GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

     La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? La seconda domanda

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? La seconda domanda

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?

    Intervista di Roberto Giovanni Conti

    Prof. Paola Mori – ord.dir.Unione europea Univ.Catanzaro

    Prof. Bruno Nascimbene – già ord. Dir.Un.Europea Univ.Statale di Milano

    Prof. Roberto Mastroianni – ord.Dir.Unione europea Univ.Statale di Napoli


    2) A Lei pare che la Corte costituzionale, con le sentenze indicate al quesito n. 1, abbia inteso porre le basi per un processo di “costituzionalizzazione” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, se sì, crede che questo processo possa in concreto arricchire o depotenziare il ruolo della Carta UE, dei giudici comuni e della Corte di giustizia?

     

        Prof.Paola Mori

            In effetti credo che il rischio di costituzionalizzazione o subcostituzionalizzazione, ovvero di incorporazione della Carta sia evidente. E sia la conseguenza più grave di questa giurisprudenza. Il fenomeno emerge in modo molto chiaro nella sentenza 20/2019 (sul punto v. le considerazioni di Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta: questo matrimonio s’ha da fare o no? in Giustizia insieme, 4 marzo 2019; Id., Qualche riflessione, a terza lettura, sulla sentenza n. 269/2017, in Rivista di diritti comparati, 2018, p. 280 ss.).

            Il caso riguarda la violazione delle normativa europea sulla privacy della disciplina concernente l’obbligo a carico delle Pubbliche amministrazioni di pubblicare sui loro siti la documentazione attestante i compensi e i rimborsi ricevuti dai dirigenti pubblici per l’espletamento dei loro incarichi nonché le dichiarazioni relative ai redditi e ai dati patrimoniali degli stessi e dei loro familiari. L’incidente di costituzionalità era stato sollevato (prima della pronunzia della 269/2017) dal TAR del Lazio il quale, oltre la violazione di alcuni parametri costituzionali interni (articoli 2, 3, 13 e 117 Cost.), aveva prospettato quella degli articoli 7, 8, 52 della Carta, dell’art. 8 CEDU e di alcune norme della direttiva 95/46/CE sul trattamento dei dati personali (poi sostituita dal Regolamento 2016/679/UE).

            Il TAR Lazio pur «consapevole» che in un caso molto simile la Corte di giustizia (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk), ha ritenuto che gli articoli 6, par. 1, lett. c), e 7, lett. c) ed e), della direttiva 95/46/CE – che hanno «trovato conferma» nelle disposizioni del regolamento n. 2016/679/UE – sono direttamente applicabili, ha tuttavia escluso che la norma contestata sia suscettibile di essere disapplicata «per contrasto con normative comunitarie», posto che non sarebbe individuabile una «disciplina self-executing di tale matrice direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio».

            Ciò trova spiegazione nel fatto che, in linea con una giurisprudenza consolidata, nella sentenza Österreichischer Rundfunk la Corte di giustizia, pur ritenendo direttamente applicabili le norme rilevanti della direttiva (punti 100-101 e punto 1 del dispositivo), ha affidato al giudice del rinvio il compito di apprezzare se l’ingerenza alla vita privata sia necessaria e proporzionata alla realizzazione della finalità legittima perseguita (punto 88 e punto 2 del dispositivo).

            A fronte di questa difficoltà il TAR, anziché procedere esso stesso all’operazione di ponderazione degli interessi, eventualmente rinviando in caso di dubbi interpretativi la questione alla Corte di giustizia, ha scelto di rimettere la questione alla Corte costituzionale.

            Dato che la questione si colloca indubitabilmente nell’ambito di attuazione del diritto UE, la Corte costituzionale avrebbe ben potuto/dovuto rinviare essa stessa alla Corte di giustizia. Il giudice delle leggi ha invece ritenuto che «la “prima parola” che questa Corte, per volontà esplicita del giudice a quo, si accinge a pronunciare sulla disciplina legislativa censurata è pertanto più che giustificata dal rango costituzionale della questione e dei diritti in gioco» (par. 2.3). E dunque, «avendo la facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare (sentenze n. 148 e n. 66 del 2018), ritiene di esaminare prioritariamente le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 3 Cost., evocato sia sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, sia sotto il profilo della lesione del principio di uguaglianza».

