Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236)
di Giuseppe Tropea – Annalaura Giannelli
Sommario: 1. Il caso. 2. Gli snodi argomentativi principali. 3. Osservazioni critiche. 4. Conclusioni
1. Il caso.
Nel giugno 2012 una società presenta un progetto di massima per la realizzazione di un grande complesso alberghiero. Sorge una intensa interlocuzione col comune di Lignano Sabbiadoro. Nell’ottobre 2012 tale società presenta, su richiesta del comune, un PAC (piano attuativo comunale), poi modificato su indicazione dell’ente. Nel giugno 2014 il comune informa la società che la commissione urbanistica ha, nel frattempo, espresso parere favorevole sul progetto. Nell’ottobre 2014 la società, d’intesa col comune, richiede quindi l’archiviazione del PAC e presenta richiesta di rilascio di permesso di costruire in deroga. Nel novembre 2014 il comune richiede documentazione integrativa, interrompendo i termini del procedimento ex legge regionale n. 19/2009. Nel 2015 si succedono una serie di ulteriori interlocuzioni. In particolare, nell’ottobre 2015 il comune chiede alla regione un parere sulla compatibilità del progetto con il PAIR (Piano per l’Assetto Idrogeologico Regionale). Dopo ulteriori contatti il comune, con delibera dell’aprile 2016, varia in senso restrittivo il regime edilizio del territorio interessato. Nel settembre 2016 l’amministrazione rappresenta, con due mail, prima la non applicabilità delle deroghe all’erigenda struttura alberghiera, poi la necessità di attendere il parere regionale.
Fiaccata da queste defatiganti e contraddittorie indicazioni, la società cita il comune dinanzi al giudice ordinario, lamentando che il comportamento ondivago dell’amministrazione. Il comune solleva questione di giurisdizione e, quindi, propone regolamento preventivo di giurisdizione, insistendo per la giurisdizione del giudice amministrativo.
Si tratta di un caso emblematico di come la distinzione fra “suddito” e “cittadino” non sia ancora – nonostante tutto – superata, senza qui indulgere sull’intenso dibattito in tema di semplificazione amministrativa che l’emergenza epidemiologica ha riacceso.
E lo è, non a caso, sul versante dell’affidamento del cittadino nei confronti dell’amministrazione.
La sentenza che qui si commenta prende una serie di posizioni radicali sul punto: in tema di riparto di giurisdizione e di tipologia di responsabilità dell’amministrazione. Porta così “a compimento” una linea giurisprudenziale che si afferma a partire da una serie di note ordinanze delle Sezioni unite, le nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, anche se finisce per distinguersene per alcuni profili non irrilevanti: l’applicabilità del principio di diritto in esse contenuto anche in caso di assenza di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato (poi annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale) e la qualificazione di tale responsabilità come contrattuale (ergo: da contatto sociale qualificato), riprendendo l’importante precedente rappresentato da Cass. n. 157/2003, e non come extracontrattuale.
2. Gli snodi argomentativi principali
La Cassazione, come accennato, compie un denso excursus sul tema, a partire da taluni precedenti, su tutti sez. un., ordd. nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011.
In particolare, con tale pronunce la Suprema Corte ha puntualizzato che:
- l’affidamento serbato su un provvedimento favorevole rivelatosi illegittimo è risarcibile secondo lo schema della responsabilità aquiliana;
- la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste solo a fronte della illegittimità di atti ad effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario, mentre quella del giudice ordinario sussiste nei casi di annullamento di un precedente provvedimento favorevole, rientrando nelle ipotesi di mero comportamento.
Si richiama, quindi, anche la successiva giurisprudenza maggioritaria della Cassazione, che si è conformata sul punto, pur ammettendosi che, da ultimo, in Cassazione, Sez. un., n. 13194/2018 si è ritenuto che i principi fissati nelle ordinanze del 2011 non fossero applicabili qualora difettasse il presupposto della sussistenza di un “provvedimento ampliativo” della sfera giuridica del privato.
Con la presente decisione, quindi, la Cassazione compie un ulteriore passo in avanti, estendendo la propria giurisprudenza in tema di tutela dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario ai casi di mancanza di un provvedimento ampliativo.
