale dei suoi atti, Torino, 2012, 85.
[23] E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale, cit., 100s., ove peraltro si osserva come tale definizione sia il risultato dell’adozione di un criterio inedito fondato, tuttavia, sull’utilizzo sinergico di due caratteri tradizionali, già presenti nel precedente dibattito scientifico, ovvero quello della “posizione” e quello delle “funzioni” riconosciute agli organi.
[24] E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale, cit., 105 s.
[25]Cfr. A. Pizzorusso, Art. 108, in Commentario della Costituzione, a cura di G.Branca e A.Pizzorusso, Bologna-Roma, 1992, 6.
[26] Sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Torino, 2018, 66 ss.
[27] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 21.
[28] In senso analogo, pur con diverse sfumature, U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del CSM, in Giur. cost., 1968, 698, L. Daga, Il Consiglio superiore della magistratura, Napoli, 1973, 269ss., cui appartiene peraltro il virgolettato nel testo, L. G. Saté, Il ruolo costituzionale del CSM, cit., 75ss. e G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 22.
[29] C. Salazar, Il Consiglio superiore della magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007.
[30] Numerosi esempi di tale degenerazione, che non hanno risparmiato affatto la componente laica del Consiglio, sono contenuti nel saggio di A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei marescialli. Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura, Roma, 2014, 1ss.
Sulle correnti osserva di recente G. Melis, Le correnti della magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Questione giustizia, 2020, come esse abbiano subito negli anni una involuzione; “da ossatura della democrazia interna della magistratura, da arterie, quali erano efficacemente, di una circolazione sanguigna fondamentale per la stessa esistenza della dialettica, da portatrici di idee e di modelli differenti circa la funzione giurisdizionale e il modo di esercitarla, si sono via via trasformate in ambigue articolazioni di potere; dedite, più che non alla realizzazione di un progetto alla propria autoconservazione”.
[31] Mi riferisco, in particolare, al Testo unico sulla dirigenza adottato con delibera del 28 luglio 2015, sul quale si veda G. Campanelli, Nuovo testo unico sulla dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in Questione giustizia, 2016.
[32] N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, ma un permanente campo di battaglia, in Questione giustizia, n. 3/2019, 44ss.
[33] Cfr. G. Silvestri, I problemi della giustizia italiana tra passato e presente, in Dir.pubbl., 2003, 328ss.
[34] Cfr. Ufficio Statistico del CSM, in www.csm.it.
[35] Cfr. M. Guglielmi, La discrezionalità del Consiglio una prerogativa irrinunciabile dell’autogoverno o un peso insostenibile per la magistratura?, in Questione giustizia, n. 4/2017, 34.
[36] Cfr. N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, cit., 44ss. Il codice etico dei magistrati, modificato da ultimo nel 2010, è consultabile in www.associazionemagistrati.it.
Occorre anche ricordare che l’Associazione nazionale magistrati ha reagito con fermezza agli scandali degli ultimi mesi, in particolare adottando, a conclusione del suo trentaquattresimo Congresso nazionale, svoltosi a Genova alla fine del 2019, una mozione (consultabile in www.associazionemagistrati.it) nella quale si legge che “i diversi gruppi che compongono l’associazione devono recuperare la loro funzione di luoghi di confronto ideale ed elaborazione culturale. Il pluralismo culturale, infatti, rappresenta una ricchezza, costituendo elemento essenziale dell’identità stessa dell’ANM, in seno alla quale le diverse visioni si confrontano e trovano una sintesi sulla base dei valori costituzionali comuni”. E ancora: “Consapevoli del ruolo e dei propri doveri i magistrati italiani ribadiscono, a fronte dei gravi fatti emersi, la centralità dell’etica della funzione giudiziaria e riaffermano come prioritaria esigenza l’adempimento dei doveri di correttezza, trasparenza e decoro nell’esercizio della giurisdizione, in tutti gli organi di governo autonomo e nell’impegno associativo”.
[37] N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, cit., 54.
[38] Cfr. N. Zanon-F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Forum di Quaderni costituzionali, 2019, 2.
[39] M. Ramat, Consiglio superiore della magistratura: false alternative e alternativa reale, in Quale giustizia, 1972, 377.
[40] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del CSM, cit., 1069.
[41] G. Volpe, Consiglio superiore della magistratura, in Enc.dir., Agg. IV, Milano, 2000, 380.
[42] G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., 36.
[43] S. Panizza, Art. 104, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto e M. Olivetti, Torino, 2006, 2014.
[44] G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 180.
[45] Cfr., da ultimo, S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in osservatorioaic.it, 2020, 10.
[46] Come sottolinea ancora S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM, cit., 10, il quale altresì precisa che, tenuto conto del divieto di secondo mandato dei consiglieri, il collegamento tra eletti e correnti rappresenta la sola forma di responsabilizzazione dei primi.
[47] Cfr. V. Savio, Come eleggere il CSM, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in Questione giustizia, 2019, 1ss.
[48] Cfr. Relazione conclusiva del Presidente della Commissione Enzo Balboni, in Quad.cost., 1997, 552.
[49] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 27 ss.