            Il diritto dell’Unione e la giurisprudenza della Corte di giustizia passano dunque in secondo piano, vengono applicati solo indirettamente, e diventano funzionali all’interpretazione dell’art. 3 Cost.: «lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legislatore sulla questione della pubblicità dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art. 3 Cost.), come integrato dai principi di derivazione europea» (par. 3.1). 

            In altri termini il diritto dell’Unione viene privato di qualsiasi autonoma rilevanza: la Consulta non solo ignora il problema della diretta applicabilità o efficacia diretta della norma europea (peraltro affermata dalla Corte di giustizia. Non solo, ma quid qualora la questione fosse posta con riferimento al regolamento 2016/679/UE, atto che per definizione è direttamente applicabile?), ma non tiene neppure conto della propria giurisprudenza sul punto, consolidatasi da Granital in poi.

            La Corte costituzionale rivendica invece il dovere di «esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale». Non solo, ma disvela anche l’ambizione di voler «contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti» (critico Bronzini, La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?, in Questione giustizia, 4/2018).

            Ora, è chiaro che le tradizioni costituzionali comuni esprimono quei valori che emergono dalle giurisprudenze nazionali in materia di diritti fondamentali e che si sono formati in applicazione delle rispettive costituzioni. Ma spetta solo alla Corte di giustizia il compito di enuclearne la definizione condivisa, il contenuto comune a tutti gli Stati membri. Solo attraverso questa elaborazione può comporsi quel patrimonio costituzionale europeo che consente la formazione di quella fiducia reciproca tra gli Stati membri, che costituisce un principio cardine (la «pietra angolare», CGUE, parere 2/13) del sistema dell’Unione  (v. ancora Tizzano, op. cit., 76).

            In questo caso i termini della questione sono del tutto diversi: in una fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione la Consulta semplicemente utilizza come parametro di costituzionalità l’art. 3 Cost.

            Molto simile è lo schema argomentativo seguito dalla Corte costituzionale nella più recente sentenza 63/2019. Qui la questione riguardava la legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 di attuazione della direttiva 2013/36/UE relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, per il profilo del mancato riconoscimento della retroattività in mitius delle sanzioni previste per la fattispecie di abuso di informazioni privilegiate.

            Un caso del genere avrebbe presupposto che in primo luogo il giudice comune avesse esperito il tentativo di interpretare la norma nazionale in modo conforme alla direttiva e alla Carta; poi, in caso di dubbi interpretativi, egli avrebbe dovuto rinviare alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE o, nel caso in cui avesse ritenuto la disposizione legislativa incompatibile con il diritto dell’Unione, sollevare questione di costituzionalità per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alle disposizioni dell’Unione rilevati. Invece la Corte d’appello di Milano ha individuato come parametri l’art. 3 e l’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU. Solo in un breve passaggio della motivazione è fatto riferimento all’art. 49, par. 1, della Carta.

            A questo proposito va osservato che l’Avvocatura generale dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità della questione relativa al possibile contrasto con l’art. 49, par.1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in quanto un tale contrasto avrebbe piuttosto potuto formare oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE. La Corte costituzionale ha però respinto l’eccezione sul rilievo che l’art. 49, par. 1, della Carta non è stato richiamato nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione ma solo nella motivazione e ha inoltre ribadito i principi affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019 secondo cui «a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti».

        Il profilo che desta particolare perplessità è l’individuazione del «duplice, e concorrente fondamento» del principio di retroattività della lex mitior in materia penale. «L’uno – di matrice domestica – riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ... L’altro – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo …, nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 Cost.» (par. 6.1).

            La Carta, per quanto rilevante anche ai sensi dell’art. 11 Cost., viene dunque inquadrata tra le, e assimilata alle, garanzie che «il diritto internazionale dei diritti umani», insieme alla Costituzione, assicura alla materia penale (par. 6.3).