Come in alcuni precedenti del 2015, considera anche i rilievi dottrinali effettuati all’indomani delle pronunce antesignane del 2011. Si menziona quella dottrina che ritiene che l’interesse legittimo dovrebbe ritenersi leso, in quanto posizione tipicamente relazionale, sia quando la p.a. neghi illegittimamente il provvedimento favorevole, sia quando tale provvedimento venga illegittimamente rilasciato. Secondo Cassazione, invece, la fattispecie causativa del danno non consiste nella lesione dell’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, bensì nella lesione dell’affidamento che costui ha riposto nella legittimità del provvedimento che gli ha attribuito il bene della vita.
Non si ritiene persuasivo l’argomento in base al quale, poiché il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico, la lesione che esso arreca dovrebbe essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo. A detta della Cassazione, la lesione di cui si discute non è causata dal provvedimento favorevole (illegittimo - e, perciò, giustamente annullato - ma non dannoso per il suo destinatario), bensì dalla “fattispecie complessa” costituita dall’emanazione dell'atto favorevole illegittimo, dall’incolpevole affidamento del beneficiario nella sua legittimità e dal successivo (legittimo) annullamento dell'atto stesso. La lesione, cioè, discende non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell'amministrazione; regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità; come perspicuamente evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5 del 2018.
Osserva, inoltre, che non rileverebbero né l’art. 7 c.p.a. né l’art. 30, co. 2. Nel caso in cui il comportamento della pubblica amministrazione abbia leso l’affidamento del privato, perché non conforme ai canoni di correttezza e buona fede, non sussisterebbe alcun collegamento, nemmeno mediato, tra il comportamento dell’amministrazione e l’esercizio del potere. Il comportamento dell’amministrazione rilevante ai fini dell'affidamento del privato, infatti, si porrebbe - e andrebbe valutato - su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene esercitato il potere amministrativo.
Distingue, poi, l’affidamento qui considerato dall’affidamento legittimo di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/90. Si tratta di una situazione autonoma, tutelata in sé, non nel suo collegamento con l’interesse pubblico, come affidamento incolpevole di natura civilistica: un’aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondata sulla buone fede.
Critica altresì la tesi del “diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità del patrimonio”, ritenendola priva di consistenza autonoma, risolvendosi questa in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto. Viene invece ribadito che la situazione soggettiva lesa a cui si riferiscono i principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 e in quelle successive conformi si identifica nell’affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione.
Sebbene ritenga che gli artt. 21-quinquies, 21-nonies, 2-bis legge n. 241/1990 non rilevino direttamente ai fini del discorso, che concerne le diverse ipotesi in cui il danno derivi non dalla violazione di regole del diritto pubblico ma di regole di correttezza e buona fede di diritto privato, tuttavia ammette che tali riferimenti interessino per il loro rilievo “sistematico”, alla luce dell’evocata nota immagine del “diritto amministrativo paritario”[1]. A tale modello di p.a. si attagliano anche i doveri di correttezza e buona fede di matrice civilistica: la responsabilità da lesione dell’affidamento, però, prescinde dalla valutazione di legittimità/illegittimità, ed anche dalla stessa esistenza di un atto amministrativo.
Quanto alla natura della responsabilità la Cassazione ritiene che, manifestandosi la buona fede come clausola che trova il suo fondamento nell’art. 2 Cost., anche alla luce di Ad. plen. n. 5/2018 si tratta di responsabilità da “contatto sociale qualificato”, che rientra, come in precedenza affermato da Cass. civ. 157/2003, nella responsabilità contrattuale della p.a., con applicazione dell’art. 1218 c.c.
Conclude, quindi ritenendo che principi enunciati dalle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 valgano non soltanto nel caso di domande di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento derivante dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché, in definitiva, il privato abbia riposto il proprio affidamento in un comportamento mero dell’amministrazione. In questo caso, infatti, questi principi varrebbero addirittura con maggior forza, perché, l’amministrazione non ha posto in essere alcun atto di esercizio del potere amministrativo.
3. Osservazioni critiche
La densità delle argomentazioni costringe ad uno sforzo di sintesi nella formulazione di osservazioni critiche rispetto alla pronuncia in analisi.
Quest’ultima, occorre riconoscerlo, contribuisce a rafforzare la consapevolezza, finalmente condivisa anche dal giudice amministrativo[2], circa l’attitudine della lesione dell’affidamento ad essere fonte di una puntuale obbligazione a carico dell’amministrazione. In questo senso si conferma quella linea di pensiero della dottrina civilista secondo cui l’affidamento è una situazione costitutiva di un’obbligazione[3], a fronte di una giurisprudenza amministrativa tradizionalmente restia ad andare oltre l’idea dell’affidamento osservato come modalità di esercizio del potere amministrativo[4].
Questa importante acquisizione non può, tuttavia, indurre a sottovalutare i profili inerenti al riparto di giurisdizione, i quali, naturalmente, sono indifferenti agli obiettivi di sistema perseguiti nelle singole pronunce, dovendo trovare puntuale riscontro nelle norme di diritto positivo, essenzialmente negli artt. 7 e 30 c.p.a. e nelle loro evidenti premesse costituzionali.
Come si è accennato, la dottrina ha da tempo mosso severe critiche[5] alla costruzione della Cassazione che risale quanto meno al 2011, e che con la presente decisione fa un ulteriore passo avanti.
L’obiezione più radicale è relativa alla qualificazione delle situazioni soggettive: si è osservato, infatti, che la lettura della Cassazione sarebbe stata contraddistinta da una grave fallacia, consistente nell’idea per cui l’interesse legittimo sarebbe rintracciabile solo a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non già nell’illegittimo (e in quanto tale intrinsecamente instabile) riconoscimento del bene medesimo[6]. Ciò, tuttavia, appare non coerente con il criterio di riparto sancito dalla Costituzione che, come noto, non condiziona la natura delle situazioni soggettive, e per essa il “funzionamento” del criterio di riparto, al carattere satisfattivo o meno dell’azione amministrativa. E ancora, da un punto di vista sistematico non pare neppure trascurabile il fatto che il legislatore abbia assegnato al giudice amministrativo la tutela del danno da ritardo, il quale – almeno per quanti riconoscano la tutelabilità del danno da mero ritardo[7] – è indifferente rispetto al tema della “direzione” favorevole o sfavorevole del potere tardivamente esercitato.
In quest’ottica il dato da cui prendere le mosse esaminando l’ordinanza in commento consiste nella individuazione nella domanda di tutela in concreto azionata, ossia la causa petendi. Di quale danno precisamente si chiede il ristoro? È un danno la cui genesi sia anche mediatamente collegabile all’esercizio del potere? Sono queste le domande le fondamentali con cui la Suprema Corte ha dovuto confrontarsi.
Quanto all’identificazione del danno esso si indentifica con il “disorientamento” ingenerato dalla sequenza di interazioni tra l’attore e la p.a. nel corso delle quali quest’ultima aveva manifestato, anche attraverso l’adozione di atti prodromici all’accoglimento dell’istanza del privato, l’intento di voler rilasciare il provvedimento favorevole. Ebbene, meno semplice è indagare il profilo della rintracciabilità, nella condotta lesiva dell’amministrazione, del potere.
La Cassazione sul punto è netta e di segno negativo: ad aver danneggiato l’attore sarebbe un mero comportamento, fonte di una obbligazione risarcitoria inquadrata nel paradigma della responsabilità contrattuale. Rispetto ad entrambe queste asserzioni si può avanzare qualche riserva.