            Il diritto internazionale dei diritti umani, ovvero un grande, unico, calderone in cui bolle «una pluralità di basi normative», accomunata dalla «ratio della garanzia» e dal «limite della tutela assicurata,…non assoluta, ma aperta a possibile deroghe» che siano giustificabili al metro del vaglio positivo di ragionevolezza richiesto dalla giurisprudenza costituzionale, in una ponderazione dei vari interessi di rango costituzionale in gioco.

            Non può non notarsi che questa giurisprudenza sembra clamorosamente ignorare le diversità tra la Carta e i Trattati UE, da un lato, e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e gli altri trattati in materia, dall’altro lato (tra l’altro la lunga motivazione è prevalentemente dedicata all’esame della giurisprudenza CEDU e molto poco al diritto dell’UE. Mentre è solo l’art. 49, par. 1, a sancire espressamente il principio della lex mitior e forse proprio per questo tanto più importante sarebbe stato interpellare la Corte di giustizia sulla sua interpretazione). Diversità che invece era stata evidenziata nella sentenza 348/2007, sia pure sotto il solo profilo dell’efficacia diretta delle norme dell’Unione.

            Ebbene, non possono ignorarsi le profonde differenze tra la Carta e la CEDU; differenze che riguardano l’origine e l’ambito spaziale in cui si collocano, la diversa natura ed efficacia normativa, la diversa funzione e, last but not least, il diverso modus operandi.

            La CEDU è e resta un accordo internazionale, sia pure di altissimo significato valoriale, che vincola un grande numero di Stati europei, quarantasette, non sempre omogenei tra loro culturalmente, socialmente, politicamente, economicamente (alcuni dei quali addirittura ingaggiati tra di loro in un conflitto armato) impegnandoli al rispetto di uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali della persona. Il sistema di garanzia in essa previsto è finalizzato ad esercitare un controllo esterno sugli Stati parti che si aggiunge ai meccanismi interni in un rapporto di sussidiarietà (di cui sono espressione la regola, prettamente internazionalistica, del previo esaurimento dei ricorsi interni e il riconoscimento di ampi margini di apprezzamento per gli Stati parti). Come gli altri trattati internazionali in materia, la Convenzione detta standard minimi di tutela dei diritti e proprio per questo motivo è corredata dalla tipica clausola di salvaguardia del più alto livello di protezione (art. 53 CEDU, che ha una funzione molto diversa dall’art. 53 Carta), allo scopo di consentire agli Stati di applicare lo standard di protezione più alto derivante dalle loro Costituzioni e quindi di evitare una riduzione del livello di protezione dei diritti fondamentali (da qui la nota teoria della “massimizzazione delle tutele”). Il che ovviamente non esclude l’eventualità che determinati diritti, quali risultanti alla luce della giurisprudenza dalla Corte di Strasburgo, ricevano una tutela più ampia di quella offerta dalla Costituzione (Corte cost. 25/2019)

            Ben diversa è la natura e la funzione della Carta. Essa non è un trattato internazionale, non è il frutto di un negoziato internazionale, bensì dell’elaborazione da parte di un organismo di altissimo livello, la Convenzione, rappresentativo di istanze di varia natura: dei Governi nazionali, del Presidente della Commissione, del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, della Corte di giustizia e di altri organismi dell’Unione. Dopo essere stata solennemente proclamata dalle tre Istituzioni politiche dell’Unione nel 2000, ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi in forza dell’art. 6, par. 1, TUE quale modificato dal Trattato di Lisbona. E dunque, fa oggi parte a tutti gli effetti dell’ordinamento giuridico dell’Unione ed è accompagnata dalla garanzia di quel principio fondamentale della nostra Costituzione sancito nell’art. 11.

            Come ricordato dalla Corte di giustizia nel parere 2/13 (punto 167 ss.) e più recentemente nella sentenza 24 ottobre 2018, C-234/17, XC (punto 36 ss.), «il diritto dell’Unione si caratterizza per il fatto di derivare da una fonte autonoma, costituita dai Trattati, per il suo primato sul diritto dei singoli Stati membri, nonché per l’effetto diretto di tutta una serie di disposizioni applicabili ai cittadini di detti Stati membri nonché agli Stati stessi. Al centro di tale costruzione giuridica si collocano proprio i diritti fondamentali, quali riconosciuti dalla Carta – che, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, TUE, ha lo stesso valore giuridico dei Trattati».