Quanto all’(in)esistenza del potere, non sembra che meriti di essere trascurato il fatto che il danno patito consiste proprio nella delusione di un’aspettativa (ingenerata da precise e significative iniziative interlocutorie della p.a.) che per l’appunto aveva ad oggetto l’esercizio favorevole di un potere pubblicistico. Non si può, dunque, equiparare colui che abbia subito gli effetti una condotta fuorviante e contraddittoria da parte di una p.a. in precedenza sollecitata all’esercizio favorevole di un potere con il danno del cittadino che, ad esempio, abbia riportato una frattura in conseguenza della omessa manutenzione di una strada comunale. È questo, infatti, il risultato cui conducono le affermazioni della Suprema Corte: la forzata riconduzione nell’angusto spazio dei meri comportamenti di fattispecie in cui si sia instaurata, nei binari del procedimento, una relazione tra cittadino e p.a. finalizzata ad ottenere l’emanazione di un provvedimento favorevole. Non si vuole in questa sede negare che sia il provvedimento il frangente in cui il potere si esprime determinando una serie di puntuali effetti giuridici. Più semplicemente si intende evidenziare come l’iter prodromico all’esercizio (o al non esercizio) di un potere non possa essere privato della sua materia prima pubblicistica, e dunque derubricato alla stregua di un comportamento materiale. Ciò in ragione del fatto che l’iter in questione non avrebbe ragion d’essere se non collocato nell’ambito di una direttrice orientata all’emanazione del provvedimento finale quale punto di emersione del potere di volta in volta oggetto dell’istanza[8].
Quanto precede consente di soffermarsi anche sul secondo polo argomentativo della sentenza in commento, quello relativo all’inquadramento contrattuale della responsabilità oggetto della controversia. Questo inquadramento sarebbe persuasivo se non fosse abbinato all’idea, sopra criticata, della condotta dannosa come mero comportamento. Se, invece, si parte da questo discutibile abbrivio, si dovrebbe coerentemente optare per una ricostruzione che prescinda da qualsivoglia significativo rapporto giuridico tra danneggiato e danneggiante. Il che concretamente significa optare per il modello aquiliano.
Rimodulando le premesse argomentative in funzione della riscontrabilità del collegamento (pur mediato) tra il comportamento della p.a. e l’esercizio del potere risulta più semplice affermare che la relazione instauratasi nel procedimento – quale sede di emersione degli interessi in vista dell’esercizio legittimo del potere – determina la qualificazione della responsabilità in termini genuinamente contrattuali. Ciò per il semplice fatto che il modello ex art. 1218 c.c. si caratterizza proprio in funzione della preesistente relazione giuridicamente rilevante tra colui che lamenta il danno e il presunto autore dello stesso.
Non è un caso che la Suprema Corte, pur allontanando in più punti delle sue argomentazioni il modello privatistico dalla disciplina pubblicistica della tutela dell’affidamento contenuta nella legge n. 241/90 finisca per ammettere che proprio quella disciplina realizzi l’agognato “diritto amministrativo paritario” di benvenutiana memoria. Questa locuzione, ricorrente soprattutto nella dottrina di qualche decennio fa, non avrebbe alcuna ragion d’essere se non collocata in uno scenario in cui l’azione delle pubbliche amministrazioni è contraddistinta dall’uso del potere, di cui si intendono mitigare per l’appunto i tratti autoritativi.
4. Conclusioni
Il tema di fondo di tutta questa vicenda è di carattere più generale e di sistema.
Prima di tutto ha inciso su tali fattispecie l’idea, che risale a Corte cost. n. 204/2004, di poter giustificare l’estensione della giurisdizione amministrativa alle controversie risarcitorie non tramite il riconoscimento di un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma “fingendo” che non si usciva dalla tutela dell’interesse legittimo originario. Tutto ciò ha finito per ritorcersi contro tale impostazione, consentendo alla Cassazione di tentare di riappropriarsi della giurisdizione su questioni risarcitorie collegate all’esercizio del potere[9].
Inoltre, attribuendosi al giudice amministrativo controversie identiche a quelle pertinenti al giudice ordinario il limite del ricorso in Cassazione ex art. 111 ha messo in pericolo l’applicazione uniforme della legge; sennonché, la soluzione trovata nella giurisprudenza della Cassazione degli ultimi anni non ha risolto il problema, ma paradossalmente lo ha acuito.
Ciò si verifica a maggior ragione in materia di responsabilità civile, nella quale si fa evidente il rischio di «due costruzioni del sistema tra loro divergenti, dovute rispettivamente alla Cassazione e al Consiglio di Stato, a seconda che il danno lamentato sia o meno riconducibile all’esercizio di un potere, rischio aggravato dalla criticabilissima individuazione delle ipotesi di comportamenti riconducibili mediatamente al potere medesimo, che impedisce di distinguere nettamente responsabilità da provvedimento e responsabilità da comportamento»[10].
E tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che non sono possibili forzature del dato costituzionale e legislativo operate dalla Cassazione[11], come è avvenuto, per il tema della cd. pregiudiziale di annullamento nel 2008, con una forzata interpretazione della nozione di “questioni inerenti alla giurisdizione”, poi seccamente smentita, a dieci anni di distanza da Corte cost. n. 6/2018.
D’altra parte, è pur vero che oggi forse non vi è più la necessità di tali forzature processuali, che hanno negli anni consentito alla Cassazione di estendere commendevolmente, sul piano sostanziale, l’area dell’affidamento come fonte di obbligazione[12]. Come si è precedentemente detto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, da ultimo con la n. 5/2018, ha detto parole chiare sulla teoria del “contatto sociale qualificato”, sul contenuto dei doveri di protezione e correttezza anche in capo alla p.a., sul grado di intensità del momento relazionale e sul conseguente affidamento da questo ingenerato. Il punto è che questa sentenza non ritiene incompatibili i doveri di correttezza e lealtà con l’esercizio di poteri lato sensu autoritativi dell’amministrazione, sottoposti al procedimento amministrativo.
Ma, se questo è vero, allora non sembra una forzatura ritenere che in fattispecie come quella in esame l’azione dell’amministrazione rimanga, sia pur mediatamente, nell’area dell’esercizio del potere pubblico, anche in ossequio del principio di concentrazione, corollario dell’effettività della tutela giurisdizionale.
L’art. 7 c.p.a., nella misura in cui codifica espressamente questi due profili, dovrebbe quindi tornare al centro della scena, una volta ricondotta l’area dell’affidamento, come fonte di obbligazione, alla nozione di comportamento immediatamente o mediatamente riconducibile all’esercizio del potere.
[1] Scontato il riferimento a F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, 807 ss.
[2] Cfr. Ad. plen. n. 5/2018.
[3] C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 470 ss.
[4] A. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. pubbl., 2018, 138.
[5] Sono soprattutto i civilisti ad aver espresso, invece, posizioni favorevoli rispetto a tale giurisprudenza. Cfr. A. di Majo, L’affidamento nei rapporti con a P.A., in Il Corriere giuridico, 2011, 940 ss.; A. Lamorgese, Stop della Cassazione alla concentrazione della giurisdizione a senso unico, in Giust. civ., 2011, 1218 ss.; C. Scognamiglio, Lesione dell’affidamento e responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Responsabilità civ. e prev., 2011, 1749 ss..
[6] A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro it., 2011, 2398; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 564 ss.
[7] Contra: Cons. St., Sez. VI, 5 aprile 2012, n. 2035; id., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 472.
[8] Per l’idea secondo cui ciò che conta è che l’azione dell’amministrazione, non importa se qualificata come atto o comportamento, rimanga pur sempre da collegare, immediatamente o mediatamente, all’esercizio del potere, v. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., 2011, 899.
[9] R. Villata, Spigolature “stravaganti” sul nuovo codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 857 ss., ora in Id., Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 123
[10] R. Villata, Giustizia amministrativa e giurisdizione unica, in Riv. dir. proc., 2014, 285 ss., ora in Id., Scritti di giustizia amministrativa, cit., 536.
[11] A. Travi, La Corte regolatrice della giurisdizione e la tutela del cittadino, in Corr. giur., 2006, 1049; più di recente, nel medesimo senso, Id., Eccesso di potere giurisdizionale e diniego di giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, in www.giustamm.it.
[12] Una recente ricerca comparata ha rilevato come la tutela riservata all’affidamento qualificato da parte della Cassazione italiana abbia una portata più ampia rispetto ad altri ordinamenti (su tutti quello francese e tedesco), nei quali un affidamento viene riconosciuto quando vi siano informazioni false o erronee della p.a., o quando i suoi agenti abbiano operato dolosamente o con trascuratezza particolarmente grave. Cfr. S. Pellizzari, L’illecito dell’amministrazione. Questioni attuali e spunti ricostruttivi alla luce dell’indagine comparata, Napoli, 2017, 246.