            La Carta è dunque la fonte autonoma dei diritti fondamentali dell’Unione il cui rispetto si impone, per espressa previsione del suo art. 51, alle Istituzioni e agli organi dell’Unione, costituendo il presupposto della legittimità dei loro atti, e agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, ogniqualvolta ci si trovi nell’ambito di competenza del diritto dell’Unione sono le norme della Carta a costituire il parametro di riferimento, lo standard comune, per la definizione dei diritti garantiti e la Corte di giustizia ne è il suo giudice (CGUE 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni). Non solo, ma la Corte di giustizia, dimostrando profonda coerenza sistematica con la propria giurisprudenza, ha riconosciuto gli effetti diretti, anche orizzontali, delle disposizioni della Carta che sanciscono un diritto di «carattere allo stesso tempo imperativo e incondizionato» che non richiede una concretizzazione ad opera delle disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale (CGUE 17 aprile 2018, C-414/16, Egenberger, punto 76; 6 novembre 2018, C- 684/16, Max-Planck, punto 74 ss., entrambe in materia di diritti sociali!).

            Mi sembra che queste conclusioni non possano esser smentite neppure da altre due considerazioni.

            Mi riferisco, in primo luogo, alla giurisprudenza Åkerberg Fransson in cui la Corte di giustizia ha riconosciuto che qualora il caso riguardi un settore, al momento dei fatti, non armonizzato o armonizzato solo parzialmente, gli Stati membri e i loro giudici potranno «applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione» (CGUE 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punti 29 e 47, e 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S., M.B.). Tale giurisprudenza trova fondamento nel fatto che, in presenza di normative dell’Unione di armonizzazione parziale, o in mancanza di armonizzazione, gli Stati membri conservano una sfera di discrezionalità, più o meno ampia a seconda dei casi, che però deve essere esercitata in coerenza con il sistema dell’Unione. È ovvio che tale ultima verifica è di competenza della Corte di giustizia e non delle varie Corti costituzionali o Corti supreme degli Stati membri. È infatti la Corte di giustizia il garante esclusivo del «rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati» secondo quanto previsto dall’art. 19 TUE. E quest’ultima constatazione sembra verosimilmente implicare l’opportunità o la necessità di interpellare la Corte di giustizia in via pregiudiziale, così da consentire un dialogo proficuo tra i giudici europei e quelli nazionali.

            In secondo luogo mi sembra che l’autonomia della Carta non possa essere smentita dalla circostanza che essa «riafferma … i diritti derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri…» (Preambolo, par. 5). L’indiscusso carattere ricognitivo della Carta non ne esclude infatti il valore innovativo nella misura in cui essa codifica in maniera sistematica e in un unico testo, diritti sanciti in atti di cui non sempre identico è il contenuto precettivo; così come non identica è la loro originaria portata normativa, trattandosi in alcuni casi di convenzioni internazionali, in altri di dichiarazioni solenni. E di diversa ampiezza sono poi gli ambiti soggettivi di applicazione degli atti di riferimento.

            E neppure vale a smentire l’autonomia della Carta il rinvio alle “fonti” delle sue disposizioni previsto dall’art. 6, par. 1, TUE il quale, rimandando alle Spiegazioni, richiede che i diritti, le libertà e i principi della Carta siano interpretati alla luce dei corrispondenti diritti risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni o sanciti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Al contrario, più che come un vincolo interpretativo, quel rinvio sembra infatti avere la funzione di garantire la necessaria elasticità del sistema, nella misura in cui consente all’interprete l’opportuno adeguamento dei diritti e dei principi garantiti all’evoluzione dei sistemi giuridici di riferimento, in una dinamica virtuosa di coordinamento e complementarietà degli stessi. Ma ancora una volta questo compito non può che essere della Corte di giustizia in dialogo con i giudici nazionali. E d’altro canto, la giurisprudenza della Corte di giustizia mostra di mantenere un approccio flessibile e discrezionale nel riferimento a quelle fonti, in maniera tale da salvaguardare l’autonomia e la specificità del diritto dell’Unione (CGUE 15 febbraio 2016, C‑601/15 PPU, J.N., punto 47), nel dialogo continuo con i giudici nazionali.

            Un’ultima riflessione. Vero è che i diritti sanciti nella Carta trovano riconoscimento nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e negli atti internazionali in materia. Così come è altrettanto vero che i diritti fondamentali esprimono tutti i medesimi valori, integrandosi e arricchendosi reciprocamente in una dinamica virtuosa. Va detto però che non necessariamente tali diritti hanno identico contenuto e portata nei diversi ordinamenti. Osservo, infatti, che, in linea di principio, e con l’esclusione del diritto alla vita e il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, neppure i diritti fondamentali hanno una portata assoluta in quanto devono confrontarsi con altri diritti e interessi rilevanti e la loro definitiva portata varia in funzione dei cambiamenti e dell’evoluzione del sistema in cui vivono. Ora, questa operazione ermeneutica non può che essere contestualizzata nell’ordinamento specifico, ovvero quello competente, alla luce delle caratteristiche e degli obiettivi propri di tale ordinamento e dunque, nell’ambito di competenza dell’Unione, in base agli obiettivi dei Trattati quali enunciati nell’art. 3 TUE (Tizzano, op.cit., 75; CGUE 20 marzo 2018, C-524/17, Menci, punto 41).

            In un ordinamento come quello dell’Unione che è profondamente integrato a quello dei suoi Stati membri, questo compito è in primo luogo affidato alla Corte di giustizia. Sarà poi il giudice nazionale ad applicare nello specifico procedimento il principio di diritto enunciato a Lussemburgo, coordinandolo con i principi e la normativa nazionali.

            La Corte di giustizia ha costantemente valorizzato il ruolo interpretativo che il giudice nazionale è chiamato a svolgere nell’applicazione al caso concreto del principio di diritto da essa enunciato, lasciandogli ampi margini di discrezionalità nella determinazione del contenuto stesso della legge applicabile e nella formazione della giurisprudenza anche ai fini della definizione dei requisiti di prevedibilità e determinatezza della norma giuridica (tra le molte, CGUE sentenza del 28 marzo 2017, C‑72/15, Rosneft, punti 162 e 167; 5 dicembre 2017, C-42/17, M.A.S. e M.B., punto 59. Diversamente, la Corte costituzionale nella sentenza 115/2018, par. 11, ha affermato che «nel diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo». In argomento v. anche Mori, Il principio di legalità e il ruolo del giudice comune tra Corte costituzionale e Corti europee, in Il Diritto dell’Unione europea, 2018, p. 97-119).

            Alla luce di queste considerazioni il dialogo tra le giurisdizioni nazionali, in particolare quelle di ultima istanza, e la Corte di giustizia attraverso la procedura del rinvio pregiudiziale, proprio perché consente una continua, effettiva osmosi tra i valori giuridici europei e quelli nazionali, assume importanza essenziale e trova la sua garanzia nei Trattati istitutivi e, per l’Italia, nell’art. 11 Cost.

     

        Prof.Bruno Nascimbene

        1.Con riferimento alla seconda domanda, osservo.

            È possibile che la Corte costituzionale abbia avviato una "presunta costituzionalizzazione" della Carta. Un elemento in tal senso sarebbe rappresentato dalla sentenza 20/2019, par. 2.3: “Questa Corte deve pertanto esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Ciò anche allo scopo di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti” . La Corte rivendica una competenza (e quindi sembra “costituzionalizzare” la Carta) quando si tratti di diritti e principi fondamentali. L’affermazione della Corte è stata criticata perché riprende, “ma con toni più distensivi quanto già detto nella 269”.

             La critica si riferisce anche al ruolo che la Corte si attribuisce di “contribuire” a fornire una interpretazione ed effettività dei diritti fondamentali in armonia con le tradizioni costituzionali comuni. Non è, invero, la Corte cost., ma la Corte di giustizia ad accertare ed interpretare, ai fini della tutela di tali diritti, le tradizioni comuni: così come interpreta e applica la Carta (cfr. Bronzini in  http://questionegiustizia.it/articolo/la-sentenza-n-202019-della-corte-costituzionale-it_04-03-2019.php). Critica condivisibile. Non sarebbe, invero, corretto, “nazionalizzare” o “costituzionalizzare” la Carta al fine di attribuire alla Corte cost. un ruolo che è invece della Corte di giustizia. L’armonia deve essere reciproca, il dialogo deve essere prioritario, altrimenti l’integrazione (anche fra le Corti) ne risulterebbe compromessa. 

             Le idee “sovraniste” non debbono pregiudicare dialogo e integrazione, anche nei rapporti fra Giudici. Il ricorso alla teoria dei controlimiti deve essere eccezionale, e non può certo essere evocato a sostegno di quelle idee: sempre più diffuse, almeno in questo momento storico.

     

        Prof.Roberto Mastroianni

            La recente giurisprudenza della Corte costituzionale apre la strada ad un processo non tanto di “costituzionalizzazione” (la Carta è già per sua stessa natura un testo di portata costituzionale, produttivo di effetti giuridici nell’ordinamento nazionale non solo in base all’ordine di esecuzione contenuto nella legge di esecuzione del Trattato di Lisbona, ma soprattutto grazie alla copertura dell’art. 11 Cost.), ma di “internizzazione” della Carta, nel senso che questa concorre con i parametri interni per la soluzione delle medesime antinomie a livello costituzionale. Questa è palesemente la portata della più recente sentenza n. 63 del 2019, con la quale la Corte ha deciso la questione di legittimità costituzionale relativa ad una norma (art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72) in tema di divieto di retroattività in melius di una nuova e più favorevole disciplina sanzionatoria dell’abuso di informazioni privilegiate. La Consulta ha accolto le questioni, sollevate anche con riferimento a parametri europei, utilizzando esclusivamente un parametro interno (art. 3 Cost.), letto ed interpretato tuttavia alla luce della Carta, della CEDU e della giurisprudenza delle corti europee, oltre ovviamente a quella della Corte costituzionale.

            La sentenza dimostra che l’utilizzo combinato delle fonti “costituzionali” può portare a risultati virtuosi, attraverso un reciproco arricchimento delle fonti coinvolte e quindi del rispettivo ruolo delle Corti. Più difficile è giungere al medesimo risultato qualora le varie fonti non convergano verso il medesimo risultato – vale a dire la maggiore tutela del diritto fondamentale in questione, nel caso della sentenza n. 63 il principio di eguaglianza -  ma servano ad operare un bilanciamento tra più diritti fondamentali coinvolti nella medesima fattispecie (ad es., diritto all’informazione e tutela della privacy). In questo caso è ovviamente più complicato puntare alla “maggior tutela”, in quanto la più ampia protezione di un diritto porta inevitabilmente alla compressione di un altro. In casi del genere, qualora la fattispecie rientri nel campo di applicazione sia della Carta, sia della Costituzione nazionale, le scelte delle diverse corti, anche riferite a diritti “sulla carta” identici, potrebbe essere divergenti, ponendosi in ipotesi un delicato problema di scelta tra soluzioni non necessariamente sovrapponibili.

            In ogni caso, il ruolo della Carta e dei giudici nazionali sarebbe depotenziato qualora si escludesse in linea di principio la capacità delle prima di attribuire direttamente posizioni giuridiche invocabili in giudizio e il potere/dovere del giudice comune di svolgere il suo ruolo consolidato di ”giudice naturale” del diritto europeo, chiamato a dare immediata e piena tutela i diritti che quest’ultimo intende attribuire. Ruolo che porta necessariamente all’immediata tutela dei diritti consacrati nella Carta, se necessario disapplicando le regole interne con essa incompatibili. Tuttavia, questo risultato, di certo non in linea con la posizione sostenuta dalla Corte di giustizia in numerose pronunce (ad esempio nella sentenza 24 ottobre 2018, causa C-234/17, XC e altri), sembra oggi da escludere alla luce della più recente posizione assunta dalla Corte costituzionale nella sentenza 63 del 2019.

     

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